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Autore: Bibliotecaria    21/10/2020    2 recensioni
In un mondo circondato da gas velenosi che impediscono la vita, c’è una landa risparmiata, in cui vivono diciassette razze sovrannaturali. Ma non vi è armonia, né una reale giustizia. È un mondo profondamente ingiusto e malgrado gli innumerevoli tentativi per migliorarlo a troppe persone tale situazione fa comodo perché qualcosa muti effettivamente.
Il 22 novembre 2022 della terza Era sarebbe stato un giorno privo di ogni rilevanza se non fosse stato il primo piccolo passo verso gli eventi storici più sconvolgenti del secolo e alla nascita di una delle figure chiavi per questo. Tuttavia nessuno si attenderebbe che una ragazzina irriverente, in cui l’amore e l’odio convivono, incapace di controllare la prorpia rabbia possa essere mai importante.
Tuttavia, prima di diventare quel che oggi è, ci sono degli errori fondamentali da compire, dei nuovi compagni di viaggio da conoscere, molte realtà da svelare, eventi Storici a cui assistere e conoscere il vero gusto del dolore e del odio. Poiché questa è la storia della vita di Diana Ribelle Dalla Fonte, se eroe nazionale o pericolosa ed instabile criminale sta’ a voi scegliere.
Genere: Angst, Azione, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Note dell'autrice: Buogiorno! D'ora in avanti cercherò di pubblicare ogni mercoledì, salvo imprevisti o impegni. Vi prego di supportare la storia commentando, salvandola, condividerla e tutte quelle diavolerie.
Grazie dell'attenzione, Biblioteria.

 
3. Sola, non per sempre
 
A casa lentamente si ritrovò un’apparente stabilità e ritorno alle origini, erano pur sempre i miei genitori e per quanto delusi restare adirati troppo a lungo non avrebbe avuto senso per una sciocchezza simile. A scuola invece la situazione divenne stagnante: nei cambi dell’ora correvo da una classe all’altra evitando tutti, non volevo nessuno e nessuno mi cercava, mi stavo chiudendo in un oblio di solitudine che stava sempre di più diventando una fidata compagna, la gente mi guardava e vedeva un mostriciattolo silenzioso, una belva feroce che attendeva paziente di uccidere, fu in quel periodo che iniziai a scrivere regolarmente sul mio nuovo diario, all’inizio erano solo poche frasi di rabbia sconnesse tra loro, ma con il passare dei giorni iniziai a scrivere accuratamente discorsi, sensazioni ed emozioni, anche se lo stile che usavo era decisamente immaturo, tuttavia è necessario iniziare da qualche parte.
Ci vollero poco più di tre mesi perché, nel più assurdo dei modi, ritrovassi la motivazione e la voglia di essere qualcosa in più di un mostriciattolo silente.
 
Era l’ora di pranzo, c’erano le scuole aperte ai ragazzi delle medie, quindi c’era più gente e più rumore del solito e i tavoli erano quasi totalmente occupati, non c’era mezza sedia libera a pagarla oro e per puro caso in quella marmaglia di gente notai due nani e un tritone chiaramente in visita dalla loro scuola venir scacciati dai loro stessi compagni e spediti a sedere in un altro tavolo, quello in cui normalmente sedevano le ragazze del gruppo di danza moderna. Vidi le interessate avvicinarsi ai tre poveretti. Incuriosita o preoccupata da quello che sarebbe successo, mi avvicinai non ostante una parte di me dicesse di girare i tacchi e lasciar perdere, lo avevo fatto finora e tutto stava andando alla grande, perché non continuare a farlo? Per di più mi ripetevo che eravamo nel nuovo millennio, non aveva senso preoccuparsi per queste cose.
“Ehi voi, mezze cartucce.” Disse la capitana appoggiando una mano al tavolo fissando infastidita i ragazzini. “Andatevene. Questo è il nostro tavolo.” I ragazzini si guardarono ma non diedero segno di alzarsi, anzi continuarono il loro pasto. “Siete sordi, oltre che stupidi? Andatevene!” Non si alzarono, ma uno di loro rispose. Io mi avvicinai ancora, intuendo che sarebbe finita male. “Non mi pare che ci sia scritto tavolo riservato. Trovatevene un altro.” All’affermazione di quel ragazzino la ragazza smise di appoggiarsi al tavolo e pose la mano destra sul rispettivo fianco. “Senti tu… coso. Non so come funzionino le cose dalle vostre parti ma dalle nostre se non ci sono posti a sufficienza per tutti, quelli come voi si siedono per terra. Quindi fatelo su hop hop…” Guardai la ragazza con odio: li stavano trattando come dei cagnolini, i più avrebbero detto ragazzate, ma anche io ero una ragazza e sapevo per certo che non ci vuole un niente, appena tre anni, per passare dal bullismo al reato, stavo per dirigermi convinta al tavolo quando una delle ballerine afferrò uno dei ragazzi per trascinarlo via. “No!!!” Urlo il tritone con fare furioso liberandosi dalla presa della ragazza con un unico gesto. Nei tavoli attorno calò il silenzio e tutti si voltarono per un istante. Voi direte che sarò pazza ma in quella singola parola non vidi un ragazzino infastidito, vidi un atto di resistenza al pari di mille parate. “No?” Disse la ballerina. “Molto bene. Tesoro ti dispiacerebbe insegnare a questi marmocchi l’educazione?” Domandò la ballerina. “Certo tesoro.” Leo, il ragazzo chiamato, faceva parte della Squadra titolare ed era del quinto anno, alto un metro e novanta, con le spalle enormi e i muscoli poderosi e fin troppo gonfi per la sua età: un armadio a due ante, non un adolescente, e quei ragazzini avevano tredici anni, massimo quattrodici.
