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Autore: Adeia Di Elferas    19/10/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giampaolo Baglioni era riuscito a raggiungere la casa di suo fratello Troilo appena fuori dalla città, nei pressi delle Fonti di Veggio.

Convincerlo a scappare subito non era stato molto semplice. Troilo, Arciprete e Protonotario, dapprima non aveva voluto credere che nella loro famiglia fosse scattata una simile furia fratricida, e aveva quasi accusato Giampaolo di essersi inventato tutto solo per convincerlo a prendere parte a chissà quale maneggio.

E invece, ora, i suoi servi gli confermavano che era tutto vero, anzi, che i corpi del povero Astorre e della sua sposa, assieme a quello di Guido e di tutti gli altri uccisi erano stati gettati dalle finestre del palazzo e lasciati in strada alla mercé del popolo.

Solo quando era arrivata un'altra voce dalla città, ovvero quella di un suo servo appena rientrato al palazzo, l'Arciprete si era convinto e, decidendo subito da che parte stare – ovvero, come sempre, dalla parte di chi era stato attaccato e non da quella degli aggressori – accettò di scappare assieme al fratello.

I due partirono immediatamente per Marsciano, Troilo sgranando un rosario e chiedendosi angosciosamente se avesse fatto bene a soccorrere il fratello piuttosto che provare a mediare con i congiurati, e Giampaolo cominciando già a ragionare su come radunare in fretta un esercito per riportare l'ordine a Perugia e riprendersi il potere una volta per tutte.

 

Gentile Baglioni, figlio di Guido, sperava con tutto il cuore che il suo avviso, mandato in fretta e furia a Ridolfo. Lui stesso, lo sapeva, si era salvato per puro caso dall'eccidio. Se solo ci ripensava, gli venivano di nuovo i brividi.

Forse peccando di presunzione, ma essendo un prete, era sempre stato convinto di essere automaticamente al sicuro da qualsiasi progetto di vendetta o disegno politico. Quella mattina, però, quando due suoi servi erano corsi al suo palazzo gridando che qualcuno stava uccidendo tutti i Baglioni a casa di suo padre, Gentile aveva capito di essere in pericolo.

Senza lasciarsi prendere dalla frenesia, non aveva perso tempo a preparare dei bagagli, ma aveva subito fatto mandare un messaggio a Ridolfo, e poi si era subito messo in sella e aveva cavalcato come un pazzo fino ad arrivare a Bastia.

Solo a destinazione si era permesso di riposare. Lì, ne era abbastanza sicuro, poteva ritenersi al riparo.

Ora, la cosa che più gli premeva, a parte sapere delle sorti di Ridolfo, era capire chi tra i Baglioni avesse impugnato le armi contro i propri congiunti. In un primo momento aveva pensato a Giampaolo, che tra loro era tra i più boriosi, ma subito dopo gli era venuto in mente Grifonetto, e con lui Carlo, e improvvisamente il quadro, per quanto ancora puramente ipotetico, gli era parso già molto chiaro.

 

Ridolfo non aveva esitato un solo istante a seguire alla lettera il messaggio di Gentile, che l'aveva avvisato appena in tempo di quello che stava accadendo in Perugia.

Si era travestito come meglio aveva potuto, in modo da fingersi un religioso, o, quanto meno, un penitente, e poter raggiungere senza pericoli il monastero di Santa Maria degli Angeli. Avrebbe preferito andare a Bastia, dove immaginava che Gentile fosse andato, ma aveva dovuto scegliere il posto amico più vicino.

Il monastero, però, per quanto amichevole, si era dimostrato un luogo inadatto a nascondersi. Nel giro di poche ore, infatti, gli era stato spiegato che non era il caso che rimanesse lì, perché si trattava di un rischio troppo grande, per dei poveri monaci.

Ridolfo non si era perso d'animo e si era fatto dare un cavallo. Prima di sera, aveva riparato a Cannara e da lì, tentando di riordinare le idee, aveva fatto quanto era in suo potere per scoprire chi era sopravvissuto e chi si era sporcato le mani di sangue.

 

Alfonso, finito di cenare, si era alzato da tavola e aveva fatto un cenno a Lucrecia. Era una serata bellissima, tiepida, profumata, la maggior espressione dell'estate, perfetta conclusione di un 15 luglio baciato dal sole e benedetto da una leggera brezza che profumava quasi di mare.

