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Autore: _Unmei_    18/10/2020    1 recensioni
Chissà se qualcuno è riuscito a capirlo, che in ogni colpo di scalpello che ha dato forma a quell'angelo, dietro a ogni lineamento cesellato con pazienza, nei boccoli che gli ricadono sulle spalle, nel morbido drappeggio che gli copre le gambe, nel lievissimo sorriso che gli increspa le labbra… che in ogni piuma delle ali che ho fatto nascere dalla sua schiena, c’è la mia dichiarazione d’amore per lui.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Giardini di Pietra
 
Capitolo 8

 
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Comprai quella casa, molto tempo dopo. La feci restaurare, perché gli anni d’abbandono avevano lasciato il segno; la riportai allo splendore, il giardino e il frutteto furono nuovamente curati, statue e panchine vennero ripulite, le fontane tornarono a zampillare. Nei vent’anni e più che vissi a Venezia trascorsi lì le mie estati, nonché i giorni in cui sentivo più forte il bisogno di solitudine.
Avevo acquistato anche un bell’alloggio di due piani in campiello del Remer, ed era lì che abitavo il resto dell’anno; mi sarebbe piaciuto diventare il nuovo padrone del signorile palazzo in cui Florent era cresciuto ma, anche fosse stato in vendita, era molto al di là delle mie pur floride disponibilità economiche. Mi accontentavo di ammirarlo quando in gondola scivolavo lungo il Canal Grande, immaginando come dovessero essere le sue sale, chiedendomi quale fosse, tra le finestre, quella a cui Florent si affacciava per guardare fuori dalla propria stanza.
 
Mi piaceva vivere a Venezia, sia nel cuore vivace della città che nella villa solitaria sull’isola. Quella era una casa davvero troppo grande per un uomo solo, ma non importava: amavo quelle stanze dai soffitti affrescati e dagli stucchi eleganti, amavo ogni suo angolo e ogni suo particolare… la amavo anche se mi metteva sempre addosso tanta malinconia e rimpianto. Eppure, nonostante il male al cuore, era lì che andavo quando desideravo silenzio e raccoglimento.
Sbagliavano le voci superstiziose; l’unico fantasma che si aggirava fra quelle mura ero io; io, in cerca dell’ombra del passato lì trascorso. Pensavo a Florent e agli anni che aveva vissuto in quel luogo, e mi auguravo che anche in una situazione tanto difficile avesse avuto dei giorni felici. Che non gli fosse mancato l’affetto, che avesse conservato la speranza di un futuro sereno, libero da debiti e preoccupazioni… che avesse sempre trovato consolazione e gioia nel suonare il suo violino.
E immaginavo che, tendendo l’orecchio, avrei potuto sentire l’eco lontana della musica, come lo sbiadito ricordo di un sogno.
 
In quella giornata della mia giovinezza, dopo aver lasciato l’isola, Florent non accennò più al proprio passato, né diede segno di essere turbato; sorrideva, ma lo faceva troppo e in un modo che non mi sembrava sincero. Era una maschera, e una barriera, un muro dietro al quale si nascondeva… io, però, riuscivo a vederlo lo stesso. Provai a chiedergli se si sentisse bene, se desiderasse rientrare subito nella tranquillità del nostro alloggio, e lui rispose che era tutto a posto, di stare tranquillo, che il brutto momento era passato e ora si sentiva sereno.
Volle andare alla basilica dei Frari, uno dei luoghi che amava di più, e di cui anch’io m’innamorai: era tanto imponente e ricco d’arte da non cessare mai di riempirmi di meraviglia e ammirazione. Ogni volta che la visitavamo sostavamo qualche minuto davanti al monumento funebre a Canova, e mi scuoteva ed emozionava il pensiero che a pochi passi da me ci fosse il cuore del venerato maestro, custodito in un’urna. Non sono mai stato un cristiano devoto, ma a quel grande scultore non mancavo mai di rivolgere una preghiera laica.
Poi tornammo a Piazza San Marco, e al Florian, dove ormai eravamo presenze abituali; prendemmo caffè con il brandy, e piccoli, deliziosi biscotti di frolla. Facemmo acquisti: in una libreria antiquaria comprai i quattro libri dell’architettura del Palladio, in un’edizione vecchia più di duecento anni; a Florent regalai dei bellissimi gemelli d’oro e opale, realizzati da un orefice che aveva la sua bottega in Dorsoduro. Sulla via del ritorno spiegai al mio amato che per gli antichi romani quella gemma rappresentava la speranza e la purezza d’animo, e che credevano proteggesse dalle malattie la parte del corpo su cui veniva posta.
 