In quel istante percepii qualcosa di simile al fuoco bruciare dentro di me, ogni mio singolo arto si sentì carico di energia e un’impellente desiderio di alzare le mani si impossessò di me. Mollati il vassoio, mollandolo sul primo tavolo che trovai, e mi diressi verso Leo a passo spedito per poi intralciargli la strada. Lo guardai negli occhi e quel fuoco si riversò anche nella mia lingua poiché parlai senza pensare e senza esitazione. “Prenditela con qualcuno della tua taglia.” Decretai e lui rise: ero pur sempre un metro e settaquattro per sessantacinque chili e una femmina, non esattamente un avversario temibile per un energumeno. “Oh… la pazza vuole fare l’eroina. E cosa vuoi fare?” Mi domandò afferrandomi per i baveri della maglia. “Chiamare il tuo paparino? La preside? La mammina?” Scossi la testa con un mezzo sorriso sotto i baffi, curioso come la mente umana dimentichi così in fretta quali sono i veri pericoli. Con uno scatto lo colpii allo stomaco con una ginocchiata, si piegò in due dolorante e io rimasi a guardarlo dall’alto in basso e sperai di non dover arrivare alle maniere forti. Un secondo dopo essersi rialzato mi guardò con ira e, furibondo, tentò di colpirmi con un gancio destro diretto alla faccia, istintivamente gli afferrai il polso con la sinistra, e, dopo aver girato su me stessa e essermelo caricato in spalla, sfruttai il suo disequilibrio per schiantarlo a terra facendogli compiere una parabola a mezz’aria. Mantenni la presa sul polso destro, misi il piede sinistro davanti al suo viso e appoggia il ginocchio sinistro alle sue costole, da lì fu sufficiente attuare una piccola frizione al braccio perché Leo iniziasse a provare dolore per la leva. Sapevo che con un piccolissimo sforzo in più gli avrei spezzato il braccio ma non lo feci, lasciai che il dolore si imprimesse nella sua mente.
“Questo per oggi è il loro tavolo.” Decretai indicando con la testa i ragazzini mentre guardavo le ballerine. “Quindi o tu e le tue amichette vi sedete con loro o questa volta sarete voi a sedervi per terra.” Mollai la presa e mi allontanai da lui. Leo era furioso ovviamente, si alzò, mi guardò con odio e si scaravento su di me urlando. “Brutta piccola…” Ma non concluse la frase perché mi scansai all’ultimo facendogli perdere l’equilibrio e scontrare a un tavolo, a quel punto lo bloccai su di esso afferrandogli il braccio e portandoglielo tra le scapole attuando un’altra leva mentre con la sinistra mi assicuravo che la testa restasse contro il tavolo stringendogli la coppa. “Qualcun altro ha qualche problema?” Domandai mentre mi assicuravo che Leo non si potesse muovere da lì. “Nessuno? No?” Domandai ancora guardando negli occhi la capo-ballerina, per poi guardare negli occhi uno dei tirapiedi di Leo che, come prevedibile, stavano indietreggiando. “Bene.” Decretai lasciando andare il ragazzo. “Fila dal tuo capitano, e non infastidire questi ragazzini.” Decretai iniziando ad allontanarmi. “Tu non…” “Vuoi essere nuovamente umiliato?” Lo interruppi guardandolo negli occhi. “Io ci sto’ ma non vali un decimo del mio tempo.” Dissi tornando a recuperare il vassoio con il mio cibo e sedendomi accanto a quei ragazzini che continuavano a fissarmi increduli. Solo in quel momento tutti si allontanarono senza discussioni e tornarono a farsi gli affari loro.
 
Inutile dire che finii in presidenza. “Nuovamente qui signorina Dalla Fonte?” Mi domandò lei ironica. “Sfortunatamente, sì, signora preside.” Dissi continuando a guardarla dritta negli occhi. “Abbiamo avvisato i suoi genitori del avvenuto, suo padre sarà qui in pochi minuti.” Mi informò la donna continuando a fissarmi, nella mia mente inizia a pensare che mi odiasse nel profondo: pareva godere nel vedermi lì seduta mentre la fissavo senza dire una parola. “Rischia la sospensione, nel peggiore dei casi l’espulsione. Se la famiglia del ragazzo farà causa la scuola non potrà fare niente per aiutarla.” Mi avvertì la preside sperando di intimidirmi. “Non faranno causa: è stato lui ad attuare il primo attacco, il fatto che io abbia risposto è stata legittima difesa, non è colpa mia se i componenti della vostra Squadra non sono in grado di evitare uno scaricamento semplice come quello.” Dissi sicura di me: conoscevo la legge, ed era dalla mia parte, più o meno. “Non è l’unico problema signorina Dalla Fonte. Il suo atteggiamento è un problema, se ne rende conto?” Mi domandò la donna. “No, signora, non è un problema difendere tre ragazzini bullizzati.” Spiegai pacata domandandomi quando avrei potuto prendere a pugni quella donna. “I suoi atteggiamenti sono anti costituzionali.” Mi avvisò la preside, per poco non scoppiai a ridere, ma il mio sbuffo divertito la irritò quanto la frase che seguì. “Non è anticostituzionale. È solo deviante, non è così?” Domandai irritata. “Certo che è sovversivo!” Esclamò la donna. “Certo, è deviante che la scuola non intervenga in atti minacciosi nei confronti di ospiti di cui la scuola è temporaneamente responsabile: se fosse successo qualcosa a quei ragazzini, anche se sono Altri, avreste dovuto subire un’accusa, sempre se la scuola non avesse deciso mettere tutto in sordina. Atteggiamento decisamente deviante per una scuola di questo livello, non crede preside?” La stuzzicai: so che non avrei dovuto però l’essere irriverente verso le autorità è sempre stato uno dei mei passatempi preferiti, in adolescenza. Per giunta non stavo andando contro la legge, non ero ancora un’esperta, ma la conoscevo abbastanza da sapere cosa era perseguibile penalmente e cosa non lo era, soprattutto se era legata ad enti con cui avevo spesso a che fare, ovvero S.C.A. e scuola. La preside mi guardò con odio, stava per dire qualcosa quando la porta venne spalancata brutalmente da mio padre.