Non aveva alcuna voglia di lasciare la sua sposa, ma, negli ultimi giorni, anche su pressioni fatte da Sancha, aveva permesso che restasse al palazzo del padre, in modo da dedicare al papa le cure che ancora sosteneva di necessitare. Nel frattempo, gli aveva promesso la moglie, avrebbe cercato di far breccia nel cuore del Santo Padre, prodigandosi per propugnare la causa aragonese e far sì che lui stesso facesse sì che re Luigi rinunciasse – o almeno ritardasse – la conquista di Napoli.

“Devi restare qui anche stanotte?” chiese, comunque, guardando negli occhi la sua sposa.

La ventenne abbassò lo sguardo e poi, scuotendo piano la testa, sussurrò: “Lo sai che lo faccio anche per noi.”

Il marito, di appena un anno più giovane, sospirò e poi, facendo un breve cenno d'assenso, concordò: “Lo so.” poi soggiunse: “Ti saluterò il nostro piccolo Rodrigo.”

Lucrecia gli dedicò un breve sorriso e poi, dopo avergli dato un breve bacio sulle labbra, si raccomandò: “Stai attento per strada. Fai la via più breve, non attardarti. Roma di notte mi ha sempre fatto paura...”

“Devo solo andare a Santa Maria in Portico.” minimizzò lui: “E poi con me c'è Tommaso.”

Il riferimento a Tommaso Albanese, loro gentiluomo di camera, parve rassicurare un po' la Borja, che, come a volersi convincere ancora di più, soffiò: “E oltre a lui c'è anche lo staffiere, vero?”

“Sì.” annuì l'Aragona, prendendole la mano: “Starò attento, come sempre, te lo prometto.”

Dopo essersi salutati ancora un paio di volte, ed essersi scambiati qualche bacio più profondo di quanto l'etichetta vaticana avrebbe voluto, i due finalmente si separarono e, congedatosi da tutti gli altri, eccetto Cesare, che in quel momento non era più nel salone, Alfonso lasciò il palazzo vaticano e scese in strada.

I due che l'accompagnavano, per fortuna, stavano in silenzio come lui. Camminavano tutti e tre a passo lento, guardandosi attorno pensierosi. Affiancarono distrattamente i gradini di San Pietro, su cui stavano adagiati, per dormire, alcuni pellegrini e penitenti accorsi a Roma per il Giubilieo straordinario, nella speranza di veder perdonati tutti i loro peccati.

Alfonso trovava di una tristezza infinita, vedere tutti quei devoti costretti a dormire all'addiaccio perché troppo poveri per pagarsi un alloggio. Specie perché sapeva che molti di loro avrebbero speso i loro pochi denari per comprarsi assoluzioni e promesse di un posto in Paradiso, andando a rimpinguare ancora di più le casse del papa, che avrebbe speso buona parte di quei soldi per fare feste, pagare le proprie amanti e fare costosi regali a parenti e amici.

L'Aragona, distaccatosi senza rendersene conto, di qualche passo da Tommaso e dallo staffiere, si trovò a un certo punto abbastanza isolato, più o meno nel centro della piazza. Aveva smesso di fissare i pellegrini dormienti, e si era immerso nei propri pensieri, perciò non si rese subito conto di quello che stava accadendo.

Albanese e lo staffiere, che gli stavano dietro, si resero conto meglio di cosa stesse succedendo, tanto che, nel vedere alcuni dei presunti penitenti alzarsi di scatto dalle scale e avvicinarsi a loro, colmarono in fretta la distanza che li separava dall'uomo che avrebbero dovuto proteggere a costo della vita.

Solo a quel punto anche Alfonso diventò cosciente della situazione: erano circondati.

Al primo bagliore di spada, il napoletano sguainò immediatamente quella che portava al fianco e si mise sulla difensiva. Sapeva di non avere vie di scampo e la differenza numerica era evidente, ma, con l'educazione militare che aveva ricevuto, sapeva anche di essere un combattente abbastanza valido da poter vendere cara la pelle.

I suoi assalitori se ne resero conto molto in fretta: pur essendo tutti concentrati su di lui, in un primo momento nessuno riuscì ad avvicinarglisi abbastanza da fargli male. Dopo poco però, Alfonso dovette cominciare a piegare il capo all'inevitabile.

