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Autore: BenniBennis    19/10/2020    0 recensioni
Un’estate dal profumo di cambiamento, l’amore che quando arriva non lo fa mai senza creare danni, amicizia, famiglia, danza, divertimento, intrighi, litigi, scelte. Quella che era nata come una vacanza diventerà un’esperienza unica per una giovane venticinquenne desiderosa di dare una svolta alla sua vita. Ma non sarà facile gestire i cambiamenti.
“Nell'ansia che ti perdo ti scatterò una foto”.
Prima Originale a capitoli, ci ho messo il cuore, spero apprezziate :)
Grazie.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 2 – Primi incontri
 
 
Mi svegliai come spesso capitava anche nei primissimi giorni al Nord, chiedendomi dove mi trovassi, perché quelle bianche pareti erano diverse dalle bianche pareti del mio appartamento di Venezia. Qui il soffitto era più alto e le crepe sull’intonaco agli angoli del soffitto non c’erano.
Quando spostai gli occhi al resto della camera, allora ricordai, e non riuscii a trattenere un sorriso. Felice, nonostante non avessi ancora fatto niente mi ero svegliata felice, con il piede giusto, e se il buongiorno si vedeva dal mattino, allora la giornata sarebbe stata magnifica.
Poggiai una mano sul cuscino ed una sulle labbra, senza far niente, senza pensare, solo godendomi il silenzio della mattina in un’atmosfera che mi sembrava paradisiaca. Non dover sentire la sveglia e potermi alzare quando mi pareva senza l’ansia di correre a lavoro, già era una bella sensazione. Infatti non sapevo che ore fossero, tardi o presto poco era importante, perché ero in vacanza, e potevo fare quello che desideravo, e quando desideravo.
La sera prima ero crollata sul letto con l’obiettivo di rilassarmi un po’ dal viaggio, ma avevo finito per addormentarmi subito, ancora completamente vestita. Mi aveva fatto aprire gli occhi un bussare alla porta, e insieme a me si era svegliato anche lo stomaco, chiedendomi da mangiare; in effetti era da mezzogiorno che non mettevo qualcosa di decente sotto i denti. Era mio padre, passato subito a salutarmi dopo aver smontato da lavoro ed aveva portato con sé un bel pezzo di schiaccia toscana e delle fette di prosciutto crudo. Li avevo accettati molto volentieri dato che in cucina non avevo niente, così ero tornata a letto a stomaco pieno, struccata e con un pigiama addosso. Non ero riuscita, sempre il giorno precedente, a disfare nemmeno una valigia o andare a comprare qualcosa; ero troppo stanca. Mi ero limitata a fare un brevissimo giro dell’appartamento che mi era stato assegnato, rimanendo anche abbastanza contenta del luogo in cui avrei vissuto per i successivi mesi. Non era male ed era compatto, come piaceva a me : le stanze erano tre, un bagno di tre metri quadrati, la camera da letto che conteneva a stento un letto matrimoniale, un armadio a due ante e spazio per camminare a raso muro, ed una sala di medie dimensioni che comprendeva salone, cucina e un angolo con un piccolo televisore.
Stare nel letto era una delle cose che amavo di più, ma avendo svariate cose da fare, mi alzai scostando irruentemente il lenzuolo dal corpo e uscii di camera, spalancai la tenda sull’unica finestra della più grande stanza e lasciai entrare una luce accecante. Sbirciando fuori notai che anche il cielo era dalla mia parte, ancora più limpido e chiaro del giorno precedente. Sorrisi ancora allegra e mi mossi verso il bagno; la doccia mi richiamava, ma avrei prima disfatto le valigie.
Aprendo uno dei due trolley ringraziai il fatto che l’armadio fosse molto ampio, dato che ciò che avevo selezionato per quell’estate era quasi il mio guardaroba intero. Dalle mie mani alle grucce passavano le numerose lunghe gonne che proprio non ce l’avevo fatta a lasciarle a casa, vestiti estivi, le camicie smanicate e le canottiere colorate, il gran numero di jeans corti e lunghi, e i pochi pantaloni di leggero cotone; sul fondo della valigia, una felpa in caso di freddo o umidità e ciò che avevo preso con grande emozione, immaginando il momento in cui lo avrei indossato: un abito lungo alla greca color rosa confetto. Vedendolo in un grande magazzino al centro di Venezia, me ne ero innamorata e l’avevo portato in camerino senza badare nemmeno al prezzo; quando poi me l’ero visto addosso, avevo davvero perso la testa. Ero uscita di corsa con il capo tra le braccia e mi ero precipitata alla cassa, spaventata come se qualcuno lo potesse prendere al mio posto. Ciò che provavo per gli abiti lunghi era vero amore.
