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Autore: Roscoe24    22/10/2020    4 recensioni
“Non mettere alla prova la mia pazienza, Maryse. Ne ho poca. Molto poca.”
Maryse sospirò.
Era il suo ultimo tentativo, quello. Aveva provato di tutto, negli anni. Magie di ogni tipo, ma nemmeno l’Angelo aveva potuto aiutarla. La sua condizione era irreversibile. Tutti gliel’avevano detto, tranne il libro bianco.
Il Grimorio Proibito aveva detto che dove non arriva la magia angelica, arriva quella demoniaca.
Genere: Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane, Maryse Lightwood
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Il loro primo istinto, fu mettersi nella solita posizione da combattimento. I tre cercarono di trattare chi avevano davanti come un qualsiasi demone, senza farsi sopraffare dalla consapevolezza che invece avevano a che fare con un Principe di Edom.
Ma tutte le loro buone intenzioni vennero spazzate via nell’esatto momento in cui Asmodeus alzò una mano e tutta l’aria presente nei loro polmoni venne meno.
Stavano soffocando.
Di nuovo.
E questa volta non c’era nessuno che poteva aiutarli.



*



Maryse aveva un brutto presentimento.
C’era qualcosa che le solleticava la base del collo, come una morsa fredda che si era impossessata della sua nuca, un formicolio inquietante, come quando si ha la sensazione di essere seguiti.
Qualcosa gravava sul suo cuore, rendendolo pesante e angosciato.
I suoi figli erano fuori in missione, come era successo altre migliaia di volte, eppure in qualche modo, questa volta era diversa.
Era diversa perché Alec aveva passato l’ultimo mese ad Edom ed era tornato insieme al suo attuale Sovrano dopo che erano scampati quasi per miracolo ad un crollo che avrebbe dovuto ucciderli.
Non c’è niente di positivo, quando il palazzo del sovrano di Edom crolla.
Questa volta era diversa perché gli indizi avevano portato alla Chiesa di Talto, un luogo che non aveva mai portato niente di buono, quanto piuttosto distruzione e sofferenza.
Maryse era terribilmente preoccupata.
Si fidava dei suoi figli, conosceva le loro capacità, ma… era anche consapevole che esistono forze, nel loro mondo, molto più forti di tre ragazzi dotati. E quella volta in particolare, Maryse capì che era diversa dalle altre perché ebbe l’impressione di riuscire a percepire quelle forze malvage.
E improvvisamente non riuscì più a pazientare, non riuscì più a tranquillizzarsi.
Uscì dal suo studio e si diresse verso la sala delle armi. Avrebbe raggiunto i suoi figli a Talto.




*





“Chiamalo.”
La voce del Demone arrivò alle sue orecchie fredda e minacciosa. Il suo viso era così vicino a quello di Alec, che riuscì a sentire il suo respiro addosso.
“No.”
Il Demone gli afferrò la gola e strinse forte. “Chiamalo.”
Alec sentì le lacrime che colavano ai lati degli occhi, tanto che quella stretta era forte, ma non cedette.
“No.” Ripeté con decisione. Fissò il Demone negli occhi. Erano gli stessi di Magnus, dello stesso luminoso oro, la stessa pupilla felina, eppure erano così diversi. Erano crudeli. Meschini. Trasmettevano tutta la malvagità di cui il Principe di Edom era in grado di infierire al prossimo.
Asmodeus lasciò la presa e Alec prese un profondo respiro.
“Stupido mortale!” Gridò, appoggiando il proprio palmo sull’addome di Alec e mandandogli una scarica di magia. Fu come ricevere una scarica di pugni in pieno stomaco che provocò ad Alec una serie di conati di vomito. Era così doloroso che tornò a non respirare per qualche istante.
“Chiamalo.” Sibilò a denti stretti. “O la prossima sarà molto più dolorosa.”
Alec fu pervaso da un moto di rabbia. Non avrebbe mai messo Magnus in pericolo. Mai. Guardò Asmodeus con tutto l’odio di cui era capace.
“Non mi fai paura. Niente di ciò che mi farai mi spingerà a tradirlo e a farlo cadere nella tua trappola.”
Asmodeus gli rivolse un sorriso appuntito, da predatore. “Vedremo.” Affermò, nel suo solito tono di voce freddo e raccapricciante. Con un movimento della mano fece comparire una lama – e se Alec rimase immobile davanti a quella minaccia, riuscì chiaramente a vedere Jace ed Isabelle agitarsi.
Alec sapeva che di qualsiasi cosa fosse fatta quella lama, avrebbe fatto male, e stava già per prepararsi al dolore, ma poi gli occhi di Asmodeus vennero attratti da qualcosa e Alec capì che aveva notato il suo anello. Lo sguardo del demone era fisso sopra alla testa di Alec, rivolto alle sue mani, legate sopra al suo capo. Alec, Isabelle e Jace erano appesi in quel modo: i polsi legati sopra alla testa da un incantesimo che bruciava la loro pelle. La stessa magia che li teneva appicciati al muro di pietra della chiesa, immobilizzati all’altezza del busto e delle gambe.
“Lo chiamerò da solo.” Affermò. “Sono certo che questo sia un dono di mio figlio, riesco a percepire la sua magia.”
Nonostante le proteste di Alec, il suo agitarsi in ogni modo per impedire ad Asmodeus di prendere il suo anello, il Demone riuscì comunque a sottrarglielo. Alec non avrebbe potuto fare più di tanto, legato com’era e si odiò per essere una preda così facile. La sua vulnerabilità aveva reso vulnerabile anche Magnus.
“Dennis, occupati di loro. Devo chiamare mio figlio.”
Lo Stregone, rimasto in disparte ad osservare il suo Signore, obbedì e si avvicinò ai tre Nephilim.
Nel giro di qualche istante, Talto si riempì di grida di dolore.



