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Autore: futacookies    13/10/2020    0 recensioni
{soukoku - post Dead Apple - non tiene conto degli avvenimenti della terza stagione dell'anime - happy ending}
Dopo aver quasi distrutto Yokohama nel suo scontro con Shibusawa, Chuuya Nakahara entra nella lista nera del governo: considerato un pericolo pubblico, ancor più poiché sottotenente della Port Mafia, va eliminato. Ango avverte Dazai nel tentativo di risparmiargli un’ennesima sofferenza. Si presentano a quest’ultimo due possibilità: lasciar morire il suo storico partner, oppure cercare di salvarlo; deciso a volerne evitare la morte, Dazai prova quindi a spingerlo ad unirsi all’Agenzia dei Detective Armati, dove non sarebbe più visto come una minaccia. Tuttavia convincere uno dei fedelissimi di Mori a voltargli le spalle è più difficile del previsto, e per strappargli la promessa di abbandonare la Port Mafia saranno necessarie misure drastiche.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Ango Sakaguchi, Chuuya Nakahara, Osamu Dazai
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Like a bridge over troubled water

(I will lay me down)



 


Era una splendida giornata per commettere un suicidio. Dazai non era davvero dell’umore giusto per restare fermo su una panchina in attesa di Ango. Non era nemmeno sicuro di essere dell’umore giusto per sentire be’, qualunque cosa Ango avesse da dirgli. Però era sicuro di non volere fare i conti con l’ignorare Ango troppo a lungo, perché poteva avere ripercussioni gravi e imbarazzanti e possibilmente causare incidenti diplomatici.

Era in ritardo per il lavoro. Tecnicamente non poteva saperlo, perché non aveva con sé un orologio, ma riusciva a sentire che Kunikida stava sbraitando per qualche motivo. Che peccato. Per fortuna c’era Atsushi-kun che poteva sobbarcarsi tutta la burocrazia.

Quando Ango arrivò, indossando il solito doppio petto marrone e la sua migliore espressione annoiata, Dazai fu tentato dall’idea di ignorarlo. O di dirgli qualcosa di molto cattivo. Nel dubbio, si distese sulla panchina in modo che non potesse sedersi accanto a lui. Ango sbuffò se fosse irritato o divertito, davvero non sarebbe riuscito a dirlo e si limitò a sedersi composto sulla panchina accanto alla sua.

«Dazai-kun», iniziò, sistemandosi meglio gli occhiali sulla punta del naso.

Dazai aprì un occhio, giusto per fargli che almeno lo aveva sentito, poi continuò a fischiettare.

«Nei corridoi della Divisione delle abilità speciali si vocifera che sarebbe una buona idea eliminare il soggetto A5158, pubblicamente noto come-», continuò, spiando con la coda dell’occhio la reazione dell’altro. 

«Nakahara Chuuya.», terminò per lui Dazai, che sospirò e si tirò a sedere. No, non era decisamente dell’umore giusto per questa conversazione. Avrebbe di certo preferito gli improperi di Kunikida. Si voltò quanto bastava per osservare Ango. Adesso non stava guardando verso di lui, stava fissando ostinatamente un punto all’orizzonte.

«Cosa vuoi da me, Ango?»

«Volevo solo farti un favore. Salvalo, se ci riesci. Come membro della Port Mafia, è visto soltanto come un elemento di disturbo-»

«Meno di un mese fa ha contribuito a salvare la città!»

«-ma magari», continuò, ignorando la protesta di Dazai, «come membro dell’Agenzia non sarebbe più visto come un criminale.» 

Fece una pausa. Dazai aveva assottigliato le palpebre e sembrava completamente rilassato. Nulla, dalla sua espressione ad ogni minimo gesto del suo corpo, poteva suggerire che l’informazione appena acquisita lo avesse turbato.

«Puoi anche ignorare quello che ti ho detto. Stavo solo cercando di farti un favore, perché-», non voglio che tu perda qualcun altro a causa mia, avrebbe voluto dirgli. Il fantasma di Odasaku avrebbe continuato ad aleggiare tra di loro, non importava quanto tempo fosse passato dalla sua morte.

Se Dazai fosse stato interessato a quello che Ango aveva ancora da dire, non lo diede a vedere, si alzò con una piroetta e si incamminò verso l’Agenzia. Quando fu abbastanza lontano, levò un braccio in segno di commiato. Sì, aveva davvero bisogno di sentire i latrati di Kunikida, almeno per un po’.

 

******

 

Mentre trotterellava allegramente verso la sede dell’Agenzia, Dazai fu invaso dalla consapevolezza che nulla, di questa storia, gli piaceva: né il fatto che il governo volesse attaccare così frontalmente un sottotenente della Port Mafia, né che Ango glielo avesse fatto sapere, come si aspettasse – no, come se volesse – che fosse proprio lui a salvarlo. E a portarlo nell’Agenzia. 

Cosa gli diceva che l’avrebbe fatto? Aveva tagliato i ponti con il suo passato, e tagliare i ponti con il suo passato aveva implicato tagliare i ponti anche con Chuuya, che lo volesse o meno. Non c’era spazio, nel suo presente, per Chuuya. Non c’era spazio all’Agenzia, per Chuuya. Già ospitare Kyouka-chan dava abbastanza problemi, nessuno li avrebbe più presi sul serio. 