Nemmeno fosse un vestito da sposa, presi una stampella e lo appesi con molta cura, attenta a non fargli prendere minime pieghe. Sistemata la valigia, passai alle scarpe, allineandole di fianco al guardaroba; nemmeno con queste mi ero risparmiata: un paio di sandali alla schiava, uno d’infradito, stivaletti bassi estivi e due paia di tacchi, uno nero e vertiginoso, da abbinare all’abito greco.
Svuotai infine la sezione bagno, buttando qua e là sulle mensole i vari prodotti, nel mio caratteristico disordine: se non fosse stato per le sgualciture, anche i vestiti sarebbero finiti dove capitava. Era un lato del mio carattere, che alla perfezione si rifletteva sui sentimenti, sui pensieri e sulle emozioni. Ciò che provavo e pensavo la maggior parte delle volte non aveva né capo né coda, era tutto confuso ed ingarbugliato, rendendo difficile la mia capacità di creare una relazione stabile.
Con un sospirone mi guardai intorno e cercai un posto dove mettere le borse. Due minuti dopo ero in equilibrio precario su una sedia, allungandomi e dannandomi per far stare i due trolley vuoti sulla parte superiore dell’armadio, sentendomi tanto un clown circense.
Nemmeno se fossi in un film, tre tocchi pesanti si posarono sul vetro opaco della porta principale, e spaventata dal rumore nel silenzio, sobbalzai, perdendo altro equilibrio dalla seduta. Grazie al cielo c’era il cornicione del mobile e mi mantenni ad esso. Solo dopo aver insultato a fior di labbra il visitatore mattutino, scesi con i piedi per terra e mi diressi all’entrata. Il tempo che l’ospite battesse ancora tre volte, che io urlassi “eh, un attimo, arrivo!”, riflettessi che fossi ancora in pantaloncini extracorti del pigiama e finissima canottiera e prendessi una pinza e la sistemassi alla bell’e meglio in testa, arrivai all’uscio ed aprii di scatto. Il sorriso di benvenuto che aveva messo si smontò in circa due secondi. Chissà che prima impressione le feci, ma non sicuramente ottima.
«Ehm…» arrancai. «Buongiorno.»
Sbatté più volte le palpebre dalle lunghe ciglia passate con il mascara, poi rimontò il sorriso.
«Ciao.» rispose. «Tu devi essere Margherita.»
Superato il primo strato di rabbia, si spaziò in me la vergogna.
«Sì…» sussurrai. «E lei…?» aggiunsi quando vidi che non proseguiva nel discorso.
«Oh!» esclamò ridendo. «Che sbadata, scusami.» allungò una mano dalle dita affusolate e dalle corte unghie smaltate. «Io sono la direttrice.»
Allora sì che la vergogna aumentò e affogò tutte le parole nella mia mente. La direttrice, lì davanti a una me in pigiama. E le avevo anche risposto male. Una perfetta prima presentazione, no?
Non seppi con quale forza, ma allungai anche la mia mano destra e gliela strinsi; mentre la sua presa era forte, quasi maschile, la mia era debole e tremante. Abbassai gli occhi e li fermai ad osservare il Rolex femminile che aveva, stranamente, al polso destro.
«Ti ho svegliata, vedo.» disse ritirando la mano svelta, come irritata dal mio sguardo.
«Io?» chiesi alla sprovvista. «No! Voglio dire, no, stavo sistemando la mia roba. Non hai dato fastidio… Cioè! Non ha dato fastidio.» corressi subito.
Volevo sprofondare in quel momento, oppure ritornare dentro, e come una scena recitata, chiedere un nuovo ciak e girare la parte in miglior modo.
