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Autore: Gaia Bessie    16/10/2020    3 recensioni
What if?:Asahi non è mai tornato in squadra.
[Epilogo: Quando si smussano gli scogli]
Io ti aspetto, te lo prometto.
[Long-fic di 15 capitoli | AsaNoya, Suga/Shimizu, accenni di KageHina | Angst, Hurt/Comfort, Romantico | Seconda classificata al contest "Canon compliant? I think not!" indetto da Maiko_chan sul forum di EFP | Partecipa al "Gioco di scrittura" del Gruppo FB Caffé e Calderotti]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Slash | Personaggi: Asahi Azumane, Daichi Sawamura, Kiyoko Shimizu, Koushi Sugawara, Yuu Nishinoya
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Premessa: la storia contiene diverse parti riguardanti la depressione, se siete sensibili a tale argomento vi consiglio di non leggerla. Stay safe.
 
Anatomia della speranza
 
1.  La casa di conchiglie



 
Ho gridato il tuo nome sull'oceano 
ma i flutti furiosi l'hanno riportato a riva
ho scritto il tuo nome sulla sabbia
ma le conchiglie l'hanno cancellato
(Elisabetta di Baviera)

 
 
Il silenzio se ne è andato, mettendo a nudo come una marea i sassi e le conchiglie e tutto ciò che costituisce il caotico naufragio della mia vita
(Sylvia Plath)
 
 
Noya ha una collezione di conchiglie, nascoste nell’armadietto. Le ha raccolte l’estate scorsa, quando con i suoi genitori è partito per le vacanze, e sono bianche e rosa e persino rosse o blu: sono attaccate in un cartoncino e, ogni volta che le guarda formano un disegno diverso.
Novembre è una casa stilizzata, con due omini che, dal giardino di conchiglie bianche, si sporgono verso le finestre. Con un po’ di fantasia, e accorgendosi che uno è alto come un gigante e l’altro piccolo come i fiori rosa del giardino, Yū si rende conto che si tratta di lui e Asahi.
O, almeno, si trattava di loro, prima che Asahi Azumane scomparisse nel nulla: gli hanno detto, prima i compagni di scuola e poi persino sua madre, che sicuramente starà meglio lontano dalla pallavolo. Che si troverà un nuovo hobby, degli amici, forse persino una ragazza. Ma, nella casa di conchiglie nascosta nell’armadietto di Noya, Asahi è inquieto.
S’aggira tra muri di conchiglie ed erba di conchiglie come se gli mancasse un pezzo: ma Yū ha controllato e le braccia, le gambe, persino la testa di conchiglia, sono tutti lì al loro posto.
Ma Asahi è sparito e lui se lo immagina a non dormire, nel suo letto di conchiglie, costringendosi a studiare o a guardare la tv pur di impiegare in qualche modo un tempo che s’è dilatato oltremisura.
A novembre nella casa di conchiglie è già Natale, ma Asahi non sembra in vena di festeggiare: stanco e sfiduciato s’aggira per i corridoi della scuola e Yū lo vede ma, il coraggio per parlargli, non lo trova mai.
«Dovresti parlargli, Noya» osserva Sugawara, un giorno che lo sorprende a sbirciare nella loro classe. «Credo sia palese, che lo stai cercando».
Suga non lo dice, ma è altrettanto evidente che Nishinoya nutra una paura folle e incontrollata di ritrovarsi di fronte all’ennesima conchiglia rotta dal mare. E come potrebbe incollare i pezzetti di Asahi, senza sapere dove trovarli, e con mani così piccole che faticherebbe a tenerlo assieme?
«Pensa a con chi dovresti parlare tu» lo rimbecca Daichi, fintamente severo. «Siete in due, a essere senza speranze».
Sugawara incassa il colpo: nella sua casa di conchiglie, vi è una principessa che pensosa aspetta il proprio principe e come un’anima in pena vaga per quelle stanze vuote, respingendo ogni altro pretendente alla propria mano.
«Capitano» sibila Nishinoya, senza distogliere lo sguardo dal banco di Azumane. «Io lo faccio per il bene della squadra, non dimenticartene».
Daichi Sawamura sospira, sinceramente e totalmente esasperato, mentre posa una mano sulla spalla del suo giovane libero. «Non è guardandolo che lo convincerai a tornare» osserva, pacato. «Lui… è sereno, anche così».
Ma Yū, tra la sabbia bianca nella sua mente, vorrebbe solamente mettersi a gridare che lui lo sente che Azumane non è felice. Che come una bestia in gabbia freme, che graffia le conchiglie per poter uscire da quella prigione tutta colorata. Ma né Daichi né Suga capirebbero.
 