E poi era sicuro che Chuuya non lo avrebbe mai seguito. Non poteva piombare nel suo appartamento e dirgli: “Ciao, Chuuya, Ango mi ha detto che il governo vuole farti fuori. Che ne dici di unirti all’Agenzia?”

Non era nemmeno sicuro che gli avrebbe creduto. Avrebbe pensato che fosse un’altra delle sue buffonate, gli avrebbe tirato addosso una bottiglia di vino che costava quasi quanto il suo stipendio annuale e gli avrebbe chiesto non molto gentilmente di andarsene. Seppure gli avesse dato retta, avrebbe semplicemente risposto che il governo non aveva abbastanza agenti dotati di abilità in grado di fermarlo il che potenzialmente era vero, ma Dazai dubitava che Ango si sarebbe scomodato di avvisare, se non avesse personalmente creduto alla fattibilità della faccenda.

Quindi aveva bisogno di un piano. Di un piano infallibile. Di un piano infallibile che la quasi totalità dei suoi colleghi avrebbe ignorato. Quello di cui aveva bisogno era-

«Ranpo-san!», esclamò, appena mise nell’ufficio. Ranpo era seduto sulla sua scrivania, mentre mostrava orgoglioso a Kenji-kun e Kyouka-chan la sua collezione di biglie di ramune. Atsushi-kun era sepolto sotto una pila di documenti che Dazai fece finta di non vedere, mentre Kunikida già si era alzato per venirgli incontro.

«Dazai!», ruggì, afferrando al volo alcuni dei documenti dalla scrivania di Atsushi per mollarglieli tra le braccia. Dazai li sfogliò pigramente mentre ascoltava a cuor leggero la tirata che Kunikida aveva preparato espressamente per lui. Se Chuuya fosse stato lì, di certo gli avrebbe dato ragione. Chuuya. Il pensiero gli fece un po’ stringere il cuore. Entro un lasso di tempo che gli era sconosciuto, Chuuya sarebbe potuto essere lì, ad annuire mentre Kunikida lo sgridava, oppure tre metri sotto terra. Dazai non era sicuro di essere pronto a visitare un’altra tomba.

Fece cadere con un colpo secco la pila di documenti sui piedi di Kunikida e si diresse verso Ranpo.

«Ranpo-san!», esclamò di nuovo, agitando le braccia per attirare la sua attenzione. Ranpo gli riservò una lunga occhiata, poi mise la sua collezione di biglie nelle mani di Kenji e scese dal tavolo. Dazai non perse tempo e si fiondò su di lui per prenderlo sotto braccio.

«Ho scoperto una pasticceria vicino al porto che è favolosa.», gli annunciò. Kunikida lo guardò malissimo e Yosano, che era appena entrata dalla porta, sbuffò divertita. «Ti avrei portato qualcosa, ma purtroppo non permettono asporto.», continuò.

L’espressione di Ranpo si incupì.

«Questa è, indubbiamente, una tragedia.»

«È esattamente quello che ho pensato io! Poi però mi sono detto che avrei potuto accompagnarti personalmente...», rifletté ad alta voce, mentre entrambi già stavano varcando la porta. Kunikida sbottò insulti incomprensibili mentre si allontanavano.

 

******

 

A onor del vero, la pasticceria esisteva ed era eccellente. L’aveva scoperta nei suoi pigri vagabondaggi qualche settimana prima, però si era sempre dimenticato di dirlo a Ranpo. Quale migliore occasione per chiedergli un favore. Però, uhm, come poteva chiedere a un collega di elaborare un piano per salvare un ex-collega che era anche un criminale che loro tecnicamente avrebbero dovuto combattere invece che, per l’appunto, salvare?

Dazai fissò accigliato la sua tartina, poi Ranpo, poi di nuovo la tartina. E onestamente avrebbe anche continuato, però Ranpo aveva finito di giocherellare con i suoi occhiali e aveva deciso di indossarli.

«Hai fatto incontri interessanti di recente, Dazai-kun.»

Dazai sbuffò. Quella non era nemmeno lontanamente una domanda, ma se lo fosse stata avrebbe almeno potuto dire che il suo incontro con Ango era stato tutto fuorché interessante. 

«Umph.», concordò appena. «Ranpo-san, mettiamo che io abbia un segreto-»

«Un segreto tra due persone resta tale solo se una delle due è morta.»

«Mi offro volontario!», commentò. Poi ritornò al suo discorso principale. 

«Mettiamo che io abbia un segreto e abbia bisogno di aiuto-»

Ranpo annuì. Dazai sapeva che probabilmente Ranpo aveva già dedotto sia il contenuto della sua conversazione mattutina con Ango, che la richiesta che si apprestava a fargli. Conoscendolo, ci si poteva aspettare anche che avesse già ideato il piano infallibile di cui Dazai aveva bisogno. Ma voleva sapere, o meglio, voleva la certezza di potersi fidare di lui. E del suo silenzio. Se la vita di Chuuya dipendeva dalla sua possibilità di salvarlo, e se la sua possibilità di salvarlo dipendeva anche dal silenzio di Ranpo, be’, Dazai voleva accertarsi quel silenzio.

«Sì, sì, ti aiuterò.», borbottò Ranpo, agitando una mano come per scacciare i dubbi insolenti di Dazai, che annuì lentamente. «L’idea non mi elettrizza, e non sarà semplice come ti aspetti, ma suppongo che in qualche modo si possa fare.»