“Signor Dalla Fonte, che piacere averla qui, si sieda, si sieda.” Lo invitò la preside con uno dei suoi migliori sorrisi fasulli, dopo il primo istante di sorpresa. “Le posso offrire qualcosa? Un tè, del caffè?” Domandò stringendo con vigore la mano a mio padre, doveva aver notato la sua divisa. “Niente cerimonie signora preside. Sono di fretta: ho un’ora per tornare in ufficio, a breve avrò una riunione, risolviamo subito.” Decretò mio padre irritato: non sopportava i lecchini, proprio come me, infatti la stava guardando in cagnesco. “Certo! Che sbadata, un agente come lei avrà affari più importanti che badare a sciocchezze adolescenziali.” Confessò sedendosi e a quel punto tirò fuori delle carte. “Il consiglio sta pensando ad una sospensione di due settimane per sua figlia.” “Sospensione? Scherziamo? Mandatela a lavare i bagni piuttosto.” Disse mio padre seccato. “Signore questa è la prassi comprendo la difficoltà che potrebbe riscontrare sua figlia nello saltare le lezione ma è la punizione che è più probabile il consiglio le dia.” Mio padre sbuffò seccato. “Almeno mi potresti dire perché hai preso a pugni quel ragazzo, Diana?” Scostai lo sguardo. “Una disputa tra adolescenti, niente di grave signore.” Mio padre guardò la preside. “Non ho chiesto la lei, signora. Diana: apri quella bocca.” Mi ordinò mio padre e a quel punto parlai. “Le ballerine se l’erano presa con tre ragazzini Altri qui in visita perché si erano seduti a quello che secondo loro è il loro tavolo, si sono rifiutati di alzarsi visto che c’erano seduti per primi, e, malgrado quelle ragazze ci sarebbero state tranquillamente, hanno iniziato a minacciare quei ragazzini. Questi si sono nuovamente rifiutati. A quel punto una di loro ha chiesto a un membro della squadra, Leo, di occuparsi di quei tre. Mi sono messa in mezzo, lui mi ha afferrato la maglia minacciandomi, a quel punto gli ho dato una ginocchiata, subito dopo ha tentato di colpirmi e l’ho schiantato a terra, dopo che lo avevo lasciato andare e detto di lasciar stare quei ragazzini ha tentato di tirarmi un pugno, di nuovo, e mi sono difesa schivandolo e bloccandolo ad un tavolo. Dopo mi sono seduta con quei ragazzini per evitare che tentassero nuovamente ad infastidirli.” Spiegai annoiata continuando a guardare altrove senza realmente concentrarmi su nulla. “Visto signor Dalla Fonte, ragazzate. Questione un paio di settimane e la situazione sarà risolta.” Spiegò la preside mentre io pensavo un modo per fare fuori quella donna: non la sopportavo. “Ragazzate, signora? A me non sembra una ragazzata.” Intervenne mio padre. “Ma signore sono solo…” “Dov’è quel ragazzo adesso?” Domandò mio padre. “Agli allenamenti.” Spiegò la preside. “Ah, lui è stato lasciato andare? Non è qui come mia figlia?” Domandò irritato, la preside avrebbe dovuto giocare bene le sue carte perché ancora poco e mio padre avrebbe sbroccato. “Signore… lui è stato colpito, sua figlia è nella parte del torto.” Disse la preside. “No, signora preside: quella di mia figlia si chiama autodifesa unita a supporto di tre minorenni Altri, chieda ad un avvocato se ha qualche dubbio. Per di più mia figlia vi ha fatto un favore. Sebbene fossero Altri rimangono minori sotto la responsabilità che un’altra scuola ha affidato a voi temporaneamente, se fosse successo loro qualcosa avreste rischiato grosso, come minimo la reputazione della scuola.” Disse mio padre. “Mia figlia ha sbagliato a colpire quel ragazzo? Nessun problema a tal proposito. Ma le motivazioni mi pare fossero sufficienti.” “Signore erano solo dei ragazzini che non hanno voluto ascoltare un’autorità, non è che…” “Le ballerine o la loro capitana, hanno qualche potere amministrativo ufficiale all’interno della scuola? I membri della Squadra sono autorizzati ad usare le loro conoscenze al difuori degli allenamenti e le partite?” Insistette mio padre seccato. “N-no… ma…” “Sa cosa significa S.C.A.?” La tartassò mio padre. “Supervisione Controllo Altri.” Disse la preside meccanicamente. “Ecco, la prima parola è Supervisione: tra i nostri compiti c’è anche l’assicurarsi che non ci sia un abuso di potere nei confronti degli Altri.” La preside era incredula e sdegnata e malgrado stessi gongolando nel vedere quella megera in difficoltà trovai tutto ciò ipocrita da parte di mio padre: lui stesso sapeva che avveniva più spesso l’aspetto di Controllo che di Supervisione, ma almeno era uno dei pochi che ci teneva a ricordarlo. Odio la S.C.A. come istituzione, ma mentirei se dicessi che tutti i suoi componenti fossero degli esseri rivoltanti privi di qualsiasi morale. “Signore io…” “Quindi, preside, se ha qualche problema con il comportamento di mia figlia parli con un avvocato. Per di più il 1870 è passato da un pezzo, e quei ragazzi non sono un istituzione, né la legge. Veda di assicurarsi che il resto dei suoi studenti Altri non venga maltrattato poiché saranno anche diversi ma la legge ha stabilito delle norme e vanno rispettate.” Le ricordò mio padre. “Diana vieni. La signora si deve rinfrescare le idee. Dov’è ora quel ragazzo?” Domandò mio padre trascinandomi via. “Aspetti signor Dalla Fonte! Leo è il figlio del senatore Giogra, non mi sembra il caso di…” “Il Senatore Giogra si può ficcare i suoi privilegi su per il culo! Io vengo pagato dallo Stato quindi esigo che tutti gli organi rispettino le leggi: il favoritismo lo abbiamo abolito a metà del secolo scorso, non vorrà tornare in dietro?” Domandò mio padre alla preside. “Signore l’atteggiamento di sua figlia la porterà al disprezzo generale. Non so come funzionino le cose a sud, ma qui e Meddelhock ci sono tensioni enormi! Il rifiuto di quei ragazzini è sovversivo!” “Sovversivo? Signora io lavoro tutti i giorni con Altri sovversivi e si fidi quella non è sovversione: è conoscere i propri diritti. Se avessero alzato le mani sarebbero nel torto, ma non è avvenuto. Ora mi scusi ma devo parlare con questo Leo Giogra.” Disse mio padre trascinandomi via. “Sua figlia è disgustosa signore! Io l’avverto: tra qualche anno la vedremo in carcere.” Disse la preside e a quel punto mi girai furiosa liberandomi da mio padre e raggiungendo la preside. “Tra qualche anno: lei sarà la sovversiva da incarcerare preside, e io la buona samaritana rappresentatrice dello stato.” Risposi amaramente per poi venir trascinata via da mio padre.
