Main concept and characters: The Pokémon Company
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Early
Summer Girls
Capitolo 22
Girls' Style
Dita agili
danzavano sui tasti, battendo un monotono tip tap; al posto
dei
brush e degli stop, sul monitor apparivano parentesi, punti
interrogativi, altre
parentesi, sigle alfanumeriche che si consumavano appena il tasto
“invio”
istituiva una nuova sessione.
«Hey,
ho appena
pensato una cosa.»
Dato che il loro
turno andava a coprire le ore più calde, il destinatario di
tale input reagì
solo dopo aver aumentato al massimo la velocità del
ventilatore a muro, l’aria
fredda le frustava le spalle e scuoteva i capelli ricolorati il giorno
della
sua ammissione nel Team.
La sua collega
aveva la stessa capigliatura: la coda alta bianco avorio con le punte
colorate
di giallo, arancio e rosso a rappresentare la Piroturbina del Drago
della
Verità. Gli avevano offerto pure una bandana nera, per
evitare che i ciuffi
ribelli le intralciassero durante operazioni delicate.
Le uniformi del
Team Plasma rivoluzionato univano all’efficacia delle
tecnologie sviluppate dai loro ingenti finanziamenti la sete di
freschezza e
gioventù che aveva prosciugato la vecchia retroguardia,
quella delle pesanti
cappe medievali e del figlio del capo seduto su un trono di promesse
non
mantenute.
Le uniformi in
fibra di cobalto, che riluceva di blu, consentivano una
copertura infrarossi impeccabile: due reclute, una sulla cima del Monte
Vite ed
una in mezzo alle paludi di Mistralopoli, potevano udirsi a vicenda
come sedute una accanto all'altra sul divano di casa.
Era stato
Acromio a proporre e sviluppare l’effetto rifrangenza: si era
vocalmente lamentato con Ghecis, perché accostare il blu al
rosso,
sebbene
simboleggiasse i Draghi della leggenda, risultava un
pugno in un
occhio per uno attento all’apparato estetico e alla
presentazione come lui.
Sempre un suo
suggerimento era lo stemma della casata sulle magliette
scollate e sui pantaloncini corti, rinvenuto su un reperto archeologico
nelle
Rovine Abissali, sepolto nell’oceano. Una lastra recitava in
una lingua
geroglifica lodi nei confronti del re, rappresentato da quella figura
ad
anelli, probabilmente la semplificazione di un disegno del vincitore
della
guerra.
“Il re
è saggio”. “Il re non perde mai la
speranza.” “Il re accetta tutti.”
“Il re è la luce del suo popolo.”
Il resto di
queste iscrizioni era ancora ad agghindarsi di alghe e
crostacei, nelle profondità dove i due fratelli, i principi
Harmonia, avevano
lasciato cadere il loro impero, presi dalla foga della battaglia
sanguinosa in
cui si erano invischiati per la successione.
«Wow,
hai pensato.»
L’altra
recluta,
un’altra scartata dalle azioni sul campo e spostata come
altra addetta alla
sorveglianza, aveva pigramente appoggiato i piedi sull’ampia
scrivania,
dondolando la sedia sulle gambe posteriori.
Durante
l’inverno e
la primavera, il loro lavoro non occupava più di qualche
weekend al mese. Del
resto, il piano di conquista scivolava ancora alla stampa, muovendosi
negli
anfratti del web e dei circoli di malavitosi.
Tuttavia,
arrivata
l’estate, ogni mattina si svegliavano con gli occhi doloranti
per le nottate
passate a controllare registrazioni, segnalare le zone bianche e quelle
dove
poteva esserci il rischio che le loro cimici facessero destare
sospetti.
«Domani
fanno gli
ultimi due processi… e poi? Noi cosa facciamo?»
Nessuna
organizzazione criminale era arrivata così vicina al suo
obiettivo, non c’erano
quindi precedenti di leader pronti a dare la disoccupazione a
centinaia, se non
in casi migliaia, di fedelissime reclute.
«Non
avevi detto
che adesso puoi entrare a quell’università da
fighetti… quella che dicevi ti
aveva bocciata al test di ammissione.»
«Bello,
vero? Mamma
e papà ne saranno contenti! – esultò,
tradendo un’ingenuità non idonea a quel
posto – Ma tu, C, Q e tutte le altre? Va bene, abbiamo i
numeri di telefono, ci
possiamo scrivere in chat, ma…
Tu cosa hai
chiesto,
come premio per esserti unita e tutto?»
«Io?
Volevo
trasferirmi a Johto e fare un corso di disegno lì, ma
siccome sono qua solo da
aprile e faccio schifo a lottare, mi hanno mandata al diavolo.
– Si accese una
sigaretta – Allora gli ho detto “almeno il
biglietto per l’aereo”, e Acromio mi
fa “va bene, zuccherino, amorino, tesorino mio” e
tutte le sbrodolate che quel
finocchio dice…»
Risero assieme,
e se
proprio qualche loro collega voleva mancare alla loro tacita
omertà avrebbero
hackerato le telecamere di sicurezza e quella conversazione era come
mai
avvenuta.
Dopotutto, il
loro
interesse primario era la liberazione dei Pokémon e la pace
sul territorio di
Unima. Leccare i piedi ai loro superiori era una regola, non un
principio.
«Non
vedo l’ora che
tutti i pezzi di fango che abusano i loro Pokémon vengano
processati e mandati in gattabuia. Finalmente il mondo avrà
un po’ di
giustizia.»
«Già,
e tutto il
circuito delle lotte, marcio fino alle fondamenta.»
«Una settimana, anzi, meno tempo: poi se proprio sei un sadico che non può fare a meno di far lottare i tuoi poveri Pokémon, dai a noi i soldi e noi gli diamo quella… quella sostanza… dai, non mi viene il nome…
La droga del
drago strafatto! E così
niente più sofferenza per loro.»
«Sempre
se li
lasciamo lottare… ieri stavo scorrendo la lista nera che
stanno compilando le
altre, con i nomi di chi sta antipatico al Team. Sono qualcosa come
novecento
mega di documento!»
E si
compiacquero
di nuovo, stavolta nel constatare quanto fosse semplice andare
d’accordo fra
reclute. Condividevano tutte la stessa linea di pensiero, per questo si
trovavano lì, a difenderla in prima linea.
Le uniche che
paradossalmente battibeccavano per ogni singola decisione erano proprio
quelle
che dovevano guidarle, non si davano tregua da quando i primi dati
erano stati
inviati alla loro base succursale nella periferia di Sciroccopoli, ora
del
tutto smantellata per non lasciare industrie.
Il loro sogno
era
quello che era stato predicato da due lunghi anni ed ora si stava per
avverare.
Nessuno gliene voglia se con le loro lattine di bevande energizzanti le
due
fecero un brindisi al successo della loro nuova casata.
Bevuto un sorso
dolce come lo champagne proveniente dalle botti più pregiate
delle cantine più
rinomate, la meno disincantata delle due sognatrici lanciò
un’occhiata al
monitor principale, riattivando l’audio mutato per godersi
almeno quella
conversazione.
«Hey,
guarda qua. –
Alzò di due, quattro, otto tacche il volume, desiderosa di
capire cosa stesse
succedendo – Ma sono serie?!»
«No
dai, abbassa! –
fece l’altra, insofferente – Hanno delle voci
troppo irritanti… sembra di
sentire dei Purrloin strangolati, mi fan venire il mal di
testa.»