“Perché i polsi sono importanti, per un violinista. E perché la tua nobiltà d’animo splende come i riflessi di questa pietra… e perché la speranza illumini sempre il tuo cuore.”
 
Florent mi prese per il gomito e mi trascinò in una calle in ombra, strettissima, tanto che una persona, camminandovi, quasi sfiorava le pareti con le spalle; lì mi prese il viso fra le mani e mi baciò.
Una follia, ma quanto fu meraviglioso!
Lì gli tolsi dalla camicia i gemelli d’argento che indossava e gli misi quelli appena comprati; non ebbi il coraggio di confessarglielo, ma nel mio cuore era quasi come se gli stessi mettendo al dito un anello nuziale. Lui mi baciò un’altra volta, e poi uscimmo di nuovo nel sole, diretti all’albergo. Ricordo… sul ponte della Paglia sostammo per un po’, perché Florent mi chiese di realizzare per lui uno schizzo del ponte di Sospiri. Quel che feci fu un po’ più che uno schizzo, ma a lui non dispiacque aspettare; mi stava accanto, guardandomi disegnare, e ogni volta che mi voltavo a guardarlo, mi sorrideva.
Tutto sembrava perfetto, ma in me persisteva cocciuta la sensazione che il cuore di Florent fosse ancora in tumulto; tutto ciò che mi aveva raccontato, aveva rivissuto, non poteva essere già stato lasciato alle spalle come una faccenda di poca importanza. Non insistetti, ma mi aspettavo di vederlo crollare.
E non sbagliavo.
 
Andammo a dormire presto quella sera, e mi svegliai, senza un apparente motivo, mentre batteva la mezzanotte. I rintocchi terminarono, la stanza sembrava silenziosa, ma in quella quiete, immobile a fissare il buio, sentii un rumore lieve; come un singulto represso, soffocato nel cuscino.
 
“Florent?”
 
Quasi sempre dormivamo abbracciati, o almeno vicini, sfiorandoci; in quel momento invece se ne stava discosto. Quando a letto lo chiamavo, se era sveglio mi rispondeva stringendomi, baciandomi il viso, o una spalla; in risposta ebbi solo il fruscio delle lenzuola. Era sveglio, ne ero certo, ma mi aveva ignorato.
Alla cieca accesi il lume sul comodino e mi voltai verso di lui, chiamandolo ancora, e vidi la sua sagoma che mi dava le spalle strettamente rannicchiata sotto il lenzuolo, che aveva preso tutto per sé, mentre io dormivo scoperto, per via del caldo.
 
“Florent, stai bene?”
 
Cercai di scostare il lenzuolo, ma lui si oppose, trattenendolo e dando anche un brusco strattone, dopo le mie insistenze. Mi rattristò vederlo così, mi angosciò il senso d’impotenza che provai… e mi irritò il suo evitarmi. Perché non cercava il mio appoggio, il mio abbraccio? Non mi considerava degno, forse? Non si fidava abbastanza da mostrarmi un momento di sconforto? Per un attimo montò in me l’offesa, ed ebbi la tentazione di voltarmi dall’altra parte e riprendere a dormire, di parlargli duramente, lasciando che affrontasse da solo il suo dolore, se riteneva che il mio interessamento fosse una seccatura.
Erano pensieri stupidi, figli del mio ego ferito… infantili, addirittura. Forse ero spaventato dall’idea di non essere importante per Florent quanto lui lo era per me, e la rabbia che sentivo era in realtà solo insicurezza. Me ne resi conto in fretta, e mi vergognai; in definitiva, l’amore vinse. Non tentai più strappargli delle parole: lo abbracciai attraverso la barriera del lenzuolo. Quello poteva bastare, per fargli sapere che c’ero; lo sentivo tremare, e continuai a tenerlo stretto, accarezzandolo consolatorio, lasciando, di tanto in tanto, leggeri baci sulla sua nuca. Il tempo passò e lui si quietò, tanto che credetti si fosse addormentato, ma sbagliavo. Emerse dal suo rifugio e si voltò verso di me; il suo viso era così malinconico e sperduto che mi si spezzò il cuore. Toccai con esitazione le sue ciglia ancora umide, sperando di portare via un po’ di tristezza, insieme alle lacrime.
 