“Sei stata brava, e furba. Ma non tirare mai più la corda: quella preside è pericolosa.” Mi avvertì mio padre. “La stenderei in due secondi.” Sbuffai. “Diana. Ha il culo parato. Non aggredirla e lei non aggredirà te. I professori sono anche abbastanza contenti di te: sei intelligente e conosci la legge, non mandare tutto all’aria per la tua rabbia.” Mi avvertì mio padre. “Va’ a casa ora, disquisirò io con la preside. Tu fa la brava però. Conosco le tue idee utopistiche Diana e la devi smettere: l’eguaglianza è una favoletta che ti raccontava la nonna, al pari della magia.” “La magia esisteva, lo sai.” Risposi seccata. “Sei sempre la solita… fila. A casa ne ridiscuteremo, e comunque…” “Sono in punizione, lo so.” Brontolai facendo per andarmene. “No. Questa volta avevi ragione.” Mi disse andandosene lasciandomi basita. Non sono mai riuscita a comprendere mio padre: un secondo prima arresta gli Altri quello dopo sputa in faccia alla preside. Raggiunsi il mio armadietto e vidi gli occhi di tutti puntarsi su di me, ma io li ignorai e mi ritrovai a rimuginare a lungo su come sarebbe il mondo se quello che avevo fatto quel giorno lo facessero tutti. Questa domanda mi ossessionò divenendo un punto fisso nei miei pensieri. Nemmeno a casa mi liberai di quella fantasia che piano piano mi portava a questa conclusione: per tutta la vita avevo sempre urlato il mio disprezzo per come trattavano gli Altri ma fino ad ora non avevo mai fatto qualcosa di così esplicito e inequivocabile e mi ripromisi che d’ora in poi non avrei agito concretamente in ciò che credevo. Credo di esserci riuscita alla fine, non vi pare?
 
Il giorno dopo accadde una cosa inaspettata a mensa, ne sono successe di cose in quel refettorio, era proprio il centro di tutte le relazioni sociali in quella scuola, un po’ come lo era il Fauno a Lovaris. “Diana!” Mi chiamò Felicitis, la fauna con cui avevo fatto la partita a palla avvelenata. “Siediti con noi.” La guardai incredula rimasi imbambolata davanti alla sedia per qualche secondo di troppo. “Diana? Che aspetti? Un invito scritto? Siediti.” Mi incitò Felicitis. “Grazie.” Borbottai incredula mentre appoggiavo il vassoio e mi sedevo sotto lo sguardo stupito di una parte dei presenti mentre l’altra guardava male Felicitis che subito dopo iniziò ad instaurare una conversazione durante la quale riuscii un po’ ad inserirmi malgrado fossi sotto osservazione da parte di tutti, capii che mi stavano studiando, poco ma sicuro. “Senti….” Mi venne improvvisamente chiesto da un elfo del quinto anno, poco più alto di me, dai cortissimi capelli castano-ramati da cui spuntavano le orecchie appuntite, la pelle caffelatte, i viso dalla mandibola marcata e due occhi felini verde scuro di nome Galahad. “Perché lo hai fatto?” Lo guardai, sapevamo entrambi a cosa si riferiva e che era la domanda a cui tutti stavano pensando. “Perché non avrei dovuto?” Risposi tranquilla. “Loro erano dei ragazzini in difficoltà, li ho aiutati, fine del discorso.” Galahad mi studiò per qualche secondo incerto sul da farsi. “Non credevo possibile che un umano potesse provare compassione per qualcuno come noi.” Continuò Galahad. “E io non credevo possibile che un elfo mangiasse carne non selvatica.” Dissi indicando il suo stufato di maiale. “Ma a quanto pare ci sbagliavamo entrambi.” Dissi con un sorriso furbo. “Ti piace fare la spiritosa?” Mi domandò lui. “No. Solo che non sei il primo elfo che incontro, Tehor e la sua famiglia si sono sempre rifiutati di mangiare la carne degli animali da fattoria, non fanno bene alla vostra digestione se non ricordo male.” Affermai pacata. “Vero, ma qui non offrono altro.” Constatò annoiato giochicchiando con il suo stufato. “Vero, non ho neanche visto del erba medica, non avete proprio nulla in questa scuola. Se ci fosse un centauro di cosa si nutrirebbe? Insalata per nove mesi l’anno?” Domandai. “Come le sai certe cose?” Mi domandò Felicitis curiosa che non aveva staccato gli occhi da me per un istante: iniziava a mettermi a disagio. “Da dove vengo io in classe ero l’unica umana, e trai miei amici non c’erano molti umani, di stretti nessuno a dire il vero.” Spiegai pacata. “Hai sempre vissuto circondata dalle altre razze?” Mi domandò Garred curioso. “Sì, dodici in particolare.” Spiegai tranquilla. “E quante volte sei andate nelle loro case?” Mi domandò Galahad. “Boh, mediamente una o due volte a settimana quando andava bene, facevamo a turno, anche se generalmente avveniva più spesso durante l’estate.” Spiegai tranquilla con un mezzo sorriso. “Galahad, basta. Sei sempre il solito sospettoso.” Intervenne Felicitis interrompendo l’interrogatorio. “La ragazza è dei nostri e mi pare abbastanza chiaro.” Insistette la ragazza: aveva corti e ricci capelli castano chiaro che le scendevano sulle spalle, le orecchie da capra che frullavano di continuo, gli occhi marrone scuro e il naso un po’ schiacciato, sotto la gonna lunga vedevo il vello della medesima tonalità dei capelli e gli zoccoli neri. “Dipende da molte cose.” Intervenne Galahad. “Rafa ares ugulia ed sumnu.” (=Le razze erano uguali e lo sono) Tutti si voltarono increduli: avevo appena parlato nell’antica lingua, farlo era illegale e la pena era molto severa visto che solo l’Antico popolo lo faceva ed essere connessi a questo era pericolosissimo, anche se per molti erano solo una leggenda e nelle campagne tale legge non veniva molto ascoltata. “Sapete che cosa significa, vero?” Domandai seria. “Chi te l’ha insegnato?” Mi domandò una strega dai lunghi capelli viola, gli occhi blu scuro, il viso tondo e pallido, un po’ meno formosa di me. “Sapete il bello di andare contro la società è che basta svoltare un angolo per scoprire un mondo di misteri facilmente accessibile.” Spiegai tranquilla per poi distendermi sulla sedia e dare spiegazioni più sensate. “È una frase famosa dalle mie parti, è un gioco pericoloso che noi ragazzi facciamo da sempre nella mia città. Me l’ha insegnata un mio ex.” Spiegai, mi tenni per me che si trattava di una fata maschio, le relazioni tra gruppi diversi era visto molto male da parecchie persone. “Direi che è il caso di fare delle presentazioni adeguate.” Disse Felicitis dopo aver lanciato uno sguardo d’intesa con il resto del gruppo. “Diana, il rompiscatole è Galahad. Nohat, Giulio e la sottoscritta già li conosci.” Disse indicandomi il vampiro e il licantropo con cui avevo fatta squadra a palla avvelenata. “Loro sono Garred.” Mi disse indicandomi il tritone dai vivaci occhi dorati, la pelle grigio-azzurrognola e corti capelli argentati, dal visto squadrato, doveva avere due anni in meno di me. “E Vanilla.” Spiegò riferendosi alla strega di prima che scoprii essere di un anno più giovane di me, ma a prima vista avrei detto che fosse più grande.