«Vecchia,
- si
rivolse alla compare, un ghigno le torceva la bocca; subito strinse le
labbra
per lo stupore, stava per sputare una risata – le
ex-Campionesse se le stanno
dando! Di brutto anche!»
«No…
- si precipitò
al suo fianco, aggrappandosi allo schermo con le mani, come a volersi
portare
quei quaranta pollici in alta definizione a contatto con la cornea
– ma fanno
sul serio?»
«Guarda
un po’ tu…»
Non avevano
prestato alcun interesse allo sviluppo e al movente dello scoppio di
tale
rissa, in fondo, come potevano prevederlo? Le prigioniere non erano
libere di muoversi
come a
casa di Nardo. Credevano di aver
sedato ogni
possibile mutamento ai loro rapporti.
Invece, quello
che
l’occhio della verità trasmetteva in diretta per
loro era la più piccola del
gruppo (figurarsi se avessero fatto il minimo sforzo per impararsi i
loro nomi,
talvolta finivano per scambiarle una per l’altra addirittura)
trascinata dal
letto sul pavimento per il collo dell’uniforme.
Si erano perse
una
qualche discussione, mentre le due reclute fantasticavano sulla loro
carriera
futura, quando la loro coscienza si sarebbe liberata del peso di cui si
era
volontariamente sobbarcata, quello di associarsi anche una volta sola
nella
vita alle nefande gesta del Team Plasma.
«L’hanno
buttata
per terra…» Osservò l’una.
Sempre
sollevando
il suo corpicino esile dall’indumento, la mora le
allungò due ceffoni in pieno
viso, talmente potenti da farle sfuggire di mano la presa, lasciando
cadere di
faccia la ragazzina, la quale guaì.
«Oddio!»
Avevano azzerato
tutti i suoi riflessi, cosa che spinse una delle bionde a sferrarle un
bel
calcio sul fianco, mentre l’altra la scavalcò
camminandole con le scarpe sudice
sulla spina dorsale, lasciandole un’impronta bianca sul
tessuto: giunta in
direzione dei piedi, afferrò i capelli violetto,
estirpandoli dalla coda, in
modo da esporre ancora una volta il viso scuro, su cui erano evidenti i
graffi
del cemento.
«Adesso
guarda come
le parte un dente…»
«Puahahahah!»
Un altro calcio,
stavolta in pieno stomaco la fece emettere un grugnito straziato,
togliendole
il respiro. A quel punto la rossa, che avevano individuato come la
più
potenzialmente letale, le diede il colpo di grazia con un gancio in
pieno naso.
«Che
disagio,
ragazzi…»
Insieme a rivoli
di
lacrime ed un viso sfigurato da un’espressione di dolore
sconosciuto ad una
fanciulla così delicata, il sangue inzaccherò il
colletto, goccioline umide
anche sulle labbra e le guance.
Le due erano
come
entrate in trance. Era uno spettacolo orribile. Ma un istinto
primordiale, incantato dalla
grottesca impulsività delle aguzzine, non riusciva a farle
smettere di
guardare.
Appena si
rialzò,
la più piccola del gruppo caricò contro la
leader, ma ancora una delle due
Capopalestra cadute in rovina le bloccò le braccia e la
ricacciò giù, a suon di
ginocchiate. In quattro contro una, perfino le più
inoffensive fra quelle
psicopatiche si erano lasciate trascinare in quella sedizione.
«Hey,
guarda che se
le rompono un osso…»
«Passami
il
telefono, - la interruppe – voglio fare un video e metterlo
sulle storie. Ci
scrivo sotto “l’unica cellula del mio cervello che
ancora crede che Unima sia
la regione peggiore”.»
«Intanto,
che
battuta orribile. – Un altro grido di aiuto la
riportò alla serietà della
situazione – Poi, sai quanto Ghecis ci ha urlato contro per
la storia
dell’ambulanza? Ha detto che non vuole che gli facciamo
spendere soldi per la
campagna elettorale per mandare ‘sti casi umani in
ospedale.»
«Che
noiosa che
sei… quindi dobbiamo fermarle?»
«Beh,
dai, non “dobbiamo”,
in teoria… ci conviene, se non vuoi tornare a lavorare alla
discarica di
Zondopoli!»
«Stai
calma, mamma
mia, sei pesante come loro…» Roteò gli
occhi, poi si spostò dalla sua
poltroncina comoda per afferrare un walkie-talkie da passare
all’altra recluta.
«Che
vita di… -
prima che potesse completare la sua constatazione, il ronzio del
ricevitore le
ricordò di dover mantenere una certa
professionalità – Qui ala otto tre sette,
settore video-sorveglianza. Le tipe qua, si pestano neanche fossero in
un
picchiaduro.»
«Ah!
Guarda come le
ha ribaltato il braccio! Se la bionda glielo spacca, ti offro un
bubble-tea.»
«Hey,
C! Ti passo
il link adesso. – Rispose al quesito della sua amica e
collega, alquanto
spazientita - Ma che ne so! Sai che a loro se gli parte
l’embolo inverso sono
capaci di questo e altro. Dopo due mesi che stiamo a spiarle, alla fine
dovevamo aspettarcelo da queste mongoloidi.»
«Pff,
dai, muoviti,
o dobbiamo andare a tirare su avanzi di bambina spiaccicata dalle
pareti.»
«Mandate
tre o
quattro persone a dirgli di piantarla, per amor del Cielo. –
un “mettimi giù!”
si infilò nella loro comunicazione ed infine aggiunse pure
– No, scherzavo, fai
sette o otto, e di quelle forti, mi raccomando.»
Le due si
lanciarono
occhiate perplesse. Sapevano, nel fondo dei loro cuori sciupati dal
materialismo, che loro non sarebbero state le protagoniste di quella
faccenda
losca, ma mere spettatrici. Del resto, erano entrate nel grande schema
delle
cose da dietro una telecamera e solo da lì sarebbero uscite
di scena.
«Passo
e chiudo.»
❁
Si spostarono a
schiera, a passo svelto lungo gli intricati corridoi
foderati di cemento armato. Le reclute del Team, radunatesi per sedare
il
tumulto ma senza la più pallida idea di che procedura
seguire, si dirigevano
alla cella situata del sotterraneo, nel settore più interno
ed inaccessibile: ricordarsi dove
svoltare
risultava difficile pure a loro.
Anche una fosse
riuscita a scappare dall’interno, non avrebbe trovato
l’uscita prima che l’allarme rosso facesse
lampeggiare l’intera area, rallentando
la fuga e riportandola sotto la mano del potere.
E poi, per ogni
trasferta le avevano tenute bendate: non potevano quindi aver
memorizzato il percorso.
«Se
una di quelle
bestie di Giratina mi tocca soltanto, giuro che gli distribuisco io il
resto.»
«State
fuori in
due, ci serve un palo.»
Se da dentro non
si
vedeva neanche un’insenatura a fare da maniglia, dopo aver
ruotato il quadrante
in una specifica combinazione, scostato un paio di spranghe e maledetto
il
sistema carcerario della regione per aver concesso loro in uso quella
catapecchia con una tecnologia risalente a non dopo il
millennio,
quando il budget gli avrebbe potuto concedere almeno un riconoscimento
ad
impronte digitali, quello che era incorporato gratuitamente nei loro
smartphone, gratis per di più.
«Che
vergogna,
guarda se dobbiamo fargli noi da babysitter…»
«Aiutatemi,
vi
prego!»
Sentirono
quell’urlo disperato ancora, non sembrava provenire dalla
bocca o dalla gola,
ma dal corpo tumefatto nella sua interezza. Accasciata sul pavimento,
incurante
della ghiaia e della terra che si era appiccicata al suo viso bagnato,
stava
Iris Calfuray, nata il quattro marzo a Boreduopoli, ed il testo della
tiritera
che non gli era servita granché a scopo pratico.
