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Autore: Momo Entertainment    22/10/2020    1 recensioni
[And... we are back on air.]
Unima, un anno prima degli eventi di Pokémon Nero 2 e Bianco 2.
Cinque bellissime ragazze sono state scelte, ma solo una di loro diventerà la nuova Campionessa della regione.
Insieme combatteranno e soffriranno, rideranno, piangeranno vivendo insieme l'estate della loro vita: la loro giovinezza.
Essere il Campione non significa solo lottare.
Significa anche vivere. Amare. Credere. Sognare. Proteggere.
Genere: Avventura, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shoujo-ai, Yuri | Personaggi: Anemone, Camelia, Camilla, Catlina, Iris
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Anime, Videogioco
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ESGOTH 3



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Pokémon Black and White

Early Summer Girls

Capitolo 22Risultato immagini per new png logo

Girls' Style

Dita agili danzavano sui tasti, battendo un monotono tip tap; al posto dei brush e degli stop, sul monitor apparivano parentesi, punti interrogativi, altre parentesi, sigle alfanumeriche che si consumavano appena il tasto “invio” istituiva una nuova sessione.

«Hey, ho appena pensato una cosa.»

Dato che il loro turno andava a coprire le ore più calde, il destinatario di tale input reagì solo dopo aver aumentato al massimo la velocità del ventilatore a muro, l’aria fredda le frustava le spalle e scuoteva i capelli ricolorati il giorno della sua ammissione nel Team.

La sua collega aveva la stessa capigliatura: la coda alta bianco avorio con le punte colorate di giallo, arancio e rosso a rappresentare la Piroturbina del Drago della Verità. Gli avevano offerto pure una bandana nera, per evitare che i ciuffi ribelli le intralciassero durante  operazioni delicate.

Le uniformi del Team Plasma rivoluzionato univano all’efficacia delle tecnologie sviluppate dai loro ingenti finanziamenti la sete di freschezza e gioventù che aveva prosciugato la vecchia retroguardia, quella delle pesanti cappe medievali e del figlio del capo seduto su un trono di promesse non mantenute.

Le uniformi in fibra di cobalto, che riluceva di blu, consentivano una copertura infrarossi impeccabile: due reclute, una sulla cima del Monte Vite ed una in mezzo alle paludi di Mistralopoli, potevano udirsi a vicenda come sedute una accanto all'altra sul divano di casa.

Era stato Acromio a proporre e sviluppare l’effetto rifrangenza: si era vocalmente lamentato con Ghecis, perché accostare il blu al rosso, sebbene simboleggiasse i Draghi della leggenda, risultava un pugno in un occhio per uno attento all’apparato estetico e alla presentazione come lui.

Sempre un suo suggerimento era lo stemma della casata sulle magliette scollate e sui pantaloncini corti, rinvenuto su un reperto archeologico nelle Rovine Abissali, sepolto nell’oceano. Una lastra recitava in una lingua geroglifica lodi nei confronti del re, rappresentato da quella figura ad anelli, probabilmente la semplificazione di un disegno del vincitore della guerra.

“Il re è saggio”. “Il re non perde mai la speranza.” “Il re accetta tutti.” “Il re è la luce del suo popolo.”

Il resto di queste iscrizioni era ancora ad agghindarsi di alghe e crostacei, nelle profondità dove i due fratelli, i principi Harmonia, avevano lasciato cadere il loro impero, presi dalla foga della battaglia sanguinosa in cui si erano invischiati per la successione.

«Wow, hai pensato.»

L’altra recluta, un’altra scartata dalle azioni sul campo e spostata come altra addetta alla sorveglianza, aveva pigramente appoggiato i piedi sull’ampia scrivania, dondolando la sedia sulle gambe posteriori.

Durante l’inverno e la primavera, il loro lavoro non occupava più di qualche weekend al mese. Del resto, il piano di conquista scivolava ancora alla stampa, muovendosi negli anfratti del web e dei circoli di malavitosi.

Tuttavia, arrivata l’estate, ogni mattina si svegliavano con gli occhi doloranti per le nottate passate a controllare registrazioni, segnalare le zone bianche e quelle dove poteva esserci il rischio che le loro cimici facessero destare sospetti.

«Domani fanno gli ultimi due processi… e poi? Noi cosa facciamo?»

Nessuna organizzazione criminale era arrivata così vicina al suo obiettivo, non c’erano quindi precedenti di leader pronti a dare la disoccupazione a centinaia, se non in casi migliaia, di fedelissime reclute.

«Non avevi detto che adesso puoi entrare a quell’università da fighetti… quella che dicevi ti aveva bocciata al test di ammissione.»

«Bello, vero? Mamma e papà ne saranno contenti! – esultò, tradendo un’ingenuità non idonea a quel posto – Ma tu, C, Q e tutte le altre? Va bene, abbiamo i numeri di telefono, ci possiamo scrivere in chat, ma…

Tu cosa hai chiesto, come premio per esserti unita e tutto?»

«Io? Volevo trasferirmi a Johto e fare un corso di disegno lì, ma siccome sono qua solo da aprile e faccio schifo a lottare, mi hanno mandata al diavolo. – Si accese una sigaretta – Allora gli ho detto “almeno il biglietto per l’aereo”, e Acromio mi fa “va bene, zuccherino, amorino, tesorino mio” e tutte le sbrodolate che quel finocchio dice…»

Risero assieme, e se proprio qualche loro collega voleva mancare alla loro tacita omertà avrebbero hackerato le telecamere di sicurezza e quella conversazione era come mai avvenuta.

Dopotutto, il loro interesse primario era la liberazione dei Pokémon e la pace sul territorio di Unima. Leccare i piedi ai loro superiori era una regola, non un principio.

«Non vedo l’ora che tutti i pezzi di fango che abusano i loro Pokémon vengano processati e mandati in gattabuia. Finalmente il mondo avrà un po’ di giustizia.»

«Già, e tutto il circuito delle lotte, marcio fino alle fondamenta.»

«Una settimana, anzi, meno tempo: poi se proprio sei un sadico che non può fare a meno di far lottare i tuoi poveri Pokémon, dai a noi i soldi e noi gli diamo quella… quella sostanza… dai, non mi viene il nome… 

La droga del drago strafatto! E così niente più sofferenza per loro.»

«Sempre se li lasciamo lottare… ieri stavo scorrendo la lista nera che stanno compilando le altre, con i nomi di chi sta antipatico al Team. Sono qualcosa come novecento mega di documento!»

E si compiacquero di nuovo, stavolta nel constatare quanto fosse semplice andare d’accordo fra reclute. Condividevano tutte la stessa linea di pensiero, per questo si trovavano lì, a difenderla in prima linea.

Le uniche che paradossalmente battibeccavano per ogni singola decisione erano proprio quelle che dovevano guidarle, non si davano tregua da quando i primi dati erano stati inviati alla loro base succursale nella periferia di Sciroccopoli, ora del tutto smantellata per non lasciare industrie.

Il loro sogno era quello che era stato predicato da due lunghi anni ed ora si stava per avverare. Nessuno gliene voglia se con le loro lattine di bevande energizzanti le due fecero un brindisi al successo della loro nuova casata.

Bevuto un sorso dolce come lo champagne proveniente dalle botti più pregiate delle cantine più rinomate, la meno disincantata delle due sognatrici lanciò un’occhiata al monitor principale, riattivando l’audio mutato per godersi almeno quella conversazione.

«Hey, guarda qua. – Alzò di due, quattro, otto tacche il volume, desiderosa di capire cosa stesse succedendo – Ma sono serie?!»

«No dai, abbassa! – fece l’altra, insofferente – Hanno delle voci troppo irritanti… sembra di sentire dei Purrloin strangolati, mi fan venire il mal di testa.»

«Vecchia, - si rivolse alla compare, un ghigno le torceva la bocca; subito strinse le labbra per lo stupore, stava per sputare una risata – le ex-Campionesse se le stanno dando! Di brutto anche!»

«No… - si precipitò al suo fianco, aggrappandosi allo schermo con le mani, come a volersi portare quei quaranta pollici in alta definizione a contatto con la cornea – ma fanno sul serio?»

«Guarda un po’ tu…»

Non avevano prestato alcun interesse allo sviluppo e al movente dello scoppio di tale rissa, in fondo, come potevano prevederlo? Le prigioniere non erano libere di muoversi come a casa di Nardo. Credevano di aver sedato ogni possibile mutamento ai loro rapporti.

Invece, quello che l’occhio della verità trasmetteva in diretta per loro era la più piccola del gruppo (figurarsi se avessero fatto il minimo sforzo per impararsi i loro nomi, talvolta finivano per scambiarle una per l’altra addirittura) trascinata dal letto sul pavimento per il collo dell’uniforme.

Si erano perse una qualche discussione, mentre le due reclute fantasticavano sulla loro carriera futura, quando la loro coscienza si sarebbe liberata del peso di cui si era volontariamente sobbarcata, quello di associarsi anche una volta sola nella vita alle nefande gesta del Team Plasma.

«L’hanno buttata per terra…» Osservò l’una.

Sempre sollevando il suo corpicino esile dall’indumento, la mora le allungò due ceffoni in pieno viso, talmente potenti da farle sfuggire di mano la presa, lasciando cadere di faccia la ragazzina, la quale guaì.

«Oddio!»

Avevano azzerato tutti i suoi riflessi, cosa che spinse una delle bionde a sferrarle un bel calcio sul fianco, mentre l’altra la scavalcò camminandole con le scarpe sudice sulla spina dorsale, lasciandole un’impronta bianca sul tessuto: giunta in direzione dei piedi, afferrò i capelli violetto, estirpandoli dalla coda, in modo da esporre ancora una volta il viso scuro, su cui erano evidenti i graffi del cemento.

«Adesso guarda come le parte un dente…»

«Puahahahah!»

Un altro calcio, stavolta in pieno stomaco la fece emettere un grugnito straziato, togliendole il respiro. A quel punto la rossa, che avevano individuato come la più potenzialmente letale, le diede il colpo di grazia con un gancio in pieno naso.

«Che disagio, ragazzi…»

Insieme a rivoli di lacrime ed un viso sfigurato da un’espressione di dolore sconosciuto ad una fanciulla così delicata, il sangue inzaccherò il colletto, goccioline umide anche sulle labbra e le guance.

Le due erano come entrate in trance. Era uno spettacolo orribile. Ma un istinto primordiale, incantato dalla grottesca impulsività delle aguzzine, non riusciva a farle smettere di guardare.

Appena si rialzò, la più piccola del gruppo caricò contro la leader, ma ancora una delle due Capopalestra cadute in rovina le bloccò le braccia e la ricacciò giù, a suon di ginocchiate. In quattro contro una, perfino le più inoffensive fra quelle psicopatiche si erano lasciate trascinare in quella sedizione.

«Hey, guarda che se le rompono un osso…»

«Passami il telefono, - la interruppe – voglio fare un video e metterlo sulle storie. Ci scrivo sotto “l’unica cellula del mio cervello che ancora crede che Unima sia la regione peggiore”.»

«Intanto, che battuta orribile. – Un altro grido di aiuto la riportò alla serietà della situazione – Poi, sai quanto Ghecis ci ha urlato contro per la storia dell’ambulanza? Ha detto che non vuole che gli facciamo spendere soldi per la campagna elettorale per mandare ‘sti casi umani in ospedale.»

«Che noiosa che sei… quindi dobbiamo fermarle?»

«Beh, dai, non “dobbiamo”, in teoria… ci conviene, se non vuoi tornare a lavorare alla discarica di Zondopoli!»

«Stai calma, mamma mia, sei pesante come loro…» Roteò gli occhi, poi si spostò dalla sua poltroncina comoda per afferrare un walkie-talkie da passare all’altra recluta.

«Che vita di… - prima che potesse completare la sua constatazione, il ronzio del ricevitore le ricordò di dover mantenere una certa professionalità – Qui ala otto tre sette, settore video-sorveglianza. Le tipe qua, si pestano neanche fossero in un picchiaduro.»

«Ah! Guarda come le ha ribaltato il braccio! Se la bionda glielo spacca, ti offro un bubble-tea.»

«Hey, C! Ti passo il link adesso. – Rispose al quesito della sua amica e collega, alquanto spazientita - Ma che ne so! Sai che a loro se gli parte l’embolo inverso sono capaci di questo e altro. Dopo due mesi che stiamo a spiarle, alla fine dovevamo aspettarcelo da queste mongoloidi.»

«Pff, dai, muoviti, o dobbiamo andare a tirare su avanzi di bambina spiaccicata dalle pareti.»

«Mandate tre o quattro persone a dirgli di piantarla, per amor del Cielo. – un “mettimi giù!” si infilò nella loro comunicazione ed infine aggiunse pure – No, scherzavo, fai sette o otto, e di quelle forti, mi raccomando.»

Le due si lanciarono occhiate perplesse. Sapevano, nel fondo dei loro cuori sciupati dal materialismo, che loro non sarebbero state le protagoniste di quella faccenda losca, ma mere spettatrici. Del resto, erano entrate nel grande schema delle cose da dietro una telecamera e solo da lì sarebbero uscite di scena.

«Passo e chiudo.»

Si spostarono a schiera, a passo svelto lungo gli intricati corridoi foderati di cemento armato. Le reclute del Team, radunatesi per sedare il tumulto ma senza la più pallida idea di che procedura seguire, si dirigevano alla cella situata del sotterraneo, nel settore più interno ed inaccessibile: ricordarsi dove svoltare risultava difficile pure a loro.

Anche una fosse riuscita a scappare dall’interno, non avrebbe trovato l’uscita prima che l’allarme rosso facesse lampeggiare l’intera area, rallentando la fuga e riportandola sotto la mano del potere.

E poi, per ogni trasferta le avevano tenute bendate: non potevano quindi aver memorizzato il percorso.

«Se una di quelle bestie di Giratina mi tocca soltanto, giuro che gli distribuisco io il resto.»

«State fuori in due, ci serve un palo.»

Se da dentro non si vedeva neanche un’insenatura a fare da maniglia, dopo aver ruotato il quadrante in una specifica combinazione, scostato un paio di spranghe e maledetto il sistema carcerario della regione per aver concesso loro in uso quella catapecchia con una tecnologia risalente a non dopo il millennio, quando il budget gli avrebbe potuto concedere almeno un riconoscimento ad impronte digitali, quello che era incorporato gratuitamente nei loro smartphone, gratis per di più.  

«Che vergogna, guarda se dobbiamo fargli noi da babysitter…»

«Aiutatemi, vi prego!»

Sentirono quell’urlo disperato ancora, non sembrava provenire dalla bocca o dalla gola, ma dal corpo tumefatto nella sua interezza. Accasciata sul pavimento, incurante della ghiaia e della terra che si era appiccicata al suo viso bagnato, stava Iris Calfuray, nata il quattro marzo a Boreduopoli, ed il testo della tiritera che non gli era servita granché a scopo pratico.

Come se non fosse stato abbastanza, la rossa palestrata aveva fra le mani un grosso mattone scalcinato, con gli occhi iniettati di furia, pronta a spaccarglielo sul cranio.

«Prendetele e tenetele ferme, subito!»

«Mollami, ti ho detto, mollami!»

In punta dei piedi per non pestare la vittima inerme, con goffaggine una atterrò l’aristocratica, Camilla finì in un angolo dopo aver indietreggiato eccessivamente; la modella richiese un paio di misure drastiche. Prima le immobilizzarono le braccia dietro la schiena e poi gliele torsero, visto che aveva preso a dimenarsi e lanciare ingiurie.

Anemone alla fine: una di loro non riusciva a trattenerla e ogni volta che si aggrappava alle sue spalle robuste, uno strattone la faceva barcollare in maniera imbarazzante: per fortuna che si erano portate dei rinforzi, in due per braccio le fecero pure cadere di mano la sua arma improvvisata.

«Prima che tiro fuori il mio Sawk e vi rigiro le poppe sulla schiena, che cosa vi è preso?!»

Ringhiò sull’orecchio della mora, che scalciò infastidita.

«Non ascoltatele, stanno mentendo… - il torso della ragazzina era voltato verso di loro, guardandole come se non le rimanessero che il buon Dio e le loro nemiche giurate da supplicare – Sono cattive…»

«Questa selvaggia lurida ci ha attaccato qualcosa!»

Senza un soffio di femminilità, la voce dell’ex-aviatrice rimbombò e l’impeto rabbioso con cui si scosse mise alla prova la sicurezza della presa.

«Ci siamo prese la peste per colpa sua! – Camilla tossì due volte, se non si fosse subito arresa la recluta addetta non avrebbe mollato solo per pulirsi sui pantaloni – arrestatela e portatela lontana da me, entro oggi.»

«Ma cosa… Vi ha infettato? Cos’è, una malattia?» Chiese una di loro, serissima.

«Ci avete tenute chiuse dentro qua con lei per una settimana! E ci ha attaccato un qualcosa, direttamente dal suo schifo di villaggio imbucato sul confine di Unima… dove la gente non si lava, a quanto pare!»

«Che sfiga…» Ribatté un’altra seguace del Team.

D’un tratto, Iris si appese alla gamba bianca di costei, guadagnandosi una spinta disgustata: l’ideale di unità presumeva che si rifiutasse il razzismo, ma venire contagiata anche lei da quella specie di sub-umane era comunque sgradevole.

«Vi giuro, vi giuro, - riconobbero quell’espressione dalla scenata fatta davanti a suo nonno, un altro pezzo storico di comicità avanguardista – non c’entro… Io non c’entro! N-Non ho fatto niente, non sono infettata, vi giuro…»

Si soffocò nei singhiozzi. Non l’avevano ancora vista piangere così sonoramente. Come già ribadito, uno spettacolo agghiacciante, si fosse trattato di un alleato. Ma quelle erano le nemiche, quindi si atteggiavano come a vedere il ketchup nei film splatter: deluse, ma non sorprese.

«Sta zitta! Io ti ammazzo di botte, fosse l’ultima cosa che faccio!»

«Ih!» La fece squittire, quel tono intimidatorio.

«Fermi un attimo, - s’intromise quella che doveva essere la più anziana o la più sveglia delle reclute lì presenti – Come sappiamo che non state fingendo? Che virus, che malattia è?»

«Avete prove, eh? No che non le avete, pezzi di spazzatura.» Le fece eco un’altra.