 
Nel giro di pochi giorni iniziai a passare parecchio tempo con loro ogni giorno, al inizio era un rapporto timido e impacciato e cercavano spesso di evitare certi argomenti con me. Marzo stava per concludersi e una sera proposi loro di andare al cinema, l’idea li entusiasmò a tal punto che organizzammo l’uscita decidemmo il due Aprile, come penso tutti sappiate quel giorno era previsto un evento speciale per cui avrebbero fatto una diretta televisiva anche al cinema, cosa abbastanza d’eccezione all’epoca visto che i ripetitori non erano ancora così efficaci e andare al cinema costava la bellezza di sei dari e cinquanta centesimi, un patrimonio per dei ragazzi squattrinati, ma era anche previsto un bel film con Mirco Rodero come attore principale quindi vi lascio immaginare la fibrillazione di noi ragazze. “Sole e stelle! Non vedo l’ora!” Esclamò Felicitis che stringeva con forza i suo dieci dari in due banconote da cinque che aveva racimolato chissà come, saltellando di qua e di là emozionata mentre Vanilla stringeva i suo sette dari in monetine al petto emozionata, per l’occasione si era anche sistemata quel suo ammasso incontenibile di capelli viola perennemente crespi in una coda di cavallo e si era pure truccata, come Felicitis, mentre io mi ero limitata a mettere abiti puliti, in campagna, quella sala del tempio che fungeva da cinema veniva a costare solo cinquanta centesimi quindi, anche se tutti i film arrivavano con mesi di ritardo, noi ragazzi andavamo almeno una volta ogni mese o due in comitiva, spesso accompagnati da fratelli, cugini e genitori o addirittura altre classi intere. “Calma Felicitis è solo un film, non esagerare.” La rimproverò Nohat seccato dal atteggiamento esuberante della ragazza. “Dai Nohat è da mesi che non vede un film, non rovinarle la serata con il tuo brutto muso.” Gli disse Garred cercando di farlo ridere ma ottenendo solo un altro sbuffo da parte di Nohat e una mezza imprecazione. “Comunque non ho ancora capito perché proprio questo film.” Insistette il ragazzo annoiato. “Nohat ne abbiamo discusso per tre giorni e questo è il film del anno, dai, tutti i giovani lo vanno a vedere. Insomma è ispirato a Trilogia Stellare hai anche letto i libri tu, che hai da lamentarti?” Gli disse Giulio esasperato quanto noi. “Non mi piace Mirco, okay?” “Ma ci sarà anche Doris, per la miseria! L’hai vista in Giorno del giudizio era o non era la rossa più figa nella faccia della terra?” Insistette Giulio. “Se ti piacciono le umane.” “Ah… pignolo! Come se fossero poi così diversi umani e vampiri: a parte gli occhi felini e i canini siete praticamente identici a livello fisico.” Disse Giulio seccato. “Vuoi seriamente paragonare la mia razza a quei sacchi di sangue idioti?” Domandò Nohat seccato ma come si accorse dei miei occhi su di lui si interruppe. “Sacchi di sangue non direi, più che altro ammassi di carne.” Risposi divertita. “Però sacchi di sangue mi piace, in fondo il corpo umano è al ottanta per cento acqua.” Pensai a mezza voce andando avanti.
Recuperammo i nostri biglietti e un sacchetto maxi di noccioline o anacardi caramellati a testa, una piccola gioia, indubbiamente. Entrammo in sala che il cinegiornale era appena finito e stava per partire una diretta prevista prima del inizio del film, avevamo scelto quella data anche per questo, si diceva che si trattasse di un evento storico, non avevano idea di quanto lo sarebbe stato. Eravamo in ultima fila, e ci infilammo in mezzo a decine di persone che stavano aspettando il film. Mi sedetti tranquilla e subito partì il discorso del presidente della Repubblica e poi quello del primo Ministro che disquisirono sul onore per la patria, l’orgoglio umano e altre cavolate varie. Mi ricordo che la proiezione era in bianco e nero, una delle ultime se non ricordo male, infatti il film che avremmo visto era a colori. Fu allora che sentii quel nome per la prima volta: bomba-atomica, l’avevano chiamata così.
All’epoca non si vedeva una guerra dal 1978 e l’ultima di conquista che c’era stata risaliva al 1892-1897, ma continuavano ad attuare uno sviluppo delle armi, che in parte comprendevo: non c’erano guerre ma molti atti terroristici o rivoltosi in giro per le grandi città e a causa dei sempre di più numerosi  gruppi rivoluzionari, la situazione era tesa ma per ora, a parte qualche operazione da parte della S.C.A., non si era mai arrivati ad un vero conflitto quindi non compresi la necessità di creare una nuova bomba, già una frazione del parlamento e del senato da anni faceva proposte di legge che prevedevano un maggior controllo sul come e dove usare bombe, cosa che io parzialmente approvavo ma prima di quel giorno non avevo mai visto una bomba funzionante.
Dopo i discorsi il presidente ebbe l’onore, per così dire, di premere il pulsante che l’avrebbe attivata. Per i primi istanti tutto sembrò normale: il cannone lanciò la bomba verso il punto predestinato e la gente iniziò ad applaudire. Poi ricordo un potentissimo flash bianco acciecare quasi tutti in sala, poi un rombo assordante e qualcosa come un’onda d’urto fece cadere dalle loro seggiole la gente dall’altra parte dello schermo e così molte telecamere. In sala qualcuno iniziò a guardarsi in torno confuso per poi tornare a focalizzarsi sullo schermo dove comparve del fumo fosforescente la cui forma ricordava quella di un fungo. E per finire ci fu un piccolo terremoto. La gente dall’altra parte pareva terrorizzata, in fatti dopo pochi secondi molti si diedero alla fuga. Io lanciai un’occhiata confusa ai miei compagni e anche loro mi fecero intendere di avere una brutta sensazione. E mi sorsero ulteriori sospetti quando, tornata a casa, non trovai i miei genitori, qualcosa doveva essere andato storto nell’esperimento. Infatti per i seguenti mesi non si sarebbe parlato d’altro.