*





395 anni prima…

Magnus camminava in un campo di riso. L’acqua e le foglie gli solleticavano i piedi. Gli piaceva stare lì, con l’acqua alle caviglie, e guardare la mamma che lavorava.
Era un lavoro stancante, diceva, ma se c’era lui con lei era tutto meno faticoso. Il bambino guardò la madre, chinata sull’acqua, le mani immerse in essa. Le toglieva solo ogni tanto, per asciugarsi il sudore dalla fronte con il dorso della mano. Ciocche corvine le ricadevano sul viso, sfuggendo dalla stretta crocchia in cui sua madre legava i capelli ogni volta che lavorava.
Mamma era bella, mamma era gentile.
Ogni sera, dopo che il sole era tramontato, tornavano a casa. Passeggiavano per strada, mano nella mano, e si dirigevano verso casa. La mamma gli preparava da mangiare e accendeva il fuoco nel camino. Si sedevano insieme e mangiavano. La casa era sempre poco illuminata, solamente la fioca luce del fuoco la illuminava, e probabilmente era per questo che Magnus aveva l’impressione che la notte fosse decisamente più lunga del giorno. Il buio non gli piaceva un granché, ma la mamma, che lo sapeva, gli diceva che il buio non doveva fargli paura.
“Non devi temere nulla. Tutto rimane uguale, di notte, è solo la nostra percezione che cambia, piccolo mio.”
Ma poi Magnus aveva cominciato a vedere al buio. Riusciva a vedere i contorni nitidi nello stesso modo in cui riusciva a vederli di giorno, riusciva a cogliere i dettagli. E quando l’aveva detto alla mamma, felice di questa sua nuova condizione, sul viso della donna era comparsa una smorfia preoccupata.
“Non devi dirlo a nessuno, tesoro. Hai capito?” L’aveva stretto forte a sé, dopo quelle parole, e Magnus non ne aveva capito il motivo.
Perché la mamma non sembrava felice? Lui poteva vedere nel buio e non aveva più paura dell’oscurità!
Si era trovato ad annuire, comunque, perché lui aveva sempre voluto obbedire alla mamma.
Ed era andata bene, per qualche mese. La loro vita continuava. La mamma lo portava nei campi di riso e tornavano a casa insieme dopo che aveva finito di lavorare. Cenavano insieme, davanti al fuoco, la mamma gli raccontava le favole.
Ma poi… poi gli occhi di Magnus sono mutati. Si sono trasformati. Erano diversi, quasi come quelli di un animale. Avevano cambiato colore: non erano più ambrati, come quelli della mamma, ma erano diventati dorati e assomigliavano a quelli dei gatti. Magnus l’aveva visto nel suo riflesso nell’acqua. E aveva capito che era una cosa brutta quando la mamma l’aveva immediatamente portato via dal campo di riso, nonostante il sole fosse ancora alto nel cielo, e le altre donne che lavoravano con lei fossero ancora impegnate alla piantagione.
Mamma l’aveva preso in braccio, facendo in modo che Magnus tenesse il viso nascosto nell’incavo del suo collo, quasi come se altri non avessero dovuto guardarlo in faccia.
Magnus l’aveva capito dal suo passo affrettato e da come era corsa dentro casa. Solo tra le quattro mura, l’aveva messo a terra e aveva smesso di fare in modo che il suo viso fosse nascosto.
Magnus aveva sentito le lacrime salirgli agli occhi e pungerli come tanti piccoli spilli. La mamma non gli voleva più bene?
“Tesoro, ascoltami. Devi stare qui, intesi? Non uscire di casa, mai. Non farti vedere. Le altre persone non capirebbero.”
Cosa non capivano gli altri? Avrebbe voluto chiederle, ma in realtà la cosa che gli premeva era un’altra.
Non mi vuoi più bene? Ma quella domanda gli si bloccò in gola non appena la mamma lo strinse forte a sé per abbracciarlo. Era un bene che lo abbracciasse, giusto? Gli abbracci sono belli e pieni d’affetto.
Magnus era così confuso. Non capiva cosa stava succedendo. E la mamma sembrava così preoccupata. 
“Ce ne andremo da qui, piccolo mio. Te lo prometto.”
Gli aveva lasciato un bacio sulla fronte. E Magnus aveva pensato che fosse un altro buon segno. Mamma gli aveva dato un abbraccio e un bacio, quindi, forse, anche se sembrava molto preoccupata, gli voleva ancora bene.
Forse non dipendeva da lui.
Magnus se n’era convinto, in quel pomeriggio in cui era stato a casa da solo, mentre mamma era tornata ai campi di riso.
Ma poi il sole era calato ed era arrivato il buio. Ma con il buio la mamma non era tornata. Al suo posto, a casa, si era presentato un uomo alto che aveva gli occhi come i suoi.
“Tua madre si è uccisa, Magnus. Non accettava quello che sei. Ma io sì, io lo accetto. Vieni con me.”
Magnus aveva sentito il suo piccolo cuore rompersi nel petto.
La mamma aveva smesso di volergli bene.
La mamma non c’era più perché a Magnus erano venuti gli occhi gialli.
E adesso, l’unico che gli rimaneva era l’uomo alto con gli occhi gialli come i suoi. Per questo afferrò la sua mano e lo seguì.
Insieme, sparirono nella notte, invisibili ad altri occhi.
Invisibili ad occhi che, con il tempo e con più consapevolezza, Magnus avrebbe definito umani. A differenza dei suoi.