 

******

 

Chiedere aiuto a Ranpo era stato già abbastanza difficile, ma venire a sapere che il piano di Ranpo prevedeva diversi interventi da parte Ango rendeva tutto più complicato. Non effettivamente complicato, perché Ango era stato sorprendentemente collaborativo fino a quel momento, quanto piuttosto conflittualmente complicato, perché l’ultima cosa che desiderava era avere un debito con lui. 

Grazie a qualche commento non richiesto al termine di un rapporto, e a qualche voce buttata a caso con i colleghi, e alla preoccupazione velatamente espressa al suo diretto superiore, Ango era riuscito a fare in modo che venisse chiesto l’intervento dell’Agenzia per fermare quelli che erano i traffici più dannosi della Port Mafia. 

Se il Presidente era rimasto interdetto dall’improvvisa e insolita richiesta, non l’aveva dato a vedere. Si era preso del tempo per pensare sul da farsi, aveva scambiato alcuni commenti con Ranpo, si era consultato con Kunikida e infine aveva convocato Dazai nel suo ufficio per chiedergli un parere sulla questione.

Dazai si era allegramente proposto volontario: se sperava di catturare Chuuya durante una delle missioni, doveva accertarsi di essere personalmente presente. Se si fosse trattata di ordinaria amministrazione, non c’era alcun dubbio che avrebbero evitato di fare prigionieri, o che almeno questi ultimi sarebbero potuti tornare all’ovile relativamente illesi, per via di una lunga serie di accordi non scritti tra il Presidente e Mori-san. Ma questa non era ordinaria amministrazione, e di certo non poteva rischiare che qualcuno dei suoi colleghi si intromettesse e mandasse tutto all’aria. Qualcuno con una ferrea morale come-

«Kunikida ti accompagnerà.»

Come Kunikida, appunto. Dazai aveva sperato di poter portarsi dietro Atsushi, che era inesperto e aveva ancora abbastanza rispetto per lui da ascoltare quello che diceva. Kunikida sarebbe stato molto più difficile da manipolare, ma sarebbe valsa la pena tentare. Ranpo sembrava assolutamente tranquillo, nonostante sapesse che Kunikida avrebbe potuto dargli delle grane. Quando mai un suo piano aveva fallito, dopotutto?

Dazai si limitò ad accogliere la scelta del Presidente con una scrollata di spalle, poi si tuffò su un divanetto per sfogliare i fascicoli che la Divisione per le Abilità Speciali aveva mandato per loro: si trattava per lo più di importo illegale di armi ed esportazione di sostanze illecite. Dazai sapeva perfettamente che quelle non erano neanche lontanamente le attività più deleterie a cui si dedicava la Port Mafia, ma sapeva che il governo avrebbe colto l’occasione per farsi pubblicità senza irritare troppo le persone sbagliate. 

«Kunikida-kun», canticchiò, strascicando il nome del collega nel modo che sapeva dargli più fastidio. «Sembra che nelle prossime settimane ci divertiremo molto»

«Solo una mente contorta come la tua può pensare ad un incarico del genere e sperare di divertirsi.», gli rispose. Poi gli diede un colpo sulla testa e ritornò a studiare i fascicoli. 

 

******

 

Onestamente, Dazai non sperava di divertirsi lavorando. Piuttosto, di divertirsi guardando Kunikida lavorare. Fino a quel momento, non avevano ottenuto granché: certo, avevano impedito una serie di scarichi di armi e forse avevano anche dovuto scontrarsi con i sottoposti della Lucertola Nera, ma di Chuuya, neanche l’ombra. E c’era da dire che Dazai se l’aspettava. Chi avrebbe mai scomodato un sottotenente per delle scaramucce da poco? Si sarebbero dovuti ritenere fortunati ad incrociare il fuoco con Hirotsu-san, magari con Akutagawa, se proprio Mori-san avesse voluto fermarli. 

Si stava annoiando. E stava perdendo la pazienza, cosa che succedeva raramente ma che poteva portare comunque molti problemi. Soprattutto a Kunikida, che in quel momento stava dormendo nel sedile passeggero dell’auto che stavano utilizzando. Dazai cercò un pennarello del cruscotto, e quando finalmente lo trovò, disegnò un paio di baffi a manubrio sulle sue labbra. L’altro si mosse appena, ma nel momento in cui la pressione del pennarello svanì, tornò a riposare profondamente. Dazai non poteva nemmeno biasimarlo.

Tecnicamente, quello doveva essere un appostamento. E sia Dazai che Kunikida erano abituati agli appostamenti. Quello che non si aspettavano era dover aspettare a tempo indeterminato uno scambio di informazioni che non erano nemmeno sicuri ci sarebbe stato. Era una specie di pista fantasma a cui si erano aggrappati in mancanza di soluzioni migliori. Ma erano passati quasi due giorni, avevano mangiato appena, non si erano lavati e Kunikida era stato sveglio per quasi sedici ore prima di arrendersi a Dazai che gli prometteva che sarebbe stato attento.

Non era proprio stato attentissimo, doveva ammetterlo, e soprattutto c’era un buco dalle tre alle cinque del pomeriggio che non ricordava e in cui era probabile si fosse addormentato anche lui. Tuttavia, le probabilità che due criminali si incontrassero alla luce del giorno erano praticamente inesistenti. Soprattutto se si trattava di informazioni fondamentali per evitare che anche il prossimo tentativo di attracco al porto di Yokohama fallisse. 