***
 
«Oggi è martedì1, Asahi-san» Yū lo insegue, prima degli allenamenti, per tutto il cortile. «Ricordi?».
Azumane alza gli occhi al cielo, d’altronde lo fa ogni martedì, e lo guarda con riscoperto interesse: Noya sorride, è il loro gioco.
«E allora?» domanda Asahi, fermandosi a guardare il suo ex compagno di squadra. «È solamente l’ennesimo martedì».
Ma Nishinoya non si fa ingannare e lo fulmina con un sorriso smagliante, continuando a trotterellargli dietro per tutta la scuola. «Oh, sì» conferma. «Ma martedì è il giorno in cui ti dico che manchi a tutta la squadra e che vorremmo che tu tornassi ad allenarti con noi».
L’ex schiacciatore sorride, malinconico, ma non smette di camminare. Forse pensa che Noya non possa accorgersene, guardando il mondo dal basso, di quel sorriso: ma il libero guarda sempre e solo in alto, così non se lo lascia sfuggire mai. È quello, che gli dà speranza.
«Già» commenta Asahi, cambiandosi le scarpe all’ingresso della scuola. «L’avevo scordato».
Noya lo guarda, ma non si scompone. «Martedì prossimo lo ricorderai» trilla, prima di correre via. «E, allora, risponderai di sì!».
Azumane sospira, guardando il libero che s’allontana, un po’ di corsa e un po’ saltellando, mentre un’ondata di malinconia gli scioglie le ossa, deformandolo. Lui vorrebbe dargli una risposta, ma non è quella che Noya si aspetta.
Perché Asahi si siederebbe, a gambe incrociate sul manto erboso, e gli confesserebbe che, dopo l’ennesima sconfitta della squadra, non ha dormito per giorni. Che, ancora oggi, una notte su due fatica a prender sonno e, quando riesce in quell’impresa, incubi instancabili lo rincorrono, azzannandolo sulle braccia, sulle scapole, sulle mani.
Ma Noya non capirebbe mai. Perché crede in lui, ci crede come un bambino crede che sua madre lo consolerà sempre dopo una brutta caduta, e lo crede come potrebbe credere nell’amore o in tutte quelle altre stronzate di cui va matto. Ma, Asahi, nella sua capacità di superare quel terrore che gli ha distrutto stomaco, mente e sogni, non può crederci.
Come non può credere che davvero Nishinoya sia così pronto a perdonarlo, dopo che li ha abbandonati tutti, correndo via dai suoi incubi. Eppure, Noya è lì, che lo insegue per tutta la scuola trillando che è martedì. Anche quando è giovedì, o venerdì, e Asahi non  manca di farglielo notare.
Ma non è il martedì, direbbe Noya se avesse il vocabolario e la pazienza di Daichi, è il messaggio che quel giorno veicola. Un messaggio che Asahi non può recepire, perché è muto e insensato come lo scampanellio di uno scacciapensieri ornato di conchiglie.
«Ah, Asahi-san?» Nishinoya torna indietro, molleggiando sui propri piedi. «Volevo ricordarti una cosa».
«Cosa?» domanda, Asahi, curioso. «Io… non penso di essermi scordato niente».
«Io sono sempre alle tue spalle» risponde il libero, battendosi un pugno sul petto. «In campo, ti copro le spalle. E, se in campo non vuoi tornarci, mi toccherà coprirtele anche qui».
Noya lo guarda, sorridendo, e gli porge qualcosa chiuso in quella mano minuscola. Asahi lo prende, riluttante.
È un braccialetto di conchiglie.
 