L’uomo dagli occhi da gatto, come i suoi, si chiamava Asmodeus. E aveva detto delle cose strane. Ad esempio, aveva detto a Magnus che era un Re e che questo faceva di lui un Principe.
“Perché?” domandò Magnus, confuso, stringendo ancora la mano di quell’uomo, l’unico ormai che gli era rimasto.
“Perché sei mio figlio, Magnus.”
Magnus non ricordava di aver mai visto quell’uomo, fino ad ora. Lui si era sempre sentito un po’ diverso dagli altri bambini del villaggio, che avevano una mamma e un papà, mentre lui aveva solo la mamma. Era capitato spesso che chiedesse a sua madre dove fosse suo padre, ma lei aveva sempre detto che era morto.
Forse la mamma era bugiarda?
Dopo tutto, gli aveva detto che l’avrebbe portato al sicuro, ma poi non era mai tornata. Gli aveva detto che gli voleva bene, l’aveva abbracciato, e poi, anzi che tornare da lui, si era fatta tanto male.
Quindi forse la mamma diceva le bugie.
Magnus provò una forte rabbia, sentì il suo piccolo cuore riempirsi d’ira, quasi come se lo stesse avvelenando.
La mamma l’aveva abbandonato. La mamma gli aveva sempre detto che gli voleva bene, quando non era vero.
Alzò gli occhi sull’uomo al suo fianco. “Tu riesci a vedere al buio?”
Era notte. E quella era una cosa che gli premeva chiedere, quasi come se ai suoi occhi di bambino fosse la prova che cercasse per capire se quell’uomo dicesse la verità. Se era vero che era il suo papà, e i loro occhi erano uguali, dovevano avere anche le stesse capacità. E se la risposta di quell’uomo fosse stata affermativa, forse lui diceva la verità.
“Riesco a fare moltissime cose, figliolo. Vedere al buio è una di queste.”
Magnus a quelle parole si sentì meno solo, meno… diverso.
Esisteva qualcun altro al mondo, in grado di vedere ciò che vedeva lui. E non poté fare a meno di notare che quell’uomo, suo padre, a differenza di sua madre non l’aveva nascosto in casa non appena i suoi occhi avevano cambiato forma e colore.
Quell’uomo non si vergognava di lui, come aveva fatto la mamma.
“E cos’altro sai fare?” domandò, quindi, curioso di conoscere qualcuno che evidentemente gli assomigliava tanto.
Asmodeus sorrise, come se stesse per rivelargli un segreto importante, o un trucco veramente speciale. Alzò la mano che aveva libera, quella che non teneva quella di Magnus, e aprì il palmo verso l’alto. Un forte odore di zucchero bruciato riempì l’aria, mentre una palla di luce azzurra galleggiava, sospesa in aria, sopra al suo palmo.
Magnus lo guardò con stupore, affascinato da qualcosa che non riusciva a capire, ma che comunque sentiva estremamente familiare.
“Che cos’è?”
“Magia, figliolo. La stessa che scorre nelle tue vene. Ti insegnerò ad usarla, se vorrai.”
Magnus era talmente rapito da quella sfera lucente e del blu più bello che avesse visto che si trovò ad annuire.
Asmodeus sorrise, ma questa volta il suo sorriso era più… appuntito. Magnus non riuscì a trovare un altro modo per spiegare l’espressione che comparve sul volto del padre.
“Ecco, tieni.” Gli porse la sfera luminosa e Magnus in un primo momento si ritirò, timoroso che si sarebbe bruciato.
“Stai tranquillo.” Cominciò, allora, Asmodeus. “La mia magia non può ferirti.”
Magnus fu incerto per un attimo. Guardò la sfera blu e, dopo un attimo di esitazione, sentì qualcosa muoversi dentro di lui, all’altezza del suo stomaco. Realizzò solo in un secondo momento che era curiosità. Era curioso di scoprire se sarebbe stato in grado di gestire quella nuova scoperta. La magia.
La magia esisteva.
E lui stesso poteva crearla, a detta di suo padre.
Per questo allungò le manine verso di lui e accettò la sfera blu. La guardò galleggiare sopra i suoi piccoli palmi, seguire ogni suo minimo movimento.
Ed era vero, la magia non lo feriva.
“Sai, figlio mio, la mia magia non può ferire te, ma può fare del male agli altri. Puoi usarla per questo, se vuoi.”
Magnus sentì un moto di paura crescergli all’altezza del cuore. “Perché dovrei far del male agli altri?”
Gli occhi di Asmodeus si accesero ancora di più, un barlume intenso attraversò i suoi occhi dorati rendendoli ancora più luminosi nel buio della notte.
“Perché loro ne hanno fatto a te.” Indicò il villaggio che si stavano lasciando alle spalle e nel quale Magnus aveva vissuto per tutta la sua breve vita. “Ti hanno sempre additato, non è vero? Un bambino senza padre, figlio di una meretrice, un bastardo. Non ti lasciavano giocare con gli altri bambini, non è vero? Per questo tua madre ti portava ai campi di riso con lei.”
Magnus sentì le lacrime pungergli gli occhi. Era tutto vero. Come faceva lui a saperlo? Non gli interessava. Gli interessava solo che Asmodeus sapesse e che, a quanto pareva, gli importasse.
“Ti hanno fatto soffrire, emarginandoti. Al tuo passaggio, le loro voci si affievolivano, sussurrando commenti maligni su di te.”
Era vero anche questo.
“Tua madre ha permesso tutto questo e poi ti ha abbandonato.”
Un’altra, dolorosa, verità.
Magnus sapeva di star piangendo, ormai. Il dolore che stava provando gli stava spezzando il suo cuore a metà.
“Io non permetterò mai niente di tutto ciò. Farò in modo che tutti ti rispettino, Magnus. Farò in modo che nessuno riuscirà più a ferirti.” L’uomo si chinò all’altezza del bambino. “Devi punirli per il male che ti hanno fatto.” Fissò il figlio negli occhi. “Puniscili, Magnus.” Gli ordinò, perentorio.
Il bambino in un primo momento, esitò. Guardò il villaggio avvolto nelle tenebre e nel silenzio. C’erano intere famiglie che stavano dormendo un sonno tranquillo, un sonno dal quale si sarebbero risvegliati presto per un’altra giornata lavorativa.
Erano famiglie che l’avevano visto crescere e con le quali lui era cresciuto. Ma se ripensava alla sua crescita, non vedeva altro che momenti in cui vari occhi si erano posati su di lui con diffidenza, con cattiveria. Sentiva le loro voci sussurrare parole offensive: bastardo, era la più frequente.
Le donne avevano sempre portato via i propri bambini, quando lui provava ad avvicinarsi ai suoi coetanei per giocare.
Erano stati cattivi, tutti. Persino la sua mamma era stata cattiva con lui, abbandonandolo e dicendo bugie.
E questo pensiero tramutò improvvisamente il dolore lacerante di Magnus in una rabbia incontrollabile. La sentì salire dalle profondità del suo essere, attraversare ogni sua viscera e arrivare fino alle sue mani, dove si concentrò sulla sfera luminosa che ancora fluttuava sopra di esse. La vide espandersi fino a raddoppiare e triplicare.
Asmodeus lo guardò con una luce orgogliosa negli occhi e un sorriso soddisfatto.
“Puniscili, figlio mio.”
E Magnus obbedì. Lanciò la sfera sul villaggio, che prese immediatamente fuoco. E rimase ad ascoltare le grida di coloro che l’avevano ferito per tutta la vita.
Adesso, nessuno di loro poteva più fargli del male.
Avevano avuto ciò che meritavano.