Molto più plausibile che tale scambio avvenisse con il favore delle tenebre. Ad esempio, era sicuro che il ragazzino rosso con il giubbotto verde facesse parte della Lucertola Nera. Ah, sì, ecco, c’era anche Gin-chan. Ci aveva visto giusto. Forse era il caso di svegliare Kunikida, però avrebbe potuto non fare in tempo. Meglio lasciarlo dormire. Strano però che Hirotsu-san mandasse i ragazzini a sbrigare faccende senza supervisione.

«Dazai-san.»

Appunto.

Nel momento in cui aveva aperto lo sportello dell’auto, Hirotsu l’aveva affiancato. Gli rivolse un cenno di saluto. 

«È da un paio di settimane che la Port Mafia ha problemi, ironicamente, al porto.», commentò vago, lo sguardo che saettava tra lui, Kunikida e i due giovani colleghi che stavano aspettando il loro contatto. «Ne sai qualcosa, per caso?»

Dazai si grattò il collo, a disagio. Questo non era il tipo di scontro che avrebbe voluto. 

«Be’, sì, sì, potrebbe essere stata colpa nostra.», ammise placidamente, «Ma sai com’è», continuò, «il lavoro è lavoro.»

«Credevo che il compito dell’Agenzia fosse proteggere la città, non attaccare la Port Mafia.»

«Qualcuno obietterebbe che siano la stessa cosa.»

Hirotsu non gli rispose, tuttavia si distrasse abbastanza a lungo da non notare Kunikida che scivolava verso il luogo dove si stavano scambiando informazioni. Per essere un uomo alto più di un metro e novanta, era sorprendentemente agile e aggraziato. Suppose che il meglio che poteva fare, in quel momento, era tenere Hirotsu impegnato abbastanza a lungo da impedirgli di intervenire una volta notata l’assenza di Kunikida.

«Qualcuno», osservò Hirotsu, velatamente irritato, «obietterebbe che ci sono conseguenze, per quanti mettono i bastoni tra le ruote ai traffici della Port Mafia. Tu dovresti saperlo meglio di tutti.» 

Hirotsu non era una fan della violenza gratuita, Dazai lo sapeva. Sebbene fosse a capo del braccio armato più imponente a disposizione della Port Mafia, e sebbene fosse più che ben disposto verso gli spargimenti di sangue, minacce di quel tipo non gli piacevano. C’era una lunga fila di sostenitori della tortura a cui poteva felicemente lasciare il compito di occuparsi di quanti disobbedivano. Dazai e Kunikida però non potevano nemmeno essere trattati alla pari di delinquentelli di un’associazione nemica. Ci sarebbero state conseguenze in ogni caso con un po’ di fortuna, però, non sarebbe stato lui a doverle subire.

Dazai scrollò le spalle. Alla fine non sapeva che farsene, di quelle minacce: non esisteva un solo dotato di abilità in grado di ferirlo. Quanto alle ferite convenzionali, be’, erano sempre ben accette a patto che fossero mortali e che Yosano-sensei non fosse in giro. 

«In ogni caso», continuò Hirotsu, rigirandosi la sigaretta spenta tra le dita, «spero che un inconveniente del genere non si ripeta. La prossima volta potrebbe esserci qualcuno di molto più pericoloso e molto meno diplomatico, al mio posto.»

Speriamo, pensò tra sé da Dazai. Hirotsu scelse quel preciso momento per notare l’assenza di Kunikida: guardò mesto la sigaretta che stava per accendersi e con uno sbuffo spazientito la ripose, avviandosi a grandi passi nella direzione in cui si era avviato Kunikida. 

Dazai soppesò la possibilità di andare a dargli una mano, poi decise che effettivamente Kunikida era grande e grosso e molto più capace di lui e sicuramente non avrebbe avuto problemi contro un avversario del genere. A passi misurati raggiunse il sedile passeggero dove fino a pochi minuti fa aveva dormito il suo collega: se necessitavano una fuga rapida e precisa, be’, era meglio che stesse lontano dal volante.

Si vide il lampo di un’esplosione, seguito da un piccolo boato. Dalla cortina di fumo che si era creata emerse Kunikida, senza neanche un capello fuori posto. Raggiunse di corsa l’auto e si ficcò al suo interno, mettendo in moto immediatamente.

«Non credo pensino che abbia sentito.», spiegò sbrigativo, ingranando la marcia. «Se anche lo sapessero, non possono farci niente. Lo scambio avverrà», fece una pausa per guardare l’orologio, «praticamente adesso. Dall’altro lato della città.»

 

******

 

Quel giorno per Chuuya non era iniziato nel migliore dei modi: a causa di alcuni problemi minori al porto, nessuno dei suoi sottoposti era disponibile per accompagnarlo nel suo giro di bevute. Il fatto che avessero rifiutato, nonostante avessero quasi tutti paura di lui, la diceva lunga su quanto effettivamente fossero state dispiegate molte forze per impedire che la Port Mafia perdesse credibilità.

Quando aveva incontrato Kouyou, poco prima di colazione, gli aveva detto che tutto quel trambusto era stato causato dell’Agenzia, ma lui non ci aveva fatto troppo caso: era alla disperata ricerca di caffè e qualunque notizia riguardasse potenzialmente Dazai poteva aspettare almeno il quarto bicchiere di vino. 