***
 
 L’ha cancellato. Con uno sguardo distratto in una giornata di sole, Shimizu l’ha letteralmente spazzato via.
Suga è rimasto lì, fermo nel bel mezzo del corridoio, a osservarla fluttuare via come fosse fatta d’aria. Kiyoko gli ha lanciato uno sguardo distratto e ha sorriso, leggermente, facendogli perdere un battito: Suga l’ha guardata e i suoi pensieri si sono scolorati su una pagina bianchissima, lasciandolo a contemplarne l’immensa inconsistenza.
È martedì, ha urlato Nishinoya mentre inseguiva Asahi verso il cortile, e quella frase è l’unica informazione che la mente gli ha concesso di preservare.
«Buongiorno» l’ha salutata, dolcemente. «Oggi è… martedì?».
Lei ha riso e l’ha guardato con curiosità e, in quel momento, Sugawara realizza che Noya ha combinato solamente l’ennesimo casino insensato e privo di giustificazione: perché oggi è solamente lunedì, ma a Nishonya non potrebbe importargliene di meno.
«Scusa» dice, in fretta. «Nishinoya aveva detto… cioè lui e il martedì, sai…».
Shimizu lo guarda con una dolcezza che silenziosamente lo sta spolpando vivo e, avvicinandosi leggermente, gli prende le mani tra le proprie. «Ho capito» risponde. «Non… perché sei così teso?».
Lui ha il viso arrossato, come nell’ennesima ustione da sole e sarebbe persino credibile, se solamente non fosse novembre. Ma Azumane va in giro con un braccialetto di conchiglie, quindi, forse potrebbe essere?
«Scusami» ripete lui, a disagio. «Ma non penso di essere pronto per sposarmi2, io…».
Shimizu ride, in un suono scampanellante e dolcissimo che lo confonde solamente di più. «Sposarti?» domanda. «Non ho intenzione di sposarti, per ora».
Sugawara sembra non cogliere l’implicazione e abbassa il capo, sempre più imbarazzato. «Io… scusami» ripete, per la terza volta. «Sono solo agitato per lo studio, e la squadra e…».
Si accorge a malapena che le sue mani sono ancora strette da quelle di lei, lunghe e sottili, che l’avvolgono come fossero la loro naturale copertura. Perché Shimizu sorride e, dai suoi occhi, s’intravede il mare.
«Anche io sono preoccupata» mormora, piano. «Ma… sono sicura che Nishinoya riuscirà a convincere Azumane a tornare a giocare».
Sugawara sorride, inclinando il capo. «Grazie» dice, solamente. «Mi piacerebbe se tu avessi ragione, Shimizu».
Lei sorride e si forza a lasciargli le mani, sebbene sia come dar via una parte di sé, e lo guarda andar via. Il rumore dei suoi passi culla i suoi e a Shimizu basterebbe solamente poter posare le proprie scarpe sulle sue impronte, ma non ha il coraggio di farlo.
Così lo ascolta allontanarsi domandandosi se, se fossero sulla sabbia, sarebbe lo stesso osservare l’impronta del suo passaggio che pian piano si cancella.
 