“È stato terribile per te tornare lì, vero? Rivedere quella casa, forse persino rivedere questa città. Mi dispiace. Vorrei poter fare qualcosa per… per rimediare. Per farti sentire meglio. E poi… scusa per le volte in cui, in passato, ti ho chiesto della tua famiglia. Se avessi immaginato quanto dolore provocavano le mie domande…”
 
Florent mi zittì posandomi due dita sulle labbra, i suoi occhi ancora tristi, ma l’espressione raddolcita da un piccolo sorriso. Prese il taccuino sul suo comodino, e iniziò a scrivere.
 
“Ricordi il concerto al Carlo Felice? L’ultimo brano che suonarono, “La Tempesta di Mare”… non era in programma. Fu anche l’ultimo brano che ascoltai quella volta, anni fa. Quando uscii di nascosto per ascoltare il concerto all’aperto, in Piazza San Marco. Capisci?”
 
Non so se capii veramente: anche con tutto l’impegno e l’empatia, non era una sofferenza che potevo figurarmi appieno. Troppo vasta, troppo profonda, troppo cupa. Né sapevo cosa avrebbe potuto essere di consolazione, in quel momento, per lui che aveva perso tutto da un momento all’altro, che solo per caso si era salvato. La morte aveva gettato la sua ombra tanto vicino a Florent da farmi rabbrividire. Il solo pensarlo mi faceva desiderare di stringerlo a me con tutta la forza che avevo, e non lasciarlo andare mai.
 
“Perché non me?”
 
Sottolineò tre volte quella frase, rabbiosamente, e io non la capii. Come avrei potuto? Non avrei mai potuto concepire un sentimento del genere.
 
“Perché mio padre non ha preso anche me? Perché non mi ha aspettato? Perché non mi ha voluto? Perché si è portato via tutti e mi ha lasciato solo?”
 
Allora compresi quel che gli passava per la testa, il suo pensiero contorto, insano.
Sentirsi abbandonato perché era sfuggito alla morte, e chiedersi perché il padre non l’avesse atteso per prendersi anche la sua vita, perché avesse compiuto quel gesto insano proprio quando lui era lontano da casa. Gli voleva troppo bene per ucciderlo, o non gliene voleva abbastanza?
Avevo considerato solo la sofferenza atroce dell’aver perso la propria famiglia, ma non mi aspettavo quella dell’essere sopravvissuto. Se già prima era difficile trovare le parole per consolarlo, ora mi sembrava impossibile.
 
“Florent, lui non era in sé. È stata la follia a guidarlo. Non credo fosse un uomo cattivo, ma era impazzito, o era così disperato da non riuscire a ragionare, da non vedere una speranza. Né per lui, né per nessuno. Doveva avere terrore della miseria, del disonore, del futuro stesso. Forse era qualcosa che ribolliva nel suo animo da tempo, e infine è esploso, la sua mente si è spezzata... ed è avvenuto mentre tu non c’eri. E non credo che, dopo aver fatto ciò che fece, sarebbe stato in grado di attenderti per prendere anche la tua vita. Non sei vivo perché ti amava di più o di meno degli altri: è stato il caso a salvarti. Ti prego, siine grato.”
 