Via via sempre più punti di spada arrivavano a lambirlo, tagliandogli le maniche del giubbone, facendogli perdere il manto, riducendogli a pezzi il saione ricamato. Dopo la stoffa, restava solo la pelle. Tagliata anche quella, l'Aragona cominciò a sentire il proprio sangue sgorgare dalle ferite, prima superficiali e sopportabili e poi, man mano che cresceva la sua fatica nello star dietro a tutti quegli assalti, più profonde e dolorose.

Alla fine, massacrato, colpito ripetutamente soprattutto alla spalla, alla testa e a una coscia, il napoletano crollò in terra.

In lontananza, Alfonso sentiva il nitrite e lo scalpitare di cavalli. Poteva immaginare che fossero per lui. Si poteva già immaginare legato alle loro code, trascinato, più morto che vivo, verso il Tevere, per poi trovare l'oblio tra le acque crudeli e impetuose del fiume.

Lo staffiere, però, che dopo essere stato mandato in terra era stato quasi dimenticato dagli aggressori, si stava riprendendo, e stava già gridando aiuto, invocando il soccorso di chiunque lo avesse sentito. In uno slancio di coraggio, anzi, si frappose tra gli assalitori e il suo signore, prendendolo, come riuscì, di peso e cominciando a trascinarlo verso il palazzo di Santa Maria in Portico.

Tommaso Albanese, similmente, ripresa in pugno la spada, si fece coraggio vedendo il coraggio del proprio compagno e gli coprì subito la ritirata.

Gli aggressori, sorpresi da tanto ardire, ebbero un momento di esitazione sufficiente a permettere ai tre di allontanarsi abbastanza da non essere più sotto tiro.

Santa Maria in Portico, però, allo staffiere non parve un posto sicuro: troppe ombre si muovevano nella notte, troppi bisbigli facevano eco al soffiare del vento fresco che spirava verso le colline.

“Dobbiamo tornare in Vaticano!” gridò l'uomo, quasi senza fiato, le mani ormai intrise di sangue, mentre trascinava con fatica il suo signore, quasi privo di sensi.

Albanese non perse tempo a parlare, invertendo subito la rotta, e preparandosi a riaffrontare gli assalitori, che stavano già per tornare alla carica. Li affrontò con eroismo, scoprendosi uno spadaccino ben più abile e talentuoso di quanto avesse mai creduto. L'impronta militare che aveva dato alla sua vita si stava esprimendo per intero quella notte, e non avrebbe potuto essere più fiero di se stesso.

Erano arrivati alle porte del Vaticano. Tommaso gridava, lo staffiere gridava, e Alfonso gemeva.

Albanese riuscì a far ruzzolare in terra l'uomo con cui stava duellando, ma se ne vide arrivare addosso altri due: sapeva che non avrebbe retto ancora a lungo.

“Aprite! Aprite, per Dio!” sbottò di nuovo, mentre lo staffiere, proteggendo l'Aragona con il suo stesso corpo, gli faceva eco.

Finalmente, seppur con un colpevole e sospetto ritardo, le porte del palazzo si spalancarono. Bastò il primo oscillare dei battenti per far cessare ogni ostilità e far scappare i misteriosi figuri che avevano attentato alla vita del marito di Lucrecia Borja, figlia prediletta del papa.

Al palesarsi delle prime guardie papali, mentre il povero Alfonso veniva trascinato dentro, seguito da una scia di sangue in terra, le ombre assassine erano già svanite nella notte di Roma.

Portato a braccia dai soldati di suo suocero, Alfonso si trovò davanti alla porta del salone in cui sua moglie era ancora a colloquio con il papa. La cercò con lo sguardo, benché avesse la vista appannata, e solo quando la vide si sentì più tranquillo. Comunque fosse andata, si diceva, mentre il suo corpo si faceva sempre più debole e il suo respiro fiacco, aveva fatto in tempo a rivederla.

La donna, non appena lo riconobbe, mentre tutti gli altri presenti vociavano e si accalcavano per vedere cosa fosse accaduto, si precipitò verso di lui, chinandosi sullo sposo quasi esangue.

“Sono stato ferito...” le sussurrò con sicurezza l'Aragona, gli occhi azzurri che perdevano man mano lucidità: “E so anche chi è stato...”

L'uomo stava per fare il nome, ma la Borja, sopraffatta dal dolore e dallo spavento, crollò svenuta accanto a lui.

Troppo debole, per colpa di tutto il sangue che aveva perso, appena dopo aver soffiato tra sé il nome del suo reale aggressore, anche Alfonso perse i sensi.