***
 
I suoi passi sono un tintinnio pressocché inudibile, da quando Azumane ha indossato il braccialetto di conchiglie: gli altri non mostrano di udirlo, ma lui lo sente. Lo sente come un peso sul braccio e sul petto, quando si trascina da una lezione alla pausa pranzo, e lo sente come la colonna sonora dei propri sogni a occhi aperti quando si ferma davanti alla palestra.
Ma, allo stesso tempo, Asahi desidera ardentemente e disperatamente non sentirlo più: di riuscire a sciogliere, con quelle mani decisamente troppo grandi, i nodini strettissimi fatti da Nishinoya e liberarsi di quell’ultimo serrato collegamento con la squadra di pallavolo.
Non ci riesce e non per una mancanza di tentativi. Non ci riesce perché Noya gli corre incontro, almeno tre o quattro volte al giorno, e osserva il suo braccio sinistro quasi come se temesse di non vederlo più.
È stupido e banale – d’altronde, Asahi ha ferito Noya in una maniera talmente profonda da essere inesprimibile – ma non ha abbastanza coraggio per infliggergli un ulteriore, inutile, dolore. Forse, Nishinoya rimarrà ancora per qualche mese imbronciato e scontroso e si rifiuterà di ammettere che la Karasuno sia ancora una squadra, senza Asahi, ma dimenticherà.
Dimenticherà perché la memoria altro non è che una marina dove i ricordi vengono annotati su sabbia e, allora, cancellarli è semplice come camminarvi sopra. A ogni mareggiata, un’onda se li porta via sommergendoli di sassi sbriciolati, alghe e, qualche volta, persino conchiglie. Noya le avrà raccolte tra i suoi ricordi, quelle usate per il braccialetto di Asahi?
«Asahi-san!» il libero lo raggiunge, affiancandolo, in una pozza di luce nel cortile. «Oggi è…».
«Martedì» risponde Azumane, non senza esasperazione. «Lo so, ma cosa dovrebbe avere di speciale?».
Nishinoya lo guarda e ha gli occhi grandi come scodelle, riempite di dolorosa speranza. «Niente, è solamente il giorno in cui ti ricordo» spiega il ragazzo. «Che manchi alla squadra e ti rivorremmo con noi».
Asahi sospira, esasperato, ma non riesce nemmeno a deludere totalmente le aspettative di quel ragazzo, che ha fede in lui come potrebbe averla nella fortuna o nel destino. Se non fosse che lui si sente inaffidabile tanto quanto entrambe – fortuna e destino – e non può promettere, non può giurare. A conti fatti, semplicemente non può.
«Grazie per avermelo ricordato» commenta Azumane, guardando il cielo. «Cercherò di tenerlo a mente».
«Un giorno, mi ringrazierai» risponde Noya, scrollando le spalle. «E sarai tu a ricordarmi ogni martedì della settimana».
Asahi cerca di non rispondergli che, da più di un mese, Yū ha trasformato ogni singolo giorno della settimana in un martedì senza inizio o fine. Che ogni giorno gli ricorda le medesime parole, ma lui non cede mai.
«Non credo» commenta. «Ma non posso nemmeno impedirti di ricordarmelo».
«Lo farò sempre» proclama il libero, stringendo i pugni. «Ogni giorno, di ogni settimana, finché non capirai che immenso errore stai commettendo».
Azumane si massaggia la fronte, sempre più esasperato. «Era proprio quello che intendevo» mormora. «Non mi lascerai mai andare».
Lo dice con un tale misto di rassegnazione e speranza che Noya non riesce a non osservarlo, frastornato. Per un terribile istante si ritrova a domandarsi se non sia realmente questo, il desiderio più recondito di Asahi: essere lasciato da solo, tra gli scogli aguzzi e i pendii scoscesi della propria mente, dove ogni conchiglia è rotta e incrinata sotto la potenza delle onde che schiumano e s’infrangono sulla battigia. Vuole davvero lasciarsi naufragare, l’asso della Karasuno?
«No» risponde il libero, cautamente. «Non lo farei mai».
Azumane sospira, forzandosi a sorridere allegramente. «Proprio ciò che temevo» sussurra. «Sei tremendamente testardo».
Ma non è la testardaggine, che muove Nishinoya, non è lo sterile desiderio di insegnare ai corvi della Karasuno a volare, né l’improbabile sete di vittoria. È indefinibile, lo scopo che spinge Yūa cercare Asahi sott’acqua, dopo una mareggiata: ma il ragazzo ha nostalgia.
Gli manca il rumore delle schiacciate di Azumane, il suo sorriso stanco dopo l’ennesima partita fallita, forse persino la sua faccia tesa di fronte agli avversari. Ma, questo, non riesce a dirglielo.
«Penso solamente che dovresti tornare» dice, invece. «Che manchi solamente tu per costruire la squadra più forte di sempre».
Ma Asahi non risponde: osserva una nuvola come se, lì dentro, potesse cogliervi la risposta che sta cercando.
 