D’un tratto, Catlina si fece avanti, senza riserbo, si sbottonò l’uniforme fino al terzo bottone, mostrando l’area compresa fra lo sterno e la clavicola in un triangolo con angoli sulle spalle: ma non solo lì, pure sotto il collo e sui bicipiti, macchie violacee, su cui i capillari rotti facevano capolino come nervature di una foglia secca, si estendevano e la sembravano voler tappezzare tutta.

«Ahahahahahah, buona morte a tutte!»

«Chissà se si trasmette anche ai Pokémon… la febbre e il raffreddore si passano, questa è tipo la stessa cosa, secondo me.»

Non controllarono le altre: molte di quelle ragazzette impressionabili aveva già in mente di procurarsi disinfettante per le mani ed un paio di prescrizioni antibiotiche subito finito il loro turno.

«Che schifo, mamma mia… Cosa facciamo?»

«Le lasciamo qua e vediamo chi esce viva da questo casino. E noi intanto andiamo lontane da qua, a distanza di sicurezza, per favore.»

Le quattro stavano ancora scalpitando; al contrario, nessuna aveva neppure alzato un dito per allungare una mano e tirare su la derelitta.

«Si ma i processi, domani? Glielo dici tu ad Acromio, eh, che non siamo riuscite a tenerle buone, eh?!»

«Eh, peggio per loro, domani si presentano senza denti!»

«Ma sei cretina, oh?! Vuoi dare l’impressione che il Team Plasma usa la tortura in diretta regionale?»

Oramai, insieme alla presupposta “malattia”, aveva iniziato a dilagare pure confusione che aleggiava in tutte le loro operazioni; per via della bussola morale impostagli, sempre indecisa, vista l’ambiguità di ogni loro precetto: niente violenza, a meno che non si tratti di avversari del Team. Nessuna pietà, se non per i deboli e gli sfruttati.

Ancora, contro chi stavano combattendo loro, semplici adolescenti più o meno scolarizzate, senza alcuna esperienza pratica in ambito militare? Ora il gioco di guardie e ladri in cui si erano buttate a capofitto non era più divertente come all’inizio.

Per fortuna che il Neo Team Plasma ormai aveva già vinto, nessun motivo di preoccuparsi.

Una recluta ancora più perspicace fece capolino dalla porta, roteando l’adorato walkie talkie dal laccetto come fosse un attrezzo circense.

«Ho chiamato una delle Reclute Scelte. Ha detto che adesso arriva.»

«Bene, così appena arriva le mazzate le condividiamo pure con lei!» Anemone non poté esultare sul serio, livida com’era.

«Le Reclute Scelte? – Camilla alzò un sopracciglio, fortuitamente nascosto dal suo ciuffo – Intendono le cinque che abbiamo praticamente e letteralmente ucciso alla Lega? Come fanno ad essere ancora qui? Magari le hanno rimpiazzate? No, in così breve tempo? Camelia ha detto che una si è spaccata la spina dorsale e l’amica di Iris… era stata impalata da una stalattite! Non è possibile…»

Intanto sulle piastrelle in terracotta, tacchi diversi dalle banali scarpe da ginnastica di tutti quei membri semplici si appropinquavano. Solo due gambe, il resto era un’altra schiera di nullità con le solite sneakers. Pretese da loro il rapporto.

«Praticamente, ‘ste qua stavano a picchiarsi fino a cinque minuti fa perché la piccoletta gli ha passato la rogna e ora sono, tipo, tutte a macchie. Hai presente un Whirlipede? Ecco, uguali.»

«Che bello, - estrasse dalla cintola un paio di Poké Ball, giusto per essere sicura – e io me lo devo gestire da sola, questo casino?»

«Uhm.» Le fece la recluta che la accompagnava.

«”Uhm”, cosa?»

«Uhm… signora!»

«Cosa dirai alla leader e alle altre tre, se ti chiedono qualcosa?» La interrogò in retorica.

«Che non ne sappiamo niente!» Rispose quella, assai entusiasta.

«Bravissima. – Una volta giunte alla porta, si sgranchì le dita, per nulla pronta ad affrontare una tale emergenza, senza la pressione datale almeno dalle sue compagne più minacciose – Se quelle non si risvegliano, ti faccio mia vice.»

«Evvai.»

Fece un saluto militare, che nessuna delle sue sottoposte ricambiò: gli servivano entrambe le mani per tenere le prigioniere dure, così come servivano alla nipote del Capopalestra di Boreduopoli il giorno seguente. Non poteva presentarsi in aula con una o due braccia in meno.

Senza la capacità di elaborare parole di senso compiuto, Lucinda scosse il capo, sicura che nella superficialità dei loro obiettivi i membri del Team non avrebbero dato a lei di che ragionare.

Si era rifiutata, ora che poteva esprimersi a voce, di prestare i suoi occhi per offenderle ulteriormente, quando le sue reclute stavano già raccogliendo la semina. Le avrebbe volute lasciar soffrire in pace, dignitosamente.

Infatti, se il megalomane depravato dietro la loro organizzazione si fosse seduto sul suo trono senza rispolverare le gogne, lei avrebbe più che volentieri abbandonato il Team la notte dopo lo scontro alla Lega.

Sapeva di aver violato il suo giuramento; la Campionessa di Sinnoh, che ora non la guardava nemmeno in volto da quanto l’aveva gettata in basso l’umiliazione, era la sua testimone.

«Una malattia infettiva, avete detto?» Non ci mise emozione.

Se a prima vista quelle ragazze le sembravano troppo belle, troppo carismatiche e troppo potenti per venire assoggettate ad un potere tirannico i cui lacci erano troppo larghi per fermare la loro avanzata verso la Sala d’Onore, le loro pance vuote, le costole in vista, le nocche scorticate e gli animi consumati dalla rassegnazione visualizzavano l’assenza di una vera, leale battaglia fra buoni e cattivi.

«N-No, non è vero, io non ho infettato nessun…» Un singhiozzo fu abbastanza estenuante da zittire la ragazzina, nel suo ennesimo tentativo di non venir additata come la colpevole.

La Recluta Scelta non la compatì e si rivolse alla squadra operativa.

«Le avete controllate?»

«Yes, m’am.»

«Vabbè, le avete controllate bene? Tutte?»

Terrorizzate all’idea di dover compiere l’esame di mano propria, si imbronciarono tutte e strinsero le mascelle in preda al disgusto. Queste procedure non stavano nei patti, qualsiasi fossero i patti, visto che leggere i termini e le condizioni di servizio non è un qualcosa di umanamente fattibile.

Lucinda aspettò una manciata di secondi, un dubbio si era fatto strada in lei: le quattro aggreditrici non osavano farsi avanti. La loro accusa non era un qualcosa che si poteva nascondere con la scopa sotto il tappeto, perché dopo tutto quel rumore ora stavano zitte?

Conosceva bene quella sensazione. Gli lesse panico nelle pupille, alla bionda.

In quei mesi di nefandezze, scorrerie e complotti le avevano insegnato fin troppo dettagliatamente cosa fosse un umano.

Fece due passi avanti, raggiunse la vittima e le sollevò il braccio.

Per qualche ragione, l’affetto che intercorreva fra di lei e la Campionessa, per quanto ce ne fossero state innumerevoli prove, non riusciva affatto a capirlo: le relazioni umane erano un’estensione della difficoltà dell’individuo “uomo” preso come singolo.

«Arceus, che schifo! Ma cos’è, muco?» Una delle ragazze in blu gridò, sul punto di abbandonare l’impresa.

«Sembra un fungo bianco, tipo la muffa delle Baccarancia.» Le disse una più ragionevole e meno sensibile.

Per riflesso incondizionato, Camelia, Anemone, Catlina e Camilla analizzarono i propri di arti: sulla loro carnagione più chiara si notava di meno l’infezione albina, sotto la scarsa illuminazione il rosso acceso delle bolle in rilievo le intimava di non grattarsele, pena una fontana di cruore impestato a cui non potevano far fronte: non gli era rimasto nemmeno un lenzuolo per bendarsi o dell’ovatta per fermare il flusso.

«Tiratemi fuori di qui! Hey, voi! Sono una top model, la mia faccia è tutto quello che ho! Hey, ah!»

La ragazza echeggiò fra le reclute, la giovane a terra si trascinò lungo il pavimento come volendo strisciare verso la colpevole, la quale era scoppiata a piangere di nuovo, anche se ormai non le rimanevano più lacrime.

«Eh? Ghecis? Ci vedi, mostro?! Ti stai divertendo? Stai ridendo di noi?»

La trattennero per i vestiti; l’ultima, per puro sadismo, si controllò anche il petto e le gambe da dentro l’uniforme, perfino le sue parti più delicate erano state compromesse dalla dermatite e le instillarono la paura di una patologia più grave, che l’avrebbe sfigurata andando avanti con gli anni.

«Non ce la faccio più… Non ce la faccio! Voglio andare via, voglio morire!»

Solo dopo aver gettato l’intera stanza di sei metri per sei nel totale caos, Lucinda si espresse.

«Beh, scabbia. Questa è scabbia.

Quindi, sì, la piccoletta vi ha attaccato una bella schifezza.»

«Ahahah… no… n-no… no! No!»

Il caldo. La fame. L’ansia. Chi stava muovendo quel corpo, quelle labbra, quello spirito morto?

Camelia approfittò della distrazione delle reclute per svincolarsi e si portò verso il muro diroccato, fissandolo per un secondo. Nessuna delle costrittrici intese il suo scopo, sino all’instante in cui, appoggiati i palmi davanti a sé, molleggiandosi all’indietro con parecchio slancio, colpì con la testa il cemento.

«Tenetela ferma, tenetela ferma!»

Ancora ebbra dalla contusione, ripeté il gesto con la stessa veemenza che, duplicata, la lasciò lesa, a strisciare la fronte contro l’intonaco, la frangetta lunga fino alle ciglia tinta di carminio come la tenda di un cabaret da incubo.

Chissà se le stesse criminali dalla tinta slavata avrebbero gioito di non doversi nemmeno scomodare, perché i loro target si sarebbero suicidati, una dopo l’altra.

Non avrebbero neppure applaudito? Eppure, lo spettacolo che il capo aveva allestito per loro si prospettava molto accattivante. Non se ne erano accorte, ma in quel teatrino di marionette miserabili, dove tutto aveva un senso e nulla doveva venire abbandonato al caso, c’era infilato pure un elemento di improvvisazione.

Non c’erano coltelli, pistole o veleni, là dentro. Solo cinque squilibrate e la loro fantasia.

La necessità di immobilizzare la mora decisa a spappolarsi le cervella contro il muro aveva distolto l’attenzione dalla lotta infuriante in cui le altre si erano lanciate.

Non era cibo, una medicina o dell’acqua che si contendevano, ma un affilato coccio caduto dal soffitto, che otto mani tutte assieme cercavano di raccogliere o sgraffignare alla fortunata, alla rinfusa.

«Portatemi via, - le intimò la bionda, dal volto lucido di sudore – o mi apro le vene, q-qui ed ora...»

Prima che qualsiasi contromisura venisse presa, Anemone era riuscita a staccare dal letto una gamba, lunga quanto la sua intera altezza. Brandendola come un machete, la agitò lungo tutto il raggio, le reclute che correvano in direzione della porta per non venire colpite.

«Sta zitta, ipocrita! Se proprio vuoi, ti ci mando io all’altro mondo! Tanto mi sei sempre stata antipatica!»

Le urlò e la beccò sulla spalla ripetutamente, facendola accasciare per via della clavicola divelta. La sua compagna senz’anima provò a soccorrerla, incurante della possibilità di aggravare il contagio.

«Se sei davvero mia amica, Catlina… - Le chiese, ogni sillaba, una fitta al petto – metti le mani sul collo e, per favore, strangolami.»

«No… Non posso… Ti voglio troppo bene… - si coprì la bocca con la mano ruvida - …possiamo morire insieme! Di sete… Di crepacuore… Di… D-Di… D-D-D…»

Le orbite si svuotarono, le pupille verde-azzurro della giovane aristocratica si erano dissolte sotto le palpebre e precipitò sul fianco della leader, quale un pesce fuor d’acqua che schizza via dalla rete, bruciato dalla mera immersione del proprio corpo nel mare di ossigeno.

Le due bionde formavano un’esilarante replica degli amanti infelici le cui giovani vite vengono terminate dal conflitto dovere contro sentimento, due destini incrociati nella bellezza della loro cella polverosa, il passaggio tremendo del loro amore marchiato di morte.

Almeno, finché entrambe boccheggiavano alla ricerca di un respiro non intossicante e non potevano bagnarsi le labbra con un veleno conveniente per la scena tragica; parlando di escamotage, se alla rossa non avessero strappato di mano il suo bel gingillo appuntito, magari non sarebbero neppure riuscite a seguire pedissequamente la trama della vicenda, facendone soltanto un tentativo poco riuscito di parodia.

«Basta, basta! Io non ce la faccio più!»

Una delle cadette di recente arruolamento cedette, lasciando la sua collega da sola, in balia di una Camelia afflosciata sul suo omero, una ragazza liquida sul punto di rovesciarsi a terra e spandersi, senza coscienza o integrità.

«C’è un limite alla disperazione… - si intromise un’ultima – nessuno ci costringe a stare in questo manicomio. Io me ne torno a casa, Ghecis e la sua “ricompensa” possono andare a farsi…»

«Uff, ferme un attimo. Basta porre resistenza. In quanto membro scelto e autorità su questo manipolo… almeno credo, che questo sia un manipolo? Voglio negoziare.»

Lucinda si sistemò i ciuffi color lapislazzuli dietro le orecchie, in modo che le ciocche sul parietale non andassero ad ingarbugliarsi sui lacci della mascherina nera.

Evitò di posare lo sguardo per troppo tempo, come si era ripromessa. Iris stava annuendo sotto il suo mento, ansiosa di sapere cosa avrebbero ottenuto. La nemica riprese, non rivolgendosi a nessuna in particolare.

«Da quanto è che non vi lavate?»

«Una settimana, circa.» Le rispose prontamente quella dai capelli viola, risucchiando un singulto.

La recluta alfa le mostrò un sorrisetto commiserevole e parlò alle sue sottoposte, ancora imbambolate dall’ipotetico favore che la loro direttrice provvisoria voleva concedergli.

«Allora è normale! Tutto spiegato: sono le condizioni igieniche scarse! – Fu strano sentire una combinazione aggettivo-nome-aggettivo in una frase del parlato, ma era effettivamente quello il problema; non detraeva tuttavia all’argomentazione che fosse proprio la ragazzina la colpevole – Fare la leader è la cosa più facile del mondo! Forse è per questo che tutti vogliono sempre comandare?»

Camilla si rialzò, fissando le ginocchia bianche della ragazza con cui aveva già combattuto due volte.

Le sembrava sempre così ingenua, non si spiegava come fosse stata reclutata. Le aveva confessato di venire dalla sua stessa regione, quindi escluse una raccomandazione. Dov’erano le sue motivazioni? Di solito, le persone malvagie le hanno scritte nei loro lineamenti. Quel viso roseo invece, quegli occhi rotondi azzurri, le labbra sottili… una combinazione di innocenza che si prendeva gioco dei Saggi ammuffiti nei loro mantelli termitai.

«E quindi?» Domandò, un altro nugolo di reclute si infiltrarono nella stanza.

In seguito, la tenebra scese sugli occhi di tutte quante, per quella che doveva essere l’ultimissima volta.

Come nel giorno in cui l’avevano portata davanti al giudice a farsi scuoiare da false accuse, i mugolii affaticati delle sue compagne raggiungevano le orecchie della Campionessa e vi riverberavano, assordando i suoi.

Pokémon pesanti le stavano scortando, le zampe le trascinavano lente lungo quei vicoli infiniti, neanche la luce riusciva a perforare la stoffa opaca, anche avesse voluto sforzarsi di aprire gli occhi. Muovere il collo poteva essere fatale, con le mani legate dietro la schiena impossibilitate dall'offrirle equilibrio: una caduta in avanti e la percossa subita antecedentemente si sarebbe trasformata in una vera e propria frattura aperta, a livello del torace.

Non le importava più nulla, a quel punto: avrebbe usato i suoi calzini per asciugare la fronte grondante di sangue di Camelia, avrebbe usato le buone anche per calmare Anemone e rimetterla isolata nelle sue fantasie placebo. Le sue cosce morbide c’erano e ci sarebbero sempre state per la sua migliore amica.

Camilla soffiò via la sua paura piano, non dischiuse nemmeno i denti per paura di bucarsi i polmoni.

«Tranquilla, Campionessa: non sei davvero ferita.»

Tale manovra non fu sufficiente, infatti dopo quella dichiarazione le scivolò fuori una sonora inspirazione. Aveva riconosciuto la voce di Lucinda.

«Non fingere di non averci pensato: non si prende la scabbia in una settimana di tempo.»

«Ma allora… - le mancarono le parole, mentre il ticchettio delle loro Poké Ball fra le mani della recluta si faceva più insistente, vista la loro andatura irregolare – cos’era?»

«Diciamo che quello che avete visto voi… - fece una pausa, per poi dare al tutto un tono dolce, quasi compatente – non è importante che lo abbiate visto voi, ma che lo abbiano visto le mie compari.»

«Un’illusione? Com’è possibile?»

Come se le sonde potessero entrarle in testa e registrare il contenuto dei suoi pensieri, la giovane donna quietò immediatamente i propri dubbi. Non aveva sentito dolore. Aveva blaterato idiozie, pure implorato Catlina di strangolarla, come se quella ci sarebbe mai riuscita, con le sue manine gracili dalle nocche lisce come cotone.

Le rincrebbe di non poter ringraziare a modo. Per questa ottima occasione, ma anche per l’avvertimento sui piani di Acromio lanciatole nella stanza dei Superquattro.

Non aveva idea di cosa avesse lei che le altre non avevano, per aver risvegliato la parte empatica e umana di uno scagnozzo della figura più malvagia di tutta Unima.

Si era bruciata una mano per lei, eppure se ne era dimenticata il giorno successivo. Lamentarsi di un osso rotto, quando tutto ciò che amava stava per cadere in mano alla tirannia del Team Plasma, non le pareva una priorità di cui un vero eroe dovrebbe porsi.

La recluta gli fece presente di arrestarsi e le rimosse la benda, facendo attenzione a non strapparle i capelli.