“Presto!” gridò a quel punto il papa, più spaventato di tutti, non capendo cosa fosse accaduto di preciso, né chi avesse voluto attaccare in modo simile la sua famiglia: “Portatelo nei miei appartamenti! Non possiamo sperare di portarlo vivo fino al suo palazzo! Chiamate i medici! Portate qualcosa anche per mia figlia!”

Lucrecia, in realtà, mentre Alfonso veniva di nuovo issato di peso e portato via, lasciandosi alle spalle una scia di sangue, si stava già riprendendo. Non aveva potuto sentire il nome sussurrato da suo marito, ma non le serviva. Sapeva che c'era solo una persona, a Roma, capace di una cosa simile.

Cercò suo fratello Cesare, tra i presenti, e non lo trovò. Quel fatto andò solo a confermare i suoi sospetti.

Superato in parte lo scoramento iniziale, Lucrecia cominciò in fretta a ragionare lucidamente. Fin da piccola, dietro al suo aspetto ingenuo, a tratti etereo, si era sempre celata la capacità di pensare in modo freddo, se necessario.

“Padre – disse al papa, mentre Alfonso, ancora privo di sensi, veniva adagiato sul letto che gli era stato concesso – voglio dei medici qui al capezzale di mio marito, e almeno sedici guardie fuori dalla porta, e voglio anche convocare subito l'ambasciatore di Napoli.”

“L'ambasciatore di Napoli?” domandò, un po' stranito, il Santo Padre.

“Questo ho detto, e questo voglio.” annuì la ragazza, senza che la sua voce tremasse o il suo sguardo vacillasse.

Rodrigo era spaventato, non poteva definirsi altrimenti, e vedere sua figlia così decisa nel chiedergli quelle tre concessioni gli diede la forza di comportarsi come ci si sarebbe aspettati da un uomo della sua età e della sua stazza.

“E sia, avrai quello che chiedi.” concluse il pontefice.

“E voglio la licenza di chiamare da Napoli medici e cerusici per quanti me ne serviranno.” e poi, intercettando lo sguardo terrorizzata della cognata, concluse: “E Sancha starà con me al capezzale di mio marito Alfonso.”

Alessandro VI non trovò nulla da ridire, e, andandosene per dar ordine che tutto venisse fatto come sua figlia voleva, lasciò le due donne da sole con il ferito.

“Cosa gli hanno fatto...” sussurrò, affranta l'Aragona.

“Chiediti piuttosto cosa ci hanno fatto.” la corresse Lucrecia, che, pur sentendosi già scottare di febbre per il nervosismo e la paura, si sentiva pronta come non mai a difendere con le unghie e con i denti l'uomo che amava: “Ce lo volevano uccidere, ecco cosa ci hanno fatto.”

 

Era passata la notte, e Grifonetto Baglioni cominciava a perdere il lume della ragione. Sua madre, Atala Baglioni, l'aveva maledetto, quando aveva saputo dalle sue stesse labbra quello che aveva fatto. Aveva invocato su di lui la peste e la morte e poi l'aveva affidato alla moglie, Zenobia Sforza, pregando Dio che lei sapesse essere più misericordiosa.

Si diceva che Giampaolo Baglioni avesse già radunato l'esercito, a San Martino in Campo, e che stesse marciando con ottocento cavalli e una marea di fanti tra Cannara e Bastia Umbra, radunando gli altri Baglioni sopravvissuti e il popolo, pronto a insorgere contro quelli che avevano cercato di destabilizzare Perugia. Addirittura si diceva che perfino Vitellozzo Vitelli e i suoi famigerati cavalieri lo affiancassero, in nome della loro amicizia.

Grifonetto aveva la sensazione di essere prossimo alla follia. Girolamo degli Arcipreti e Carlo Baglioni erano già scappati, ma lui era come paralizzato dalla paura.

Sorse il sole e, in breve, si venne a sapere che Giampaolo era a Porta San Pietro, anzi, che gli era stata proprio aperta dalla popolazione, e che, anzi, gliene si stava aprendo una seconda, e che una volta in città tutti i perugini gli stavano facendo quadrato attorno.

Il Baglioni, desideroso di vendetta, non si stava limitando ad arruffianarsi il popolo con facili promesse, ma stava anche mostrando il suo pugno di ferro, per scoraggiare qualsiasi furberia. Dopo aver decapitato un uomo accusato di aver rubato il cavallo del defunto Astorre Baglioni, provò a uccidere Giovan Francesco della Cornia, e questa notizia diede l'impulso finale a Grifonetto.