Asmodeus aveva aperto un portale, così aveva chiamato la grossa porta tonda che era nata da un movimento circolare della sua mano. Magnus ne era rimasto affascinato.
Nell’aria si sentiva ancora l’odore di carne bruciata e le grida degli abitanti del villaggio squarciavano il silenzio della notte. Erano grida di dolore e sofferenza, delle urla così forti e strazianti che erano sicuramente arrivate al Cielo, chiedendo una misericordia che lì, in Terra, non avrebbero mai ricevuto. Non quando, almeno, l’unica entità che camminava sulla Terra in quel momento era Asmodeus, risalito dalla bocca più recondita dell’Inferno per andarsi a riprendere la sua progenie a qualsiasi costo.
Il Re voleva il suo erede al trono. Ma questo il piccolo Magnus non poteva saperlo. Come non poteva rendersi conto della gravità delle sue azioni.
Asmodeus aveva giocato con il suo dolore, facendo leva su di esso per ottenere ciò che voleva, ma anche questo il piccolo Magnus non poteva saperlo.
Ai suoi occhi di bambino, Asmodeus era l’unica persona che gli era rimasta al mondo, l’unico che d’ora in avanti sarebbe stato al suo fianco.
Per questo gli obbediva.
E gli aveva obbedito anche quando gli aveva ordinato di saltare dentro al portale. Magnus l’aveva semplicemente fatto. Aveva chiuso gli occhi ed era saltato. Quando li aveva riaperti, si trovava in posto completamente nuovo, diverso dal villaggio dove aveva sempre abitato.
L’aria era impregnata di un odore acre, forte e puzzolente, come di uova marce. C’erano piccole eruzioni vulcaniche che scoppiettavano zampilli di lava e una cortina di fumo che rendeva il tutto estremamente grigio e oscuro.
“Dove siamo?”
“Ad Edom, figlio mio. Questa è la tua nuova casa.”
“Ma è un po’… tetra.”
“L’Inferno è tetro, Magnus.”
“Non mi piace.”
“Quando sarà tuo, potrai modificarlo come meglio crederai.”
“Mio?” Fece eco alle parole del padre, stupito e incredulo.
“Ma certo. Questo è il mio regno, quando sarai più grande diventerà tuo. Ma prima, devi imparare ad essere come me, altrimenti non sarai mai in grado di regnare. Vuoi essere come me, figliolo?”
“Sì.” Magnus aveva risposto senza nemmeno comprendere bene il significato di quella domanda. Per lui, essere come Asmodeus significava saper usare la magia, far uscire dalle mani sfere blu e creare portali in grado di trasportarti ovunque tu volessi. Di certo, non poteva sapere che diventare come lui avrebbe significato macchiarsi di omicidio, terrorizzare chiunque senza un apparente motivo, essere egoista e meschino, crudele. Non poteva sapere quanto la sete di potere l’avrebbe consumato. Sempre di più, sempre più forza. Si sarebbe preso tutto ciò che desiderava, senza badare alle conseguenze sugli altri perché suo padre gli avrebbe insegnato che gli altri non contano.
Sono delle nullità, paragonati a te, Magnus. E le nullità vanno schiacciate. Schiacciali tutti, figlio mio. Dimostra chi sei. Era il mantra con cui sarebbe cresciuto.
E di certo, Magnus non avrebbe mai, mai, sospettato che diventare come suo padre avrebbe significato perdere la sua parte umana.
La magia ha un prezzo. E quello era ciò che lui aveva dovuto pagare per essere uno Stregone così potente. 