Come se non
fosse
stato abbastanza, la rossa palestrata aveva fra le mani un grosso
mattone
scalcinato, con gli occhi iniettati di furia, pronta a spaccarglielo
sul cranio.
«Prendetele
e
tenetele ferme, subito!»
«Mollami,
ti ho
detto, mollami!»
In punta dei
piedi
per non pestare la vittima inerme, con goffaggine una
atterrò l’aristocratica,
Camilla finì in un angolo dopo aver indietreggiato
eccessivamente; la modella
richiese un paio di misure drastiche. Prima le
immobilizzarono le braccia
dietro la schiena e poi gliele torsero, visto che aveva preso a
dimenarsi e
lanciare ingiurie.
Anemone alla
fine: una
di loro non riusciva a trattenerla e ogni volta che si aggrappava alle
sue spalle
robuste, uno strattone la faceva barcollare in maniera imbarazzante:
per
fortuna che si erano portate dei rinforzi, in due per braccio le fecero
pure
cadere di mano la sua arma improvvisata.
«Prima
che tiro
fuori il mio Sawk e vi rigiro le poppe sulla schiena, che cosa vi
è preso?!»
Ringhiò
sull’orecchio della mora, che scalciò infastidita.
«Non
ascoltatele,
stanno mentendo… - il torso della ragazzina era voltato
verso di loro,
guardandole come se non le rimanessero che il buon Dio e le loro
nemiche
giurate da supplicare – Sono cattive…»
«Questa
selvaggia
lurida ci ha attaccato qualcosa!»
Senza un soffio
di
femminilità, la voce dell’ex-aviatrice
rimbombò e l’impeto rabbioso con cui si
scosse mise alla prova la sicurezza della presa.
«Ci
siamo prese la
peste per colpa sua! – Camilla tossì due volte, se
non si fosse subito arresa
la recluta addetta non avrebbe mollato solo per pulirsi sui pantaloni
– arrestatela e portatela lontana da me, entro
oggi.»
«Ma
cosa… Vi ha
infettato? Cos’è, una malattia?» Chiese
una di loro, serissima.
«Ci
avete tenute
chiuse dentro qua con lei per una settimana! E ci ha attaccato un
qualcosa,
direttamente dal suo schifo di villaggio imbucato sul confine di
Unima… dove la
gente non si lava, a quanto pare!»
«Che
sfiga…»
Ribatté un’altra seguace del Team.
D’un
tratto, Iris
si appese alla gamba bianca di costei, guadagnandosi una spinta
disgustata:
l’ideale di unità presumeva che si rifiutasse il
razzismo, ma venire contagiata
anche lei da quella specie di sub-umane era comunque sgradevole.
«Vi
giuro, vi
giuro, - riconobbero quell’espressione dalla scenata fatta
davanti a suo nonno,
un altro pezzo storico di comicità avanguardista –
non c’entro… Io non c’entro!
N-Non ho fatto niente, non sono infettata, vi
giuro…»
Si
soffocò nei
singhiozzi. Non l’avevano ancora vista piangere
così sonoramente. Come già
ribadito, uno spettacolo agghiacciante, si fosse trattato di un
alleato. Ma
quelle erano le nemiche, quindi si atteggiavano come a vedere il
ketchup nei
film splatter: deluse, ma non sorprese.
«Sta
zitta! Io ti
ammazzo di botte, fosse l’ultima cosa che faccio!»
«Ih!»
La fece
squittire, quel tono intimidatorio.
«Fermi
un attimo, -
s’intromise quella che doveva essere la più
anziana o la più sveglia delle
reclute lì presenti – Come sappiamo che non state
fingendo? Che virus, che
malattia è?»
«Avete
prove, eh?
No che non le avete, pezzi di spazzatura.» Le fece eco
un’altra.
D’un
tratto, Catlina
si fece avanti, senza riserbo, si sbottonò
l’uniforme fino al terzo bottone, mostrando
l’area compresa fra lo sterno e la clavicola in un triangolo
con angoli sulle
spalle: ma non solo lì, pure sotto il collo e sui bicipiti,
macchie violacee,
su cui i capillari rotti facevano capolino come nervature di una foglia
secca,
si estendevano e la sembravano voler tappezzare tutta.
«Ahahahahahah,
buona morte a tutte!»
«Chissà
se si
trasmette anche ai Pokémon… la febbre e il
raffreddore si passano, questa è
tipo la stessa cosa, secondo me.»
Non
controllarono
le altre: molte di quelle ragazzette impressionabili aveva
già in mente di procurarsi
disinfettante per le mani ed un paio di prescrizioni antibiotiche
subito finito
il loro turno.
«Che
schifo, mamma
mia… Cosa facciamo?»
«Le
lasciamo qua e
vediamo chi esce viva da questo casino. E noi intanto andiamo lontane
da qua, a
distanza di sicurezza, per favore.»
Le quattro
stavano
ancora scalpitando; al contrario, nessuna aveva neppure alzato un dito
per
allungare una mano e tirare su la derelitta.
«Si ma
i processi,
domani? Glielo dici tu ad Acromio, eh, che non siamo riuscite a tenerle
buone,
eh?!»
«Eh,
peggio per
loro, domani si presentano senza denti!»
«Ma
sei cretina,
oh?! Vuoi dare l’impressione che il Team Plasma usa la
tortura in diretta
regionale?»
Oramai, insieme
alla presupposta “malattia”, aveva iniziato a
dilagare pure confusione che
aleggiava in tutte le loro operazioni; per via della bussola morale
impostagli,
sempre indecisa, vista l’ambiguità di ogni loro
precetto: niente violenza, a
meno che non si tratti di avversari del Team. Nessuna pietà,
se non per i
deboli e gli sfruttati.
Ancora, contro
chi
stavano combattendo loro, semplici adolescenti più o meno
scolarizzate, senza
alcuna esperienza pratica in ambito militare? Ora il gioco di guardie e
ladri
in cui si erano buttate a capofitto non era più divertente
come all’inizio.
Per fortuna che
il
Neo Team Plasma ormai aveva già vinto, nessun motivo di
preoccuparsi.
Una recluta
ancora
più perspicace fece capolino dalla porta, roteando
l’adorato walkie talkie dal
laccetto come fosse un attrezzo circense.
«Ho
chiamato una
delle Reclute Scelte. Ha detto che adesso arriva.»
«Bene,
così appena
arriva le mazzate le condividiamo pure con lei!» Anemone non
poté esultare sul
serio, livida com’era.
«Le
Reclute Scelte? – Camilla
alzò un sopracciglio, fortuitamente nascosto dal suo ciuffo –
Intendono le cinque che
abbiamo praticamente e
letteralmente ucciso alla Lega? Come fanno ad essere ancora qui? Magari
le
hanno rimpiazzate? No, in così breve tempo? Camelia ha detto
che una si è
spaccata la spina dorsale e l’amica di Iris… era
stata impalata da una
stalattite! Non è possibile…»
Intanto sulle
piastrelle in terracotta, tacchi diversi dalle banali scarpe da
ginnastica di
tutti quei membri semplici si appropinquavano. Solo due gambe,
il
resto era un’altra schiera di nullità con le
solite sneakers. Pretese da loro
il rapporto.
«Praticamente,
‘ste
qua stavano a picchiarsi fino a cinque minuti fa perché la
piccoletta gli ha
passato la rogna e ora sono, tipo, tutte a macchie. Hai presente un
Whirlipede? Ecco, uguali.»