 
Dopo quell’esperienza, però, iniziammo ad uscire spesso assieme e scoprii un po’ alla volta le loro storie. Felicitis fu la prima ad aprirsi. Eravamo solo noi due quel giorno, gli altri avevano da fare e così venni trascinata per il centro città da quella pazza che ogni volta sembrava che volesse svaligiare il negozio ma non comprava nulla. “Felicitis.” Dissi attirando la sua attenzione. “Sì?” “Vuoi venire da me?” Le proposi, sul momento vidi la ragazza passare da tutte le tonalità possibili. “I mie non ci sono, tranquilla. È che siamo vicini e volevo offrirti qualcosa.” Spiegai, a quel punto si lasciò trascinare nel palazzo e la prima cosa che volle vedere fu il mio armadio, la cosa non mi sorprese. “Hai poca roba ed è tutta simile.” Notò lei con un certo disappunto. “Non amo fare shopping.” Dissi mentre lei guardava il mio unico vestito. “Ti piace?” Domandai. “Ha un bel taglio e una bella fantasia.” Rispose lei con una scintilla negli occhi. “Lo vuoi provare?” Domandai e lei lo fece, anche se con un discreto imbarazzo, evidentemente per la città era strano fare queste cose. “Ti dona, più che a me di sicuro.” Constatai. “Tu dici? Non è un po’ troppo scollato?” Alzai un sopracciglio. “Macché scollato, è un vestito estivo, ci sta.” “Le sacerdotesse non me lo lascerebbero mai indossare.” Mi confessò lei. “Sacerdotesse?” Domandai. “Sono orfana, vivo con le sacerdotesse del Sole da quando ho dieci anni.” Mi spiegò pacata. “Oh.” “Sono stati vittima del fuoco crociato, la S.C.A. paga per la mia istruzione ma quest’estate dovrò mettere da parte un po’ di soldi dato che potrebbero scacciarmi dal orfanotrofio.” “Sono pieni come dicono?” Domandai pacata. “Dormo in una stanza da tre con dieci persone, due sono piccoli ma per la maggior parte sono trai cinque e dieci anni, io sono tra le poche adolescenti della struttura.” Mi raccontò. “Non hai mai pensato al sacerdozio?” “Macché, sono un terremoto e terribilmente frivola, non resisterei una settimana.” Scherzò, poi calò un imbarazzante silenzio. “Senti…” Iniziai. “Se vuoi te lo regalo, tanto non lo uso, l’ocra non mi dona e i ricami floreali non sono nel mio stile.” Felicitis mi sorrise. “Non mi serve la pietà.” “Non è pietà è che sono mesi che cerco un modo per sbarazzarmi di quel obbrobrio ma le mie ex-compagne di classe o lo detestavano quanto me o erano minuscole e stava enorme.” Felicitis mi sorrise. “Dovrò nasconderlo da qualche parte o me lo ruberanno. E dovrò portarti a fare shopping, bisogna sempre avere un abito elegante nel armadio.” “Preferisco mettere pantaloni di seta e camicia, grazie.” Dissi divertita. “Ma è uno stile da uomo!” “Che vuoi che ti dica? Odio le gonne.” Da quella giornata Felicitis mi parlava in continuazione e mi risentii a casa, quella chiacchiera infinita mi faceva piacere, agli altri un po’ meno.
 
“Felicitis, frena la lingua, è mezz’ora che parli a macchinetta. Vuoi sfiancare Diana?” Domandò Glaahad chiaramente seccato dalle chiacchiere inutili di Felicitis. “No, e a lei non dispiace! Giusto, Diana?” Domandò la ragazza, le sorrisi. “No, mi piacciono le sue chiacchiere, secondo me Felicitis sarebbe un’ottima conduttrice radio.” Dissi pacata. “Certo. Una femmina che conduce un programma radiofonico. Questa è bella.” “Perché? Le donne sono delle chiacchierone e sanno gestire una conversazione meglio degli uomini.” Risposi pacata. “Sono solo stereotipi.” Controbatté Galahad. “Ma è proprio a causa degli stereotipi che molte donne e Altri non ottengono svariati lavori.” Spiegai. “Gli stereotipi diventano tali solo quando fa comodo.” Continuai e a quel punto tra me e Galahad partì un dibattito. “Non è solo una questione di stereotipi, Diana. Chi è al potere farebbe di tutto per mantenerlo e concedere una condizione di potere elevato ad una persona appartenente ad una classe inferiore a quella che per loro è la migliore significherebbe invogliare tutto quel gruppo a puntare più in alto.” “Non necessariamente, c’è anche una fazione di persone che pur appartenendo al gruppo svantaggiato odierebbe quella persona e tutto dipende da come la storia verrebbe raccontata.” Non trascriverò tutto il dibattito poiché durò quasi un’ora e portammo dentro moltissimi e diversi argomenti. “Genio uno e genio due, la volete smettere!” Esclamò Nohat seccato. “Che c’è? Stiamo solo conversando.” Si difese Galahad. “Di politica, etica e sociologia, voi due non state bene.” Continuò Nohat seccato. “Avanti Nohat, leggo solo qualche libro.” “Qualche libro, dice lui! In seconda leggevi saggi etici!” “Dai, era solo un libricino. Gioffel è piuttosto scorrevole.” Disse Galahad attirando la mia attenzione. “Aspetta. Hai letto Gioffel! Credevo di essere l’unica pazza ad averlo letto!” Esclamai per poi ricevere un’occhiata incredula da parte di Galahad. “Cos’hai letto?” Mi domandò con gli occhi che brillavano. “Struttura capitalista, Il capro espiatorio, Nona evoluzione e Lettere al futuro.” Gli raccontai. “Ti prego dimmi che hai anche letto qualcosa di Verda.” Mi supplicò speranzoso. “È originaria di Lovaris come me, sono anche riuscita a farmi firmare 2071. Quando l’anno scorso è tornata per presentarlo” “Okay, ora sono geloso. Ho letto tutti i suoi romanzi e diversi dei suoi saggi.” Disse Galahad. “Che tipa è?” Domandò Galahad. “Profuma di menta, ha il vizio di mangiarsi le unghie ed è una vecchietta vispa.” Raccontai, da allora io e Galahad ci scambiammo numerose raccomandazioni saggistiche e letterarie e trovai finalmente qualcuno con cui commentarle con la stessa ossessione che avevo io. Mi ricordo un commento che fece Giulio. “Mi sa che hai trovato qualcuno intellettualmente al tuo livello Galahad.” E aveva indovinato, già all’epoca Giulio mi aveva inquadrata per bene.
