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Autore: LawrenceTwosomeTime    11/10/2020    0 recensioni
Marla potrebbe essere morta, o stare morendo. Marla potrebbe avere un'ultima chance di riprendersi la sua vita. L'unica certezza, per Marla, è che niente è come sembra. In suo aiuto giunge Tara, che di vivere non ne vuole sapere. Un thriller metafisico incentrato su angosce sepolte, sentieri male illuminati e bizzarre amicizie.
Genere: Dark, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Camminava ormai da diverse ore.
Non avrebbe saputo dire quante di preciso: il riverbero grigiognolo che faceva capolino tra gli abeti aveva il potere di annullare il senso del tempo e la bussola che aveva trovato nello zaino pareva impazzita, con l’ago che oscillava nevrotico da una parte all’altra del quadrante.
Era un pensiero irrazionale, Marla lo sapeva, ma cominciava a sospettare di essere la vittima di uno scherzo macabro: prima si svegliava in un ospedale abbandonato, poi sprofondava nel pavimento, e di colpo eccola lì a vagare per una foresta da qualche parte in mezzo al nulla, con una bussola che non segnava il nord e nessun espediente sicuro per misurare lo scorrere dei minuti.
Sulle prime aveva avuto la tentazione di sedersi e aspettare che qualcuno la trovasse, ma ben presto aveva capito di trovarsi in una situazione che richiedeva di salvarsi da soli. E poi, non le era mai piaciuto rimanere con le mani in mano.
Dunque continuava ad avanzare, le orecchie tese nella speranza di individuare il gorgoglio di un fiume – o di un torrente – e lo sguardo vigile, attenta a non perdere di vista i pochi punti di riferimento disseminati lungo il “sentiero”: se avesse iniziato a girare in tondo non sarebbe più uscita da lì.
Si era quasi convinta di scorgere del fumo in lontananza, quando inciampò in un ammasso di sterpaglie che la fecero ruzzolare a terra.
Aveva udito un verso di terrore levarsi dal sottobosco, oppure era solo la sua immaginazione?
 
Un uomo coperto di foglie secche si sollevò in piedi con movimenti bruschi e la fissò, gli occhi strabuzzati che sporgevano dal volto scheletrico.
“Tu non sei… lei.”
“Lei chi?” chiese Marla, dimenticando per un attimo quanto fosse strano avere a che fare con un altro essere umano.
L’uomo scosse il capo, gli zigomi incavati che parevano diventare più concavi ad ogni movimento della testa. Marla notò che era equipaggiato con una tenuta simile alla sua, ma quella che portava lui sembrava più logora, ed era anche sudicia.
“Anche tu ti sei perso?” provò a chiedergli.
L’uomo ridacchiò. A guardarlo bene, non era poi così vecchio: poteva avere ventisette, ventott'anni.
“Perso?” esclamò con voce roca.
“Perso è… una grossa semplificazione. Magari mi fossi perso.”
Marla si alzò scuotendosi di dosso la polvere.
“Per caso vieni da un ospedale?” insistette.
Lui la scrutò con un accenno di interesse, si fece avanti per osservarla meglio (lei non si ritrasse); infine si accosciò su un tronco marcio.
“Molti vengono da lì” rispose.
“Anche se dubito che ci siamo addormentati nello stesso ospedale, tu e io.”
Marla notò che in quell’affermazione c’era un dettaglio fuori posto.
“Forse volevi dire svegliàti.
L’uomo sospirò, frustrato.
“Come ti chiami?” gli chiese Marla.
“Non ha importanza” disse lui.
“Tu sei appena arrivata, devi ancora fare pace col cervello…”
“Prego?” sbottò lei.
“…e non hai la più pallida idea di dove ti trovi, ma col tempo lo capirai.
Magari sei un tipo combattivo, magari sei una che molla subito… non lo so e non me ne frega niente. So solo che devo continuare a correre.”
Marla lo sogguardava, la pietà e l’inquietudine che si alternavano sul suo volto.
“Aggrapparmi alla vita è quello che mi riesce meglio, anche se in questa situazione mi ci sono ficcato da solo…” aggiunse l’uomo “tutta colpa delle Skittles.”
“Le Skittles?” ripeté la ragazza, interdetta.
Lui sputò a terra.
“Speed, ecstasy, crystal. Mi hanno ridotto veramente uno schifo e ora sono qui, a secco di pasticche, ricoperto di merda, costretto a giocare ad acchiapparella con una troia della Belle Ѐpoque! Come se non sapessi cosa mi aspetta…”
L’uomo sollevò il mento, e Marla comprese che un tempo doveva essere stato attraente.
“In questo posto puoi sfuggirle, puoi ritardare l’inevitabile. Ma alla fine della fiera, lei ti prende. Ti prende sempre.”
 