«Che
bello, -
estrasse dalla cintola un paio di Poké Ball, giusto per
essere sicura – e io me
lo devo gestire da sola, questo casino?»
«Uhm.»
Le fece la recluta che la accompagnava.
«”Uhm”,
cosa?»
«Uhm…
signora!»
«Cosa
dirai alla
leader e alle altre tre, se ti chiedono qualcosa?» La
interrogò in retorica.
«Che
non ne
sappiamo niente!» Rispose quella, assai entusiasta.
«Bravissima.
– Una
volta giunte alla porta, si sgranchì le dita, per nulla
pronta ad affrontare
una tale emergenza, senza la pressione datale almeno dalle sue compagne
più
minacciose – Se quelle non si risvegliano, ti faccio mia
vice.»
«Evvai.»
Fece un saluto
militare, che nessuna delle sue sottoposte ricambiò: gli
servivano entrambe le
mani per tenere le prigioniere dure, così come servivano
alla nipote del
Capopalestra di Boreduopoli il giorno seguente. Non poteva presentarsi
in aula
con una o due braccia in meno.
Senza la
capacità
di elaborare parole di senso compiuto, Lucinda scosse il capo, sicura
che nella
superficialità dei loro obiettivi i membri del Team non
avrebbero dato a lei di
che ragionare.
Si era
rifiutata,
ora che poteva esprimersi a voce, di prestare i suoi occhi per
offenderle
ulteriormente, quando le sue reclute stavano già
raccogliendo la semina. Le
avrebbe volute lasciar soffrire in pace, dignitosamente.
Infatti, se il
megalomane depravato dietro la loro organizzazione si fosse seduto sul
suo
trono senza rispolverare le gogne, lei avrebbe
più che volentieri
abbandonato il Team la notte dopo lo scontro alla Lega.
Sapeva di aver
violato il suo giuramento; la Campionessa di Sinnoh, che ora non la
guardava
nemmeno in volto da quanto l’aveva gettata in basso
l’umiliazione, era la sua
testimone.
«Una
malattia
infettiva, avete detto?» Non ci mise emozione.
Se a prima vista
quelle ragazze le sembravano troppo belle, troppo carismatiche e troppo
potenti
per venire assoggettate ad un potere tirannico i cui lacci erano troppo
larghi
per fermare la loro avanzata verso la Sala d’Onore, le loro
pance vuote, le
costole in vista, le nocche scorticate e gli animi consumati dalla
rassegnazione visualizzavano l’assenza di una vera, leale
battaglia fra buoni e
cattivi.
«N-No,
non è vero,
io non ho infettato nessun…» Un singhiozzo fu
abbastanza estenuante da zittire
la ragazzina, nel suo ennesimo tentativo di non venir additata come la
colpevole.
La Recluta
Scelta
non la compatì e si rivolse alla squadra operativa.
«Le
avete
controllate?»
«Yes,
m’am.»
«Vabbè,
le avete
controllate bene? Tutte?»
Terrorizzate
all’idea di dover compiere l’esame di mano propria,
si imbronciarono tutte e
strinsero le mascelle in preda al disgusto. Queste procedure non
stavano nei patti,
qualsiasi fossero i patti, visto che leggere i termini e le condizioni
di
servizio non è un qualcosa di umanamente fattibile.
Lucinda
aspettò una
manciata di secondi, un dubbio si era fatto strada in lei: le quattro
aggreditrici non osavano farsi avanti. La loro accusa non era un
qualcosa che
si poteva nascondere con la scopa sotto il tappeto, perché
dopo tutto quel
rumore ora stavano zitte?
Conosceva bene
quella sensazione. Gli lesse panico nelle pupille, alla bionda.
In quei mesi di
nefandezze, scorrerie e complotti le avevano insegnato fin troppo
dettagliatamente cosa fosse un umano.
Fece due passi
avanti, raggiunse la vittima e le sollevò il braccio.
Per qualche
ragione, l’affetto che intercorreva fra di lei e la
Campionessa, per quanto ce
ne fossero state innumerevoli prove, non riusciva affatto a capirlo: le
relazioni umane erano un’estensione della
difficoltà dell’individuo
“uomo”
preso come singolo.
«Arceus,
che
schifo! Ma cos’è, muco?» Una delle
ragazze in blu gridò, sul punto di
abbandonare l’impresa.
«Sembra
un fungo
bianco, tipo la muffa delle Baccarancia.» Le disse una
più ragionevole e meno sensibile.
Per riflesso
incondizionato, Camelia, Anemone, Catlina e Camilla analizzarono i
propri di
arti: sulla loro carnagione più chiara si notava di meno
l’infezione albina,
sotto la scarsa illuminazione il rosso acceso delle bolle in rilievo le
intimava di non grattarsele, pena una fontana di cruore impestato a cui
non
potevano far fronte: non gli era rimasto nemmeno un lenzuolo per
bendarsi o
dell’ovatta per fermare il flusso.
«Tiratemi
fuori di
qui! Hey, voi! Sono una top model, la mia faccia è tutto
quello che ho! Hey,
ah!»
La ragazza
echeggiò
fra le reclute, la giovane a terra si trascinò lungo il
pavimento come volendo
strisciare verso la colpevole, la quale era scoppiata a piangere di
nuovo,
anche se ormai non le rimanevano più lacrime.
«Eh?
Ghecis? Ci
vedi, mostro?! Ti stai divertendo? Stai ridendo di noi?»
La trattennero
per
i vestiti; l’ultima, per puro sadismo, si
controllò anche il petto e le gambe
da dentro l’uniforme, perfino le sue parti più
delicate erano state compromesse
dalla dermatite e le instillarono la paura di una patologia
più grave, che
l’avrebbe sfigurata andando avanti con gli anni.
«Non
ce la faccio
più… Non ce la faccio! Voglio andare via, voglio
morire!»
Solo dopo aver
gettato
l’intera stanza di sei metri per sei nel totale caos, Lucinda
si espresse.
«Beh,
scabbia.
Questa è scabbia.
Quindi,
sì, la
piccoletta vi ha attaccato una bella schifezza.»
«Ahahah…
no… n-no…
no! No!»
Il caldo. La
fame.
L’ansia. Chi stava muovendo quel corpo, quelle labbra, quello
spirito morto?
Camelia
approfittò
della distrazione delle reclute per svincolarsi e si portò
verso il muro
diroccato, fissandolo per un secondo. Nessuna delle costrittrici intese
il suo
scopo, sino all’instante in cui, appoggiati i palmi davanti a
sé,
molleggiandosi all’indietro con parecchio slancio,
colpì con la testa il
cemento.
«Tenetela
ferma,
tenetela ferma!»
Ancora ebbra
dalla
contusione, ripeté il gesto con la stessa veemenza che,
duplicata, la lasciò
lesa, a strisciare la fronte contro l’intonaco, la frangetta
lunga fino alle
ciglia tinta di carminio come la tenda di un cabaret da incubo.
Chissà
se le stesse
criminali dalla tinta slavata avrebbero gioito di
non doversi nemmeno scomodare, perché i loro target si
sarebbero suicidati, una
dopo l’altra.
Non avrebbero
neppure applaudito? Eppure, lo spettacolo che il capo aveva allestito
per loro
si prospettava molto accattivante. Non se ne erano accorte, ma in quel
teatrino
di marionette miserabili, dove tutto aveva un senso e nulla doveva
venire
abbandonato al caso, c’era infilato pure un elemento di
improvvisazione.