Una porta grigia, con un cartello giallo e nero che ammoniva di pavimento sdrucciolevole, si aprì dopo che un Rhyperior la trascinò lungo una pista arrugginita. Una zaffata di umido e chiuso la costrinse a trattenersi il respiro.

«Ah, comunque: vai sempre dritta e poi gira alla terza a destra e segui le scritte rosse. – Lucinda si voltò verso di lei – Hai imparato ad usare Focalcolpo, senza ammazzare qualcuno?»

La bionda si ricordò subito di quella specifica sessione di allenamento, almeno quanto il Team si ricordava di cosa lei e Iris avessero voluto intrattenere dopo. Pensò ai bersagli in pietra e annuì, timida.

«Bene, allora.»

Ricevute le loro Poké Ball, si lasciò condurre dentro, mentre anche le altre quattro avanzavano, le lasciò con un augurio, strano come tutti i precedenti, mediante lo stesso sorriso magnanimo.

«Buona doccia, ragazze.»

Chiuse la porta. Nessun membro del Team era entrato insieme a loro.

Per quanto l’area ricoperta di piastrelle verde palude fosse dell’area almeno tripla rispetto alla loro amata camera di stagionatura, le dieci gambe si raccolsero di fronte alla soglia, la gomma delle scarpe fallì nel trattenere la permeazione del velo d’acqua adagiato a terra.

Lo spirito dell’elemento abitava quel luogo, lo possedeva; i pannelli di cartongesso penzolavano dal soffitto e rivelavano le interiora di quel carcere abbandonato, una cancrena nera con cui l’edificio intero combatteva per non crollargli addosso.

Sul lato ovest, una fila di lavandini condivideva la stessa vasca in porcellana bianca incrostata dal calcare, le lunghe bocche affusolate attecchite dalla ruggine, proboscidi di Donphan imbalsamati. Camilla si gettò in quella direzione.

Lo spesso strato di ossidazione la trattenne dall’agguantare la manopola e far sgorgare un affluente da cui dissetarsi.

Il suo riflesso sullo specchio alla parete spezzato, la pelle screpolata come il guscio di un uovo sodo e nervature di mercurio vi scorrevano sotto la superficie. La sfocatura ed i graffi sul materiale, comunque, non le impedirono di constatare di non avere né botte, né fuoriuscite di sangue.

Parlò contro lo stesso specchio deformante, da cui le sue ragazze apparivano pochi passi dietro di lei, con gli occhi puntati tutt’intorno alla stanza: per quanto l’immagine fosse ectoplasmatica, erano deperite, parecchio sciupate, ma pur sempre resilienti anche a quello spavento collettivo.

«Ce l’abbiamo fatta?» Si voltò ed il gruppo finalmente riprese attività.

I neon non sembravano volergli rivelare troppo. Il flusso di corrente appariva continuo, indebolito solo dall’umidità, piuttosto pericolosa per i circuiti antiquati.

«Che brutto che è stato! Ho preso troppa paura.»

Catlina si guardò negli occhi ad intermittenza, sbattendo le palpebre per simulare un cambiamento repentino di luce. Smise e fece quel commento, mugugnando per l’imbarazzo d’essere l’unica ad aver veramente temuto di aver rovinato il tutto per via dei suoi attacchi imprevedibili. Ma accortasi di essere perfettamente lucida, la fitta di fifa le passò.

Le aspiranti Campionesse non si concessero di esultare, per il momento. Erano consce di dover ancora attraversare l’inferno, invece di brindare sul primo scalino in discesa dal limbo.

«Qui non ci sono le telecamere?» Riprese la biondina, con tono più esigente, per dimostrarsi utile.

Aveva insistito su quel punto dall’inizio. Non era un caso, che avessero pronti fascicoli di documenti per incastrarle dall’oggi al domani. Ancora di meno che una lampadina iniziasse a lampeggiare, guarda caso, proprio davanti ai suoi occhi, proprio quando stava per smontare le tesi del professore in favore della sua cara leader.

«Non è contro la legge, mettere le telecamere in un bagno?» Le rispose con una domanda la rossa.

«A proposito, avete visto? – Camelia appoggiò il piede su un orinatoio, sprezzante come une esploratore che scopre delle nuove rovine – Ci hanno dato il bagno dei maschi, ahah.»

Trovava ridicola la mancanza di tatto del Team. Credevano di aver a che fare con un branco di puriste, terrorizzate dalla mera esistenza del genere maschile sulla faccia della Terra? Quella definizione somigliava più ad una caricatura, un qualcosa che un osservatore poco informato avrebbe potuto blaterare nei loro confronti, uno che di loro aveva ascoltato soltanto i loro dialoghi senza conoscerne il contesto.

Camelia stava ispezionando degli urinali staccati dal muro con le tubature esposte, con inspiegabile curiosità.

«Vabbè, dai, - riprese, saltando sopra una panca in legno marcito, come fosse uscita da un musical – l’importante è che, non si sa come, stiamo tutte bene!

Cioè… noi quattro stiamo bene.»

Forse erano i postumi della disperazione, interrotti dalla serietà richiestogli per completare il trasferimento in quell’esatto luogo. L’ineluttabilità della loro incarcerazione doveva averle inseguire. Avevano fatto tanta strada solo per farsi intrappolare in un vicolo cieco, la ragazza dai capelli corvini si prendeva gioco di quelle sciocche ambizioni targhettando colei che se le era messa in testa per prima.

L’esclusa dal loro circolo di Allenatrici qualificate ed affidabili, con i piedi saldi a terra, aveva ovviamente recepito il messaggio.

Prima che potesse anche provare a difendersi da quella freddura, l’aviatrice si intromise, con il suo enorme cuore impacciato nel dare spiegazioni ai suoi impulsi incontrollabili.

«Iris, scusami! Ho fatto fortissimo, non volevo…»

Strinse i pollici nei pugni, anche se infliggersi da sola una punizione non avrebbe mai alleviato le botte che si mimetizzavano nella carnagione color cacao della sua compagna più piccola.

«Non importa.» Disse Iris, solo quello.

«…eh?!»

Anemone lanciò un’occhiata confusa a Camelia, la quale ricambiò con un sorriso inquieto. Confidarono nella reciproca abilità di comprensione del carattere della loro amica, ma nel loro repertorio di reazioni non risultavano esserci esempi simili.

Tutte le volte che la modella l’aveva presa in giro amichevolmente per il colore inusuale dei suoi capelli o per la sua inesperienza in lotta, le era sembrato che importasse, ad Iris. Perfino l’intera epopea del suo piccolo seno insignificante: poteva starci una certa stizza all’inizio, ma non le faceva passare indenne nemmeno quella burla in buona fede da quanto, appunto, le importava.

E poi vi erano gli incidenti più grandi, in cui Iris non poteva permettere a se stessa di tacere sulla loro negligenza a prescindere dallo scenario. Fossero i Magazzini Nove, il solaio dove dormivano quella sera di pioggia o il sedile posteriore del fuoristrada di Camilla.

Piccoli fruscii di misfatti destinati ad invecchiare come storia antica nel giro di poche ore rimbombavano nel cuore della ragazzina di Boreduopoli, la valanga scuoteva ogni arteria e le dava prova concreta, a livello di nervi, di quanto il male psicologico esistesse e facesse rumore, molto rumore.

Se quella era Iris, sepolta in tutte le istanze di rancore preservato nei confronti di ognuna delle compagne, chi era riemersa, in piedi dopo un pestaggio brutale, dopo pugni e calci in pieno viso, le orecchie esposte ad offese sulle sue origini e sulla sua individualità? Si era passata la manica sotto la narice, osservando la macchia sull’orlo seccarsi man mano che l’epistassi diminuiva.

Chi aveva detto loro “non importa”, dopo tale degradazione fisica e morale? Chi era quella ragazza?

«Venite di qua.»

«Sei partita di testa? – la mossa che la modella aveva appreso per stallare la sua interlocutrice sul posto, congelandola sui suoi piedi, non funzionò – Ti piace, ah? Non c’è altra spiegazione, come fa una a goderci così tanto quando la insulti, la ridicolizzi davanti al mondo e la prendi pure a pugni in faccia?

Iris, sei una grossa masochista o cosa?!»

La ragazzina le scivolò sotto lo sguardo, evitando l’attacco con leggiadra indifferenza.

Attraversò l’intero atrio, divisore dello spazio dei gabinetti e quello degli spogliatoi. Non erano rimasti segni tangibili dell’utilizzo di quel servizio ma nessuno si era mai curato di restaurarlo.

Allineate, separate solo da pannelli removibili in lotta contro la gravità e i cardini sul muro, una dozzina di cabine doccia. Le tende dovevano essersi deperite per prime, ragione per cui ne sopravvivevano solo gli anelli per appenderle, la carcassa spolpata.

«A voi non bruciano gli occhi?»

Le due giovani di Sinnoh si coprirono la bocca e il naso con la manica, simulando una maschera. L’assenza di riciclo dell’aria aveva trattenuto là dentro il tanfo di anni ed anni di sudore, sospiri, indigestioni, abbandono.

«Sull’ultima. Ma non so quanta differenza faccia.»

Le quattro fecero una smorfia schifata, non avrebbero avuto il coraggio di avvicinarsi nemmeno al piatto delle docce, lercio di chissà quali e soprattutto quanti miscugli ributtanti. L’area era umida, macchioline di acqua e calcare si aggregavano sui bordi. Iris si era addirittura inginocchiata e le ginocchia dell’uniforme si erano bagnate, le scarpe avevano fatto la stessa fine.

«L’acqua va!?» La leader indicò il bocchettone incrostato.

«Le manopole sono ancora là… fanno schifo anche solo vedendole da qua, ma magari…»

Né Catlina né l’altra ottennero nulla da quel quesito.

Del resto, sapevano in cuor loro di non trovarsi nelle docce per farsi la doccia, avrebbe avuto troppo poco senso. Mentre malmenare la loro amica, fingere di aver preso una malattia da lei, per farsi condurre in quel luogo prestabilito… aveva un suo fascino, se proprio non c’era verso di dargli un senso.

«Sssh, - L’Allenatrice dai capelli viola, carponi, rivolse la sua attenzione al piatto, fece chinare le altre al suo livello – sentite.»

Nel silenzio, il pugno scorticato contro l’asfalto, ancora imbiancato di polvere, batté un colpo vuoto, quale la membrana di un tamburo. Sicura che l’intuizione non le avrebbe colte subito, un altro colpo seguì, identico al primo. A quel punto, Iris si voltò, un debole sorriso le incurvava le labbra arrossate.

Tale gesto di assenso lasciò le ragazze perplesse. Le aveva perdonate solo per le botte, o anche dai loro peccati precedenti, quali l’ignorarla e il farla sentire inferiore, erano state assolte?

«Uhm?» La Capopalestra mora non ebbe la pazienza di aspettare indizi.

La più piccola usò un tono gentile, lo stesso con cui lei si era timidamente presentata alla Lega, con i suoi codini un po’ spettinati e la maglia oversized, la sua trasparenza di animo.

«È vuoto. Non c’è niente sotto.»

«Cos… Scusa?! No, non può andarci così bene, non ci credo.»

Sopportò ancora la drammaticità della compagna, che in fondo comprendeva.

La seconda invece, scostandosi i capelli nervosamente, provò ad elaborare meglio.

«Anche se sotto è vuoto, questo non significa che… - perse il filo, e riiniziò - Se c’è un’altra stanza sotto…»

«Ogni volta che ci portavano fuori, – Anemone la interruppe, con la sicurezza che la sua esperienza e la sua istruzione le garantivano in questo campo – ho contato quanti passi ci mettevamo ad arrivare alla sala: circa centotrentasei.

Ma non vi pare strano?»

«Centoventisei?»

«Sono pochissimi! Vuol dire che non ci hanno fatto salire a piedi, fino al posto dei processi. Siamo salite in ascensore! Non lo abbiamo sentito perché eravamo bendate.»

«Non è possibile. – ribatté la biondina - Ce ne saremmo accorte.»

«Nessuno – lo fece di nuovo, sicura che una riccona a cui non era mai stato chiesto di alzare un dito in vita sua non avesse alcunché da ribattere – si accorge, quando un aereo aumenta o cala di altitudine, lo sbalzo di pressione è minimo. Potrebbero averci portate su di dieci piani e non ce ne saremmo accorte.»

«Non ci sono neanche finestre, né qui né nella nostra cella. – Si aggiunse Camilla – Quindi, può darsi che… Siamo al piano terra… - lesse dallo sguardo della pilota di essere vicina alla soluzione e passò da fuochino a fuoco – no, siamo sottoterra!»

Usando le proprie mani, immaginò un modello della struttura: avevano visto tre luoghi in croce, eppure con un po’ di immaginazione potevano ricreare una veduta aerea dell’edificio, sebbene non ne conoscessero neppure l’aspetto della facciata.

«Hanno costruito la struttura nuova al livello base, con il tribunale e tutto. Quella vecchia è stata coperta e lasciata sotto. Se Ghecis è davvero al verde e si mette a vendere la droga in giro per i vicoli, restaurare un vecchio carcere maschile probabilmente non era nei suoi interessi.»

Non erano giunte ad un accordo comune, quella questione non faceva altro che espandersi e diramarsi in ulteriori investigazioni sul funzionamento del complesso. Ma il tempo stringeva, quegli istanti usati per spremere le loro meningi doloranti erano abbastanza per farsi già uno shampoo e un balsamo.

«Frega niente, muoviamoci a togliere ‘sto coso. – Camelia passò il sacchetto tappezzato di etichette alle compagne, alla ricerca delle sue Poké Ball - Al massimo ci estendono la pena per danneggiamento di proprietà pubblica.»

«No, che sfiga!»

«Leader, che hai?»

Davanti ai suoi occhi, il Garchomp di Camilla non le era mai apparso più strano. Aveva la bocca asciutta, i denti affilati digrignati e gli occhi stanchi, svuotati. Agitava quei prolungamenti ossei sulla punta delle zampe in maniera disordinata, affettando il nulla con le falci.

«Ci scommettevo. Hanno fatto qualcosa ai nostri Pokémon, ne sono sicura.»

«Camilla, - le fece strano chiamarla per nome, una certa naturalezza le fece notare quanto maggiore fosse lo sforzo consapevole di non portarle mai rispetto – mi dispiace un sacco, ma puoi cortesemente ordinargli di usare Dragobolide, Giga-mega-ultra-impatto della morte o un’altra di quelle mosse spacca-deretani di voi Campioni fighetti?»

«Appunto, - La donna osservò la sfera del suo drago, abbattuta - Non riesco.»

«Gli hanno inibito tutte le mosse. – Catlina eseguì lo stesso gesto, per tutti i suoi Pokémon insieme – Con Inibitore, la mossa. Serve un Centro Pokémon qua.»

Le reclute si aspettavano il peggio da loro. Le prigioniere avrebbero potuto ordinare al potentissimo team della Campionessa di sbriciolare un muro e sgattaiolare fuori, giocando a bowling con le reclute come birilli.

Del resto, si trovavano lì per lavare i loro poveri compagni. Niente doppio gioco, avevano messo in ballo la loro dignità per quel minuscolo privilegio. Forse gli sarebbe convenuto cominciare a strigliargli il pelo e controllargli le unghie, non sapevano in quali gabbie striminzite o in che tugurio avevano lasciato i loro amati mostriciattoli fino a quel momento.

Ancora inginocchiata nello stesso punto, Iris chiamò una volta sola, con determinazione.

«Anemone, - era adagiata contro la parete, abbassò lo sguardo senza esitazione – questa specie di coperchio si può staccare?»

Si grattò il sopracciglio, esortando il suo cervello ad analizzare concretamente il problema.

«Hmm, - la rossa si accovacciò, sperando di non sporcarsi ancora l’uniforme – sono circa mezzo metro per mezzo metro, conta che questa è resina sifone, non porcellana. Poi… Poi il silicone che tiene attaccato al pavimento è abbastanza rovinato, ha preso acqua, sì, sì.»

«Allora?» Le rivolse quegli irresistibili occhi nocciola, che la rossa aveva di malavoglia rifiutato durante il suo processo e se ne era già pentita.

«Sì che lo puoi staccare… se hai voglia di grattare via una ventina di strati di colla e muffa. - Lo ammise con sufficienza, ottenendo una leggera delusione nella sua amica – Io lo facevo almeno una volta al mese quando facevo la gavetta, mi ci volevano tre ore e un barattolo intero di solvente. Zero su dieci, non lo raccomando.»

Iris nel frattempo afferrò un lembo dei vestiti della rossa, desiderando la sua completa immersione: stava per proporle qualcosa, qualcosa che non avrebbe nemmeno tentato di cominciare senza il consiglio della sua amica esperta in meccanica.

Aveva paura di irritarla, aveva bucato la sua difesa con lo spillo della contestazione sulla sua presunta eterosessualità e fatto affogare tutta la sua barca di credibilità da quel singolo foro. Certo, credeva di averlo fatto per il suo bene emotivo, adesso insieme alle insicurezze che Anemone aveva riguardo il suo status sociale e le proprie relazioni interpersonali, l’ombra della sua fidanzata che la esortava a smetterla di leggere i suoi preziosi fumetti, pena la separazione, avrebbe infestato i suoi incubi.

«Possiamo staccarlo con questa, che dici?»

La rossa incrociò le braccia, piuttosto confusa.

Lo strato di unto infilatosi sotto le unghie delle punte smussate si trasferì sui bottoni bianchi, mentre la ragazzina li maneggiava attraverso la fessura: la taglia extra small la costrinse a scendere fino al terzo della fila, un'ondata di imbarazzo la infiammò all'idea che delle ragazze più mature di lei intravedessero lo sterno da quella fessura.

Riacchiappò i suoi sentimenti e li mise a bada, per quel che doveva fare non poteva lasciare il suo ego ammaccato libero di intralciarla.

La estrasse piano, per la paura che l'attrito delle fibre strette intorno alla pelle della pancia e dei fianchi la ustionasse.

Inizialmente era bianca. Non che fosse il colore a dispiacerle, ma dopo anche sei strati di coperte e fodere non le pareva di fare progressi in quelle notti insonni e tormentate dall'idea che le lenti della telecamera avessero un visore notturno.

Non era andata così, Camilla l'aveva aiutata ancora. E pur non volendolo, Iris in cambio aveva alterato la sua sorte al processo e la sua limpida reputazione.