Avevano un senso, quelle mie parole? Non credo che fossero eloquenti, o anche solo convincenti, ma l’emozione mi strozzava. E forse era meglio così: la ragionevolezza, la logica, non avevano posto; sarebbero state inadatte, impersonali. Io volevo essere per lui dimenticanza e sostegno, rifugio e serenità. Visto che non riuscivo a esprimere a voce ciò che provavo, pensai che la vicinanza fisica avrebbe costituito la migliore consolazione.
I miei baci furono leggeri, le mie carezze insistenti; sulle prime lui fece per respingermi, come per un qualche tipo di pudore della propria fragilità, ma fu solo un attimo. Sospirò, cercò la mia bocca e si abbandonò a me, completamente, con fiducia. Era languido, ma in un modo che andava oltre la sensualità, il desiderio; era come se, più che mai, cercasse un’unione completa, spirituale. Come se cercasse appartenenza. E io sopra ogni altra cosa volevo che si sentisse amato, al sicuro. Con i baci di farfalla che si erano fatti rapaci, eppure sempre pieni di dolcezza e devozione, gli promettevo che mai più nulla di male gli sarebbe successo.
Il mio cuore impazzì come la prima notte che ci amammo, e mi resi conto di essermi commosso solo quando vidi le mie stesse lacrime cadere sul suo volto.
 
Più tardi Florent, finalmente sereno, dormiva stretto a me, una mano intrecciata alla mia. Io ero lì, a occhi aperti, e vegliavo, per poterlo destare se gli incubi lo avessero assalito.
Vegliavo, e mi sentivo un verme. Un infame e un immorale, e a ripensarci ancora provo lo stesso disgusto di me stesso, a distanza di mezzo secolo, perché…
Perché nonostante quanto ancora fosse cocente il dolore di Florent, e quanto orribile dovesse essere stato scoprire i cadaveri dei propri cari… nonostante il lutto straziante, e la dura vita che aveva conosciuto dopo quel giorno… nonostante tutto ciò, nelle ultime ore nel mio cuore aveva messo radici un’oscura e perversa gioia.
Perché quella sventura lo aveva condotto fino a me.
Perché ero l’unica persona che lui avesse, e perciò non mi avrebbe mai, mai lasciato.
Pensai che se nulla di male gli fosse mai accaduto, se suo padre non avesse commesso quel sacrilegio… o se addirittura non fosse stato sommerso dai debiti… se tutto nella sua vita fosse andato bene, Florent, spensierato e felice, non avrebbe lasciato Venezia, e non ci saremmo mai incontrati.
La sua tragedia era la mia fortuna, e io ero grato che fosse accaduta.
Esultavo della rovina che aveva distrutto la sua famiglia, che gli aveva tolto tutto, rendendolo solo mio.
 
Forse questa schiacciante solitudine nella mia vita è la punizione per gli ignobili pensieri di quella notte lontana, il meritato castigo per il mio cuore egoista.

__________

NdA


Il campiello del Remer dove Riccardo prese casa si trova vicino a Ponte di Rialto, più o meno di fronte all’Erberia. È un angolo davvero delizioso! Ma ha il suo lato macabro…
A Venezia le leggende e le storie di fantasmi abbondano, e una riguarda anche questo campiello. Si racconta che una sera del 1598, il doge Marino Grimani si trovava a passare da quelle parti, e udì delle urla femminili; vide fuggire in direzione del campiello una donna, inseguita da un uomo armato di spada. Li inseguì, riconoscendo poi in essi la nipote Elena e il di lei marito Fosco Loredan, che folle di malriposta gelosia voleva uccidere la moglie. Il doge si frappose fra loro, offrendo protezione alla nipote; il marito si finse remissivo, ma poi, con l’inganno, distrasse il doge e decapitò la moglie. Sulle prime il doge, stravolto dall’ira, fece per attaccare Fosco, ma poi si frenò. Decretò invece che l’assassino si recasse a Roma, con il cadavere sulle spalle e la testa mozzata fra le mani, e al cospetto del Papa mostrasse il suo crimine, perché fosse lui a stabilire la punizione.
Ma il Papa fu talmente sconvolto che non lo volle nemmeno ricevere, così Fosco tornò a Venezia e, nello stesso luogo dove aveva ucciso la moglie, si gettò in acqua con la testa di lei. Da allora, si dice, di tanto in tanto il cadavere riemerge tenendo fra le mani la testa di Elena.
 
(se vi interessano storie come questa, vi consiglio ‘Leggende veneziane e storie di fantasmi’ di Alberto Toso Fei. Il libro è interessante ed è un’ottima “guida turistica alternativa”)
 

 
   
 
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