Saputo dell'accaduto, infatti, l'uomo lasciò il suo nascondiglio, e uscì per strada. Era vestito in modo troppo appariscente, troppo riconoscibile: un giustacuore costosissimo, la berretta con le gemme che rilucevano al sole del 16 luglio, le brache della miglior stoffa che si potesse trovare a Perugia...

Era arrivato alla strada per Sant'Ercolano, vicino all'Ospedale della Misericordia, quando la sua fuga terminò di colpo. Come in un incubo, si trovò davanti all'improvviso Giampaolo.

“Non voglio macchiarmi del sangue di un mio parente!” gridò il Baglioni, guardando quelli che lo seguivano e occhieggiando verso i curiosi che osservavano la scena dalle finestre socchiuse delle case: “Saranno i miei soldati a fare quello che si deve.”

La salita per Sant'Ercolano a Grifonetto sembrava un Golgota privato. Si era accorto di aver bagnato le brache, ma non gli importava. Avrebbe voluto solo scappare, poter spiccare il volo e sottrarsi a quello che gli stava per capitare. E invece le sue gambe nemmeno si muovevano.

“No! Grifonetto, no!” la voce di Atala Baglioni, la madre che l'aveva maledetto la sera prima, ora gli arrivava alle spalle come una freccia: “No, vi prego! Non uccidetelo! Uccidete me, non lui!”

L'uomo si voltò appena, vedendo la madre e la moglie che correvano disperate verso di lui, in lacrime e spossate.

Quando tornò a guardare verso Giampaolo, che, a cavallo, lo sovrastava, fece appena in tempo a vedere i soldati del parente avventarglisi addosso, e in un istante appena si trovò a terra, ferito e massacrato da pugni e calci.

Non capiva perché non fosse ancora morto. Sentiva le gambe spezzate e il respiro gli usciva dalle labbra flebile come un refolo di vento di primavera.

“Grazie, fratello.” sussurrò a quel punto Gentile Baglioni, con un cenno di intesa a Giampaolo.

Il prete, vestito di scuro e con un grosso crocifisso al collo, si fece prestare una spada da uno dei soldati e poi, avvicinandosi a Grifonetto, che restava in terra, immobile, si fece il segno della croce.

Senza dire una parola, ma sospirando rumorosamente, Gentile sollevò l'arma e la piantò nel centro del petto di Grifonetto con tutta la forza di cui era capace.

Atala e Zenobia gridarono, la folla esplose di giubilo, e il giustiziato emise un breve gemito, e poi reclinò il capo e spirò.

“Portatelo in piazza.” ordinò subito Giampaolo: “Che tutti lo deridano, gli sputino e lo vedano spogliato dai sui begli abiti.”

Insensibile ai pianti di Zenobia e Atala, il Baglioni fece cenno ai suoi uomini di sbrigarsi. Alla fine, l'aveva già deciso, avrebbe concesso a quel suo disgraziato parente una sepoltura degna, magari a San Francesco al Prato, ma prima doveva sfruttare al massimo la sua morte, in modo che nessuno, in Perugia, la scordasse mai.

 

Quel giorno a Caterina il cibo sembrava più scarso del solito. Che lei lo volesse o no, il suo corpo stava reggendo a quella strana malattia, e il suo stomaco reclamava con sempre maggior forza di essere riempito.

Stava aspettando ormai da un po' che il carceriere venisse a ritirare la ciotola vuota e le portasse dell'acqua. Aveva capito che era stato uno dei medici che era andata a curarla, a farle avere una fornitura così costante di liquidi, tuttavia non poteva non vedere in quei cerusici la longa manu del papa, e tanto le bastava per odiarli.

Era ormai arrivata la sera, dalle feritoie che davano sul cortile era scesa solo della polvere per tutto il pomeriggio, e la Sforza aveva tossito molto più del solito. Si sentiva stremata. Aveva sete, era stanca, ma aveva paura ad addormentarsi. Non solo perché temeva di non risvegliarsi, ma anche perché ogni volta in cui si era assopita, negli ultimi giorni, aveva rivisto Ludovico Marcobelli, e non voleva che accadesse più.

All'improvviso, nell'oscurità più totale, sentì muoversi il chiavistello della porta, e la luce di una torcia l'accecò per qualche istante.