Sperò di riscattarsi agli occhi della Campionessa. Purtroppo il suo reggiseno nero, profumato di quell'aroma corporeo ed etereo allo stesso tempo, stava vicino alle fondamenta dell'utensile, nascosto.

Lo rinforzavano un altro capo del medesimo colore, ma dal tessuto più morbido, visto che sorreggeva un peso sì ingente, ma pur sempre minore, ed uno bianco a strisce giallo limone, una combinazione infantile anche per una bambina come lei in attesa del miracolo della pubertà.

Lo strato esterno era il più fragile, un pizzo rosa pastello che aveva sudato per non sfaldare con il suo amato taglierino.

La cosa buona fu che la parte scuoiata dalle decorazioni era malleabile, quindi ne derivò una doppia fodera arrotolata fra i nodi degli altri materiali.

Iris persistette nella sua reticenza.

Non le sarebbero arrivati applausi, non ne voleva. L'unica cosa che le premeva era di rimuovere il maledetto coperchio e di scostarlo sul lato della doccia.

«Una corda? - Anemone corse quasi a strappargliela di mano. Si vantava di essere la più abile in manodopera del gruppo, ma le sue enormi dita non avevano speranza di infilarsi nelle intercapedini stretti - Ma non possiamo staccare il silicone a forza, bisogna pur attaccarla da qualche parte...»

Quello era un lavoro per una ragazza piccola. Il loro essere ragazze grandi non aveva contribuito, se non nel provvedere rifornimenti al loro comandante.

Non che la dimensione delle proprie mani fosse attuale oggetto di complessi per Iris.

«Più o meno. - Camilla le si accostò con un sorriso inspiegabile, insieme al suo Togekiss e a Milotic – Su, falle vedere la specialità, tesoro.»

Afferrando il collo della lunga serpentina realizzata in biancheria da donna, l'Allenatrice dai capelli viola fece volteggiare l'estremità: un artiglio grigio, dalle membra nodose in ferro intrecciato, si dondolava come l'arto rinsecchito di un mendicante affamato.

Poi Iris lo raccolse al volo e dimostrò la flessibilità, piegando i bracci spessi quanto il manico di un coltello fine, i quali mantennero la posizione.

«Possiamo attaccarlo e tirarlo su.»

«Hey, quelli sono i ferretti del mio reggiseno!»

«Intendi “dei nostri” reggiseni, Anemone.»

Non aveva usato i tanto odiati vezzeggiativi, ma la Campionessa era riuscita a trattarla con accondiscendenza anche così.

«Dai, quello era uno dei miei preferiti! Iris, tu non hai contribuito?»

«Non mi serve una spranga in titanio del genere, - la giovane non la degnò nemmeno di uno sguardo, allargò i bracci dell’attrezzo, precisione e fretta si azzuffavano fra i suoi polpastrelli - la mia schiena si regge benissimo da sola.»

Mentre lei lavorava, le quattro si scambiarono una perplessità aberrante: era un’offesa a loro? Ai loro seni? Alla loro ossessione per gli stessi? Alla critica per chi la compativa per la mancanza degli stessi?

«…Non si parla così a delle persone più grandi...? – Catlina si rese conto di non saper sgridare e cambiò discorso – Camilla, per favore, di’ qualcosa.»

«Hmmm…»

L’idea di infilare le dita dentro lo scarico fece rabbrividire la ragazzina. Arricciò il naso e ogni volta che il ferro non ne voleva sapere di incastrarsi nelle fessure della bocchetta, violava il suo voto al pudore ed afferrava l’intero componente metallico sul centro del piatto doccia ed il ribrezzo diminuiva pian piano.

A casa di Nardo richiamava tutte quando lasciavano i capelli nella doccia, li tirava su e riconoscerne il colore andando a richiamare la colpevole le gonfiava il petto, invece.

«Ci riflettevo prima: stiamo letteralmente aiutando il Team Plasma facendo così. - La Campionessa volle condividere la sua saggezza – La prima volta mi hanno presa d’assalto quando ero da sola, poi alla Lega ci hanno tutte divise e ci hanno quasi messo in ginocchio.

Ragazze, stiamo perdendo di vista la cosa importante: dobbiamo restare unite, almeno per questa volta.»

«No, no, - Camelia la incalzò – Iris ha ragione: quel reggiseno è davvero orrendo, punto e basta. – si rivolse ad Anemone, appoggiandole le mani sulle spalle da dietro – davvero tu vai in giro con roba del genere addosso?»

«Uh…»

«Ce l’ho fatta. – Tacquero tutte, Iris si alzò in piedi, le mani aperte alla ricerca di un piano su cui asciugarsi – Potete per favore prestarmi i vostri Pokémon per tirare su la corda? Da sole non ce la faremo mai.»

Quello stoicismo l’aveva resa irriconoscibile, certamente. Ma non per nulla, anche molto più affabile.

La più piccola del gruppo era andata incontro al problema senza la sua spessa corazza di vittimismo e di auto-commiserazione. Aveva affrontato la belva a mani nude e ne era uscita con la pelliccia in pugno.

«Mettete i più pesanti in basso, i più leggeri verso l’alto, quelli che possono volare o fluttuare tirano tutti nella stessa direzione. Attenzione a non farvi male, piccoletti.»

Pur non avendo a loro disposizione raggi laser, getti ad alta pressione o palle di energia, dai volatili ai draghi, agli psichici e ai terrestri, con versi colmi di entusiasmo esercitano la forza di cento Terremoti. La corda non gli scivolò dalle zanne o dal becco, nonostante il chiaro dolore ai denti e alle mandibole.

Era il momento della loro vita in cui gli era richiesto l’impegno mai sprigionato prima, di fare insieme del proprio meglio, di darne tale prova alle loro Allenatrici ancora ignoranti di quel concetto.

«Però volevo dire che… Una ciocca violetta le cadde sul naso, con un soffio la bandì lontano dal suo sguardo. Si sarebbe risistemata dopo i capelli, aveva la netta sensazione che nessuna delle sue compagne l’avrebbe giudicata – Ma quanto è figo l’avere un piano, per una volta tanto?»

Voleva anche complimentarsi con loro, che lo avevano seguito step per step: l’assalto per via della fantomatica infezione doveva essere realistico; niente battutine sulle tette o sulla loro vita sessuale, in quei tre mesi ci erano sempre andate troppo piano. Iris gli aveva fatto intendere che dovessero picchiarla a sangue, di non fermarsi se gridava e le implorava di darle tregua. Nessuna safeword.

Vedere il successo della sua impresa come un martirio in favore della libertà era riduttivo; i segni delle ferite, le cicatrici le sarebbero state care, a lungo andare.

Il suo profilo abbronzato, nel cuore di Camelia, Anemone, Catlina e Camilla, aveva ottenuto una posizione riverenziale, un’aura di ammirazione per il suo coraggio la circondava e faceva presa in loro. Non avrebbero mai definito Iris una tipa “tosta” od “eccezionale”, eppure aveva ottenuto il rispetto che era suo dovere guadagnarsi, non esigere od elemosinare strisciando ai loro piedi.

Il tutto ricordava loro la pesca a gettoni delle sale giochi, una versione con più di qualche centesimo e dieci secondi del loro tempo in palio.

«Vero! Dovremmo farla più spesso, ‘sta cosa del “piano”…» Catlina ruppe la sua faccia di bronzo e dimostrò il suo consenso a tale disposizione a lei aliena.

«Sei troppo avanti per noi. – La pilota le batté la spalla con delicatezza, rivolgendole un tono fraterno – Non ci dici le cose per vedere se anche noi minorate mentali ci arriviamo?»

Si distaccò dal voler salire su un piedistallo e voler attivamente dargli delle idiote. O meglio, era sicura sarebbe giunta l’occasione per ricordarglielo, ma non erano il tipo di idiota che eleva il sé all’auto-celebrazione. Avrebbero potuto scappare via insieme, aver avuto una perfetta sincronia e rimanete tutte, appassionatamente, delle ragazzine senza cervello. E non avrebbe voluto che questo cambiasse.

«Adoro – la mora dette il suo parere, sempre con il suo atteggiarsi serpentino, tuttavia si tradì con delle buone parole – come Iris ci stia tirando fuori da qui. Ha ragione il Team Plasma.

Siamo un branco di lesbiche inutili. Nel vero senso della parola.»

Ad Iris stava quasi per scivolare una risatina: non sapeva se si trovava d’accordo con Camelia o no, per quanto non le sarebbe dispiaciuto istituire un anniversario per tale raro evento.

“Quattro deficienti con le mestruazioni isteriche” … chi aveva detto questa cosa? Era stato sorpassato presto.

«Oddio… - La voce bassa di Camilla fu inghiottita da un boato gutturale, i calcinacci appesi alla base si dondolavano ai resti del silicone rimosso – Wow, ragazze… Solo… Wow.»

Come il piatto della bilancia su cui erano messe in palio le loro possibilità di riscatto da una vita da prigioniere del dittatore Harmonia, la plastica sporca in bilico sotto la salda supervisione dei loro Pokémon in combutta liberò un miasma ancora più potente, più organico e vivo dell’odore di chiuso di quei giorni.

Finì adagiato sul pavimento, l’accesso alla voragine apertasi sotto era completamente libero. Potevano passarci il Garchomp di Camilla ed il Dragonite di Iris senza problemi, cinque fanciulle dalla corporatura ammorbidita nei punti giusti avrebbero avuto poco da temere.

«No, ci sta andando tutto troppo bene: secondo me adesso moriamo.» L’aristocratica tremò.

«O magari muori tu e dirai “ragazze, andate avanti senza di me!”, visto che sei un peso morto.» La canzonò la mora.

La pozza nera, per quanto poco romantico suoni, aveva eccome un fondo: un cotto tappezzato dalle alghe, viveva e respirava anch’esso come un vivente, frusciava e deglutiva quale una belva sveglia dal letargo.

«Andiamo, dai. – Camilla si toccò il ciuffo, incerta anche lei su cosa le avrebbe attese laggiù – Le reclute daranno l’allarme a momenti e non abbiamo molta scelta nel coprire le tracce.»

Iris imbastì la corda, tramutandola in un rampino: sarebbe stato come alle elementari, quando la maestra la sgridava e le toccava scendere dall’albero più alto del cortile, facendo attenzione a non impigliarsi con la gonna sui rami del pesco.

Ma ora era diverso. Lei era diversa. Non era più lei, da sola.

«Uhm.» Annuì, con convinzione.

Fece strada, aggrappandosi alla corda e tenendosi in equilibrio con i piedi, lungo la parete viscida. La sua squadra la seguì a ruota, osservando che non cadesse per quei cinque, sei metri. Gli esemplari che potessero offrire supporto alare aiutarono le ragazze meno agili, con la mossa Psichico scesero anche i più pesanti.

Non c’era altra via di uscita.

Erano le Allenatrici venute dal basso, cadute nell’abisso per mano di Ghecis, di Acromio, della spazzatura che era la politica e la legislazione di Unima.

Non avevano scelta.

Se volevano almeno provare risollevarsi dalla loro caduta, dovevano scendere ancora più in basso, attraversare la bolgia e sperare di approdare sul versante nudo del monte Purgatorio.

E quindi una ad una, una dopo l’altra, scesero. Furono accolte dal buio che ci si aspetta in una serata lontano dai lampioni, ma in cui la luna è fulgida in cielo; potevano discernere dove fosse attraversabile solo dal riflesso dell’acqua sulla sponda impiantita.

Erano giunte allo Stige. Al posto delle anime dei dannati a galleggiare nello scorrere di liquami verdi una lattina di Lemonsucco, l’involucro sfaldato di un Dolce Gateau ed un bicchiere in plastica con la cannuccia ancora infilzata che proveniva dalla stessa catena di fast food dove avevano ritirato il pranzo la volta della caccia al Sangue del Drago: possibile che gli stesse scorrendo davanti agli occhi proprio lo stesso bicchiere che avevano gettato via? A volergli dire che il flusso dell’esistenza altro non era che un circolo, chiuso in se stesso, senza punti di conclusione o di partenza?

Ma le cinque eroine avrebbero corso più veloce della trasmigrazione, della luce e della morte. Finché avevano ancora gambe su cui sostenersi ed uno spirito ancora fremente nella gola secca, sarebbero andate avanti.

Senza fermarsi, continuavano a muoversi attraverso i condotti delle fogne di Austropoli.

«Ci stanno già seguendo, dobbiamo aumentare il passo.»

Nessuna di quelle parole attraversò la bocca di Camilla, troppo occupata ad ossigenare il cervello per ricordare le indicazioni di Lucinda, le braccia con cui reggeva la sua migliore amica e non lasciarla indietro ed il cuore, per non farla soccombere alla paura, allo sfinimento o alla rassegnazione.

Per quanto lei non disponesse di un fisico atletico e nemmeno di un abbigliamento che perlomeno le consentisse di ovviare all’aerodinamicità ridotta, doveva stare in testa e fare da guida. Si crucciava di non riuscire a scacciare gli stormi di Zubat che volavano contro di loro e le unghie incolte penetravano nella carne di Catlina e si aggiungevano alla sofferenza di costringere una ragazza quasi immobilizzata ad un moto brusco.

«Per favore, tienimi. - Camelia avrebbe desiderato mille volte un’uscita di scena in slow motion, con il ticchettio dei tacchi alti in sottofondo – Mi fa già male la milza…»

«Ti tengo, ti tengo. - Anemone optò per la manica dell’uniforme come punto di traino: il professore di educazione fisica valutava i suoi tempi al test di Cooper con gli standard maschili non senza una ragione - E poi dice che mille calorie al giorno ti bastano…»

Non lo disse per cattiveria, in quanto la denutrizione faceva preoccupare anche lei di dover bruciare i suoi muscoli sodi; adorava il fisico snello e sottile della compagna, ma non era certa del contrario, da quanti complimenti aveva riservato ai suoi glutei e ai suoi bicipiti.

Lungo il cavalcavia usato dagli addetti alla depurazione si muovevano compatte, quale una falange sulla via della ritirata, attente a non scivolare nell’acqua putrida o a slogarsi una caviglia fra le piastrelle sconnesse.

«Dobbiamo andare verso una scala che ci porti su?»

«Camilla, avranno già piazzato la polizia ad aspettarci sopra ogni tombino…»

«Risparmiati il fiato, so dove stiamo andando… Ah…» La Campionessa reputò la propria confidenza con Catlina approfondita al punto tale da potersi perdonar quella leggera rudezza.

«E da chi lo sai?» La incalzò.

«…Lo so e basta.»

«Come sapevi della corda, prima di tutte noi. E sapevi anche del video nell’onsen… ma non ce lo hai detto.»

Con le meningi ormai otturate dall’adrenalina, la donna non comprese appieno le ultime supposizioni.

«…basta che mi dici perché. – Affievolì la voce, cosa che la biondina sapeva fare ad arte, ringiovanendo di dieci anni sonori – Se è una cosa fra te e…»

«Ferme!»

Un ritardo nei riflessi gli impedì d’arrestarsi in prossimità del resto del gruppo. Tirare il freno durante una corsa spericolata, con gli sgherri di Ghecis alle calcagna non era concepibile.

«Iris, ci ammazzano! – le gridò la rossa, a circa dieci metri da lei, i muscoli ancora caldi per riprendere lo sprint verso la destinazione – Muoviti e…»

«Non abbiamo tempo, veloce, veloce!» Camilla gesticolò con la mano libera, come se potesse lanciarle un sortilegio e convincerla a rimettersi in marcia.

D’un tratto, una sirena intensificò l’ululato, piangendo come un cucciolo ferito dalle trappole dei cacciatori.

«Andate avanti, arrivo subito.» Gli rispose, voltando l’angolo con calma serafica.

«Non possiamo fermarci, non possiamo…»

«Andrà tutto bene, ho visto solo…» Fu interrotta.

«Iris, ascoltami: - la Campionessa ispirò, la voce roca per l’agitazione - non possiamo lasciarti qui, da sola.»

«…guarda: ci sono dei Pokémon qui.»

«Ah?»

Da dietro il muro non uno, due musetti curiosi si porsero sul palmo della ragazzina, lasciandolo maleodorante e umidiccio.

«Un Aaron e… come si chiama, lo stadio base di quell’uccello antico, di cui rimangono le piume calcificate?»

«Archen. – l’esserino gracchiò confuso, non doveva vedere una persona in carne ed ossa da tempo – Questi Pokémon sono rarissimi. Chi li ha buttati nelle fogne… oddio.»

Constatò dagli enormi buchi ancora visibili sulle parti molli del collo e del ventre che non si trattava di un Allenatore crudele o di una Poké Ball scivolata nel drenaggio per sbaglio. Avevano entrambe un’etichetta sbiadita legata alla zampa, quella di Aaron stretta gonfiandogli il piedino.

Non si aspettava tutto questo, nemmeno dall’organizzazione criminale che prelevava i Pokémon dalle loro case, dalle loro tane, per farci esperimenti di mala etica. I poveri reietti di cui aveva parlato Zania, ritrovati martoriati dopo la traumatica esperienza, erano una minoranza: sotto la superficie, lontano dagli occhi indignati dei politici e delle associazioni multimilionarie, alcuni Pokémon aspettavano il ritorno dei loro padroni, pieni di speranza, nutrendosi di ciarpame, lottando contro i postumi degli abusi del Team, sia fisici, sia psicologici.

«Non sono i miei Pokémon. Io non sono la loro Allenatrice. Non sono neanche di tipo Drago. Però…»

«Camilla! Camilla! – Iris la chiamò, sovrastando gli allarmi con il suo acuto – Posso tenermeli?»

L’alzata di spalle e l’ennesimo invito a darsela le disegnò un sorriso a denti aperti, contenta sì che tutte le sue file bianche avorio fossero al loro posto e non dimeno dell’avere due nuovi compagni di squadra (che a casa sua non avrebbe mai potuto tenere, né a Boreduopoli né al villaggio).

«Allora, volete venire con noi? Siamo buone! E carine. E anche voi siete carini! Okay?»

Con falcate fulminee, non rallentata da zavorre umane, saltò davanti a tutte: dopo una settimana di inattività, una pioggia grigia e deprimente, sgranchire le gambe non le era certamente in odio: fuori dalla gabbia atemporale in cui il re Harmonia voleva rinchiuderle e trasformarle nelle sue bambole, correre verso il futuro, per quanto incerto, era sempre una bella sensazione.