Non
c’erano
coltelli, pistole o veleni, là dentro. Solo cinque
squilibrate e la loro
fantasia.
La
necessità di
immobilizzare la mora decisa a spappolarsi le cervella contro il muro
aveva
distolto l’attenzione dalla lotta infuriante in cui le altre
si erano lanciate.
Non era cibo,
una
medicina o dell’acqua che si contendevano, ma un affilato
coccio caduto dal
soffitto, che otto mani tutte assieme cercavano di raccogliere o
sgraffignare
alla fortunata, alla rinfusa.
«Portatemi
via, -
le intimò la bionda, dal volto lucido di sudore –
o mi apro le vene, q-qui ed
ora...»
Prima che
qualsiasi
contromisura venisse presa, Anemone era riuscita a staccare dal letto
una gamba,
lunga quanto la sua intera altezza. Brandendola come un machete, la
agitò lungo
tutto il raggio, le reclute che correvano in direzione della porta per
non
venire colpite.
«Sta
zitta,
ipocrita! Se proprio vuoi, ti ci mando io all’altro mondo!
Tanto mi sei sempre
stata antipatica!»
Le
urlò e la beccò
sulla spalla ripetutamente, facendola accasciare per via della
clavicola
divelta. La sua compagna senz’anima provò a
soccorrerla, incurante della
possibilità di aggravare il contagio.
«Se
sei davvero mia
amica, Catlina… - Le chiese, ogni sillaba, una fitta al
petto – metti le mani
sul collo e, per favore, strangolami.»
«No…
Non posso… Ti
voglio troppo bene… - si coprì la bocca con la
mano ruvida - …possiamo morire
insieme! Di sete… Di crepacuore… Di…
D-Di… D-D-D…»
Le orbite si
svuotarono, le pupille verde-azzurro della giovane aristocratica si
erano
dissolte sotto le palpebre e precipitò sul fianco della
leader, quale un pesce
fuor d’acqua che schizza via dalla rete, bruciato dalla mera
immersione del
proprio corpo nel mare di ossigeno.
Le
due bionde formavano un’esilarante replica degli amanti
infelici le cui giovani vite vengono
terminate dal conflitto dovere contro sentimento, due destini
incrociati nella
bellezza della loro cella polverosa, il passaggio tremendo del loro
amore
marchiato di morte.
Almeno,
finché
entrambe boccheggiavano alla ricerca di un respiro non intossicante e
non
potevano bagnarsi le labbra con un veleno conveniente per la scena
tragica;
parlando di escamotage, se alla rossa non avessero strappato di mano il
suo bel
gingillo appuntito, magari non sarebbero neppure riuscite a seguire
pedissequamente la trama della vicenda, facendone soltanto un tentativo
poco
riuscito di parodia.
«Basta,
basta! Io
non ce la faccio più!»
Una delle
cadette
di recente arruolamento cedette, lasciando la sua collega da sola, in
balia di
una Camelia afflosciata sul suo omero, una ragazza liquida sul punto di
rovesciarsi a terra e spandersi, senza coscienza o integrità.
«C’è
un limite alla
disperazione… - si intromise un’ultima –
nessuno ci costringe a stare in questo
manicomio. Io me ne torno a casa, Ghecis e la sua
“ricompensa” possono andare a
farsi…»
«Uff,
ferme un
attimo. Basta porre resistenza. In quanto membro scelto e
autorità su questo manipolo…
almeno credo, che questo sia un manipolo? Voglio negoziare.»
Lucinda si
sistemò
i ciuffi color lapislazzuli dietro le orecchie, in modo che le ciocche
sul
parietale non andassero ad ingarbugliarsi sui lacci della mascherina
nera.
Evitò
di posare lo
sguardo per troppo tempo, come si era ripromessa. Iris stava annuendo
sotto il suo
mento, ansiosa di sapere cosa avrebbero ottenuto. La nemica riprese,
non
rivolgendosi a nessuna in particolare.
«Da
quanto è che
non vi lavate?»
«Una
settimana,
circa.» Le rispose prontamente quella dai capelli viola,
risucchiando un
singulto.
La recluta alfa
le
mostrò un sorrisetto commiserevole e parlò alle
sue sottoposte, ancora
imbambolate dall’ipotetico favore che la loro direttrice
provvisoria voleva
concedergli.
«Allora
è normale!
Tutto spiegato: sono le condizioni igieniche scarse! – Fu
strano sentire una
combinazione aggettivo-nome-aggettivo in una frase del parlato, ma era
effettivamente quello il problema; non detraeva tuttavia
all’argomentazione che
fosse proprio la ragazzina la colpevole – Fare la leader
è la cosa più facile
del mondo! Forse è per questo che tutti vogliono sempre
comandare?»
Camilla si
rialzò,
fissando le ginocchia bianche della ragazza con cui aveva
già combattuto due
volte.
Le sembrava
sempre
così ingenua, non si spiegava come fosse stata reclutata. Le
aveva confessato
di venire dalla sua stessa regione, quindi escluse una raccomandazione.
Dov’erano le sue motivazioni? Di solito, le persone malvagie
le hanno scritte
nei loro lineamenti. Quel viso roseo invece, quegli occhi rotondi
azzurri, le
labbra sottili… una combinazione di innocenza che si
prendeva gioco dei Saggi
ammuffiti nei loro mantelli termitai.
«E
quindi?»
Domandò, un altro nugolo di reclute si infiltrarono nella
stanza.
In seguito, la
tenebra scese sugli occhi di tutte quante, per quella che doveva essere
l’ultimissima volta.
❁
Come nel giorno
in
cui l’avevano portata davanti al giudice a farsi scuoiare da
false accuse, i
mugolii affaticati delle sue compagne raggiungevano le orecchie della
Campionessa e vi riverberavano, assordando i suoi.
Pokémon
pesanti le
stavano scortando, le zampe le trascinavano lente lungo quei vicoli
infiniti,
neanche la luce riusciva a perforare la stoffa opaca, anche avesse
voluto
sforzarsi di aprire gli occhi. Muovere il collo poteva essere fatale,
con le
mani legate dietro la schiena impossibilitate dall'offrirle equilibrio:
una
caduta in avanti e la percossa subita antecedentemente si sarebbe
trasformata
in una vera e propria frattura aperta, a livello del torace.
Non le importava
più nulla, a quel punto: avrebbe usato i suoi calzini per
asciugare la fronte
grondante di sangue di Camelia, avrebbe usato le buone anche per
calmare Anemone
e rimetterla isolata nelle sue fantasie placebo. Le sue cosce morbide
c’erano e
ci sarebbero sempre state per la sua migliore amica.
Camilla
soffiò via
la sua paura piano, non dischiuse nemmeno i denti per paura di bucarsi
i
polmoni.
«Tranquilla,
Campionessa:
non sei davvero ferita.»
Tale manovra non
fu
sufficiente, infatti dopo quella dichiarazione le scivolò
fuori una sonora
inspirazione. Aveva riconosciuto la voce di Lucinda.
«Non
fingere di non
averci pensato: non si prende la scabbia in una settimana di
tempo.»
«Ma
allora… - le
mancarono le parole, mentre il ticchettio delle loro Poké
Ball fra le mani
della recluta si faceva più insistente, vista la loro
andatura irregolare – cos’era?»
«Diciamo
che quello
che avete visto voi… - fece una pausa, per poi dare al tutto
un tono dolce,
quasi compatente – non è importante che lo abbiate
visto voi, ma che lo abbiano
visto le mie compari.»
«Un’illusione?