Adesso però il Boss lo aveva convocato e Chuuya cominciava a sentirsi inquieto. Non aveva paura, chiaramente, anzi era certo che l’ufficio del Boss fosse il luogo più sicuro del quartier generale, tuttavia sentiva, nel leggero formicolio che gli infastidiva le punte delle dita, che c’era qualcosa che non andava. Arricciò il naso e si sistemò il cappello prima di uscire dall’ascensore. 

Quando entrò nell’ufficio, dalle cui finestre entrava un fascio di luce accecante, si rilassò. Se le tende non erano abbassate, significava che non c’era nulla che valesse la pena nascondere all’occhio pubblico. Qualsiasi cosa gli avesse chiesto, Chuuya l’avrebbe portata a termine e poi sarebbe andato a prendere Kajii in quel suo dannato laboratorio e l’avrebbe trascinato nel primo bar disponibile. 

Elise-chan, che stava allegramente disegnando vicino all’ingresso, lo salutò, ma il Boss non aveva ancora alzato lo sguardo verso di lui. Chuuya era rimasto con la testa piegata per un paio di istanti, finché non aveva sentito rumore di fogli messi via e un Ah, Chuuya-kun, che lo avvisava che poteva finalmente muoversi. 

Il Boss non parlò subito, anzi, restò per una manciata di secondi con le mani giunte davanti al volto, tamburellando i polpastrelli gli uni contro gli altri, con un sorriso che sembrava un ghigno indeciso. Se avesse potuto, Chuuya avrebbe sbuffato, o si sarebbe lamentato della studiata teatralità del suo superiore. Ovviamente, non lo fece. Benché apprezzasse modi più spicci e diretti, il Boss era il Boss e poteva fare quello che voleva.

«Suppongo tu abbia sentito che negli ultimi giorni abbiamo avuto difficoltà per quanto riguarda i nostri affari marittimi.»

Chuuya rispose con un grugnito e un cenno di assenso. Avrebbe dovuto ascoltare Ane-san quando poteva. 

«Si vocifera», continuò, «che dietro queste nostre difficoltà ci sia la mano di Dazai-kun.»

Chuuya si tirò a sedere dritto, come un gatto con un pelo rizzato, e attese che continuasse. C’erano centinaia di sottoposti che avrebbe potuto mandare in pasto a Dazai, c’erano almeno altri tre sottotenenti del suo stesso rango a cui poteva rivolgersi ma, ovviamente, ad occuparsi di Dazai doveva andarci lui. A volte pensava che il Boss si divertisse a vederli collaborare, con il sadico senso dell’umorismo che si ritrovava.

«Stasera ci dovrebbe essere un altro attracco.», spiegò. «Dovremmo aver preparato un escamotage che terrà impegnato Dazai-kun e il suo collega abbastanza a lungo da permetterci una scarico quantomeno tranquillo.», aggiunse, lanciando uno sguardo sconsolato alla pila di rapporti che ancora aspettavano di essere letti.

«Quello che vorrei, è che tu supervisionassi questo passaggio. Come già ho detto, non ci dovrebbero essere problemi, ma pare che la voce di questi attacchi da guerriglia si stia espandendo a macchia d’olio, e già ho perso il contatto di due fornitori abituali.»

Le spalle di Chuuya si rilassarono di botto. Aveva davvero mandato qualcun altro ad occuparsi di Dazai. Splendido. Magnifico. La sua giornata era appena stata migliorata. Assicurò al Boss che sì, certo, ovviamente me ne occuperò io, non c’è bisogno di preoccuparsi, salutò Elise-chan con un cenno del cappello e uscì dall’ufficio del Boss come se fosse più leggero di un paio di chili. In ogni caso, si disse, meglio chiedere ad Ane-san cosa sapeva a riguardo. 

Ane-san, alla fine, non ne sapeva poi molto: solo che si vociferava che ci fosse quell’idiota di Dazai, dietro i loro attuali problemi, e che stava puntando ad attività molto specifiche. Nessuno sapeva perché. Probabilmente perché si annoiava. Avrebbero dovuto dargli qualcosa da fare, a quella benedetta Agenzia. 

Il resto della giornata non fu poi granché: dopo pranzo cercò di dormire, almeno un po’, ma c’era sempre questa fastidiosa sensazione allo stomaco che non lo lasciava in pace. Forse la sera prima aveva mangiato delle ostriche non esattamente eccellenti. Forse era tutto quel caffè che beveva. Chi sa. Nel dubbio, buttò giù un’altra tazza di caffè: era ancora troppo presto per il vino. Ci sarebbe stato tempo, di ritorno dal porto, per fermarsi in qualche enoteca e regalarsi una nuova, costosa, deliziosa bottiglia di vino. 

La zona del porto non gli era mai davvero piaciuta: c’era un tanfo terribile che si attaccava ai suoi vestiti, era sempre affollata e sembrava impossibile trovare un attimo di pace. C’erano luoghi di gran lunga più belli, a Yokohama, con scogliere a picco sul mare e un orizzonte che si estendeva fin dove si riusciva a guardare. Però a lui toccava il porto puzzolente. Sospirò, osservando il profilo della nave che si stagliava contro la banchina. Diede indicazioni ai suoi uomini e si guardò intorno, circospetto.