Rimanemmo in silenzio, io mi fissavo i piedi scalzi e facevo giocare le dita per evitare di guardare quella donna negli occhi. Pensai però che non l’avevo nemmeno inquadrata fisicamente, e per evitare di fare altre cattive figure come non salutarla per strada perché non l’avrei riconosciuta, la guardai dritta in faccia, anche se era poco carino. Il viso era scoperto dai capelli ricci biondo cenere tirati su da un paio di lenti da sole, e gli occhi piccoli color nocciola leggermente all’ingiù risaltavano sulla faccia grazie al trucco luminoso; sotto di essi un naso piccolo e schiacciato e un paio di labbra olivastre e sottili; aveva la pelle scurissima, come molto abbronzata, e piena di macchie del colore delle labbra. Adesso non sarebbe stata difficile da dimenticare.
«Bene, ero passata per darti il benvenuto.» si sforzò di sorridere.
«La ringrazio.» combattei contro il “tu” che volevo per forza rivolgerle. «È molto gentile da parte sua.»
«Ma figurati.» e il sorriso che in quel momento fece era sincero, lo si poteva vedere. «Forza, non ti rubo altro tempo, avrai tanto da fare.»
Incapace di rispondere, annuii come una stupida e la lasciai allontanare; scese le scale e scomparve dalla mia vista. Non persi tempo e sbattei la porta alle mie spalle, poggiandomi ad essa e alzando gli occhi al cielo. Non l’avevo salutata, non l’avevo ringraziata per il soggiorno gratuito, mi ero presentata poco carinamente, vestita come una poco di buono.
«Che figura di merda.» mormorai con le mani sugli occhi. «Ma la giornata non doveva andare bene?»
Chiusi la porta a chiave e andai alla doccia, che sentii come se mi aspettasse a braccia aperte almeno lei in modo accogliente. Uscii dopo poco, con l’obiettivo di andare a fare un po’ di spesa generale e non perdere altro tempo inutilmente. Afferrato un asciugamano morbido e profumato già sistemato nel bagno prima del mio arrivo, lo arrotolai intorno al corpo accaldato e lo fermai di lato; gli occhi mi scapparono al piccolo orologio da comodino mentre mi vestivo, e vedere che era la mezza aumentò la velocità della mia preparazione. Presi al volo la copia delle chiavi dell’auto che mi aveva lasciato papà la sera prima insieme alla cena e mi precipitai fuori; fui costretta a tornare indietro perché dimenticai di chiudere l’appartamento.
 
Fare compere non era stato certo bellissimo, ma almeno con esse ero riuscita a cucinarmi un piatto di pasta con un condimento di pomodoro proprio niente male, e sonnecchiare a stomaco pieno era sempre gradito.
Fui svegliata dopo poco che mi ero messa a letto. In realtà il solito orologio, mi diceva che erano già le cinque e mezza. Anche questa volta, come era successo in mattinata, fu la porta a rompere il mio sonno, ma adesso risposi in modo più garbato e strofinai gli occhi prima di aprire l’uscio. Per fortuna era solo mio padre.
«Strega.» sorrise a mo’ di saluto.
«Ehi, ciao.»
«Riposavi? Scusa.» disse deluso, sostituendo il sorriso con un broncio.
«Guarda che hai fatto bene, sennò continuerò a passare le giornate a letto.» scherzai mantenendo una risata tra le labbra. «Vai a lavoro?»
«Sì.» rispose semplicemente. «Senti una cosa.»
Sapevo che quando diceva in quel modo non avrei sentito un bel niente, perché era un modo suo per farmi capire che mi avrebbe fatto capire qualcosa senza le parole. E infatti, allungò gli occhi alla porta accanto alla mia, aspettando una mia reazione.
«Sì, stamattina.» intuii. «Ho fatto una figuraccia assurda. Credo che ti farò passare come il cuoco con una figlia scostumata.»
«E come mai?» si rabbuiò.
Gli feci cenno di entrare ma lui rifiutò dicendo che aveva pochissimo tempo per me, era passato solo per un saluto. Così, poggiandomi allo stipite di alluminio, gli raccontai brevemente dell’incontro della mattinata in tutti i particolari e in completa sincerità.
«Ma figurati.» scherzò. «E’ una donna molto divertente, se la si scopre a fondo. Stai tranquilla che non valuterà male questa prima visita.»
«Speriamo.» masticai trai denti.