Neanche avesse pronunciato qualche oscuro incantesimo, un vento gelido si alzò all’improvviso facendoli rabbrividire.
Come per incanto, le tinte degli alberi cominciarono a sbiadire, virando rapidamente verso il grigio, e il cielo si accese di un bagliore azzurro che risplendeva come un oceano di lapislazzuli.
“Oh no” mormorò l’uomo.
I suoi arti presero a tremare, come paralizzati, e la faccia gli si deformò in una smorfia di puro raccapriccio.
Marla non capiva, non riusciva più a pensare lucidamente.
“Sapevo che non dovevo fermarmi a parlare con te. Adesso non posso più scappare” sussurrò lui.
E mentre la ragazza cercava di elaborare una risposta, si accorse che gli alberi erano rientrati silenziosamente nel terreno.
Si trovavano in una vecchia sala da tè con le pareti tappezzate da fotografie di una foresta. La loro foresta.
Una lampada a pavimento coperta da un paralume rosso sangue gettava una luce scarlatta sui rivestimenti di velluto.
Finalmente posso guardarti negli occhi” disse una voce dal timbro suadente, sonoro. Una voce che non aveva nulla di anormale, e che proprio per questo le fece accapponare la pelle.
I due viaggiatori si voltarono e videro un’alta figura nera uscire da un separé, letteralmente dal tessuto – o almeno così parve alla ragazza.
L’entità che si era introdotta nella stanza non si poteva descrivere a parole.
Era senza dubbio una donna; e non era una persona.
Era chiaramente vestita, anche se non si riusciva a capire bene di cosa.
Si muoveva in modo fluido, ma la sua era la fluidità meccanica tipica degli insetti.
E il volto era una maschera di pura perfezione, algido e orribile, una tavolozza su cui le espressioni indugiavano come tante variazioni della stessa melodia.
In un attimo che parve durare in eterno, appoggiò la mano sulla spalla dell’uomo. Lui sembrava perduto in una sorta di trance, e non reagì, ma Marla si accorse che il suo corpo era proteso in un grido muto.
L'exquise sensation du tout petit frisson qui me parcourt de la tête aux talons… c'est la joie de tous vous reconnaître; c'est la joie ou l'émotion, peut-être” flautò la donna.
Per una qualche assurda associazione mentale, Marla si disse che quella frase ricordava molto le strofe di una canzone… magari una canzone d’amore?
Non è meraviglioso?” aggiunse la creatura guardando Marla di sghimbescio.
La ragazza si sentì gelare il sangue, eppure aveva la sensazione che l’altra non riuscisse veramente a vederla. Non del tutto. Non ancora.
Il corpo dell’uomo si deformava a vista d’occhio, la carne che ribolliva come un mare in tempesta, quasi che delle forze misteriose ne stessero plasmando la sostanza per capriccio.
Marla osservava, affascinata e disgustata.
In un ultimo empito di lucidità, lui si sporse dal divano per toccarle il braccio con una delle dita bulbose, piantò i grandi occhi colmi d’estasi nei suoi e sussurrò, la voce ormai ridotta a un bizzarro uggiolio:
“Mi ChiAmO LUiS.”
Poi esplose.
Si ridusse a niente.
E un momento dopo non c’era più nulla.
Marla vedeva ancora il sorriso della donna-che-non-era-una-donna aleggiare nel vuoto come il ghigno dello Stregatto, e nel frattempo la foresta si stava ricomponendo silenziosa, simile a un diorama di cartoncino.
Non sapeva dare una definizione precisa di quanto era appena successo, e la mancanza di qualsivoglia indizio non aiutava. Ma di una cosa era sicura: se non trovava un’uscita, e al più presto, lo stesso sarebbe capitato anche a lei.
Sentiva il panico montare dentro di sé, un’emozione inafferrabile e svuotata di ogni significato, che in qualche modo provava e non riusciva a provare: una tipologia di frustrazione, si rese conto, ancora peggiore del panico vero e proprio.
Tirò indietro il capo e lanciò un urlo di rabbia che risuonò a lungo nell’abetaia.
Non comprendeva perché si trovava lì, ma sapeva per certo che non ci era finita per sua scelta.
Se solo avesse potuto risvegliarsi.
Ogni cosa, in quello stramaledetto ammasso di alberi, era provvisoria, ambigua, fumosa…
 
E d’improvviso la colpì un pensiero.
Fumo.
Aveva visto del fumo levarsi tra le fronde.
Dilatò le narici e si accorse che poteva addirittura fiutarne l’odore. Se fosse riuscita a risalire alla fonte, forse avrebbe avuto qualche speranza.
Ma quella traccia, realizzò molto presto, da sola non bastava.
Marla non era un cane da tartufo e, per quanto tentasse di orientarsi, gli alberi parevano tutti uguali, non c’erano sentieri e la sua unica possibilità di trovare un’uscita sembrava essere stata messa lì apposta per irriderla anziché guidarla.
Scagliò un’imprecazione a bassa voce.
Poi, ecco che udì un trillante gorgoglio... un torrente.
La foresta, meditò, era strettamente vincolata alle leggi dell’assurdo: meno cercava qualcosa, più probabilità aveva di trovarlo.
Il suono rimbalzava da una corteccia all’altra con una limpidezza cristallina, e le bastò seguirlo per imbattersi, appena al di là di un cespuglio, in una striscia d’acqua argentea e brillante.
Da lì, come seguendo un oscuro impulso, si mosse veloce nella direzione da cui proveniva l’aroma di legna bruciata, ormai certa di scorgere anche una colonnina grigiastra, proprio oltre quei pinnacoli frondosi, ben nascosta da un intrico di piante particolarmente fitte.
Prima che potesse rendersene conto, sbucò in una radura.
E al centro della radura c’era una casa.
  
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