Come il Boss gli aveva promesso, non c’era traccia di Dazai, il che era un po’ un peccato, perché con il passare delle ore gli era proprio venuta voglia di una sana scazzottata. Magari così gli sarebbe passato il mal di stomaco. Le casse di legno, con sopra dettagliate scritte in cinese, avrebbero dovuto contenere armi a sufficienza da rifornire l’intera Lucertola Nera. Il Boss sarebbe stato contento e lui sarebbe potuto partire in Hokkaido per risolvere certe situazioni che la Port Mafia aveva lasciato in sospeso.

Stava quasi per avviarsi verso il Quartier Generale, quando un improvviso trambusto attirò la sua attenzione. Ci fu un’esplosione luminosa e un disperdersi di uomini, che in parte si ritiravano goffamente e in parte correvano verso di lui. Appena i suoi occhi si riabituarono all'oscurità, Chuuya riconobbe un profilo che sarebbe potuto appartenere ad una sola persona. Un profilo dolorosamente familiare e fastidioso. Dazai era lì.

 

******

 

«Kunikida, per favore, smettila di correre!», esclamò Dazai, mentre la macchina si infilava in un vicoletto stretto e buio che, a detta di Kunikida, avrebbe dovuto portarli prima al porto. Solitamente, era lui quello spericolato alla guida spericolato nel senso che chiunque volesse sopravvivere alla corsa avrebbe fatto meglio a scendere immediatamente per cui essere vittima di tutte quelle sbandate e quelle curve prese malissimo era una novità e non una novità piacevole.

«Stai zitto, Dazai. Ci siamo fatti prendere in giro come due novellini.», sbottò contrariato. Miracolosamente, si rese conto Dazai, non stavano superando limiti di velocità, né stavano danneggiando le piccole bancarelle ai lati della strada, ma il suo mal d’auto presto gli avrebbe dato una scusa per vomitare addosso a Kunikida. 

Quando arrivarono al porto, la situazione era movimentata come si aspettavano. C’erano diverse imbarcazioni attraccate, e ci sarebbero voluti un paio di minuti a distinguere gli operai che stavano semplicemente svolgendo il loro lavoro dagli uomini della Port Mafia. Per fortuna si trovavano più in alto, rispetto a tutti gli altri, per cui potevano almeno godere di una visuale completa, e fu così che Dazai trovò immediatamente Chuuya, che sbraitava ordini ai suoi sottoposti, mantenendosi il cappello in testa durante una raffica di vento. 

Okay, quindi gli era andata bene. Chuuya era lì. Adesso doveva soltanto assicurarsi di non mandare a monte tutto. In fondo, lui era Dazai. Le probabilità che mandasse a monte qualcosa erano bassissime. Oppure altissime, a seconda della giornata. Guardò di nuovo Chuuya, il modo in cui si muoveva a suo agio nei panni del mafioso e si chiese distrattamente se non fosse il caso di lasciarlo lì, nel suo habitat naturale e dargli la possibilità di difendersi da solo da qualunque cosa il governo avesse in serbo per lui. 

Di certo non gli sarebbe stato grato, se avesse saputo perché lo faceva. Probabilmente l’avrebbe odiato ancora di più, perché credeva che non fosse in grado di difendersi da solo. Perché credeva che avesse bisogno di lui. E Dazai lo sapeva, sapeva che Chuuya non aveva bisogno di lui e che avrebbe rinunciato al suo aiuto anche se gli fosse stato necessario, ma voleva disperatamente che Chuuya avesse bisogno della mano che stava tentando di tendergli. Voleva disperatamente che la prendesse senza alcun piano elaborato da mettere in atto. Invece eccolo lì, con Kunikida al suo fianco che continuava a chiedergli come avrebbero dovuto muoversi. 

«Lo vedi quel piccoletto laggiù?», chiese a Kunikida, indicando Chuuya. «Quello è-»

«Nakahara Chuuya, il manipolatore di gravità. Il tuo ex- ex partner.»

«Stavo per dire molto pericoloso, ma vedo che qualcuno ha fatto i compiti», canticchiò. Kunikida sbuffò.

«Dovremmo allontanare prima tutti gli altri.», rifletté ad alta voce Dazai. «E poi cercare di affrontarlo. Non possiamo batterlo se non ci concentriamo su di lui. Forse dovremmo immobilizzarlo.», aggiunse dopo qualche secondo. Kunikida gli lanciò un’occhiata scettica, ma non disse nulla. Si limitò ad ascoltare la strategia che stava elaborando Dazai, suggerendo qualcosa ogni tanto, sbuffando impaziente, annuendo, tirando fuori il suo taccuino per prepararsi qualche arma facile da recuperare. 

Quando Dazai fu soddisfatto del suo piano, fece cenno a Kunikida di entrare in azione: aggirarono di soppiatto alcuni container, raggiungendo così il livello del mare. Nel momento in cui la prima granata stordente fu lanciata ci fu un gran vociare e un immediato scalpiccio confuso. Degli uomini rimasti, Kunikida ne mise rapidamente al tappeto la maggior parte, mentre Dazai si avvicinava al punto in cui era rimasto Chuuya, che già sembrava essere in posizione da battaglia. 