Ghecis non sarebbe sceso a prenderle per i capelli; gli rimaneva soltanto da lamentare la sua vecchia età, la forza di inerzia che lo relegava ai piani alti. Fra i cunicoli, la traccia di feromoni si sarebbe persa, le sue spie ad inseguire una chimera, là sotto.

Ogni centro metri c’era una biforcazione: non la prima, né la seconda.

«Qua, a destra.» La donna fu svelta ad avvisare l’amica, che diresse il gruppo come l’asso di un battaglione aereo.

«Cami… cioè, leader. Cosa… - la mora si portò una mano alle carotidi, stavano per esplodere – Quello… Quello non è un vicolo cieco? Ancora? Un altro cliché da film d’azione del…»

«Ma le scritte rosse…» Provò a protestare.

«Oh no, - la mora intervenne, sconfortata – basta, ragazze: R.I.P. Camilla…»

«No, eccole là. – Anemone se la sentì di condividere quest’informazione - Servono a indicare dove espandere il tunnel, se a qualcuno interessa.»

«Belle, non lo dico con cattiveria – Camelia reiterò, portando avanti le mani – Questo. Rimane. Comunque. Un vicolo cieco. Giriamoci e andiamo avanti? O volete annegare nell’acqua dei cessi sporchi?»

«Oddio, che mood.» Le fece eco la sua ragazza.

«Spostatevi.»

Iris fece scrocchiare indici e medi, il rumore le infuse energia, come quando spezzava la sua bacchetta colorata ad un concerto ed il fluido fluorescente illuminava l’oscurità prima dell’ouverture.

C’era un ultimo muro a separarle dal mondo esterno. Ma non gli sarebbero bastati trucchetti, infiltrazioni o le suppliche per superarlo. Serviva coraggio. Forza. Un pizzico di determinazione.

«Iris…» Senza ribattere, la leader decise di affidarsi a lei senza dubbi o indugi.

Aveva il sentore che non avrebbe fallito neppure quella volta, se l’avesse lasciata mantenere la concentrazione.

Notò un pattern nel suo modo di pensare: partiva sempre da dati sensibili. Anche una cosa piccolissima.

«Qui l’acciaio è smussato… Uhm… Se non possiamo usare i nostri, di Pokémon, non ci resta altra scelta.» Gli tastò la fronte ed Aaron si fece ritroso subito.

«Archen è un fossile, giusto?» Le chiese la ragazzina, ormai sicura su cosa dovesse fare.

«Ci hai azzeccato. – Schioccando le dita per invitare le altre tre a farsi da parte, le rivolse un sorriso di incoraggiamento – Iris, fai del tuo meglio.»

«Sì! – batté le mani una volta, presa dall’entusiasmo, contando sulla propria capacità di improvvisazione in lotta, contro l’ostacolo metaforico – Archen, usa Forzantica! Aaron, tu Zuccata!»

Sebbene non avessero stretto un legame profondo in quei dieci minuti di strada da invidiare agli Allenatori in viaggio da decenni assieme ai loro Pokémon iniziali, gli attacchi si combinarono perfettamente, fisico e speciale, mirando l’uno alle fondamenta, l’altro alla giusta altezza per far attraversare Camelia e Camilla, dato che superavano tutte e due il metro e settantacinque.

Dalla polvere di cemento, con la tosse intermittente di Catlina a rassicurarle di non aver perso l’udito dopo tale boato, emersero le figure tozze e smagrite dei due piccoli, uno trotterellava verso la sua nuova madre, l’altro si prese il suo tempo per ammirare l’opera dell’uomo ridotta in briciole, un’esperienza che non doveva aver visto nella sua era mesozoica.

«Woah, che figata. - Anemone non si risparmiava i complimenti, quando sapeva di doverli ad altri – Ma… dove andiamo, ora? Dento là? Sappiamo almeno se si esce fuori?»

Iris raccolse il quadrupede in braccio, stupita dal peso dello stesso, intanto che il volatile si era appollaiato con le zampe sul suo nido spettinato.

«Ti stai lamentando? Faccio strada io, allora! – Camelia si distaccò dalla presa dell’altra, voltandosi indietro: si mise in posa e fece in successione sia il segno della pace, che il dito medio – Bye bye, hasta luego, sayonara, zàijiàn Team Plasma.»

«S-Si dice “saraba”. Vuol dire “addio” ma è ancora più forte – Catlina precisò – Con “sayonara” ci può essere la minima possibilità che ci rivedremo. E farei volentieri a meno, sinceramente.»

Il muro divelto le costrinse a saltare fra i mattoni travolti, talvolta abbassando la testa. Anemone offrì il suo Swoobat affinché illuminasse la viscera con Flash: appariva come una normalissima grotta naturale, nei Percorsi ce n’erano alcune per incoraggiare gli Allenatori alle prime armi ad appassionarsi all’arte dell’esplorazione.

«Andiamo! Andiamo!» Esultò la bionda. Il suo Garchomp ed altri Pokémon massicci si diedero da fare per coprire il buco alla bell’e meglio. Le reclute se ne sarebbero accorte comunque, ma almeno avrebbero guadagnato tempo prezioso.

Si proposero di seguirla fino in fondo, una volta uscite avrebbero abbandonato le cavigliere localizzatrici dentro ad una pozza di acqua o sotto un cumulo di detriti.

Proseguirono ancora tenendosi strette l’un l’altra: davvero sarebbe stato tutto in discesa, da quel momento in poi? Davvero il peggio era passato?

Il Team Plasma non era il loro unico nemico. Aveva solo il vantaggio di essere l’unico da cui una farsa carnevalesca, una corda di stracci e un’esplosione potevano cavarle fuori indenni.

La sabbia del Deserto della Quiete, distesa immensa nella penisola settentrionale della regione, non aveva sentito sulla sua cute dorata nient’altro che le carezze delle rose di Gerico e le lacrime del cielo, una volta ogni decennio.

Invece, i passi che sprofondavano in essa, lasciando una trama romboidale sul fondo di piccole buche allungate, dovevano farle male, come uno sciame di pesti che alterava la candidezza della distesa farinosa, una scabbia umana.

L’eremo tuttavia rifiutava i pellegrini invadenti, si impossessava a sua volta dei loro corpi e dei loro pensieri.

Innanzitutto, imbrogliava le Allenatrici: quando credevano di aver superato una duna alta quanto un’automobile, una di taglia doppia si presentava sull’altro versante, rimpicciolendole, lasciandole in balia di discese e salite infinite. Poi gli domandava attenzione, come una vecchia scorbutica.

Era una lotta di sopravvivenza, uomo contro natura.

«Oh! Ferme! Ferme un attimo! – la voce di Camelia, in coda al gruppo, diventava liquido che permea, appunto, nella sabbia asciutta – Aspettate…»

Si chinò e la sabbia aderì alle guance lucide, per sostenersi immerse la mano sulla coltre di essa e la vide inghiottita, come l’arto del re che tutto poteva trasformare in oro.

Sulla terra, il profilo della sua adorata Zebstrika, dal manto ruvido e spettinato, gli occhi chiusi per l’accecamento dovuto alle particelle minuscole, disegnava una sagoma delicata, dal contorno perfettamente uniforme. Dopo quella di Swanna, di Dragonite e l’intera squadra di tipi Psico, di Emolga che aveva avuto la fortuna di soccorrere prima che piombasse giù, un’altra modesta tomba era stata scavata sotto la pallida luce del sole calante.

La giovane non volle nemmeno pensare a tale associazione. Prese la Poké Ball e richiamò il Pokémon Zebra immediatamente, pregando la propria immaginazione impazzita di non lasciare la polpa in pasto ai Mandibuzz selvatici, di non mostrarle le costole color alabastro seppellite dalle tempeste.

Nel silenzio della piana arida, Archen prese a strepitare, sebbene avesse seguito il corteo tranquillo durante tutto il tragitto, trascinandosi le ali ancora inadatte al volo.

Aaron si fece strada scostando la sabbia con il musetto, sollevandone un turbine ad ogni passo indietro. L’intero convoglio fu costretto a fermarsi, lusso che nessuno, né persona né Pokémon si sentì meritevole di concedersi.

Aveva concesso a Catlina di utilizzare la groppa di Garchomp come mezzo di trasporto, affidandosi all’immunità dei Tipi Terra, Acciaio e Roccia al clima desertico; l’istinto le aveva guidate dalla prigione fino a sotto le sfumature rosa del crepuscolo, una nozione di buon senso gli aveva mostrato solo dune, tane di Darumaka e altre dune.

Potevano essere passate ore ed ore senza bere, mangiare o riposarsi e non poterne ricavare alcuna ricompensa, né per gli occhi né per la loro sanità mentale.

Colei che si era tenuta in prima linea, mantenendo un’andatura cadenzata nonostante gli acciacchi continui, si lasciò cadere sulle ginocchia, sperando che il terreno fosse benevolo ed attutisse, ma come l’acqua e il grano, le proprietà fisiche si presero gioco delle sue gambe deboli.

«Basta, non ce la faccio più, non riesco a camminare… Ho le vesciche.»

Iris non credeva fosse possibile sentire il bisogno di andare in ospedale. Più tempo passava più si scopriva dolorante, la testa gonfia e allampanata, il respiro tremante, non aveva dimestichezza con sintomi tanto potenti da farle mettere in dubbio i suoi quindici anni di perfetta salute. Le botte intanto si facevano di un indaco intenso, ma le scorticature rimanevano sempre della stessa tonalità di rosso, coperte della stessa sabbia annidatasi fra i capelli, fra le dita, nelle pieghe dei vestiti di tutte loro.

Non slacciò neppure le scarpe e le svuotò del contenuto infiltratosi fra le intercapedini. I calzini ancora umidi le fasciavano il piede pulsante come bende di lino unte di unguento, ad imbalsamarla lì dov’era, insieme agli altri cadaveri spogli.

Loro cinque erano criminali appena evase, sulle cui letterali tracce c’era già un’operazione in moto per acciuffarle. Dovevano essere state rimesse in catene, avrebbero fatto posar loro la prima pietra per costruire il mausoleo del dio del sole, per la luna del deserto, per il tempio della gloria.

Sulle loro ossa sarebbe giaciuta la vita eterna del re Harmonia, una mummia coperta dello stesso oro che in quel momento bruciava le loro bocche e gli macerava le palpebre.

«Rimettitele su, o rischi che un Sandile ti mangi un piede. – Due battiti delle mani di Camilla vicino all’orecchio la stordirono, mentre cercava di rimuovere delle pellicine biancastre dall’alluce colme di siero appiccicoso – Dobbiamo andare. Dovrebbe mancare poco.»

«Manca poco a cosa? – Camelia alzò la voce per attirare l’attenzione di tutte, ponendo davanti agli occhi della leader la Sfera in cui riposava il suo terzo Pokémon di fila esaurito dalla fatica – Che moriamo di fame e di sete? Che un Darmanitan o un Krokodile selvatico venga a sbranarci? O, il top del top: Ghecis si è preso un elicottero e abbiamo fatto tanta fatica solo per la soddisfazione di picchiare Iris a sangue.»

«Non ti lamentavi mentre mi prendevi a pugni in faccia e mi gridavi offese razziste, ah?!»

La mora gettò un’occhiata di disprezzo alla ragazzina, ancora per terra, scalza. Era sua l’idea dell’evasione, ma poteva imputare solo al suo istante di sciocca benevolenza l’averla voluta assecondare per prima fra tutte.

«…N-Non provare ad andare a dire in giro che sono razzista, sai?»

Iris si portò l’indice alle labbra, per complicità.

«Mai pensato! Sei antipatica, crudele e io ti odio… ma non sei razzista. Scusa.»

«Dopo il dossier credo che la community della moda mi abbia cancellata e adesso sono irrilevante e nessuno vorrà più sponsorizzarmi e dovrò trovarmi un lavoro serio dove si suda e bisogna avere un diploma e… Aspetta, noi stiamo per morire, possiamo pensare a questo?!»

«Beh, non è mica detto che moriamo… – Catlina aveva la testa a penzoloni sulla spalla del drago della compagna, gli occhi serrati per i capogiri – …di stenti o ammazzate.

Potresti prenderti un colpo di calore. O una commozione celebrale. O un infarto…»

Mossa dall’avversione nei confronti di tale pessimismo, ma memore della potentissima lavata di capo inflittale da Camilla il giorno che erano arrivate a casa di Nardo, raccolse l’unica delle compagne con un senso dell’umorismo abbastanza versatile e le sussurrò.

«Per fortuna che non ci sono lampadari o lampadine nel deserto…»

«Iris, pff…»

Adorò la vista di Camelia che si copriva la bocca e tratteneva una sonora risata, meravigliata dalla sua inventiva comica. Un piccolo traguardo raggiunto prima di passare all’aldilà, stupire di gusto la modella più viperina sulla faccia della Terra; per la prima volta la mora stava ridendo con lei e non di lei, ma della sub-leader. Sperò solo che quella non avesse sentito niente.

«Boh, io ho sonno. – La biondina sistemò il braccio come cuscino, affondando la guancia nella parte liscia della manica, assorbendo la sua voce delicata nel tessuto – Detto questo, crepate in silenzio, per favore. Già non sopporto il rumore che fate vivendo, figuratevi i discorsoni drammatici che vi farete quando vi mancano 5 secondi di vita. ‘Notte.»

Per assicurarsi che l’aristocratica inferma non dissimulasse la morte con il sonno, prese a punzecchiarle il viso senza difetti, come si fa con i molluschi arenati sulla spiaggia. Aveva le guance morbidissime, Iris si accorse, non aveva mai avuto vero e proprio contatto fisico con Catlina e si dispiacque di ciò.

«Anemone, - Camilla aveva diligentemente controllato le pulsazioni dei membri del Team rimasti in piedi, non trascurando neppure quello della sua amica di infanzia, scacciando Iris dal suo breve passatempo, nonostante il suo infantile, evidente disappunto – stai pensando a qualcosa?

«Uhm! – La rossa annuì una volta, strabuzzando le iridi azzurre, irrorate per i granelli di sabbia – Mi è appena venuto in mente che, woah, tutte le altre volte sì e questa no? Ce l’hai con me per quella cosa che ho detto in cella? Che ti avevo minacciato?»

«Niente nomignoli, non devi dirmelo due volte.» La donna sospirò, dandole una pacca sulla spalla.

«Ma, boh… - sgonfiate le guance dall’aria raccolta per simulare un broncio indispettito – non è che a me dispiace se mi chiami “tesoro, cara, amore”. Okay, magari non tutti quanti insieme. A me partono i neuroni quando lo fai apposta per… avere la mia simpatia? Cioè, sembra che te ne freghi di me solo quando ne hai bisogno.»

«Ah. Io… mi dispiace. Pensavo che ti facesse piacere, visto che siamo tutte femmine, avere un po’ più di intimità fra di noi. Visto che sei stata tu a fare il primo passo e presentarti, quel giorno…»

Anemone arrossì sotto la coltre di sudore dispersa sui suoi zigomi: credeva davvero che Camilla la considerasse un semplice digestivo per quando le circostanze non andavano giù lisce come lei si aspettava. Voleva spesso arrendersi ed accettare quelle gentilezze a braccia aperte: non ne poteva più di sentire il suo nome dai compagni delle superiori, il cognome dai colleghi e suo nonno che recitava tutto per intero quando lei difettava di obbedienza.

«A proposito di giorno! – Batté le mani così forte da risvegliare Catlina e le altre dalla trance e si precipitò sulla cresta della duna, modellata dal vento con una salita in apparenza dolce ma che ricadeva in uno strapiombo nel lato opposto – Il sole sta tramontando.»

Iris non ascoltò l’istinto di auto-preservazione ed alzò la testa: un doloroso velo nero le balenò davanti alle pupille. La sua compagna lo aveva menzionato e lei aveva provato a guardare la palla di fuoco direttamente, che ingenuità per una che aveva insistito nel non affidarsi più all’istinto.

L’aviatrice stese un braccio verso la porzione di cielo screziato e l’altro in direzione perpendicolare.

«Quindi, quello è occidente – Camilla intuì – dove il sole cade.»

«Se quello è l’ovest, questo è il nord. Quindi… - si chinò, disegnò con il dito una croce e ci mise le iniziali dei punti cardinali alle estremità – Per di qua andiamo a Sciroccopoli, di là torniamo ad Austropoli... ma non ci conviene, visto che avranno piazzato la polizia ad ogni angolo.  

Ancora lo scorso inverno ho fatto ricognizione intorno ai gasdotti che attraversano il deserto e se non mi sbaglio, c’è un’autostrada. Basta seguirla e…»

La rossa gesticolò qualcosa in codice al suo Unfeazant, prima che spiegasse le ali bigie verso l’alto. Dopo neanche una ventina di metri l’uccello puntò a nord-ovest. La ragazza sorrise, interpretandolo come un ottimo segno. Se la forza della natura le trascurava così crudelmente, la trigonometria le assisteva con una distanza inferiore ai due chilometri dall’intersecare il lembo scuro d’asfalto che connetteva a capitale ed il centro divertimenti di Unima.

«Okay. Quindi: - Camelia calpestò la rosa dei venti e si posizionò di fronte alla sua ragazza, avvolgendola con la sua ombra – la tua idea è di andare a piedi attraverso il Deserto della Quiete fino a Sciroccopoli?

Tesoro, ti devo ricordare che fino a ieri non ti ricordavi nemmeno il tuo orientamento sessuale o…?»

«Uh… Sì? Fra poco fa buio. - Tre secondi di silenzio. Anemone rovesciò lo sguardo a terra, dove i piedi si erano insabbiati – Di notte la temperatura scende anche fino a venti gradi sotto zero. Ritenzione termica, se ti interessa.»

«Aggiungo anche – Catlina si svegliò, tramortendo anche il Pokémon su cui era sdraiata con quella strana eccitazione – “ipotermia” alle possibili cause di morte. Ricapitoliamo: ustione, fame, sete, omicidio, ipotermia, stenti… o l’ho già detto? Vabbè, attacco di Pokémon selvatici…»

Con uno starnazzare sgraziato, più riconducibile ad uno Spearow a cui si tira il collo per farcirlo ed infornarlo a pranzo che ad un esemplare del tutto evoluto, l’Unfeazant mandato a misurare la distanza dall’autostrada cadde a terra, esausto. Non riportava ferite.