 
Diverse settimane dopo ero riuscita a trascinare i ragazzi a casa mia per studiare dato che a breve avremmo avuto le ultime verifiche del anno e Galahad la maturità per la quale stava impazzendo per prepararsi. “Ecco lo sapevo, non passerò mai l’esame!” Esclamò Galahad in piena crisi da maturando. “Calmati secchione, andrà meravigliosamente.” Disse Nohat mentre si confrontava con Felicitis su di un esercizio. “No, è la fine, caput. Non uscirò mai da questa scuola!” Esclamò in crisi mentre si passava le mani trai capelli. “Calmati cicco. Andrai alla grande.” Lo incoraggiai mentre correggevo a Giulio un problema di matematica sul quale si era perso qualche numero per strada e lui mi riguardava la brutta copia del tema segnandomi gli errori. Galahad si accasciò e sbatté la testa sul tavolo. “Voglio morire….” Sussurrò, a quel punto Garred si alzò. “Direi che ti serve una pausa. Diana c’è del cibo in questa casa?” Mi domandò il ragazzo. “Nella seconda mensola su quella parete ci sono le crostatine e i succhi, se volete favorite.” Dissi senza alzarmi, pochi istanti dopo Garred tornò con tutto il necessario. “Magnifico. Ma Diana, tua madre?” “Mia madre lavora tutto il giorno.” A quella notizia vidi tutti voltarsi verso di me scioccati. “Scherzi vero?” Domandò Vanilla incredula. “No. Lavora per la S.C.A., per lo più si occupa di interrogatori.” Mi limitai a dire, anche perché non avevo mai ben capito, ne mi era mai stato detto con precisione, cosa facesse la mamma. “Se non fosse un agente S.C.A. ammirerei tua madre.” Disse Felicitis e le sorrisi. “Sì, lo farei anch’io.” Sussurrai trattenendo l’orgoglio: malgrado non apprezzassi il suo lavoro ero sempre stata orgogliosa che mia madre fosse riuscita ad ottenere un lavoro al pari dei suoi colleghi maschi.
Fu in quel momento che la porta si aprì, mi voltai confusa: i miei raramente tornavano a casa prima delle sette. Sulla porta c’era mio padre e a occhio e croce era appena tornato dal ospedale. “Diana.” Mi salutò atono mio padre. “Chi sono questi ragazzi?” Domandò scannerizzando i miei compagni di classe che iniziarono a sudare freddo alla vista della divisa di mio padre. “Compagni di scuola.” Mi limitai a dire. Mio padre alzò gli occhi al cielo con fare rassegnato poi però posò lo sguardo un secondo di troppo su Vanilla che iniziò a tremare, pareva terrorizzata. “Vanilla?” Sussurrò Giulio preoccupato e la ragazza gli afferrò la mano, chiaramente spaventata. Mio padre la studiò per ancora qualche momento poi schioccò la lingua e mi fece cenno di seguirlo, eseguii rassegnata. Salii al piano superiore ed entrammo nel suo ufficio. “Cosa c’è?” Domandai appoggiandomi alla parete. “La strega.” “Vanilla.” Lo corressi. “Diana, non iniziare.” Mi riprese mio padre. “Insomma, Vanilla, l’ho arrestata due settimane fa per il sospetto d’un coinvolgimento ad una rapina in un’armeria. Le accuse sono cadute, ma comunque la sua famiglia è in un giro d’affari non molto trasparente. Preferirei che limitassi le relazioni con lei. E sta’ attenta a quel vampiro, potrebbe fare parte di qualche clan mafioso.” “Nohat è pulito e anche Vanilla. Sono solo due ragazzi come me.” Li difesi, in fondo non c’era nessun indizio che mi spingesse a pensare il contrario. “Diana… non siamo a Lovaris, qui non conosci quasi nessuno e la gente si conosce poco tra loro, non puoi comportarti come se conoscessi queste persone da una vita.” Mi riprese mio padre. “So giudicare le persone, e loro sono bravi ragazzi. Sei tu che vedi solo il male in ciò che ti circonda.” Risposi, a quel punto mio padre si sedette sulla scrivania. “Crescendo, Diana, capirai che il mondo è un posto peggiore di quel che credi.” “Papà io queste cose le so.” Mi difesi seccata. “No, Diana, non le sai. Hai solo diciotto anni, la tua vita è appena iniziata. Non hai ancora potuto vedere il marcio di questo mondo.” “Sì, che l’ho visto.” Mi difesi. “Con occhi esterni.” Sottolineò mio padre. “Ha importanza? Magari non capirò fino in fondo cosa si prova sulla pelle. Ma sono abbastanza empatica ed intelligente da capire che certe cose non funzionano in questo mondo.” Dissi e a quel punto mio padre sospirò stancamente. “Diana oggi non ho la forza per litigare.” Disse mio padre massaggiandosi la zona in cui presentava del sangue rappreso. “Tutto bene?” Domandai cauta. “Robetta, il tuo vecchio ha solo bisogno di una notte di riposo. Maledizione, cinque anni fa per questo graffietto avrei anche continuato a lavorare.” Disse mio padre, sospirai, lo nascondeva ma stava invecchiando sempre di più, oramai aveva cinquantuno anni. “Certo. Io torno di sotto. Dirò ai ragazzi di non fare casino.” Dissi per poi scendere al piano inferiore.
“Che voleva il tuo vecchio?” Domandò Garred con una crostatina in bocca. “Nulla, solo che ce ne stiamo zitti. Mi sa che si è beccato una coltellata.” Dissi cercando di restare indifferente. “Mi dispiace.” Disse Garred ma Nohat sbuffò. “Nohat!” Lo riprese Giulio a mezza voce. “Fammi il favore. Anche tutti voi vorreste che crepasse.” Disse Nohat e a quel punto si beccò un’occhiataccia da parte mia. “Nohat. Io sono la prima che non ama i lavoro che fanno i miei. Non ti chiedo di dispiacerti per mio padre. Ma abbi almeno la decenza di tenere i tuoi commenti per te.” Dissi serissima mettendo molto a disagio Nohat. Dopo qualche minuto di silenzio tornammo agli esercizi e mentre aiutavo Vanilla a rispondere ad una domanda sfogliando l’enciclopedia le parlai. “Mio padre mi ha detto che sei stata messa dentro.” “Io non centravo nulla.” Si difese subito spaventata. “Non dico questo. Volevo solo dirti che se ti hanno maltrattata ci sono dei modi per portare la S.C.A. in tribunale. Ne conosco qualcuno se vuoi.” Dissi pacata ma Vanilla scosse la testa. “No, tuo padre non centra.” “Non ho mai detto che mio padre avesse fatto qualcosa. E, lo conosco, quando si arrabbia arriva facilmente alle mani. Ti ha fatto qualcosa?” Domandai pacata. “No.” Guardai Vanilla per un lungo istante: stava mentendo. “Ti ha picchiata?” “Diana. Tuo padre è un ufficiale.” “Quindi qualcosa lo ha fatto.” Dissi seria guardando al paino di sopra mentre Vanilla abbassava lo sguardo. “Torno tra cinque minuti.” Dissi facendo per alzarmi. “Non è stato tuo padre ha picchiarmi.” Iniziò Vanilla attirando l’attenzione di tutti e subito mi sentii un peso in meno sulla coscienza. “Ma un suo collega lo ha fatto e lui ci ha visti ma non ha fatto nulla.” Mi spigò Vanilla a disagio. “Ora quella mummia mi sente.” Dissi alzandomi e dirigendomi al piano superiore. “Diana!” Cercò di fermarmi Vanilla ma oramai avevo voglia di spaccare la testa a mio padre.