Magnus osservò le macerie del suo palazzo, mentre quei ricordi gli ritornavano alla mente. Sentiva le guance bagnarli il viso, il rimorso e il senso di colpa lo stavano letteralmente divorando, quasi come se avessero voluto spezzarlo a metà. E forse era quello che si sarebbe meritato per aver ucciso un intero villaggio di innocenti a soli cinque anni.
Era un mostro.
L’assenza di empatia e la sua incapacità di provare emozioni avevano fatto sì che non elaborasse mai ciò che aveva effettivamente fatto quella notte di così tanti anni prima. Ma nonostante il tempo passato, i suoi ricordi erano nitidi come se fosse avvenuto poche ore prima.
Riusciva ancora a sentire le grida, l’odore acre di carne bruciata. Riusciva ancora a sentire la soddisfazione che aveva provato quando era stato convinto di punire qualcuno che meritava quella fine.  Quella sensazione, così viva all’interno del suo cuore, andò ad alimentare il suo senso di colpa, ingigantendolo così tanto fino ad arrivare a trasformarlo in disprezzo verso se stesso.
Si era fatto manipolare da suo padre, è vero, ma era lui quello a cui era piaciuto massacrare quella gente.
Mostro, ecco cos’era.
Ecco perché sua madre si era uccisa. E per la prima volta in quattrocento anni, anzi che odiare sua madre per ciò che aveva fatto, la capì.
Un cuore umano, buono come lo era stato quello della donna che l’aveva messo al mondo, non poteva sopportare gli orrori che, invece, un cuore marcio come il suo era in grado di elaborare. E quella notte ne era la prova. Magnus era stato cieco riguardante la sua malvagità per troppo tempo. Ma adesso la vedeva benissimo. Chiara come la luce del sole, la sua cattiveria era lì, incisa indelebile nella storia, nelle sue azioni. E ce n’erano state così tante nel corso dei suoi quattro secoli di vita che avrebbe riempito pagine intere di un libro maledetto.
Lui stesso era maledetto. Maledetto dal suo cuore oscuro che era stato avvolto nelle tenebre così tanto che aveva dimenticato cosa volesse dire ricevere un po’ di luce.
Alexander era quella luce. Ma ripercorrendo la sua vita, le sue terribili azioni, non era sicuro di meritare quella luce meravigliosa.
Lacrime copiose continuavano ad inondare il suo viso. Pianse tutto il dolore e il rimorso, tutto il senso di colpa che provava. Pianse tutto ciò che non era riuscito a far venire fuori negli ultimi quattro secoli. Pianse persino per la morte di sua madre. Un lutto che non aveva mai elaborato.
Magnus, inginocchiato davanti alle macerie del suo palazzo, con le mani immerse nella polvere, si lasciò andare ad un pianto disperato e liberatorio, quasi come se le sue lacrime avessero potuto lavare via tutto ciò che di malvagio aveva compiuto.
Razionalmente, sapeva che tutto ciò non era possibile. Ma sapeva che era un inizio. Pentirsi era il punto di partenza per ricominciare, per provare ad essere un uomo migliore e per essere finalmente in grado di meritarsi Alexander e il suo amore.
Voleva credere che tutto ciò fosse possibile, anche per uno come lui. E per la prima volta in vita sua, si trovò a pregare Raziel affinché lo ascoltasse e fosse disposto a perdonarlo per tutto il male che aveva fatto.
Redenzione. Era quello di cui aveva bisogno. E se era vero ciò che leggende dicevano, allora aver trovato Alexander significava avere una possibilità.
E quasi come se Raziel avesse voluto mandargli una risposta divina al suo flusso di coscienza, notò l’anello al suo dito illuminarsi.
Alec lo stava chiamando. E lui avrebbe risposto.




*




Maryse raggiunse la Chiesa di Talto in piena notte.
Era un edificio che le aveva sempre trasmesso un certo timore, quasi come se sapesse che dentro a quel luogo dimenticato da Dio, la Speranza, la Pietà e la Fede non entravano da secoli.
O almeno, non la Fede come la intendeva lei. Supponeva che anche i discepoli di vari culti demoniaci reputassero fede i loro credi. Era errore comune credere che con fede si intendesse solo ciò che riguarda Dio, senza contare che ogni individuo ha un dio diverso.
Non era certa, tuttavia, che i culti malvagi che avevano luogo in quella chiesa venerassero davvero un dio, quanto piuttosto l’Inferno e tutte le creature che lo abitavano. Era fede anche in quel caso? Non ne era sicura.
Accantonò tutti quei pensieri che adesso non le servivano ad un granché. Doveva rimanere lucida. E lasciare che la propria mente vagasse su digressioni inutili alla sua missione non era il modo giusto di rimanere lucida. Si passò lo stilo sulla runa del silenzio, in modo che nessuno l’avrebbe sentita arrivare, e aprì il portone lentamente, cercando di fare meno rumore possibile. Poi si incamminò all’interno di quel luogo di perdizione.