Dopo avermi chiesto se avevo bisogno di qualcosa, si congedò con un “Ciao, ci vediamo stasera, se non dormi”. Annuii, e stavo già per rientrare in casa, quando invece mi richiamò di nuovo.
«Perché non ti vai a fare un giro? Qui, intendo. Vedi un po’ il posto, no? Sennò quando? C’è il mare ed altro, mica puoi “passare le giornate a letto”?» mi citò con un sorriso.
Non ci pensai nemmeno, feci ancora di sì con la testa, poi andò via davvero. Avevo risposto un po’ di getto, non avevo nemmeno badato alla domanda, e una volta dentro che davvero avevo bisogno di andare in esplorazione, di conoscere gente. Se non ora, quando? Avrei aspettato altre settimane, per poi rimpiangere di essermi goduta poco la vacanza? No.
Infilai nuovamente i sandali alla schiava, presi gli occhiali da sole e li posai in testa in modo da fermare i lunghi capelli sciolti; ero struccata, ma non me ne importava, perché secondo tanti il mio viso al naturale faceva invidia ai più bei make-up visti in giro. Così dopo una veloce spazzolata alla chioma quasi indisciplinata che avevo in testa uscii ancora dalla piccola casa e scesi le scale con una sorta di forte adrenalina nelle vene. Quella sarebbe stata una parte della mia vita, diversa dalla monotonia, dal lavoro e dalla vita rigida che affrontavo da tanto, e me la sarei goduta; quel giorno si dava il via alle danze.
Percorsi il vialetto principale scendendomi ed allontanandomi dunque dal cancello d’entrata con le margherite, diretta verso il parcheggio interno alla struttura, circondato su tre lati da alti alberi dalle foglie chiare; arrivata ad esso, notai che il canneto che avevo di fronte casa finiva di getto, e alle sue spalle si rivelavano due campi da tennis, al momento vuoti e silenziosi, con le racchette raccolte in un angolo e il verde tappeto ad abbrustolire sotto il sole tardivo.
Avanzai ancora, oltrepassai le auto ferme e scoprendo allora un’altra specie di entrata, però senza cancelli automatici, solo un piccolo archetto di pietre costeggiato da aiuole verdi e di media altezza. Passato l’arco, rimasi meravigliata: davanti a me si estendevano quattro grandi quadrati di prati all’inglese, circondati dalle siepi tagliate anche loro ad altezza uomo; tra l’erba ci passava una strada di pietre grigie e squadrate, e a sinistra dei prati, massicce e dalle persiane bianche, si alzavano case come quella dove alloggiavo io, però in numero maggiore, una lunga fila color pesca. Dall’altra parte, a destra, qualcosa che non riuscivo a capire, così ci andai contro subito. Solo dopo esserci arrivata sotto, capii che si trattava di un palco. Un grande palco con tanto di impalcature laterali e luci, come quelli dei palazzetti per spettacoli; di fronte a esso una grossa distesa di sedie di plastica, e dietro anche degli spalti.
«Però...» mormorai. «Sono attrezzati.»
Per arrivare a tale posto, bisognava passare per una corta stradina a serpentina iniziata da un cancelletto ora chiuso.
Osservai ancora affascinata quella struttura, poi ripresi la mia esplorazione. Ancora in leggera discesa, si arrivava a una strada più grande, che univa le varie vie che camminavano tra i prati precedenti e continuava dritta per un bel pezzo. Era piena di gente, e mi sentii scomparire, passare un po’ in secondo piano, nascondermi; non mi dispiacque a dire il vero, così potevo guardarmi intorno senza essere troppo osservata.
Alla mia sinistra, piscine. Tante piscine, alcune spaziose ed alcune molto piccole. Al loro opposto, un altro edificio, pieno di alte e grandi finestre prive di tende e che permettevano di vedere all’interno alcuni tavoli di legno. Ipotizzai che fosse il ristorante, e che quindi mio padre non dovesse trovarsi poi così lontano da lì.
Mossi un paio di passi verso quella struttura, ma una voce mi fermò facendomi sussultare. Come se fossi colpevole di reato, mi voltai con il cuore in gola, ma mi tranquillizzai non appena vidi che quel “ehi” pronunciato un po’ duramente proveniva solamente da un ragazzo.