Com’è possibile?»
Come se le sonde
potessero entrarle in testa e registrare il contenuto dei suoi
pensieri, la
giovane donna quietò immediatamente i propri dubbi.
Non aveva sentito
dolore. Aveva blaterato idiozie, pure implorato Catlina di
strangolarla, come
se quella ci sarebbe mai riuscita, con le sue manine gracili dalle
nocche lisce
come cotone.
Le rincrebbe di
non
poter ringraziare a modo. Per questa ottima occasione, ma anche per
l’avvertimento sui piani di Acromio lanciatole nella stanza
dei Superquattro.
Non aveva idea
di
cosa avesse lei che le altre non avevano, per aver risvegliato la parte
empatica e umana di uno scagnozzo della figura più malvagia
di tutta Unima.
Si era bruciata
una
mano per lei, eppure se ne era dimenticata il giorno successivo.
Lamentarsi di
un osso rotto, quando tutto ciò che amava stava per cadere
in mano alla
tirannia del Team Plasma, non le pareva una priorità di cui
un vero eroe
dovrebbe porsi.
La recluta gli
fece
presente
di arrestarsi e le rimosse la benda, facendo attenzione a non
strapparle i
capelli.
Una porta
grigia,
con un cartello giallo e nero che ammoniva di pavimento sdrucciolevole,
si aprì
dopo che un Rhyperior la trascinò lungo una pista
arrugginita. Una zaffata di
umido e chiuso la costrinse a trattenersi il respiro.
«Ah,
comunque: vai
sempre dritta e poi gira alla terza a destra e segui le scritte rosse.
–
Lucinda si voltò verso di lei – Hai imparato ad
usare Focalcolpo, senza
ammazzare qualcuno?»
La bionda si
ricordò subito di quella specifica sessione di allenamento,
almeno quanto il
Team si ricordava di cosa lei e Iris avessero voluto intrattenere dopo.
Pensò
ai bersagli in pietra e annuì, timida.
«Bene,
allora.»
Ricevute le loro
Poké Ball, si lasciò condurre dentro, mentre
anche le altre quattro avanzavano,
le lasciò con un augurio, strano come tutti i precedenti,
mediante lo stesso
sorriso magnanimo.
«Buona
doccia,
ragazze.»
Chiuse la porta.
Nessun membro del Team era entrato insieme a loro.
❁
Per quanto
l’area
ricoperta di piastrelle verde palude fosse dell’area almeno
tripla rispetto
alla loro amata camera di stagionatura, le dieci gambe si raccolsero di
fronte
alla soglia, la gomma delle scarpe fallì nel trattenere la
permeazione del velo
d’acqua adagiato a terra.
Lo spirito
dell’elemento abitava quel luogo, lo possedeva; i pannelli di
cartongesso
penzolavano dal soffitto e rivelavano le interiora di quel carcere
abbandonato,
una cancrena nera con cui
l’edificio intero combatteva per
non crollargli addosso.
Sul
lato ovest,
una
fila di lavandini condivideva la stessa vasca in porcellana bianca
incrostata dal calcare, le lunghe bocche affusolate attecchite dalla
ruggine,
proboscidi di Donphan imbalsamati. Camilla si gettò in
quella direzione.
Lo spesso strato
di
ossidazione la trattenne dall’agguantare la manopola e far
sgorgare un
affluente da cui dissetarsi.
Il suo riflesso
sullo specchio alla parete spezzato, la pelle screpolata come il guscio
di un
uovo sodo e nervature di mercurio vi scorrevano sotto la superficie. La
sfocatura ed i graffi sul materiale, comunque, non le impedirono di
constatare
di non avere né botte, né fuoriuscite di sangue.
Parlò
contro lo
stesso specchio deformante, da cui le sue ragazze apparivano pochi
passi dietro
di lei, con gli occhi puntati tutt’intorno alla stanza: per
quanto l’immagine
fosse ectoplasmatica, erano deperite, parecchio sciupate, ma pur sempre
resilienti anche a quello spavento collettivo.
«Ce
l’abbiamo
fatta?» Si voltò ed il gruppo finalmente riprese
attività.
I neon non
sembravano volergli rivelare troppo. Il flusso di corrente appariva
continuo,
indebolito solo dall’umidità, piuttosto pericolosa
per i circuiti antiquati.
«Che
brutto che è
stato! Ho preso troppa paura.»
Catlina si
guardò
negli occhi ad intermittenza, sbattendo le palpebre per simulare un
cambiamento
repentino di luce. Smise e fece quel commento, mugugnando per
l’imbarazzo d’essere
l’unica ad aver veramente temuto di aver rovinato il tutto
per via dei suoi
attacchi imprevedibili. Ma accortasi di essere perfettamente lucida, la
fitta
di fifa le passò.
Le aspiranti
Campionesse non si concessero di esultare, per il momento. Erano consce
di
dover ancora attraversare l’inferno, invece di brindare sul
primo scalino in
discesa dal limbo.
«Qui
non ci sono le
telecamere?» Riprese la biondina, con tono più
esigente, per dimostrarsi utile.
Aveva insistito
su
quel punto dall’inizio. Non era un caso, che avessero pronti
fascicoli di
documenti per incastrarle dall’oggi al domani. Ancora di meno
che una lampadina
iniziasse a lampeggiare, guarda caso, proprio davanti ai suoi occhi,
proprio
quando stava per smontare le tesi del professore in favore della sua
cara
leader.
«Non
è contro la
legge, mettere le telecamere in un bagno?» Le rispose con una
domanda la rossa.
«A
proposito, avete
visto? – Camelia appoggiò il piede su un
orinatoio, sprezzante come une
esploratore che scopre delle nuove rovine – Ci hanno dato il
bagno dei maschi,
ahah.»
Trovava ridicola
la
mancanza di tatto del Team. Credevano di aver a che fare con un branco
di puriste, terrorizzate dalla mera esistenza del genere maschile
sulla
faccia della Terra? Quella definizione somigliava più ad una
caricatura, un
qualcosa che un osservatore poco informato avrebbe potuto blaterare nei
loro
confronti, uno che di loro aveva ascoltato soltanto i loro dialoghi
senza conoscerne il contesto.
Camelia stava
ispezionando degli urinali staccati dal muro con le tubature esposte,
con inspiegabile
curiosità.
«Vabbè,
dai, -
riprese, saltando sopra una panca in legno marcito, come fosse uscita
da un
musical – l’importante è che, non si sa
come, stiamo tutte bene!
Cioè…
noi quattro
stiamo bene.»
Forse erano i
postumi della disperazione, interrotti dalla serietà
richiestogli per
completare il trasferimento in quell’esatto luogo.
L’ineluttabilità della loro
incarcerazione doveva averle inseguire. Avevano fatto tanta strada solo
per
farsi intrappolare in un vicolo cieco, la ragazza dai capelli corvini
si
prendeva gioco di quelle sciocche ambizioni targhettando colei che se
le era
messa in testa per prima.
L’esclusa
dal loro
circolo di Allenatrici qualificate ed affidabili, con i piedi saldi a
terra,
aveva ovviamente recepito il messaggio.
Prima che
potesse
anche provare a difendersi da quella freddura, l’aviatrice si
intromise, con il
suo enorme cuore impacciato nel dare spiegazioni ai suoi impulsi
incontrollabili.
«Iris,
scusami! Ho
fatto fortissimo, non volevo…»
Strinse i
pollici
nei pugni, anche se infliggersi da sola una punizione non avrebbe mai
alleviato
le botte che si mimetizzavano nella carnagione color cacao della sua
compagna
più piccola.