Dazai storse il naso: l’ideale sarebbe stato riuscire a immobilizzarlo, o quantomeno toccarlo, prima che sfruttasse la sua abilità per guadagnare terreno. Così diventava tutto più difficile e ancora più difficile se si pensava che avevano combattuto insieme per anni, che conoscevano esattamente i rispettivi punti deboli, che anticipare le mosse dell’altro era per loro naturale quanto respirare. Forse, invece di un ingresso in grande stile, avrebbe dovuto optare per un attacco a sorpresa. In fondo, lui non si sentiva mica in colpa a dare una pugnalata alle spalle, soprattutto se era per un buon motivo. 

«Ehi, Chuuya! Anche tu qui?», lo apostrofò, per nulla intimorito dall’asfalto che si staccava dal suolo e puntava minaccioso verso di lui. Vide con la coda dell’occhio Kunikida che lo raggiungeva. Gli fece segno di farsi da parte e lasciargli gestire la situazione. Qualunque risposta Kunikida avesse voluto rifilargli fu oscurata dalla faccia di Chuuya che incombeva su di lui.

«Dazai!», soffiò irritato, mentre i primi pezzi di asfalto cominciavano a colpirlo. Dazai li schivò facilmente. «Sapevo che alla fine sarebbe toccato a me sistemarti!», aggiunse contrariato, sferrandogli un pugno che atterrò in piena mascella. 

Come un fazzoletto rosso sventolato davanti al muso del toro, Dazai si era mostrato a Chuuya confidando nel fatto che bastasse soltanto la sua presenza per fargli perdere completamente le staffe. Esattamente come aveva sperato, Chuuya, consapevole che i suoi poteri erano inutili di fronte a Dazai, si era letteralmente scagliato su di lui: Dazai non aveva provato nemmeno a schivare il pugno che sapeva sarebbe arrivato, e si era invece premurato di afferrare il polso scoperto di Chuuya prima che potesse distruggere completamente il porto.

«Kunikida, adesso!», esclamò, e prima che Chuuya potesse anche solo iniziare a divincolarsi, Kunikida lo aveva tramortito con un teaser. Con Chuuya accasciato ai suoi piedi, i restanti uomini della Port Mafia se la diedero a gambe in pochi secondi: se uno dei migliori dotati della mafia era stato così facilmente sconfitto, cosa avrebbero potuto loro?

«Dazai, non startene lì impalato.», lo riprese Kunikida. «Dobbiamo inseguire-», fece una pausa, gesticolando nella direzione in cui si erano dileguati i criminali, «tutti gli altri.»

«Mhh.», Dazai commentò, mentre Kunikida continuava a battere un piede per terra, impaziente. Se adesso fosse stato solo, cosa in cui aveva quantomeno sperato, avrebbe potuto caricarsi Chuuya come un sacco di patate e portarlo allegramente all’Agenzia, e tutti l’avrebbero presa come la sua ennesima stranezza e non avrebbero fatto poi chissà quali domande. «Credo», iniziò, soppesando le sue parole, dando almeno l’illusione che ci fosse un ragionamento, dietro la sua proposta, e non il capriccio del momento, «che dal momento che abbiamo catturato un pesce grosso, potremmo fare a meno di quelli piccoli.»

«Cosa diamine stai farneticando?»

«Sto dicendo», aggiunse, mentre cominciava a tirar su Chuuya per il polso, «che dovremmo portarlo all’Agenzia come prigioniero. E interrogarlo. Noi stiamo indagando per conto del governo, no? Non è un lavoro ordinario richiede misure straordinarie.», concluse, soddisfatto. 

Sentì Kunikida borbottare qualcosa di simile a “quando mai il nostro è un lavoro ordinario”, mentre quest’ultimo valutava effettivamente la sua proposta. Sicuramente nominare il governo e le misure straordinarie era stata una mossa vincente. Kunikida non era amante delle eccezioni, degli eventi straordinari e in generale di tutto ciò che potesse intralciare i suoi programmi e la sua routine, per cui servivano delle motivazioni davvero eccellenti per spingerlo a fare qualcosa che poteva costargli l’aumento delle scartoffie da smaltire ed eventuali mal di testa che Dazai sapeva gli sarebbero venuti nel momento in cui avrebbe realizzato che avevano portato all’Agenzia un sottotenente della mafia e che ci sarebbero state delle conseguenze. 

Però al momento Kunikida non dormiva da quasi due giorni escluso il sonnellino di qualche ora prima , non assumeva caffè da almeno cinque ore e il suo ultimo pasto era stato del ramen in scatola che onestamente non poteva considerarsi un pasto inoltre, cosa abbastanza offensiva, aveva sdegnosamente rifiutato lo sgombro in scatola che Dazai gli aveva generosamente offerto. Terribile, davvero. 

In ultima analisi Kunikida voleva soltanto andare a casa, farsi una doccia, e cominciare a stilare il suo rapporto, quindi la sua volontà di ferro era un po’ più facile da piegare la si chiamerà, per buona misura, e per rispetto del suo amor proprio, volontà di alluminio. 

Dazai restò comunque sorpreso nel sentirgli dire: «Okay, va bene. Portiamolo all’Agenzia. Prima che si svegli, possibilmente.»

 

******

 

Quando cominciò a riprendere conoscenza, la prima cosa che colpì Chuuya fu l’intorpidimento che provava in ogni centimetro del suo corpo: aveva le spalle indolenzite, una gamba formicolante, e in generale la spiacevole seppur non più familiare sensazione di aver avuto la peggio in una rissa. 