«Ciao.» sussurrai indecisa sul tono da prendere.
«Andavi da qualche parte?» domandò avvicinandosi, poi aggrottò lo sguardo e storse la testa di lato. «Non ti ho mai vista prima.»
Bella osservazione, dato che nemmeno io avevo mai visto lui, un ragazzo che in realtà, vedendolo da vicino, pareva essersi inoltrato nella trentina già da un po’.
Quando feci scattare un veloce sguardo al disegno che aveva sulla t-shirt all’altezza del cuore, mi si schiarirono le idee.
«Sei arrivata oggi?» chiese ancora.
«Io…» feci, non trovando le giuste parole per spiegare. «No, in realtà ieri. Però…»
«Ah, ecco! Tanto piacere, io sono Roberto.» sorrise a trentadue denti allungando una mano verso me. «Se ti stanca un nome così lungo, chiamami Robbie. Sono il capo della troupe d’animazione.»
Confermò la mia supposizione, e credei che non era per niente male come prima persona da conoscere.
«Oh, piacere.» sorrisi di ricambio. «Io sono Margherita.»
Forse stringere la mano era un atto abbastanza formale, ma risposi alla sua iniziativa.
«Sono… la figlia dello chef.» sentii di aggiungere, inventando quel nomignolo su due piedi.
Non sapevo ancora che poi sarei stata riconosciuta dal personale per tutta l’estate con quel nomignolo.
«La figlia dello chef?» fece stupito. «E allora il doppio del piacere!»
Scoppiai a ridere, anche se una parte di me si stava vergognando al sentirsi troppo importante, quando in realtà ero una più che normalissima ragazza.
«Scusa, forse stavo andando da qualche parte sbagliata.» indicai dietro di me. «È la prima volta che scendo.»
«Di lì c’è il ristorante.» disse diretto. «E non ci si può accedere in orari come questi. Però credo che per te ci sia una specie di permesso.» rise.
Sorrisi ancora, ma rassegnata e già stanca dell’importanza che mi stava dando lui, così come avrebbe potuto darmi qualsiasi altra persona che avrebbe conosciuto la mia identità. Fuori dalle relazioni da raccomandazione, io ero Margherita e basta. Sapevo cavarmela da sola, non c’era bisogno di un’ala protettiva e potente che mi spianasse la strada.
Mi maledetti per aver aggiunto quella frase dopo il mio nome di fronte a Roberto, di fronte a un perfetto estraneo con il quale potevo iniziare in buon rapporto. E invece gli avevo servito un nomignolo su un piatto d’argento.
«Per… piacere.» aggiunsi un po’ faticando, ma volevo mettere le cose in chiaro prima che fosse troppo tardi. «Io sono Margherita. Non considerare le mie relazioni. Sono una ragazza normale.»
«Ehi!» esclamò allontanandosi di un passo. «Okay, tranquilla. Anzi, scusami, non volevo disturbarti.»
«No, non mi hai fatto male, solo che…» sbuffai. «Niente. Va bene. Solo una cosa: non dire in giro che sono chi sono.» mi resi conto di essermi incartata e di essere caduta nel ridicolo, e ancora volli fare tutto da capo. «Che casino che sto creando. Sembro una stupida bambina.
Mi sedetti sul muretto che costeggiava la stradina per il ristorante e sprofondai il volto tra le mani.
«Margherita.» sentii vicino, e alzando il viso, notai Roberto a pochi centimetri da me, inginocchiato per arrivare alla mia altezza. «Basta. Non devi preoccuparti proprio. Questo incontro è stato tra me e te, stop. Agli altri ti presenterai tu in persona, giusto?»
Annuii, e m’imbarazzai maggiormente riflettendo che stavo facendo un discorso del genere con un ragazzo di cui sapevo solo il nome e il mestiere, ma ero così stufa delle situazioni che mi attribuivano che non ero riuscita a tenermi altro dentro.
«Forza, ora devo andare.» si allontanò molto, poi si voltò verso me. «Per la cucina passa da dietro.»
Gli sorrisi grata e feci già per avviarmi, ma mi fermò con un “mh!”.
«Ci vediamo stasera, allora?»
Storsi il capo e trasformai gli occhi a due fessure.
«Alla Serata Latina. Dai, vieni, ci divertiamo.»
  
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