***
 
«Andiamo, Dai-chi» strilla Sugawara, con tono cantilenante. «Non ci credo che mi stai davvero incentivando a spaccare la squadra per una semplice cotta».
Daichi sospira, semplicemente e definitivamente esasperato. Perché Suga lo osserva con curiosità ma, dentro di sé, cova solamente l’ennesimo mare in tempesta: l’ha colto, Sawamura, l’ha colto come un fiore e un desiderio sulla coda di una stella cadente. Gli ha colto quel pensiero, strappandoglielo dal capo come una ciocca di capelli, e adesso vorrebbe solamente trovare una soluzione a quell’inutile turbinio di emozioni che riempie di lividi il cuore del palleggiatore.
«Non ti sto dicendo di spaccare la squadra» borbotta il capitano, incerto. «Ti sto dicendo di non spaccare te».
Perché è esattamente quel che sta succedendo: Suga si straccia e si sfilaccia al pensiero che non potrà mai averla, che mai potrà metterle al braccio l’ennesimo braccialetto di conchiglie e, allora, dovrà solamente accontentarsi di osservare i suoi passi svanire tra la sabbia bagnata.
Sono sbrindellate, le emozioni di Sugawara, sbrindellate e imperfette di fronte al pensiero di Shimizu che gli stringe le mani tra le sue. Ma è sbrindellata anche la consapevolezza che, se solamente ammettesse a sé stesso che l’ama dell’amore dolce e da ballata che ha sempre sognato, spaccherebbe l’unità della squadra.
E allora la guarda e tace, o semplicemente tace e basta, mentre lei sembra aspettare che lui semplicemente trovi il coraggio.
Ma, a Suga, non ne è rimasto più.
«La stai drammatizzando» risponde, con noncuranza. «Non è niente di importante, anche Noya e Tanaka sono cotti di Shimizu».
Daichi sospira, chiamando a sé tutta la propria pazienza ma, abbassando lo sguardo, Sugawara si rende conto che il capitano sta stringendo i pugni, probabilmente trattenendosi dal dargli dello stupido.
«Lo sai anche tu, che è diverso» commenta, secco. «Loro sono… infantili. Dolci, forse, ma infantili. E lei…».
Ma Suga scuote il capo e, per un momento soltanto, sembra affranto. «Non dirlo» mormora. «Lasciamo le cose, lasciamo la squadra, così come sono».
Sawamura vorrebbe rassicurarlo, dirgli che non cambierà nulla tra lui e Tanaka o Nishinoya, ma non ha il coraggio di dire qualcosa in cui non crede. Eppure.
Eppure Suga nasconde un’anima ammaccata da pugni e schiaffi, mentre parla ai propri compagni di squadra, mentre sorride, persino mentre guarda in tralice Shimizu a bordo campo.
«Perché devi per forza ferirti da solo?» domanda Daichi, scuotendo il capo. «Potresti…».
Impedire che le onde cancellino i vostri passi dalla sabbia, che s’infrangano in una mareggiata di conchiglie frantumate e inservibili. Ma Sugawara gli risponde con un’occhiata inquieta, mentre s’avvia verso la palestra, forzandosi a sorridere.
Se guardassero nell’armadietto di Nishinoya, ne rinverrebbero una collezione di conchiglie che muta forma con l’incedere dei giorni. Quel martedì, sono una scogliera così bianca da risultare inimmaginabile, dove un mare rosato di tramonti s’infrange e si ritira: su uno scoglio, sono sedute due figure.
Sono mute come un pensiero sfuggente, e immobili, ma guardando il mare come se dentro l’acqua cristallina vi potessero essere delle risposte. Come se esistesse una maniera per non ferire, o per non essere feriti.
«No» risponde Sugawara, lapidario. «Non potrei mai».
Perché coglierla significherebbe sporcarne la divinità: non si toccano gli idoli, se ne sbecchi la doratura esse rimarrà sulle tue mani3. E lui dovrebbe coglierla come un’idea o una rosa in inverno, tirarla via da quel mondo perfetto che s’è costruita attorno, strapparla ai propri pensieri silenziosi per catapultarla nel suo mondo colorato e chiassoso. Nella marina di conchiglie, però, Shimizu lo guarda ed ha gli occhi così pieni di speranza da far male.
Ma lui non può toccarla, non può sfiorarle l’anima nuda quasi come fosse l’ennesimo pensiero venuto male, come sfiora i propri o quelli di Daichi, non può tenderle la mano e trascinarla via con sé. Una divinità non si tocca, si guarda soltanto.
Eppure, Shimizu lo osserva, senza farsi notare e, se solamente Suga non si facesse distrarre dal suo sguardo, noterebbe che ha le mani che le tremano. Insieme al cuore, al respiro e a tutto il resto.
E, se solamente guardasse le proprie, di mani, si renderebbe conto che sta tremando anche lui.
 