La sua Allenatrice sospirò, munendosi della Sfera per richiamarlo dopo l’aiuto offerto loro.

«…tempesta di sabbia.»

«Tempesta di sabbia! – Il colore svanì dalle gote della Superquattro, la polvere biancastra un perfetto fondotinta e illuminante – No, aspetta, a parte Garchomp e i trovatelli di Iris non ci rimangono altri Pokémon…»

«E allora, andiamo. – Camilla cacciò il ciuffo dietro l’orecchio e quello scivolò immediatamente nella sua posizione iniziale, disobbedendo alla fisica e alla sua padrona – Supereremo anche questa prova, ne sono certa! Del resto, pensare sempre che “potrebbe andare peggio” non è una buona cosa.

Se una forza soprannaturale potesse soffiarci da sotto il naso tutto il nostro progresso, avrebbe senso continuare a sperare? Ci pensate mai, a cos’è la speranza?»

«Uhm…?» La incalzò Iris. Dopo tutto quello che avevano subito e scavalcato, le mancavano i monologhi filosofici della sua leader.

Scesero dalla collina in fila indiana, sfruttando la pendenza per slittare in basso senza dover inciampare sui lacci o sulla roccia friabile. Il vento della sera aveva già livellato molti dei dossi e se non fosse stato per le tane dei Drilbur birichini ad intralciarle, potevano dire che la parte più aspra del sentiero era ormai alle loro spalle.

Quella che Anemone aveva chiamato autostrada non aveva nemmeno parapetti degni di non venire scavalcati da una bella rincorsa spericolata. Non c’erano strisce pedonali, ma che pro scomodare la verniciatura stradale fino a quel punto morto sulla mappa della regione? Guardarono comunque a destra, sinistra e ancora destra, su entrambe le corsie, solo poche scie degli anabbaglianti rossi dei van container.

Ancora, non c’erano fondi per ricostruire edifici antichi, per tenere un processo, per assumere personale con esperienza a tenere d’occhio i furfanti: che speranza potevano avere le infrastrutture e i trasporti?

Mancava qualche giorno al solstizio d’estate, ma nemmeno il faraone poteva comandare al dio del sole di non ritirarsi sotto i monti; nessuno però impediva agli altri mortali di sfidare l’egemonia della sua luminosità: le quattro lettere di un’insegna al neon rosa baluginavano una dopo l’altra. Nope… Enop… Open.

Catlina protestò subito, ribadendo quanto il solo venire spottate da un cliente del road bar o da un’automobilista curioso avrebbe messo fine alla loro corsa, costruendosi pure una contro-argomentazione in riguardo a chi diamine interessasse riportare alla polizia delle luride saltimbanchi colte in flagrante nell’imperdonabile atto di andare a sistemarsi la zazzera. Disse che il malloppo che Acromio aveva promesso anche ad Anemone per corromperla rimaneva nelle tasche del Team, almeno temporaneamente.

Fu inutile, Garchomp aveva ormai attraversato le due aree di servizio, dove ancora nessun’auto si era fermata. Il tintinnio del campanello allertò una giovane cameriera, che si strinse nel canovaccio e nel bicchiere che stava lucidando e gli sorrise educatamente.

«Mi scusi, possiamo usare il bagno?»

«Uhm? – batté le ciglia pesanti per il mascara messo a dura prova dal clima desertico - Sulla destra.»

Dopo averla disturbata, Camilla eseguì un inchino per insolito riflesso culturalmente inappropriato, guidando le compagne come fossero in gira scolastica attraverso il pavimento in piastrelle a scacchiera, sull’intonaco acquamarina targhe di vetture d’epoca, segnaletica stradale corrosa artificialmente e cimeli più o meno autentici da un decennio specifico fra metà e fine secolo, nessuna però riuscì ad identificare quale per l’esattezza.

Il fruscio del ventilatore a muro e la radio a medio volume con un dj invasato rinfrescavano il locale. Nessuno occupava gli sgabelli o i tavoli attorno al bancone.

̴

Lo scarico ruggiva, il loro consumo d’acqua potabile in grado di far rabbrividire gli ecologisti e gli enti benefici delle pubblicità progresso emotivamente manipolanti di prima serata.

Le cinque ragazze si crogiolarono in quel sollievo momentaneo. Certo, se avessero avuto un Pokédollaro per ogni volta che si ritrovavano in una toilette a rimuginare sulla loro incredibile abilità di sopravvivenza… avrebbero avuto due Pokédollari.

Non era molto, ma gli parve strano che fosse capitato ben due volte nel corso della stessa avventura. Quando si parla di diversificazione delle strategie, i manuali di narrativa non sono mai incorporati nella nostra realtà crudele.

Erano contente di quel bagno pulito, uno sprazzo di normalità al profumo di candeggina.

Iris non aveva mai passato così tanto tempo davanti allo specchio in vita sua. Le sembrò proprio che il tempo fosse rallentato e non provava pena per quelle sue coetanee dall’agenda piena di appuntamenti romantici per cui quella sensazione esoterica si ripeteva ogni singola sera.

Si lavò le mani fino ai gomiti e sfruttò le articolazioni già snodate dalla corsa per sporgere le ginocchia fino alla vasca del lavabo, conscia delle sue maniere poco signorili. Più che delle ferite vere e proprie ferite, dallo strato di sabbia appiccicosa emersero solo dei tagli irritati. Doveva aver solo fiducia che sua epidermide guarisse senza disinfettante o garze.

Si lavò il viso, le sembrò quasi di riuscire a vedere tutto più chiaramente, come se avesse pulito le lenti sporche di un paio di occhiali invisibili. La coda di cavallo ora era a posto.

Si era lasciata il piacere maggiore per ultimo, apposta: le labbra color pesco toccarono il flusso pulito e limpido, ignorando il retrogusto calcareo ed il leggero refrigerio alle gengive, rese ancora più sensibili dalla disidratazione. Non credeva di dover cedere, un giorno, ai proverbi semi-ovvi di sua nonna adottiva, ma non c’era davvero nulla di meglio dell’acqua fresca sulla faccia della Terra. 

«Okay. A posto. – Si sentì strattonare i capelli non con eccessiva violenza, se non che si lasciò allontanare dalla sua deliziosa fonte artificiale di gioia – Dai, Iris, basta.»

«Ma io avevo ancora sete…»

«News flash: bere troppa acqua fa gonfiare lo stomaco e la pancia. – Avrebbe fatto opposizione a qualsiasi consiglio estetico non convenuto Camelia le avesse appioppato in qualsiasi altra occasione, ma non le restò che un mugolio indispettito – So che tu non lo sai, quindi te lo dico con gentilezza, ma se rovini la mia idea ti stacco io le poche tette che hai e, boh, cosa dovrei farmene? Sono talmente insignificanti, non me ne farei niente…

Forza, ritenzione idrica! Aiuta queste povere anime come hai aiutato me a uscire dal ghetto e fare i milioni.»  

«Però tesoro, – seduta sulla tazza chiusa con la testa adagiata al ginocchio, Anemone, già terminata la sua toelettatura, osservò la sua ragazza con scetticismo – non ci hai ancora spiegato bene cosa dobbiamo fare esattamente il “piano” che avevi pensato. Si sta facendo buio, fuori.»

La ragazzina si stupì ancora di come i cambi d’umore della compagna non la infastidissero per niente.

La modella aveva insistito di voler essere gentile e di volerle proteggere. Alle altre tre fuoriuscirono gli occhi dalle orbite: la concorrente più bisbetica e viperina che finalmente puntava il dito contro se stessa. Quello sì che si poteva definire uno sviluppo del personaggio! O meglio, si sarebbe potuto definire tale se non avesse aggiunto il personale desiderio di rivalsa dal non aver contribuito alla creazione di un signor piano, senza le virgolette ai lati.

«Vi faccio uno spoiler: - chiuse pollice e indice e li agitò sfacciatamente – non include entrare nelle fogne, pestare la gente di botte o sporcarci le mani in alcun modo. Facile come catturare un Magikarp con una Master Ball.»

Non colse la parola precisa, ma una di esse fece scattare Anemone in piedi e quella scoppiò in un applauso compiacente, accolta da un mezzo abbraccio dall’altra.

«Camelia Taylor è la mia – enfatizzò il possessivo, sorridendo beata - Campionessa di Unima!»

«Yay, sì, amore mio! – attirò nella stretta anche la biondina, confusa da tutto quell’affetto ma comunque non restia. La mora attirò infine l’attenzione della leader, sicura di una qualche obiezione alla sua idea brillante da spianare con un bel dibattito – Camilla?»

«…eh?»

La donna si era lasciata ciondolare contro la porta del bagno, senza dire una parola fino a quel momento, in cui aveva poco velatamente dichiarato di non averci capito nulla. Camelia lo avrebbe preso come un “chi tace acconsente”.

Tuttavia, il dolce profumino del cioccolato al latte e il rumore delle granelle croccanti, musica sotto i denti…

«Camilla, dove hai preso quel gelato? – Iris inclinò il capo – N-Non abbiamo soldi per pagare…»

«Senti chi parla.» La sua coscienza la pizzicò nel fegato. Le sue compagne non sapevano nulla della sua piccola scorribanda, ed invece era proprio quella la ferita che dentro lei era invecchiata peggio.

«…volete?»

La donna alzò le spalle, con calma serafica. Spezzò la rigidità del polso ed offrì lo stecco di cui ormai rimaneva soltanto la crema alla base. Sotto il ciuffo, i suoi occhi la pregavano di rifiutare ed avere pietà del suo essere stata privata del suo snack preferito, avendo pure bevuto il cocktail di vendetta al gusto Plasma e sale.

«No, grazie…» La più giovane ottenne un sorrisino ingenuo e lasciò in pace la sua leader a godersi quel piccolo premio per non aver perso le staffe neanche una volta dall’uscita dal carcere.

«Ah, Iris, - Camelia si intromise nello spazio personale di lei, alla ricerca della tasca posteriore dei pantaloni della tuta – mi serve un attimo, per completare le preparazioni…»

«No, aspetta, - provò a recuperare l’oggetto che la ragazza più grande le aveva strappato di dosso, ma come un micio che si lancia sul puntatore laser, la statura di una top model poteva benissimo eludere i suoi salti a due piedi, ridicoli – non puoi usare i miei Pokémon… Tanto non ti ascolta…»

Sbalordito dal repentino cambio di situazione, ma pur sempre sollevato dal non trovarsi esposto alla tempesta di sabbia, condizione metereologica non favorevole, il draghetto dalla corazza verde scarabeo si sgranchì le zampe.

«Fraxure, - la Capopalestra, che non aveva mai allenato un tipo diverso dall’Elettro in diciassette, quasi diciotto anni di vita e sei nel circuito competitivo, addolcì il tono, fissando le pupille nere del Pokémon sulle sue. Poi gli fece tre strani segni – usa Forbice X sulle nostre uniformi.»

«No, no, no, no, no, no, no, no, no…»

Iris aveva afferrato al volo. Non era fiera del proprio intuito, visto che ormai la supposizione più sconveniente e infima si rivelava sempre, purtroppo, la risposta corretta, quando si trattava delle idee delle sue amiche.

Una linea sotto il petto per domarli. Una sopra il bacino per trovarli. Infine, una a livello dell’inguine per condurli da loro e portarle almeno fino a Sciroccopoli.

Stettero tutte immobili, lasciando lavorare gli artigli affilati del loro sarto personale.

La stoffa di qualità scadente si lasciò smembrare, lasciando un labbro sfibrato come le reti di un pescatore vuote dopo una battuta poco fruttuosa. In quanto a loro però, era appena caduto il muro che le separava dal mare delle opportunità, insieme ad una buona porzione del pantalone e tutto il tessuto fra i due bordi: finito il lavoro impeccabile durato solo alcuni istanti, Camelia invitò le altre a disfarsi di quei cilindri di stoffa inutile ed utilizzò una striscia del suo per legarsi i capelli a mo’ di bandana dietro la frangetta.

La più giovane Allenatrice si portò i palmi davanti alla bocca e sulle guance: i pezzi tagliati intanto erano scivolati da soli, lei non aveva mosso un muscolo per spogliarsi di essi.

«Perché. Cioè… perché.»

Trattenendo il respiro, sfilò verso il basso la parte centrale. Volle battersi la fronte: Camelia aveva ragione al cento per cento: la sua pancia color caramello, dall’ombelico aperto marcato da un solco sottile, alla linea alba sembrava piatta più del solito, le costole si notavano leggermente perché la pelle aderiva alle ossa, non avendo sviluppato addominali prorompenti o tessuto adiposo.

Proprio per quello scelse di non arrotolare la maglia sotto il seno. Calciò via i due tubi delle gambe, notando come la cucitura asinina del cavallo delle braghe fosse larga solo in apparenza. Senza la gamba completa, l’elastico si attorcigliava lungo i suoi glutei e fra le sue cosce, le quali di solito non si toccavano, causavano un leggero attrito a cui si abituò di malavoglia.

L’unica modifica che richiese fu che la forte Anemone le strappasse con le sue mani le maniche lunghe. Erano nel deserto, faceva caldo. Invece di rompere il poliestere, ormai assodato come più duttile della seta di un atelier di alta moda, la rossa riuscì a sbregare le cuciture sulle spalle e a rendere quella che era la tuta unica della sua amica una canottiera a spalline larghe abbinata ai pantaloncini corti che ella metteva spesso anche nella sua quotidianità.

«Direi che siamo pronte?»

«Aspetta… ultimi dettagli…» la mora stava raccogliendo con un elastico fatto del medesimo materiale la fiamma brulicante della compagna in uno chignon un po’ arruffato, lasciando scendere due ciuffi più lunghi ai lati, davanti alle orecchie.

«E tutto quello che dobbiamo fare è… - Catlina aveva annodato la sua chioma bionda, sicura di non avere chance nel districare i numerosi nodi formatisi in quel nido di Swellow e fatto un fiocco all’estremità – sorridere, testa alta, petto in fuori, pancia in dentro?»

Non si fece cruccio. Sotto le luci i segni delle cicatrici si vedevano, ma magari era solo un’illusione ottica. Ai pantaloni tuttavia, avrebbe preferito una bella gonna ampia, ma le circostanze non le avrebbero permesso di metterne una, neanche fosse stata disponibile nel loro guardaroba.

«Così, sì. Atteniamoci al piano.»

Camilla esalò un sospiro divertito, tenendo ancora a penzoloni fra i canini lo stecco del suo gelato. Avendo notato subito quanto quell’abbigliamento fosse indecente, specie per una della sua età, si mise d’impegno per rigirare i bordi strappati, per nulla consoni ad una giovane perbene. Fallì nell’accorgersi che adesso oltre mezza natica era rimasta scoperta e che il peso che si ritrovava a portare davanti non bilanciava quello dietro: nella sua regione i magazine avevano passato settimane indulgendo in gossip sui vestiti della Campionessa.

Almeno, con le sue care ragazze, poteva per una volta andare in giro per con più pelle esposta che coperta senza sentirsi giudicata.

Camelia si mise al suo fianco in testa al gruppo, con la sua fidanzata attaccata a lei, lo sguardo perso sull’alquanto originale trovata di sbottonare la maglia e legarla sotto il petto, trasformandolo in un delizioso tank-top vintage con vista premium.

Finché i loro outfit coordinati non erano tutti all’ultimo grado non sarebbero uscite dal bagno. Regola non scritta delle adolescenti.

Quando lo fecero, la cameriera di prima lasciò precipitare un piatto dietro il bancone; mortificata, raccolse i cocci, dietro le gote paonazze.

La musica si fece più intensa, la chitarra elettrica esultò dagli amplificatori. Era ora.

«Ricordate: non fate saltare la copertura. State rilassate e concentratevi. – Camilla sussurrò ed un “uhm!” raggiunse i suoi padiglioni, ma lo sguardo era dritto verso l’uscio del locale – Da qui in poi, solo iniziali.

Andiamo, ragazze.»

Appuntandosi di non chiamare mai Camilla, Catlina e Camelia (da come aveva storto il naso anche Anemone ci aveva fatto caso) Iris si accarezzò i capelli, lasciando respirare la nuca fino a che potevano approfittare del condizionatore.

«…andiamo, dove? Questo “piano” non funzionerà mai.

Speriamo almeno che ci si diverta.»

 

̴

Trascorsero un quarto d’ora appollaiate sugli avambracci, il marciapiedi si era ormai raffreddato e le tre giovani, la modella, la leader e l’aspirante Allenatrice, si godevano le venature sulle rocce rugose all’orizzonte, i lampioni ai lati della strada si erano già accesi: il cronometro ticchettava e ancora nessuno aveva accostato.

Camilla si alzò e si stirò le spalle. Non era un miraggio. Qualcuno aveva messo la freccia a destra.

Destò le altre due dal loro ozio catatonico, gli bastò solo il rombo di un motore aggressivo, ancora bollente per la corsa a oltre centoventi chilometri orari sul rettilineo che connetteva le metropoli.

«Ma buonasera, dolcezze!»

L’ereditiera e l’aviatrice udirono quel saluto invece, ricambiando con una calorosa accoglienza che poteva essere motivata solo un buon salario o una grande disperazione. Nessuna persona sana di mente risponde “oh, buonasera a voi!” di sua spontanea volontà dopo essere stata chiamata con un vezzeggiativo da un estraneo.

«Oggi deve essere il nostro giorno fortunato, eh? Siamo quasi a secco nel mezzo del dannato deserto e non solo il gasolio ci viene meno del solito… Ma abbiamo beccato pure un servizio che… eh.»

O da un intero branco di estranei. Catlina si arricciò con l’indice una ciocca caduta dalla coda socchiudendo gli occhi verdi, mentre lo stesso interlocutore lasciò libera una chioma bruna e incurvata dal casco impiastricciato di adesivi di loghi tribali. Si acconciò invece baffi e barba con il dito, attorno a quel ghigno vittorioso per un semplice saluto.