Uno dei suoi carcerieri era entrato a prendere la ciotola, e le aveva lasciato una piccola quantità d'acqua in un secchio.

“Siete in ritardo.” disse la donna, sollevando appena il mento.

“Sapeste che giornate, in Vaticano...” borbottò l'uomo, che ancora poteva sentire le urla concitate di quando Alfonso d'Aragona era stato portato al palazzo del papa martoriato di colpi.

La cosa peggiore, era che in molti cominciavano a sospettare proprio del Duca Valentino, e lo stesso pontefice, si diceva, guardava al figlio con sospetto crescente.

Caterina avrebbe voluto chiedere cosa stesse accadendo di preciso in Vaticano, ma la mente non era abbastanza fredda, in quel momento, per permetterle di tirare dalla sua parte il carceriere e farlo parlare.

Anzi, in modo molto aggressivo, gli disse, avvicinandosi all'acqua: “Volevate farmi morire di sete, vero?”

“Con tutto il rispetto, Madonna – fece allora l'uomo, con un velo di compatimento che ferì la Tigre più di qualsiasi altra cosa – ora come ora credo che al Santo Padre che voi moriate o viviate interessi davvero poco... Non fate più paura, e la vostra malattia potrebbe portarvi alla tomba prima che il papa anche solo pensi a che scrivere sulla vostra pietra...”

La Sforza ebbe, forse per la prima volta, la reale percezione di quanto, probabilmente, davvero ormai fosse stata dimenticata perfino dai Borja.

Colta dallo sconforto più profondo che avesse mai conosciuto, chiamò a sé tutte le sue forze per slanciarsi appena verso il carceriere e afferrarlo per il lembo del camicione: “Vi prego, mi supplico...”

L'uomo, che aveva sempre sentito parlare della Leonessa come di una sorte di erinni, rimase attonito davanti al suo tono lamentoso e alle lacrime che le inumidivano il volto sporco e segnato da scurissime occhiaie.

“Vi prego...” sussurrò di nuovo lei: “Fate una cosa per me...”

“Cosa?” domandò lui, guardingo, strappando via la stoffa dalla debole stretta della prigioniera.

“Chiedete al papa di concedermi l'olio degli infermi...” disse lei.

Il carceriere schiuse le labbra e alzò appena le spalle, pronto a dire che non spettava a lui, veicolare un simile messaggio.

“Non voglio più dottori! Non ne voglio più!” la voce della Tigre si era fatta appena più sicura e ferma, mentre proponeva: “Ditelo al papa: non voglio più che spenda soldi per me. Non mi servono altre cure per il corpo. Sto morendo, questo l'ho capito. Voglio curare la mia anima. Questo, un papa, dovrebbe capirlo. Chiedetegli di farmi avere l'unzione, chiedetegli che mi mandi frate Lauro e Francesco Fortunati ad amministrare l'unzione... Questa è l'ultima cosa chiedo. Non voglio più medici, ma solo il balsamo dell'anima, ma da parte dei miei confessori.”

Il carceriere ci ragionò sopra un istante. Non gli sembrava una richiesta strampalata, anzi. Come cristiano, l'apprezzò molto.

“Lo farò.” promise: “Ma non posso garantire che il papa vi accontenterà.”

La Leonessa lo benedisse e poi scoppiò in un pianto strano, dirotto e disperato, ma in un certo senso liberatorio. Mentre la porta si richiudeva, ripiombandola nel buio, la donna si accoccolò per terra, tossendo e piangendo, senza sapere nemmeno lei il perché di una simile reazione.

Quando il giorno dopo non vide arrivare nessun medico a visitarla, come invece accadeva di norma, cominciò a sperare che la sua preghiera fosse stata esaudita.

Lo stesso Rodrigo, una volta, le aveva fatto presente che loro due erano simili. In effetti Caterina rivedeva molto i suoi stessi atteggiamenti nel papa, in quel frangente. Anche lei avrebbe sospeso immediatamente le visite mediche, prendendosi tempo per ragionare. Forse sarebbe passato qualche giorno ancora, ma, alla fine, sapeva che Fortunati e frate Lauro sarebbero arrivati nella sua cella.

Con quella speranza inossidabile, la Tigre si fece forza e si impose di non morire finché non avesse potuto parlare con entrambi. Quella, ormai, era l'unica cosa che potesse ancora fare per portare a termine l'ultima missione della sua vita: cercare di salvare suo figlio Giovanni.

   
 
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