«Non
importa.»
Disse Iris, solo quello.
«…eh?!»
Anemone
lanciò un’occhiata
confusa a Camelia, la quale ricambiò con un sorriso
inquieto. Confidarono nella
reciproca abilità di comprensione del carattere della loro
amica, ma nel loro repertorio
di reazioni non risultavano esserci esempi simili.
Tutte le volte
che
la modella l’aveva presa in giro amichevolmente per il colore
inusuale dei suoi
capelli o per la sua inesperienza in lotta, le era sembrato che
importasse, ad
Iris. Perfino l’intera epopea del suo piccolo seno
insignificante: poteva
starci una certa stizza all’inizio, ma non le faceva passare
indenne nemmeno
quella burla in buona fede da quanto, appunto, le importava.
E poi vi erano
gli
incidenti più grandi, in cui Iris non poteva permettere a se
stessa di tacere
sulla loro negligenza a prescindere dallo scenario. Fossero i Magazzini
Nove,
il solaio dove dormivano quella sera di pioggia o il sedile posteriore
del
fuoristrada di Camilla.
Piccoli fruscii
di misfatti
destinati ad invecchiare come storia antica nel giro di poche ore
rimbombavano
nel cuore della ragazzina di Boreduopoli, la valanga scuoteva ogni
arteria e le
dava prova concreta, a livello di nervi, di quanto il male psicologico
esistesse e facesse rumore, molto rumore.
Se quella era
Iris,
sepolta in tutte le istanze di rancore preservato nei confronti di
ognuna delle
compagne, chi era riemersa, in piedi dopo un pestaggio brutale, dopo
pugni e
calci in pieno viso, le orecchie esposte ad offese sulle sue origini e
sulla
sua individualità? Si era passata la manica sotto la narice,
osservando la
macchia sull’orlo seccarsi man mano che l’epistassi
diminuiva.
Chi aveva detto
loro “non importa”, dopo tale degradazione fisica e
morale? Chi era quella
ragazza?
«Venite
di qua.»
«Sei
partita di
testa? – la mossa che la modella aveva appreso per stallare
la sua
interlocutrice sul posto, congelandola sui suoi piedi, non
funzionò – Ti piace,
ah? Non c’è altra spiegazione, come fa una a
goderci così tanto quando la
insulti, la ridicolizzi davanti al mondo e la prendi pure a pugni in
faccia?
Iris, sei una
grossa masochista o cosa?!»
La ragazzina le
scivolò sotto lo sguardo, evitando l’attacco con
leggiadra indifferenza.
Attraversò
l’intero
atrio, divisore dello spazio dei
gabinetti e
quello degli spogliatoi. Non erano rimasti segni tangibili
dell’utilizzo di
quel servizio ma nessuno si era mai curato di
restaurarlo.
Allineate,
separate
solo da pannelli removibili in lotta contro la gravità e i
cardini sul muro,
una dozzina di cabine doccia. Le tende dovevano essersi deperite per
prime,
ragione per cui ne sopravvivevano solo gli anelli per appenderle, la
carcassa
spolpata.
«A voi
non bruciano
gli occhi?»
Le due giovani
di
Sinnoh si coprirono la bocca e il naso con la manica, simulando una
maschera.
L’assenza di riciclo dell’aria aveva trattenuto
là dentro il tanfo di anni ed
anni di sudore, sospiri, indigestioni, abbandono.
«Sull’ultima.
Ma
non so quanta differenza faccia.»
Le quattro
fecero
una smorfia schifata, non avrebbero avuto il coraggio di avvicinarsi
nemmeno al
piatto delle docce, lercio di chissà quali e soprattutto
quanti miscugli
ributtanti. L’area era umida, macchioline di acqua e calcare
si aggregavano sui
bordi. Iris si era addirittura inginocchiata e le ginocchia
dell’uniforme si
erano bagnate, le scarpe avevano fatto la stessa fine.
«L’acqua
va!?» La
leader indicò il bocchettone incrostato.
«Le
manopole sono
ancora là… fanno schifo anche solo vedendole da
qua, ma magari…»
Né
Catlina né
l’altra ottennero nulla da quel quesito.
Del resto,
sapevano
in cuor loro di non trovarsi nelle docce per farsi la doccia, avrebbe
avuto
troppo poco senso. Mentre malmenare la loro amica, fingere di aver
preso una
malattia da lei, per farsi condurre in quel luogo
prestabilito… aveva un suo
fascino, se proprio non c’era verso di dargli un senso.
«Sssh,
-
L’Allenatrice dai capelli viola, carponi, rivolse la sua
attenzione al piatto,
fece chinare le altre al suo livello – sentite.»
Nel silenzio, il
pugno scorticato contro l’asfalto, ancora imbiancato di
polvere, batté un colpo
vuoto, quale la membrana di un tamburo. Sicura che
l’intuizione non le avrebbe
colte subito, un altro colpo seguì, identico al primo. A
quel punto, Iris si voltò,
un debole sorriso le incurvava le labbra arrossate.
Tale gesto di
assenso lasciò le ragazze perplesse. Le aveva perdonate solo
per le botte, o
anche dai loro peccati precedenti, quali l’ignorarla e il
farla sentire
inferiore, erano state assolte?
«Uhm?»
La
Capopalestra mora non ebbe la pazienza di aspettare indizi.
La
più piccola usò
un tono gentile, lo stesso con cui lei si era timidamente presentata
alla Lega,
con i suoi codini un po’ spettinati e la maglia oversized, la
sua trasparenza di
animo.
«È vuoto. Non
c’è
niente sotto.»
«Cos…
Scusa?! No,
non può andarci così bene, non ci
credo.»
Sopportò
ancora la
drammaticità della compagna, che in fondo comprendeva.
La seconda
invece,
scostandosi i capelli nervosamente, provò ad elaborare
meglio.
«Anche
se sotto è
vuoto, questo non significa che… - perse il filo, e
riiniziò - Se c’è un’altra
stanza sotto…»
«Ogni
volta che ci
portavano fuori, – Anemone la interruppe, con la sicurezza
che la sua
esperienza e la sua istruzione le garantivano in questo campo
– ho contato
quanti passi ci mettevamo ad arrivare alla sala: circa centotrentasei.
Ma non vi pare
strano?»
«Centoventisei?»
«Sono
pochissimi! Vuol
dire che non ci hanno fatto salire a piedi, fino al posto dei processi.
Siamo
salite in ascensore! Non lo abbiamo sentito perché eravamo
bendate.»
«Non
è possibile. –
ribatté la biondina - Ce ne saremmo accorte.»
«Nessuno
– lo fece di
nuovo, sicura che una riccona a cui non era mai stato chiesto di alzare
un dito
in vita sua non avesse alcunché da ribattere – si
accorge, quando un aereo
aumenta o cala di altitudine, lo sbalzo di pressione è
minimo. Potrebbero
averci portate su di dieci piani e non ce ne saremmo accorte.»
«Non
ci sono
neanche finestre, né qui né nella nostra cella.
– Si aggiunse Camilla – Quindi,
può darsi che… Siamo al piano terra… -
lesse dallo sguardo della pilota di
essere vicina alla soluzione e passò da fuochino a fuoco
– no, siamo sottoterra!»
Usando le
proprie
mani, immaginò un modello della struttura: avevano visto tre
luoghi in croce,
eppure con un po’ di immaginazione potevano ricreare una
veduta aerea
dell’edificio, sebbene non ne conoscessero neppure
l’aspetto della facciata.