La seconda cosa che comprese era di non trovarsi nell’infermeria del Boss: troppe luci, lettino troppo scomodo, e un odore di disinfettante che semplicemente non era quello che usavano nella Port Mafia. Quindi doveva essere stato catturato da qualcuno, che doveva averlo trovato inconscio dopo che quel cretino di Dazai-

«Maledetto Dazai.», soffiò, più per rassicurarsi del fatto che Dazai fosse effettivamente un piantagrane della peggior risma che per offenderlo davvero. 

La terza, scomoda e terribile scoperta fu che qualcuno, in quel momento, gli stava tenendo la mano. Non se ne era accorto subito perché la mano, come buona parte dei suoi arti, era mezza addormentata, ma non c’erano dubbi: c’erano proprio una mano che stava stringendo la sua. E questa mano, dovevo ammetterlo, aveva una certa callosità familiare che sembrava suggerirgli che-

«Maledetto Dazai!», sbottò ad alta voce, aprendo finalmente gli occhi e cercando di liberarsi dalla sua stretta. Dazai non sembrò per nulla colpito dalla sua reazione, ma ovviamente, chi sarebbe rimasto colpito dalle veementi proteste di un prigioniero?

«Ah, Chuuya, buongiorno!», lo salutò accondiscendente, dopo aver posato il suo telefono in tasca. «Ti interrogherei anche adesso, se fosse possibile, così potrei farti scodinzolare allegramente verso i quartieri della Port Mafia, ma attualmente non c’è quasi nessuno all’Agenzia e a quanto pare dovrei prima discuterne con il Presidente.», annunciò. «Sentiti onorato.», aggiunse, «Non tutti i prigionieri ricevono questo trattamento.»

Chuuya era sul punto di spiegare a Dazai quanto effettivamente si sentisse onorato con la sequela di insulti più triviale che riuscisse a mettere insieme, quando la porta si aprì. All'inizio non riuscì a distinguere chiaramente un volto, sentì soltanto un ticchettio sul pavimento.

«Non so per quale motivo tu mi abbia svegliato così presto, Dazai», lo riprese una voce scocciata, «ma spero almeno di poter amputare qualche arto.»

Poi fece capolino una donna che seppur inizialmente accigliata, sembrava adesso incuriosita dalla situazione Chuuya credeva di ricordarla, non era quella che girava armata di machete? Dio, in che cazzo di guaio l’aveva cacciato Dazai?

«Dazai-kun, certo che sei proprio fuori testa.», lo ammonì con un risolino, mentre indossava un camice, «Allora, cosa devo farci con lui?»

Cosa doveva fare con lui? Cosa doveva fare con lui? Chuuya aveva un bel po’ di risposte, non tutte gentili, su quello che sarebbe potuto succedere se solo Dazai gli avesse lasciato la mano, tipo-

«Appena avrò di nuovo la mia abilità sradicherò dal suolo questo palazzo di merda.», minacciò, continuando a strattonare il braccio. La stretta di Dazai non si allentava. Dove trovasse tutta quella forza pur non avendo nemmeno un muscolo, proprio non lo capiva. Avrebbe voluto dire qualcos’altro di minaccioso e terrificante, ma fu interrotto di nuovo dalla donna.

«Ah, Dazai-kun, che briccone! Ti sei messo a giocare con i sedativi!», notò, mentre rovistava nei suoi cassetti. Dazai le rivolse un sorriso colpevole, ma prima che potesse risponderle Chuuya diede uno strattone più forte.

«Che significa che ti sei messo a giocare con i sedativi! Pazzo suicida! Se devi interrogarmi perché provi ad uccidermi! Cos’altro hai fatto? Oi!», esclamò, attirando l’attenzione della donna, «Manca qualcos’altro? Tenete sonniferi qui? Ha sempre avuto una disgustosa ossessione per i sonniferi.»

Stavolta fu Dazai a strattonarlo: «Non ho usato i sonniferi perché, come tu hai sottolineato in un insperato moto d’intelligenza, abbiamo bisogno di interrogarti e non volevo ucciderti. Perciò quando ti sei svegliato ho dovuto chiamare Yosano-sensei.»

Yosano-sensei, che assomigliava molto ad un medico da strapazzo e che sicuramente sarebbe piaciuta moltissimo a Motojirou, sorrise sinistramente mentre picchiettava una siringa. 

«Sonniferi, sì», commentò pensierosa, più rivolta a se stessa che a lui o Dazai, «è proprio quello che ci vuole.»

Poi si avvicinò a lui, spiegando a Dazai come tenerlo fermo. Se avesse avuto la sua abilità non c’era dubbio che sarebbe riuscito a liberarsi, e viste le sue doti di combattimento, di gran lunga superiori a quelle che Dazai sarebbe mai riuscito ad ottenere con quelle braccine gracili che si ritrovava, non c’era dubbio che se avesse avuto pieno controllo delle sue facoltà motorie, sarebbe riuscito a liberarsi anche senza la sua abilità. Però Dazai continuava a immobilizzargli il braccio, e il resto del suo corpo non rispondeva tanto rapidamente come avrebbe voluto, perciò parve quasi che ebbe uno spasmo nel momento in cui l’ago trovò la sua vena. 

L’ultima cosa che vide, incapace di combattere le palpebre che si facevano sempre più pesanti, fu la faccia di cazzo sorridente di Dazai, che sventolava una mano e gli augurava un buon sonnellino. Poi si fece tutto buio e non sentì più nulla.

  
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