*


Jace ed Isabelle erano ancora legati al muro, sanguinanti e feriti, ma consapevoli che avevano passato di peggio.
Il bersaglio prediletto da quello psicopatico di Dennis era Alec. Lo Stregone aveva passato quella lama demoniaca sulla pelle di Alec più volte di quanto fosse davvero necessario. Si divertiva a torturarlo, pur di compiacere il suo Signore, e si vedeva.
Jace sentiva lo stesso dolore che provava Alec, ma sapeva che nonostante il legame parabatai, il dolore che Alec provava direttamente sulla sua pelle era lacerante.
E nonostante questo, nonostante adesso Alec fosse immobilizzato a terra, con le braccia e le gambe aperte, i polsi e le caviglie bloccati dalla magia, ancora non si azzardava a parlare. E sia Jace che Isabelle sapevano che questo suo essere restio a parlare di Magnus era inutile, dal momento che Asmodeus era in possesso dell’unico oggetto che avrebbe attirato Magnus nella sua trappola, ma sapevano anche che Alec era caratterizzato da una lealtà ferrea e che non avrebbe mai parlato. Nemmeno sotto tortura e quella ne era la prova.
Provarono entrambi una forte rabbia perché quella a cui era sottoposto Alec era una pratica inflittagli solo per puro piacere. Non era più necessario estorcergli informazioni, dal momento che, purtroppo, Magnus li avrebbe raggiunti a momenti, eppure Dennis continuava ad infliggergli dolore.
E Talto continuava ad essere impregnata dalle grida dell’arciere.
Dennis si chinò su di lui e afferrò il viso del Cacciatore con una mano. Alec, d’istinto, lo morse. Dennis ritirò bruscamente la mano e guardò il Nephilim come avrebbe potuto guardare un cucciolo indisciplinato che ha l’ardire di mancare di rispetto al proprio padrone. Per questo lo schiaffeggiò e Alec emise un basso verso gutturale, quasi come un ringhio. Se solo fosse stato uno scontro alla pari, se lui non fosse stato immobilizzato al pavimento, a quest’ora avrebbe già conficcato una delle sue frecce nel cervello di Dennis.
Lo guardò con tutto l’odio e l’astio di cui era capace, per quello schiaffo.
“Non guardarmi in quel modo, la tua superbia non ti servirà a niente. Abbi piuttosto l’umiltà di ammettere la sconfitta e implora pietà.”
“Mai.” Ribatté Alec, negli occhi il fuoco dell’orgoglio e dell’ira. “Non implorerei pietà nemmeno nel caso in cui avessi a che fare con un avversario temibile, figuriamoci davanti a te, che altro non sei che un pietoso servetto.”
Dennis sibilò e afferrò Alec per la gola, stringendo la trachea resa sensibile da tutte le torture precedenti.
“Tu, piccolo insolente.” Strinse ancora di più e dal suo palmo fuoriuscì la magia che andò a bruciare la sua pelle. Alec soffocò un urlo, sia perché non voleva dargliela vinta, sia perché sentiva l’aria venirgli meno. “Non fai più tanto l’arrogante, adesso, vero?”
“Lascialo stare, psicopatico!” Urlò Isabelle.
“O quanto meno slegalo, codardo. E vediamo allora se ti sentirai ancora superiore.” Commentò Jace, un sorriso beffardo stampato in viso, che andò a tirare il labbro spaccato da un pugno che si era preso precedentemente dallo stesso Dennis per non aver tenuto la bocca chiusa. “Slegalo, e lottate alla pari.”
“Alec ti farebbe a fettine.” Rincarò la dose Isabelle. “Per questo lo tieni legato, perché sai che non avresti nemmeno una misera possibilità.”
“O magari non lo slega perché non vuole disubbidire al suo padrone, che dici, Iz?”
“Oh, ma certo. Stai dicendo che abbiamo davanti solo un insignificante schiavetto ubbidiente che fa tutto ciò che il suo padrone gli comanda?”
“Esatto. Una misera pedina senza un minimo di spina dorsale!” Sibilò Jace a denti stretti, la voce grondante di disprezzo.
“SILENZIO!” Urlò Dennis, così forte che la sua voce riecheggiò tra le mura della Chiesa. Almeno quella reazione servì a lasciare il collo di Alec. “Siete degli arroganti ragazzini viziati, che pensano che tutto gli sia dovuto perché vi hanno cresciuti con la convinzione che il vostro sangue sia speciale. Vediamo se hanno ragione, mh? Vediamo se è diverso o uguale a quello di tutti gli altri.”
Dennis si alzò dal pavimento e abbandonò Alec per dirigersi verso Isabelle e Jace. Si posizionò davanti alla ragazza e la guardò con un intenso disprezzo.
Alzò la mano che teneva la lama demoniaca all’altezza di una guancia di Isabelle e ci incise un taglio. Il bruciore le fece stringere i denti, mentre sentiva chiaramente il sangue le che usciva da quel taglio.
“Vedi? È uguale a quello di tutti gli altri. Rosso e dall’odore ferroso che caratterizza la morte.” Sibilò, prima di percorrere tutto il perimetro del volto della ragazza con il palmo della mano libera che brillava di magia. Isabelle sentì il viso andarle a fuoco e la pelle che friggeva sotto quel tocco crudele. Resistette per qualche istante, non volendo dare a quel mostro la soddisfazione di sentirla urlare, ma poi Dennis aumentò l’intensità del calore e allora Isabelle cominciò a strillare, incapace di trattenersi.
Alec e Jace, intrappolati, cominciarono a divincolarsi e a gridare.
“Lasciala stare! Torna qui!” Disse Alec.
“Prendi me!” Esclamò Jace.
Dennis si fermò per qualche istante. “Oh, ma è davvero toccante. Siete disposti a sacrificarvi per lei. Davvero molto dolce. Peccato che non mi importi!”
Fissò di nuovo Isabelle negli occhi e cominciò di nuovo la sua tortura. Ma questa volta Isabelle non cedette tanto facilmente. I suoi fratelli erano disposti a sacrificarsi per lei, ma lei era disposta a fare lo stesso per loro. E dopo che Dennis si era apertamente beffato di loro, del loro rapporto e della lealtà che li univa, non gli avrebbe permesso di godere del suo dolore, non gli avrebbe permesso di trasformarla nell’anello debole della catena. Fissò i suoi occhi antracite ricolmi d’odio in quelli grigi del suo boia e non abbassò mai lo sguardo, nemmeno quando il dolore divenne lancinante. Non emise un suono, nemmeno quando riuscì chiaramente a percepire l’odore di pelle bruciata del suo viso che continuava a friggere sotto quel tocco magico malvagio.
“Dennis, smettila. Adesso!” Una voce giunse alle spalle dello Stregone. Dennis si voltò e alla vista del suo Sovrano smise immediatamente di torturare la ragazza.
“Non dobbiamo fare tutto adesso, mi spiego? Prima di cominciare dobbiamo aspettare mio figlio.”
Dennis annuì e si fece da parte, obbedendo ciecamente agli ordini del suo Signore.
Isabelle tirò un impercettibile sospiro di sollievo e così fecero Jace e Alec, felici di non vedere più la sorella che veniva torturata, ma sapevano che il loro sollievo sarebbe durato giusto qualche secondo, consapevoli che, per loro, il peggio doveva ancora arrivare.