***
 
Un giorno, Asahi non si presenta a scuola. Poi, i giorni diventano due, poi tre e poi quattro.
Se Yū guardasse nel proprio armadietto, si renderebbe conto che una conchiglia s’è infranta in una marina, durante una tempesta.
Quel giorno è martedì, ma lui è così preoccupato da non riuscire ad accorgersene.




 

Angolo della vergogna:
Buongiorno e buonasera a tutti. Mi chiamo Gaia e sono otto anni che non concludo né pubblico una long che superi i cinque capitoli (ma non temete, questa è già terminata): quindi temo che questo mio glorioso ritorno sia molto poco glorioso, ma da qualche parte bisognerà pur iniziare.
Ho poco da dire su questo capitolo, per cui vi lascio le citazioni che avevo mandato per il contest cui la storia partecipa:

1Da Dr. House, Medical division – è uno sketch ricorrente tra Cameron e Chase che ho voluto riprendere (https://www.youtube.com/watch?v=cba5KCkRnN0)
2Dal manga/anime, ho ripreso letteralmente questa scena, con una leggerissima variazione per poter creare un secondo what if: https://www.youtube.com/watch?v=0Qdi_bJamcY
3“Non bisogna toccare gli idoli: la doratura ci rimane attaccata alle mani” – Gustave Flaubert, Madame Bovary

E vi aggiungo una spiegazione sempre per il contest:

Seguendo quello che era il tema del contest, ho deciso di basare il mio what if sul presupposto che Asahi si sia rifiutato di tornare in squadra, sviluppando così la mia idea. Da questo presupposto generale sono scaturiti ben quattordici capitoli e un epilogo, rimanendo comunque ampiamente nel limite di parole concesso.
La storia è quasi totalmente scritta nel medesimo tempo, cioè le azioni dei diversi personaggi avvengono in contemporanea o quasi, tranne nei capitoli 3 e 5 dove le azioni sono divise in due giorni diversi che s’intervallano. Ma comunque credo si riesca a capire anche dal testo.
La storia è presumibilmente OOC, ma principalmente perché la situazione sconvolge il carattere di Nishinoya, quindi penso sia giustificabile.
A tal proposito, ho cercato di trattare al meglio la tematica della depressione, senza svilirla e sottolineando come guarire non sia un processo immediato, ma lungo e faticoso. Spero di essere riuscita nel mio intento.
Per quanto riguarda il “Dai-chi” con cui Suga chiama Daichi, è una mia personalissima idiozia: siccome mi hanno spiegato le regole dell’accento in giapponese, ho pensato di usare questa mia scarna conoscenza. Infatti il soprannome è un misto tra la reale pronuncia del nome e come lo pronuncia il doppiatore di Sugawara nell’anime, che lo fa per davvero (almeno secondo me) in maniera un po’ cantilenante.
Il titolo ha un significato molto semplice, in quanto il tema della speranza regge l’intera storia e viene totalmente sviscerato in ogni capitolo, essendo descritto nella sua anatomia.

E credo sia tutto, spero che a qualcuno questa roba possa piacere.
Gaia

 
   
 
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