Entrai nel suo ufficio senza bussare. “Perché non hai riportato che l’hanno picchiata?” Domandai serissima appoggiandomi alla sua cattedra. Mio padre sospirò. “Diana, la tua amica ha già un piede dentro alla criminalità.” “Vanilla ha la mia età!” Urlai e a quel punto mio padre si alzò. “E cosa dovrei fare secondo te?” Domandò mio padre. “Non lo so... riportarle queste cose, magari?” “Non voglio fare la spai con i miei colleghi.” Rispose repentorio. “Colleghi che non svolgono il loro dovere!” Urlai. “Vanilla era terrorizzata prima.” “Credi che non me ne sia accorto?” Domandò mio padre. “Papà, ti lamenti sempre della criminalità che c’è in giro, ma anche la S.C.A. è marcia fino al midollo!” Urlai e a quel punto mi arrivò uno schiaffo in viso avrei reagito ma prima che mi avventassi su di lui Galahad e Giulio entrarono. “Diana, noi pensavamo di fare un giro. Perché non vieni anche tu?” Domandò Giulio. “Tra dieci minuti.” Risposi già pregustando quello che avrei voluto fare a mio padre. “Va’ con i tuoi amici Diana e calma i tuoi bollori.” Mi ordinò mio padre tornando a sedersi sostenendo il mio sguardo iracondo. “E tu fatti un esame di coscienza.” Risposi andandomene.
Una volta fuori Garred mi guardò chiaramente a disagio. “Prima credevo che stesse per scoppiare una bomba.” Ammise il ragazzo ridacchiando per il nervosismo. “È così che funziona tra me e mio padre. E gli serviva una strigliata.” Spiegai mentre Vanilla mi osservava impassibile. “Non ho mai conosciuto qualcuno rispondere così al proprio padre.” Ammise Garred sorpreso. “Io non avrei mai il coraggio di rispondere a mio padre il quel modo.” Mi spiegò. “Tra me e mio padre funziona così. Io sono irriverente da quando indossavo i pannolini, come mia nonna. Mio padre lo sa e così mia madre, non si sono sorpresi quando con l’adolescenza sono diventata una sovversiva.” Dissi indicando i pantaloni larghi e la giacca di pelle, al epoca considerato un vestiario prevalentemente maschile e comunque da deviato. “Come fai a non sentirti in colpa?” Mi domandò Vanilla. “È pur sempre tuo padre, lo dovresti rispettare.” Mi disse e a quel punto sospirai, era difficile spiegarlo. “Mia nonna non mi ha cresciuta per essere una che accetta a capo chino quello che mi impongono.” Iniziai a spiegare cercando di mettere ordine alle mie parole. “Lei mi ha cresciuta con la convinzione che se qualcosa è sbagliato deve essere cambiato.” A quelle parole Vanilla si pose accanto a me. “Ma non ti ha cresciuta dicendoti di prendere come una questione personale ogni singola ingiustizia, né di andare contro tuo padre per una persona che conosci appena.” Disse lei con voce lenta e pacata, ma riuscii a leggere il dolore in ogni parola. “Anche io ho un corpo, e anche io potrei venire arrestata, un giorno. Secondo il mio punto di vista combattere per le ingiustizie altrui è un modo per prevenire che esse persistano nel tempo e che magari giungano a me o a qualcuno a me caro.” Mi limitai a dire per poi farle un sorriso. A quel punto Vanilla mi diede un dolce spintone. “Ti ringrazio per essere stata dalla mia parte. Ma non litigare con la tua famiglia per me. Non sai quanto sei fortunata ad averne una.” Disse Vanilla dolcemente. Una volta raggiunta la gelateria al angolo Giulio mi si avvicinò per mangiare il gelato con me. “Senti… tuo padre ti… ti ha mai… ecco…” “Non nel modo che credi tu.” Dissi leccando il gelato. “Tra me e mio padre funziona così: io mi arrabbio, lui risponde e ad un certo punto uno di noi due alza le mani. Non si è mai accanito su di me, né io su di lui. E ti prego di risparmiarmi il discorso: so che il nostro è un rapporto malsano, ma è l’unico modo che ho di relazionarmi con lui.” Spiegai tristemente. “Un bel casino. E tua madre?” “Prende sempre le parti di papà. E… mi riprende spesso, ma non abbiamo un vero rapporto. Voglio bene a entrambi ma allo stesso tempo li odio profondamente.” Spiegai a quel punto Giulio mi guardò in un modo strano. “Che c’è?” Domandai confusa. “Sai Vanilla ha apprezzato il tuo gesto, ma ha perso suo padre appena due anni fa, ed erano molto legati da quel che ne so. Quindi… ecco…” “Mio padre non è il suo. Non sto generalizzando e dicendo che tutti i genitori fanno schifo. Dico solo che i miei rientrano nella categoria degli appena decenti. Ho conosciuto molte altre famiglie e ho visto tanti esempi di genitori e famiglie meravigliosi e altre disastrati o con situazioni molto peggiori della mia.” Dissi a mia difesa. “E se devo essere sincera, non so quante volte ho desiderato che mio padre e mia madre mi ascoltassero davvero e che fossero fieri di me. La persona con cui avevo un miglior rapporto nella mia famiglia era mia nonna ed è morta pochi anni fa. Era lei che mi ha cresciuto, lei e il maggiordomo.” Scherzai, Giulio ridacchiò e comprese che era il caso di cambiare argomento.
   
 
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