*



Asmodeus fissava suo figlio e Magnus riusciva chiaramente a percepire il suo sguardo addosso. Lo stava esaminando, studiando. Il giovane Stregone lo sapeva. C’erano delle cose che ormai aveva imparato, dopo aver vissuto cinque anni ad Edom con suo padre.
Magnus, a soli dieci anni, si trovava davanti ad una prova.
Come sempre, gli suggerì una minuscola parte del suo cervello, che tuttavia il suo orgoglio si sbrigò a zittire. Suo padre lo metteva alla prova solo per il suo bene, per insegnarli come essere un sovrano temuto e rispettato quando, una volta pronto, avrebbe ereditato il trono infernale. E non sarebbe mai stato pronto se avesse tentennato ogni volta davanti ad un compito.
Imparare ad obbedire era la chiave per imparare a comandare. Solo ricevendo ordini avrebbe imparato poi a darli.
E inoltre, se non si fosse mai dimostrato severo o duro, nessuno l’avrebbe mai rispettato, quando sarebbe stato abbastanza grande. Gli altri avrebbero dovuto temerlo già adesso, avrebbero dovuto imparare subito ad avere paura di lui, perché come diceva sempre suo padre, lui era speciale. Aveva un dono che lo rendeva superiore agli altri. Per questo, doveva annientare chiunque avesse l’ardire di sfidare la sua autorità, o il suo sangue nobile.
“Mio Signore, vi prego…” L’uomo in ginocchio davanti a loro trattenne a stento le lacrime. Era uno Stregone, la cui pelle squamata faceva da monito alla sua natura mezza demoniaca. Era più grande di Magnus, ma rimaneva comunque estremamente giovane, vista la sua natura eterna. Doveva avere poco più di vent’anni.
“Non disubbidirò mai più ad un vostro ordine, vi prego, vi scongiuro!”
E Magnus sapeva benissimo che cercare di smuovere pietà in suo padre era completamente inutile. Anzi, chi supplicava tendeva ad innervosirlo. E, onestamente, anche Magnus provava la stessa cosa. Detestava i piagnucoloni, coloro che si abbassavano a supplicare pur di aver salva la vita. Non avevano orgoglio. Non avevano un briciolo di amor proprio.
E Magnus provò istintivamente un moto d’odio per qualcuno che sarebbe disposto persino a strisciare come un patetico verme, pur di aver salva la vita. Coloro meritevoli di stima non strisciano, non supplicano, dovrebbero piuttosto mostrare fierezza e spavalderia. Dovrebbero affrontare la morte a testa alta, accettando le conseguenze delle proprie disdicevoli azioni.  
Ovviamente non era il caso di colui che avevano davanti Re e Principe dell’Inferno. Quell’individuo senza spina dorsale non si stava prendendo la responsabilità di qualsiasi cosa avesse fatto.
E Magnus non poteva più di sentire i piagnistei di quell’uomo. E non gli importava se era uno Stregone come lui, non gli importava neppure quale fosse il suo crimine, dannazione – perché quell’uomo era un codardo, immeritevole di qualsiasi opportunità di redenzione. L’unica cosa che Magnus voleva era che l’altro smettesse di riempire le mura del palazzo reale con l’eco delle sue frignate. Così, percependo lo sguardo del padre ancora su di sé, pienamente consapevole che si aspettava una reazione da lui e da lui soltanto, Magnus agì. Ormai sordo a qualsiasi parte di sé non fosse quella che gli stava gridando che quello smidollato era solamente un’offesa per la sua specie, Magnus mosse solamente due dita, lanciando un incantesimo che pose fine alla vita di quel ragazzo – e alle sue suppliche.
Guardando il corpo esamine di quel ragazzo, ormai accasciato sul pavimento del palazzo, Magnus sapeva che aveva fatto esattamente ciò che suo padre voleva. E ne ebbe la conferma quando, dopo aver spostato lo sguardo dal cadavere al padre, vide un sorriso orgoglioso aprirgli il viso.
“Bravo figlio mio, nessuna tolleranza per chi mina la nostra autorità. Un sovrano che mostra pietà è un sovrano che non verrà mai temuto, o rispettato. E sai cosa fanno ai sovrani, quando non li temono?”
Magnus fece un cenno negativo con il capo.
“Li uccidono.”