«Eh, ultimamente – Anemone gli indicò la tabella dei prezzi a ridosso della prima postazione: personalmente, trovava gli aerei un argomento di conversazione molto più interessante delle moto, ma non era a caccia di un uomo con cui condividere i suoi interessi – il gasolio e il GPL sono saliti. E per trovare posti con prezzi onesti bisogna farne, di strada…»

L’omaccione le diede ragione insieme a tutto il branco, scambiandosi qualche parolaccia giusto per dimostrare apprezzamento per una donna un filo competente in materia. Una decina di membri orbitavano attorno alla Harley Davidson rosso vinaccia del capo banda, senza nemmeno un’ammaccatura, a differenza delle braccia villose su cui i segni di qualche rissa si mimetizzavano con tatuaggi di Pokémon intimidatori. Charizard, Rayquaza, Tyranitar… chissà se li avesse almeno mai visti di persona, quell’individuo losco.

«Prego, da questa parte.»

Catlina imitò le movenze dei valletti che servivano il tè con i biscotti a casa dei suoi genitori, mescolandoli all’ingenuità posticcia delle maid che servivano il tè nel distretto degli otaku di Cuoripoli. Pensò ingenuamente che il carburante fosse proprio come una bibita per veicoli, visto che solo dei fanatici potevano dedicare così tanto tempo e denaro a delle creature non viventi ed aspettarsi tali ossequi nel mentre.

«Fai strada, biondina.»

Le due giovani si presero sottobraccio e tornarono verso la stazione centrale ridacchiando soddisfatte.

Con una nota telepatica, Catlina aveva tristemente notato che le loro belle facce e qualche strappo strategico alle loro uniformi per rivelare un po’ di pelle non sarebbero bastati per attirare potenziali clienti: non ne sapeva molto di marketing, visto che gli Allenatori non avevano mai smesso di affollare il Parco Lotta da quando i suoi genitori avevano ereditato l’attività.

Ma guidando altri tre chilometri e fermandosi ad uno strip club i centauri avrebbero trovato, oltre a del make-up e dei costumi di scena più raffinati, anche attrici migliori. Serviva un ritocco al modus operandi.

Anemone l’aveva coperta subito: usando solo una mano sfilò dal pannello con i prezzi il cartello bianco della seconda cifra dopo la virgola e lo reinserì capovolto nei suoi listelli. Faceva talmente tanti calcoli per le merci all’ingrosso da trasportare che a volte perfino un cervello allenato come il suo si illudeva che uno punto sei fosse meno di uno punto nove, se non arrotondato.

«Okay, principessa marchesa contessa duchessa margravina Yamaguchi-Haato, - Anemone le avrebbe rivolto un bel tono sprezzante per innalzarsi con quell’iperbole al livello della compagna più anziana e darle indicazioni su un concetto al limite del banale, ma che alle sue orecchie sarebbe inevitabilmente risultato alieno, in quanto lontano dalla sua limitante esperienza di vita; si accontentò di ammiccare e ricreare la sua battuta in testa, sapendo di essere ascoltata da un cenno minuscolo – hai mai fatto benzina?»

Catlina aveva il mento incollato alla clavicola destra, pensierosa mentre cercava di tenere il passo atletico della compagna. Quella rallentò, adattandosi ai secondi sprecati dalla bionda per confermarle una cosa ovvia per pura educazione, ossia il non avere neppure la patente.

«Uh… no, non credo.»

«Bella… allora, ti spiego: aspetta che i soldi se li sia mangiati la macchinetta, appena vedi le cifre che cambiano sul monitor, schiacci “gasolio” e, ti prego, tieni la pompa blu con la bocca girata verso l’alto, che se ti rovesci la benzina sui piedi ci sgamano malissimo…

Sì, ma vabbè.»

Si fermò d’improvviso, facendole quasi perdere l’equilibrio e rovinare sull’asfalto striato dai graffi neri di copertoni inclementi. A Catlina non piacque per nulla lo sguardo inquisitorio lanciatole dalla ragazza che pur tenendola ancora a braccetto, riuscì a farla sentire in colpa.

«Eh… cosa?»

«Cat, non ho parole… Mi stavi guardando le tette.»

«No, non è vero.» Tirò su col naso l’aria torrida e la tossì fuori, insultata da quella presunzione, la stessa che aveva avuto lei sulla rossa durante la lotta al café del centro commerciale.

«Capisco – e le appoggiò la mano abbronzata sulla spalla, addolcendo il ghigno che esalavano anche i suoi occhi – che se la tua ragazza ti tradisce ti senti, in un certo sento, in dovere di vendicarti ma, sai com’è… io sono ufficialmente fidanzata e se lo viene a scoprire Camelia tu… tu a dicembre non ci arrivi, per fare i vent’anni.»

Che ipocrita. Avrebbe voluto aggiungere quanto fosse tipico della classe medio-bassa riciclare le critiche mosse in passato ed usarle contro gli altri. Ma ultimamente, specie osservando la sua duplicità quando il suo animo era stretto nella morsa velenosa di Acromio, Anemone si era inconsapevolmente avvicinata a lei e vuotato il sacco di dubbi che entrambe si caricavano sulle spalle dall’inizio delle loro relazioni clandestine.

«D-Davvero credi che Camilla non provi niente per me? Sempre se ne possiamo parlare…»

«Niente? Non direi, nah. Ma certo! Vieni dietro con me e se non ci fai conversazione con questi delinquenti, riprendiamo il discorso.»

Era sicura che l’altruismo di Anemone l’avrebbe portata a strappare i petali delle loro margherite, sperando di arrivare, imperturbate, all’ultimo “Camelia e Camilla ci amano, certo, è sicuro”.

«Sono un bel po’. Sembrano abbastanza agitati, ma non espressamente malintenzionati. - Giunte a una spanna di distanza dal resto del gruppo, con un cenno serioso la leader diede inizio all’operazione. – Il capo, quello con la moto rossa là, seguono tutti lui. E, non so, anche a costo di suonare misantropa, state attente.»

«Poco socievoli qua, le addette alla pompa. – Il capo ringhiò e subito scoppiò a ridere insieme alla banda, dando una botta al manubrio per crogiolarsi nella sua simpatia – Se va avanti così, zero stelle al personale.»

Si munirono di tergicristalli, liquido anti-gelo e la facciata da dipendenti statali non troppo estatiche all’idea di dover servire gli ultimi clienti della giornata, ma senza far sospettare alla gang di motociclisti di non conoscere il protocollo delle stazioni di servizio con un servizio in più.

I più disinibiti fra quei brutti ceffi già inspiravano rivoli di voglia, afferrando la pelle dei sedili e scambiandosi commenti in codice tutt’altro che ermetico. Partirono schiamazzi e qualcuno suonò il clacson, fischiando: quella reazione in vista di una semplice interazione con delle ragazze giovani, si presupponeva lì per fargli solo benzina.

«Allora, dove lo mettiamo, quell’olio, eh? Lascio fare alle tue belle manine, tesoro!»

La ragazzina più giovane ringraziò di aver trascorso gran parte della sua vita nel quartiere benestante di una delle città più sicure della regione. Neppure ai tornei dai quali era uscita vincitrice tanti occhi si erano incollati a lei, alla sua pelle, su cui strisciavano quali echinodermi viscidi: anche lei aveva guardato Camilla così, quando l’aveva vista brillare dietro al braciere alla Lega?

«Camilla, - le afferrò il polso e la donna appoggiò lo straccio per pulire la cromatura sulla spalla – non me la sento di andare.»

«Uff…» Sentì lo sbuffare della mora, ormai voltata e diretta dal capobanda con il suo incedere artificiale, ora l’attenzione era sulle sue anche sporgenti da sopra gli shorts.

«No, h-hai ragione. Avremmo dovuto prendere questa cosa in considerazione. Sei ancora piccolina per certe cose, Iris. E per fortuna, aggiungerei. Lascia fare a noi quattro. Tu ci hai aiutate fin troppo oggi.»

Inizialmente temette il peggio, di ricevere accuse di arrendevolezza, ma la risposta comprensiva della donna le diede sollievo nell’aver dato voce ai propri sentimenti.

«G-Grazie, Camilla. – A parere suo, poco contava la sua età. Sapeva che Camilla era inesperta quanto lei e quel genere di situazione la esponeva ad attenzioni indesiderate - N-Non farti toccare da questi tizi, per favore…»

«Nessuna di noi vuole tutto questo, ma non c’è altro modo. Fidati di me.»

Come un ago attratto da un magnete ineludibile, la Campionessa di Sinnoh, ancora imbattuta e rispettata a tanto che i suoi detrattori avevano dovuto inventarsi calunnie morali per screditarla pubblicamente, si presentò al cospetto di un motociclista calvo che, dopo averle fatto i complimenti e domandato se si fosse messa a dieta come se si conoscessero da una vita, inseguì con lo sguardo il seno della sua compagna, senza che lei dicesse nulla.

La ragazzina si stese contro la parete e le scapole sporgenti le punsero la schiena, rigida come un tronco. Anche in quel momento di estrema difficoltà, di vita o di morte, aveva scelto di onorare non solo la regola d’oro imposta dal loro distruttivo delirio nel parcheggio, solo che pur di non macchiarsi di ipocrisia aveva lasciato alle compagne il lavoro sporco.

Quelle quattro avrebbero dovuto avere paura, averne molta più di lei e delle sue paranoie inspiegabili.

Non le veniva in mente nessuna che si sarebbe lasciata canzonare e abbindolare da quei nomignoli mentre passava il lubrificante sui raggi delle ruote (quei mascalzoni non si stavano nemmeno accorgendo che le loro preziose figlie meccaniche stavano subendo vilipendio, da quanto erano assorti), ma lo sapeva come uno sa debolezze e resistenze del proprio Tipo, che le sue compagne avevano un rapporto discutibile con gli uomini.

Non con i bambini, non con gli adolescenti o gli anziani. I compagni impertinenti, gli ex-fidanzati manipolatori e borderline abusivi, i loro fantasmi permeati nella membrana del loro inconscio e le distraevano dagli allenamenti, dai successi, dalle gioie dei loro giorni tranquilli, tutte assieme.

«Ma per fortuna che io non sono così.»

Iris rovesciò la lingua e la lasciò schioccare sul palato, come se alla sua onorevole causa mancasse un nonsoché di concreto. Aveva attutito calci e botte come una sacca da boxe in nome dell’atarassia e dei loro principi rivoluzionari assicurando alle sue amiche che le chiedevano “E se ti facciamo male?”, “E se il Team Plasma ci scopre?” martellandole il sistema limbico con la telepatia.

“Ce la posso fare. Andrà tutto bene. – Camilla aveva detto che era migliorata nell’auto-ironia, quindi ruppe quella sacralità - Non deve dispiacervi per me proprio adesso, dai!”

Invece, a sentirsi male perché Camilla, Catlina, Camelia ed Anemone stavano fingendo fin troppo bene di cadere nelle trappole di adescamento di una banda di centauri il doppio della loro età… era lei.

«Eh? Cosa? – La modella era quella che, qualora non le andasse proprio giù che il capo flirtasse apertamente con lei sotto l’indifferenza della sua fidanzata, stava dissimulando meglio il suo disgusto – Ah, capito, capito. Provvediamo subito!»

Mentre si alternavano nell’appropinquarsi al marciapiedi i due steli flessuosi bianchi, la ragazzina pregò che Camelia non venisse ad avvisarla del fatto che il boss l’avesse riconosciuta da una pubblicità in cui aveva fatto cameo o da qualsiasi video o immagine strana lei desse il permesso ai suoi agenti di caricare su internet.

Quando le due furono a distanza sufficiente per travestire le loro confabulazioni con un manto di professionalità, Iris la invitò a sciogliere le mascelle da quel sorrisino maligno.

«Ugh… che c’è ora?»

«Il capo vuole che lo servi tu, non noi.»

«Eh?»

«Ha detto che le tettone gli fanno schifo e preferisce le ragazze più… “piccoline”.»

«Eh?!» Si trattava forse di una specie di scherzo perverso? Camelia era seria solo quando le comodava, ma in quel momento, anche se dare il cambio alla compagna impaurita e fermamente contraria era un colpo troppo basso anche per lei, doveva stare scherzando.

Non era possibile, Chaos si era intrufolato nella sua testa e aveva ribaltato il ripiano delle verità assolute di Iris, sistemate in boccette sigillate e collezionate negli anni trascorsi in affitto come vivente nel suo corpo “piccolino”.

Non riusciva proprio a concepirlo: a chi è che non piacciono le tette grandi?

Tutti i suoi amici maschi le adorano, le femmine le desiderano per sé o a volte per la loro dolce metà. Era indubbio che perfino sua madre, suo padre, le sue sorelle, potendo mettere la mano sul fuoco anche il Campione di Unima le adorava.

Forse, se solo non le fosse rimasto un grumo di orgoglio ad intasarle il flusso di coscienza, Iris avrebbe potuto ammettere che anche a lei piacevano, le tette grandi.

Come per le caramelle, i cuccioli, le feste, il gusto piccante, viene automatico domandare “perché” se uno si trova a non amarle, è naturale, se le ragioni per cui dovrebbero essere apprezzate sono tante e valide a livello a dir poco universale: sono morbide, sono invitanti, puoi usarle come cuscino e poi assicurano nutrimento per i bambini ed un futuro familiare roseo.

Anche uno volesse rispondere alla domanda di prima dando la colpa alla società che detta i gusti delle persone e le mode del momento, la verità è che una “società” non ti rincorre in mezzo al deserto. Non sarà comune come preferenza ma visto che una taglia più moderata, più petite è numericamente più frequente, ha molto più senso ricercarla.

L’oro è difficile da estrarre e non si può produrre nella fucina. Questo non significa che un bracciale o un anello in argento faccia sfigurare chi lo indossa! Le miniere d’argento sono sempre attive e si può ottenere anche dalla raffinazione elettrolitica del rame.

«Ah, già meglio! – Il capobanda strappò la chiave dalla toppa e le fece fare una piroetta intorno all’indice – Siamo passati da un sei, appena la sufficienza ad una promozione piena, eh!»

«…Buonasera.»

Iris abbassò lo sguardo. Cosa doveva dire? Avendo a che fare una persona che non la attraeva affatto le serviva una tecnica troppo avanzata per una senza neppure le basi di come si flirta.

Gli porse il palmo come fanno gli strozzini, pronta a chiudere il pollice sulla banconota. Anche i suoi occhi si tinsero di impazienza da posto di lavoro, sebbene non avesse ancora l’età legale per lavorare.

«Certo, ecco. Gasolio.»

Chiuse il pugno d’impeto e l’unica cosa che toccò furono le sue stesse unghie incolte. La ragazzina lanciò un’occhiata allarmata al cliente, che le fece cenno con il mento di voltarsi di centottanta gradi. Le unghie le perforarono ancora di più la pelle.

«Ti è caduto. Prendili.»

«S-Scusi…»

La banconota era stata ovviamente accartocciata per aumentarne il peso e la gittata durante il lancio. Una giovane con i suoi riflessi l’avrebbe afferrata al volo, nel caso fosse caduta per caso, o non proprio per caso, e il capobanda lo aveva previsto. Le aveva teso una trappola, un tappeto di Levitoroccia su cui avrebbe per forza dovuto appoggiare i piedi.

Perché quell’individuo non sarebbe certo sceso dalla moto per farle il favore.

Iris controllò come se la stessero cavando le altre e vederle servire i centauri con risatine convincenti al punto giusto ed una scioltezza inequiparabile alla sua le fece mordere il labbro e proseguire nella farsa.

«Come al solito, non importa quanto duro o umiliante la situazione sia. Sono tutte che fanno del loro meglio. Non posso essere l’unica che si lamenta. Però, certo che con questa filosofia uno può fare qualsiasi cosa, eh?»

Si piegò con le gambe leggermente divaricate. Se la contendevano lei ed Anemone in fatto di elasticità nei movimenti, abbassarsi con le gambe le sembrava una perdita di tempo quando il bacino era ancora oliato dalla sua propensione all’esercizio fisico… Alla fine, le sue armi non erano totalmente scariche.

Ora si trovava a pochi passi dalla riuscita del piano di Camelia, ma nulla di tutto ciò sarebbe mai cominciato senza una goccia di combustibile. Una scintilla era bastata. Dopo aver sfidato il destino così tante volte, chi l’avrebbe spenta più? Bruciava di fiducia in se stessa. Fuoco caldo, e personificandolo… sexy.

Avrebbe dovuto mandare una cartolina alla Iris seduta scomposta sul suo letto sul punto di fare canestro nel cestino con la lettera di Nardo.

«Oddio, io sono senza mutande.»

Le ciocche viola ricadute dopo aver assunto di nuovo la posizione eretta la lasciarono leggermente disorientata. Assorbì il ronzio del distributore dopo aver inserito la banconota, senza dire nulla.

Si era accorta però che quel potenziale infiammabile in lei poteva essere attivato, come un’Abilità o un superpotere. Poteva farne uso a suo vantaggio, lo schioccare debole delle labbra del capobanda contava come un genuino gesto di apprezzamento. Si fece un memo in testa.

Il miele non attira solo le farfalle e i colibrì. Anche le mosche vogliono impiastricciarsi le ali.

«Non ti ho mai vista qua. Non che sia una cosa negativa… Come ti chiami?»

«…Siri.» Ci mise ben cinque secondi, giusto per visualizzarlo in testa e leggerlo al contrario.

L’uomo sbuffò, con un grugnire fuori luogo, visto che lo aveva chiesto lui.

«Quanti anni hai?»

Stavolta voleva prenderlo in giro e fargli fare la figura del maniaco attratto da una minorenne. Presa dall’ansia di farsi scoprire, mancò l’occasione.

«Diciotto.»

«Allora? Si è persa la buona educazione di lasciare il cellulare, quando ti arriva una mancia bella grossa? Se sei libera sabato sera… Tu, eh. Non una delle tue amiche…»

«Non pensarci neanche. Non toccarla, non guardarla, non provare neanche a respirarle vicino!»

Qualsiasi commento costui avesse da fare a proposito di un banalissimo numero a costo di non terminare la conversazione e fargli perdere il poco progresso fatto con la falsa benzinaia, lei glielo lasciò in bocca: ogni dito perfettamente incastonato nella dentatura, una leggera pressione sulla leva fece sgorgare qualche goccia iridescente sull’asfalto, facendo balzare la ragazzina all’indietro.

Come durante la cattura di Dragonite, non l’aveva sentita arrivare e se le avesse chiesto cosa l’avesse spinta ad intervenire in quel momento sgradevole le avrebbe parlato di “istinto” o altre cose incomprensibili. Ma andava bene.