*




Magnus arrivò davanti alla Chiesa di Talto con un portale. Non ebbe il tempo di domandarsi nulla, riguardo al perché le coordinate che gli aveva riferito la sua magia l’avessero portato in un luogo tanto oscuro e tracotante di magia nera, perché la sua attenzione fu catturata tutta da Maryse, che si trovava esattamente davanti al portone pesante della chiesa.
La donna osservava la superficie intagliata di simboli, che Magnus sapeva appartenessero alla lingua demoniaca. Le si avvicinò, cercando di non essere troppo silenzioso per non spaventarla.
“È lilim.” Le comunicò, annunciandosi.
Maryse si voltò verso di lui. “Nella sua forma più antica.” Confermò, annuendo impercettibilmente con il capo. “L’ho studiato, da giovane, ma non avrei mai pensato di vederlo da qualche parte che non fosse un libro.”
“Io non avrei mai pensato di trovare un Nephilim in grado di leggerlo.”
Maryse alzò un unico angolo della bocca, un accenno di un sorriso tirato che mal celava la sua tensione e apprensione.
Magnus se ne accorse, e improvvisamente se ne sentì contagiato.
“Maryse perché sei qui?”
“Ho un presentimento, Magnus. Uno di quelli brutti.”
Magnus si sentì gelare il sangue nelle vene. “Credi che siano in pericolo?”
Che Alexander sia in pericolo? Aggiunse, mentalmente, ma non lo disse per non sembrare insensibile. Maryse doveva essere preoccupata per tutti i suoi figli. E in un certo senso lo era anche lui, ma in realtà la sua preoccupazione più grande era Alec. La preoccupazione che provava per i suoi fratelli era solamente un riflesso di ciò che avrebbe provato Alec se a loro fosse successo qualcosa.
“Non lo so. Tu perché sei qui?”
“L’anello,” Cominciò alzando la mano a cui lo portava, “Si è illuminato. Alexander mi ha chiamato.”
“Allora forse hanno solo delle novità. Forse non è successo niente e i miei presentimenti sono solo delle sciocche sensazioni senza importanza alcuna.”
Si guardarono, cercando di aggrapparsi a quelle parole, ma la verità era che nessuno dei due ci credeva.
“Entro io per primo, tu rimani a coprirmi le spalle, va bene? Se dovesse succedere qualsiasi cosa, interverrai.” Disse Magnus e Maryse fece una smorfia contrariata.
“Non me ne starò in disparte!”
Magnus afferrò la donna per spalle. “Se davvero il tuo presentimento è giusto e sta davvero succedendo qualcosa di infausto, là dentro, tu potresti essere la nostra unica occasione di salvezza. Se entriamo insieme, e dovesse succederci qualcosa di brutto, chi ci porterebbe in salvo? Nessuno sa che siamo qui, Maryse, e di certo non c’è nessuno più determinato di te a salvare le nostre vite.”
L’uomo aveva ragione, Maryse lo sapeva. Come sapeva anche che continuare così avrebbe solo portato una perdita di tempo. Razionalmente, l’idea di Magnus era la migliore a cui potessero accingere in quel preciso momento e in quella determinata situazione. Per questo Maryse annuì.
Guardarono un’ultima volta la porta e poi la spinsero all’unisono per entrare a Talto.





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Ciao a tutti! Dopo un’attesa infinita sono tornata e mi dispiace davvero pubblicare con così tanto ritardo, ma ho davvero pochissimo tempo per scrivere e questo causa dei ritardi immensi di cui mi sento in colpa. Perdonatemi.
Come avrete notato, nemmeno questo è l’ultimo capitolo e forse dovrei smetterla di dirlo. Questa storia era nata inizialmente come una OS nella mia testa e poi si è trasformata in una storia di – teoricamente – solo due capitoli e poi si è trasformata in una vera e propria long. La verità è che l’idea iniziale ha portato poi altre idee e la voglia di svilupparla un po’ di più, ma comunque siamo arrivati lo stesso vicino alla fine. Il prossimo penso proprio che sarà davvero l’ultimo capitolo che, a questo punto, penso conterrà anche quello che all’inizio, nella mia testa, doveva essere l’epilogo.
Ho pensato di pubblicare per due motivi: il primo è l’immenso ritardo per cui volevo cercare di fare ammenda almeno un po’ e il secondo è il fatto che non avevo preventivato di scrivere il passato di Magnus, ma poi ho pensato fosse necessario introdurre un po’ della vita di Magnus e di come fosse arrivato ad essere ciò che è. Quelle parti hanno allungato il capitolo e non volevo che fosse troppo lungo rispetto agli altri, quindi ho pensato anzi di fermarmi qui e poi continuare con l’ultimo.
Vorrei fare due precisazioni: 1. Ad un certo punto, quando Magnus ha dieci anni, sente la famosa vocina dentro di sé che in qualche modo accusa suo padre. Vorrei precisare che in quel contesto non è legata alla presenza di Alec, come invece succedeva nei primi capitoli, innanzitutto perché Alec non è ancora nato (capitan ovvio, mode on) e in secondo luogo perché ho pensato che fosse giusto che aver vissuto i primi cinque anni della sua vita con sua madre dovesse venire fuori, in qualche modo. Su questo punto, comunque, tornerò nel capitolo successivo, dove verranno spiegate molte cose, legate soprattutto alla vita di Magnus.
La precisazione n.2 invece riguarda il finale di questa storia. Non vorrei “traumatizzarvi” troppo, quindi se volete sapere preventivamente qualcosa sulla fine, potete scrivermi in privato. Non so quanti di voi vogliono lo spoiler, quindi, per sicurezza non lo scriverò in queste note.
Queste note sono venute lunghe come il capitolo, a momenti! Mi scuso per essermi dilungata così tanto.
Ringrazio chiunque abbia messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate e chiunque recensisca, o legga silenziosamente. Non mi aspettavo certi numeri, quindi avete tutta la mia gratitudine!
Se vi va, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di questo capitolo.
Vi ringrazio e vi mando un abbraccio!
Alla prossima! <3
   
 
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