Perché come quando era andata a comprare martelli e bombolette per vandalizzare la macchina, Camilla aveva una ferocia nel manipolare la pompa come fosse un fucile puntato alla tempia del capo che tutti i membri del branco andarono nel pallone e alcuni tentarono di fuggire a piedi.

Il che era un male: nessuna di loro sapeva guidare una moto.

«Quindi… adesso il piano è questo?»

Catlina si era attempata nella procedura, persa nel suo gossip con la compagna, e la sua bocchetta non aveva ancora raggiunto il serbatoio del motociclista che doveva servire.

«A quanto pare… - Anemone invece rimosse la sua con una violenza tale da non permettere all’antiquato distributore di reagire con l’allarme – A me sta più che bene.»

Il capobanda rimase impassibile. Doveva aver vissuto disavventure peggiori o era semplicemente incuriosito da quella reazione. Intanto che Camilla gli si avvicinava, con la pompa carica, deglutì pesantemente.

«Hey, calma, calma, bellezza. Stavo chiedendole solo se… No, mettilo giù!»

«Zitto, qua comandiamo noi.»

Pur oltraggiata per il mancato rispetto del suo piano, Camelia raccolse l’accendino dal taschino in denim, sentendone il peso; non era un’intenditrice ma tutti gli intarsi pizzicavano il suo spiccato senso del valore. In qualche modo adesso era suo, glielo lasciò capire accendendo la fiamma giusto l’istante di fargli l’occhiolino.

Uno, due, tre cerchi di gasolio per terra…

«Ti ho detto di stare calma, ragazza. Se ci bruciate vivi qui ed ora, non vedrete un centesimo.»

Il capo era l’unico a non dare segni di nervosismo. Le Allenatrici fecero attenzione a non rovesciare il liquido senza perdere la punta contro il branco. Cambiavano mira ogni tanto, tenendoli tutti sotto tiro, le braccia tese e le vene pulsanti.

La più piccola del gruppo esalò, ammorbidendo la presa. Quelle minacce le ricordavano quelle delle reclute e tre ore di vagabondaggio non erano bastate per farle scordare quanto in basso certi individui possano scendere, individui a cui non voleva in nessun modo associarsi.

«Ascoltatemi, noi…»

«Se volete lottare, basta dirlo subito…»

«Vuoi stare zitto? – Camilla gli rivolse lo sguardo più torvo che le riusciva con un occhio coperto – Lasciala parlare.»

«Noi non siamo ladre. Ma…»

«S-Siete delle ricercate?» Si intromise un altro centauro.

«Sì! – La rossa alzò la voce. Si corresse subito, maledicendo la propria impulsività – Cioè, in realtà, no. Ci hanno arrestate ingiustamente, Ghecis Harmonia e i suoi.»

«Accusate… di cosa? Cosa possono fare di così grave, cinque ragazzine così carine?» Gli fece la paternale.

«Ah, piacerebbe saperlo anche a me…» Catlina sbuffò.

«Voleva solo toglierci di mezzo per prendersi il posto di Campione. – Camelia puntualizzò - Siamo scappate. Non che potessimo fare altro…»

«Mmmh…»

Calò il silenzio. Ma la ragazzina dai capelli viola li incalzò, le battute finali erano vicine.

«Noi dobbiamo assolutamente andarcene da qui. E al più presto. E, uh… non abbiamo soldi. - Guardò in basso, impaurita dalle semplici parole, non azzardando nemmeno il pensiero. Era tutto per loro cinque, dopotutto. Si rivolse al capo – S-Se è me che vuoi… a me va bene.»

«Iris, ti prego, tappati quella bocca prima che incendio anche te… - La voce di Camelia la intimorì. Quella rabbia nascondeva una grande amarezza di fondo – Lasciate fare a me. S-Sono esperta del settore.»

«…Mi chiamo Charles.»

Le cinque tornarono con i piedi per terra mentre l’odore benzina stava cominciando a fargli girare la testa. Il capobanda si sistemò la barba, non cambiando mai il tono burbero, nemmeno per incutergli meno terrore.

«…e sono un rubacuori. Vengo da Libecciopoli, giro in moto da queste parti da oltre vent’anni.

E onestamente, quel bugiardo lardoso di Ghecis sta pure a me sui… ci siamo intesi.»

Gli fecero un applauso, uomini e ragazze, insieme. Certo che alla fine non erano così diversi. O magari lo erano, ma come faccenda la si poteva superare senza spargimenti di sangue. Chissà quante persone come loro esistevano, sotto lo stesso cielo che ora abbracciava Unima in una coperta indaco, non nera.

«Allora, dove volete andare? Ovviamente, avete a disposizione solo il serbatoio che tenete in mano adesso.»

Quella era una domanda che non doveva finire in fondo alla lista delle priorità. Sia a nord che a sud non erano benvenute, ormai il presidio doveva essere stato esteso anche a Sciroccopoli e nei comuni vicini. Tornare a Venturia poi, come regalare la vittoria al Team Plasma.

«A Spiraria, grazie.»

Catlina, per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, parve convinta di una propria affermazione.

«Passeremo per le vie secondarie, in modo da evitare i controlli sul Ponte Meraviglia. Sarete lì entro mezzanotte  – Spiegò loro, distribuendo caschi grandi come alveari, mentre le giovani esperivano al loro ruolo di benzinaie facendosi aiutare dalle mani esperte dei motociclisti. – Però, tu, ragazzina con quelle belle gambe al cioccolato.»

Iris si indicò il petto, temendo il peggio.

«Tu, sì. – Batté la pelle squarciata della sella del suo nobile destriero – Tu sali dietro con me. E ti conviene dirmi come ti chiami veramente, invece di giocare con i sentimenti dei tuoi ammiratori.»

Quel commento le rimase impresso per tutta la durata del viaggio, passata stretta alla giacca di pelle dell’autista, la pelle d’oca per il vento notturno sul corpo così esposto. Ogni talvolta che passavano sotto ad un lampione si voltava a guardare le sue compagne, anche loro in groppa alle vetture roboanti e dai loro sorrisi le sembrò che loro corressero sempre più veloci, che nessuno potesse fermarle.

̴


«I gusti dei ragazzi… sono un argomento difficile. Mi fa venire mal di testa solo pensarci.»

«Boh, io mi sono arresa subito. Nonostante sul mio posto di lavoro tre quarti dei miei colleghi sono maschi, come quasi tutti i miei compagni di classe delle superiori, alla fine, mi cresce un altro cervello che poi imploderà in se stesso.»

«Però tu… come dire… Ti piacciono gli aerei, la meccanica, gli anime e prima che Camelia te lo imponesse dall’alto del suo egoismo non ti sei mai truccata o fatta le unghie. Anemone, secondo me tu hai un sacco di punti di contatto con i maschi e ci andresti d’accordo un sacco… Anche se tu sostieni il contrario.

«Anche no! Da compagna di ansia sociale, dovresti saperlo che saper fare due chiacchiere con un essere umano non è sinonimo di popolarità.»

«Ma mi hai vista! Non riesco a rompere il ghiaccio, mi muoiono le parole in gola. Al mio primo appuntamento sono stata zitta tutto il tempo: “parliamo di lotte? No, sembra che non pensi altro che al lavoro… Drama? Vestiti? Cosa dico? Cosa dico?”; Io, così, in testa mia.»

«Catlina, tu non hai neanche bisogno di aprire la bocca! Giuro che se i colori fossero persone, tu saresti il rosa fatto persona. Bevi il tè come una signorina, ci metti tre ore a lavarti i capelli e non penso che ti vedrò neanche al tuo funerale con addosso un paio di pantaloni. Questi livelli di femminilità dovrebbero essere illegali…»

«Non è una questione di magnetismo… Va a finire che pensino che io viva in un universo diverso da loro. E poi, cosa che non nego, che non valga la pena corteggiare una ragazza ad alto costo di mantenimento. Non è detto che gli opposti si attraggono sempre. Essere etero non può essere così facile…»

«Ma non puoi negare che noi tomboy (tranquilla, non mi farei mai i capelli corti) veniamo sempre considerate “solo amiche”. E poi, perché un ragazzo dovrebbe volere una ragazza con cui parlare di cose “da maschi”, quando può farlo con i suoi amici maschi?»

«Forse… la fidanzata migliore per un ragazzo è…?»

«Qualcuno con cui condividere aspetti personali della tua vita, come i tuoi hobby e le tue passioni, pur mantenendo una dinamica di scambio pari ed equo in cui non ci sono ruoli definiti in base al genere?»

«No. la fidanzata migliore per un ragazzo è un altro ragazzo.»

«Ah… se valesse anche il contrario sarei d’accordissimo con te… In caso, Camelia ne sa di sicuro qualcosa in più di noi. Ma ti darà ragione pure lei, contaci.»





Buonasera, è la vostra ragazza etero che larpa fingendo di essere lesbica sull'internet. Come state? Avete fatto i compiti? Avete cenato con almeno una porzione di verdura? Vi siete lavati i capelli?

Guardate che se vi sgamo che non vi lavate i capelli almeno una volta ogni due/tre giorni io... ad ogni modo. Mi siete mancati *emoji da bottom*, bentornati a tutti, piccini

Tonikaku. Immaginate avere una storia che si chiama Early Summer Girls e non la aggiornate d'estate, ma a ottobre. Momo, you had one fucking  job. Ma eccolo qui, il capitolo.

Ho avuto un po' di problemi, il mio solito developement hell, ma almeno non ci ho messo un anno, è pur sempre qualcosa. Come al solito, recensite, aggiungete ai preferiti, fate quelle cose belle che i lettori non pagati/supplicati tramite scambi di favori su Facebook fanno. Per favore. Non ci perdete nulla, e potrei perfino inviarvi per sbaglio le tette in chat.

Ah, comunicazione di servizio: fra poco ripasserò a controllare/fixare/riordinare i vecchi capitoli, per aggiornare la storia alla versione... qualcosa punto qualcosa, ho perso il conto, lel. Ma ho intenzione di rivedere i primi capitoli, correggere non solo imperfezioni grammaticali, ma sistemare un po' la lore/la coerenza della long in generale. Insomma, andrò a mettere mano al contenuto, per la prima volta. Questo significa che domani mattina vi sveglierete con una storia che invece di parlare di Allenatrici lesbiche parla di alieni non-binary? Certo che no. Tuttavia, non so di preciso l'estensione delle modifiche che voglio apportare. Esempio concreti protebbero essere cose come la rimozione dell'uso delle armi da fuoco nel capitolo 10 per esigenze di trama, o cazzatine come l'height gap di Camelia ed Anemone, per rimanere più in canon.  Significa che dovrete rileggere 22 capitoli di nuovo? No... (s-se non volete, ovviamente...). Aggiungerò una lista nel primo capitolo, così i veterani (raga, c'è gente che è qui dal 2016-2017... io non so come ringraziarvi) possono semplicmente proseguire la lettura senza perdere tempo.

Sore ni! La storia si fa sempre più lunga e come ho fatto anche in passato, mi adeguo sempre alle esigenze dei miei lettori in maniera il più possibile ragionevole, rimanendo nel copromesso. Dunque, ve la butto lì: read guides.  Se ve ne serve una prima di iniziarle la lettura, se ne volete una per un amico, se ne volete una per ricordo, contattatemi via MP sia qui su EFP o nella pagina Instagram. Ovviamente è gratis. Ed è l'unico servizio che posso offrire.  Ogni read guide sarà customizzata (come le copie di Mario 64), basterà mi indichiate un personaggio, una ship o anche qualsiasi cosa che vi piacerebbe leggere e io farò di tutto per evitarvi quelle parti che, come vi è lecito, potrebbero annoiarvi o non piacervi. Yoroshiku.


Behind the Summery Scenery #22

1. Se la volta scorsa il capitolo era finito in developement hell perché non riuscivo a completare la stesura, stavolta posso non ironicamente confessare che il fantasma di Steve Jobs ha scatenato la sua ira sulla The Momo Entertainment e più precisamente su questo capitolo: quando dovevo controllare e discutere con Daisuke alcune cose che aveva corretto, mi è partita la scheda video a causa di un aggiornamento che ha fatto surriscaldare e scaricare la batteria. Risolto questo problema, accendo il computer per editare l'html e guess fucking what? Il mio computer prende un malware che si è scaricato in background mentre aggiornavo iTunes!

Tutto questo solo perché non compro Apple...

2. Da sempre sono appassionata di misteri dell'internet e di lost media. Circa un anno fa ho scoperto quel rabbithole tremendo che è la presunta esistenza di questo anime in cui delle ragazze liceali sono rinchiuse in un bagno senza uscite per tempo interminabile e per la disperazione cominciano ad impazzire, ad ammazzarsi a vicenda e a suicidarsi una dopo l'altra. Si chiama (in teoria...) Saki Sanobashi (o Saki-san no bashitsu, più probabilmente questo) ma... questo anime/ova non esiste! O meglio, nonostante i continui avvistamenti nessuno ha mai recuperato la source, nessuno sa se si tratti di uno scherzo di /b/ o no. 

Quindi ho pensato ("wow, ho pensato"): perché non renderlo realtà? Momo-san no bashitsu! La stanza delle torture di Momo.

Un qualcosina per gli amanti dello splatter e del gore. 

3.  Le fogne, yahoo! Come i maniaci della lore avranno intuito immediatamente, dalle fogne di Austropoli è accessibile l'Antico Sentiero, che collega Austropoli e Libecciopoli dal Pokémon World Tournament. Da una delle uscite si accede al Castello Sepolto, quindi al Deserto della Quiete. 

4.  Non so perché sento il bisogno di difendermi per questo genere di cose, ma se qualcuno avesse intenzione di venire a indicarmi le inconsisenze o la mancanza di realismo in-lore del piano di fuga, del tipo "well. ACTUALLY asdfghcmvmafvmn", sono prontissima a dibattervi nelle recensioni. Posso accettare una sola critica, e la mia risposta è comunque di aspettare il prossimo capitolo. Credetemi, io sono la prima che critica questo genere di dettagli tecnici, ma credo di aver fatto abbastanza ricerca per questa volta.

5.  "Io sono Charles. E sono un rubacuori." Non posso credere che un personaggio così i c o n i c o se lo sia dimenticato tutto il fandom. Io ho usato il design da himbo dei giochi, nelll'anime sembra troppo un hipster.

6.  "Si trattava forse di una specie di scherzo perverso?" Ultimamente (= negli ultimi sei mesi, sono molto ossessiva con i miei interessi) mi sono appassionata alla saga di Fire Emblem! In particolare, Fire Emblem Three War Criminals and a little shortie angy lesbean that did nothing wrong uwu. Droppatemi la vostra route/casata/otp/waifu e io deciderò se avete diritti.   

Edit: nel frangente, ho avuto occasione di giocare anche a Fire Emblem Una rincoglionita perde un braccialetto mentre il personaggio migliore della serie spiega che i pegasi non volano sbattendo le ali ma scalciando con i piedi e Fire Emblem Furry, razzismo e l'unica coppia yaoi che è valida.

Ma giuro, giuro, GIURO che quel "sub-umane" era del tutto casuale.

7. Scrivere questo capitolo mi è piaciuto un sacco, boh, mi faceva piacere dirvelo!! Personaggi che di solito non hanno chissà che interazioni si avvicinano, Iris diventa badass, la scena della fuga mi ha risvegliato dal torpore di due capitoli di solo dialogo e la scena della benzina mi ha fatto ricordare che questa storia è la più trasgry del fandom.

O non esattamente. 

Non è che qualcuno m lo abbia mai chiesto, ma siccome vivo la mia vita di tutti i giorni con persone che vorrebbero farmi domande ma che hanno paura della risposta (non perché io li intimidisca, ma perché hanno paura di spezzarmi il cuoricino freddo come il ghiaccio e nero come il catrame che mi ritrovo) mi va comunque di esplicitare questa cosa.

«Ma Momo von Entertainment, perché nessuno dice mai le parolacce? E quando qualcuno è in procinto di dirne una ti auto-censuri?»

Allora, prima vorrei esporre le ragioni pr cui NON lo faccio: non me ne frega nulla di tutelare i miei lettori. Ho detto un miliardo di volte che se cercate un lesbian role model siete finiti nel posto sbagliato, non sono vostra madre, loooooooooool (sono più la zia simpatica e single che vi passa la droga nelle buste della paghetta, casomai). Inoltre, del canon me ne frega fino ad un certo punto: se altri autori vogliono far parlare i personaggi come scaricatori di porto, douzo. Anche io parlo un po' come uno scaricatore di porto, non ci vedo nulla di inerentemente sbagliato.

La vera ragione risiede nel concept e nella aesthetic della storia. Le ragazze che dicono le parolacce non sono attraenti come prodotto. ESG è il mio prodotto e non posso regalare (non dico "vendere" perché y'all broke ¯\_(ツ)_/¯) un prodotto che non gradirebbero i miei lettori/lettrici. So che una delle attrattive di questa storia è il suo essere un po' edgy/non-convenzionale/autoironica ma voglio che questi aggettivi se li meritino la trama, i dialoghi nado nado che ho cercato di creare in 5 anni, non la parola "fottuto" usata ad impromptu in ogni frase.

Seconda vera ragione: dato che gli insulti, gli improperi nado nado in Italia variano tantissimo da regione a regione, con la possibilità che un'imprecazione che a me sembra diffusa tradisca una specifica provenienza/dialetto, oltre a sembrare estremamente coatta, potrebbe contribuire ad auto-doxxarmi. E io invece voglio che i doxxer si mettano d'impegno, che vadano a scavare nei meandri dell'internet per scoprire dove vivo e cosa faccio nella vita! 

8. Titolo del capitolo in inglese. Siate onesti, è tanto cringe? Hoes mad semper et comunque, ma non mi venivano idee per questo titolo! Ormai dopo oltre 20 capitoli avevo sviluppato la mia formula, ma stavolta... le ragazze usano il potere della loro intraprendenza il loro intuito e l'astuzia per fuggire, ma con un pizzico di arte seduttrice, di manipolazione proveniente dalla femminilità. Questo è lo stile ESG.

ESGism.

(Dai, se proprio vi fa schifo, il prossimo capitolo si intitolerà "16. 3,1415926535897932384626433832795028841971…")

  
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