«Hanno
costruito la
struttura nuova al livello base, con il tribunale e tutto. Quella
vecchia è
stata coperta e lasciata sotto. Se Ghecis è davvero al verde
e si mette a
vendere la droga in giro per i vicoli, restaurare un vecchio carcere
maschile
probabilmente non era nei suoi interessi.»
Non erano giunte
ad
un accordo comune, quella questione non faceva altro che espandersi e
diramarsi
in ulteriori investigazioni sul funzionamento del complesso. Ma il
tempo
stringeva, quegli istanti usati per spremere le loro meningi doloranti
erano
abbastanza per farsi già uno shampoo e un balsamo.
«Frega
niente,
muoviamoci a togliere ‘sto coso. – Camelia
passò il sacchetto tappezzato di
etichette alle compagne, alla ricerca delle sue Poké Ball -
Al massimo ci estendono
la pena per danneggiamento di proprietà pubblica.»
«No,
che sfiga!»
«Leader,
che hai?»
Davanti ai suoi
occhi, il Garchomp di Camilla non le era mai apparso più
strano. Aveva la bocca
asciutta, i denti affilati digrignati e gli occhi stanchi, svuotati.
Agitava
quei prolungamenti ossei sulla punta delle zampe in maniera
disordinata,
affettando il nulla con le falci.
«Ci
scommettevo.
Hanno fatto qualcosa ai nostri Pokémon, ne sono
sicura.»
«Camilla,
- le fece
strano chiamarla per nome, una certa naturalezza le fece notare quanto
maggiore
fosse lo sforzo consapevole di non portarle mai rispetto – mi
dispiace un
sacco, ma puoi cortesemente ordinargli di usare Dragobolide,
Giga-mega-ultra-impatto
della morte o un’altra di quelle mosse spacca-deretani di voi
Campioni
fighetti?»
«Appunto,
- La
donna osservò la sfera del suo drago, abbattuta - Non
riesco.»
«Gli
hanno inibito
tutte le mosse. – Catlina eseguì lo stesso gesto,
per tutti i suoi Pokémon
insieme – Con Inibitore, la mossa. Serve un Centro
Pokémon qua.»
Le reclute si
aspettavano il peggio da loro. Le prigioniere avrebbero potuto ordinare
al
potentissimo team della Campionessa di sbriciolare un muro e
sgattaiolare
fuori, giocando a bowling con le reclute come birilli.
Del resto, si
trovavano
lì per lavare i loro poveri compagni. Niente doppio gioco,
avevano messo in
ballo la loro dignità per quel minuscolo privilegio. Forse
gli sarebbe
convenuto cominciare a strigliargli il pelo e controllargli le unghie,
non
sapevano in quali gabbie striminzite o in che tugurio avevano lasciato
i loro
amati mostriciattoli fino a quel momento.
Ancora
inginocchiata nello stesso punto, Iris chiamò una volta
sola, con
determinazione.
«Anemone,
- era
adagiata contro la parete, abbassò lo sguardo senza
esitazione – questa specie
di coperchio si può staccare?»
Si
grattò il
sopracciglio, esortando il suo cervello ad analizzare concretamente il
problema.
«Hmm,
- la rossa si
accovacciò, sperando di non sporcarsi ancora
l’uniforme – sono circa mezzo metro
per mezzo metro, conta che questa è resina sifone, non
porcellana. Poi… Poi il
silicone che tiene attaccato al pavimento è abbastanza
rovinato, ha preso
acqua, sì, sì.»
«Allora?»
Le
rivolse quegli irresistibili occhi nocciola, che la rossa aveva di
malavoglia
rifiutato durante il suo processo e se ne era già pentita.
«Sì
che lo puoi
staccare… se hai voglia di grattare via una ventina di
strati di colla e muffa.
- Lo ammise con sufficienza, ottenendo una leggera delusione nella sua
amica –
Io lo facevo almeno una volta al mese quando facevo la gavetta, mi ci
volevano
tre ore e un barattolo intero di solvente. Zero su dieci, non lo
raccomando.»
Iris nel
frattempo
afferrò un lembo dei vestiti della rossa, desiderando la sua
completa
immersione: stava per proporle qualcosa, qualcosa che non avrebbe
nemmeno
tentato di cominciare senza il consiglio della sua amica esperta in
meccanica.
Aveva paura di
irritarla, aveva bucato la sua difesa con lo spillo della contestazione
sulla
sua presunta eterosessualità e fatto affogare tutta la sua
barca di credibilità
da quel singolo foro. Certo, credeva di averlo fatto per il suo bene
emotivo,
adesso insieme alle insicurezze che Anemone aveva riguardo il suo
status
sociale e le proprie relazioni interpersonali, l’ombra della
sua fidanzata che
la esortava a smetterla di leggere i suoi preziosi fumetti, pena la
separazione, avrebbe infestato i suoi incubi.
«Possiamo
staccarlo
con questa, che dici?»
La rossa
incrociò
le braccia, piuttosto confusa.
Lo strato di
unto
infilatosi sotto le unghie delle punte smussate si trasferì
sui bottoni
bianchi, mentre la ragazzina li maneggiava attraverso la fessura: la
taglia
extra small la costrinse a scendere fino al terzo della fila, un'ondata
di
imbarazzo la infiammò all'idea che delle ragazze
più mature di lei
intravedessero lo sterno da quella fessura.
Riacchiappò
i suoi
sentimenti e li mise a bada, per quel che doveva fare non poteva
lasciare il
suo ego ammaccato libero di intralciarla.
La estrasse
piano,
per la paura che l'attrito delle fibre strette intorno alla pelle della
pancia
e dei fianchi la ustionasse.
Inizialmente era
bianca. Non che fosse il colore a dispiacerle, ma dopo anche sei strati
di
coperte e fodere non le pareva di fare progressi in quelle notti
insonni e
tormentate dall'idea che le lenti della telecamera avessero un visore
notturno.
Non era andata
così, Camilla l'aveva aiutata ancora. E pur non volendolo,
Iris in cambio aveva
alterato la sua sorte al processo e la sua limpida reputazione.
Sperò
di
riscattarsi agli occhi della Campionessa. Purtroppo il suo reggiseno
nero,
profumato di quell'aroma corporeo ed etereo allo stesso tempo, stava
vicino
alle fondamenta dell'utensile, nascosto.
Lo rinforzavano
un altro
capo del medesimo colore, ma dal tessuto più morbido, visto
che sorreggeva un
peso sì ingente, ma pur sempre minore, ed uno bianco a
strisce giallo limone,
una combinazione infantile anche per una bambina come lei in attesa del
miracolo della pubertà.
Lo strato
esterno
era il più fragile, un pizzo rosa pastello che aveva sudato
per non sfaldare
con il suo amato taglierino.
La cosa buona fu
che la parte scuoiata dalle decorazioni era malleabile, quindi ne
derivò una
doppia fodera arrotolata fra i nodi degli altri materiali.
Iris persistette
nella sua reticenza.
Non le sarebbero
arrivati applausi, non ne voleva. L'unica cosa che le premeva era di
rimuovere
il maledetto coperchio e di scostarlo sul lato della doccia.
«Una
corda? -
Anemone corse quasi a strappargliela di mano. Si vantava di essere la
più abile
in manodopera del gruppo, ma le sue enormi dita non avevano
speranza di infilarsi nelle intercapedini stretti - Ma non possiamo
staccare il
silicone a forza, bisogna pur attaccarla da qualche parte...»
Quello era un
lavoro per una ragazza piccola. Il loro essere ragazze grandi non aveva
contribuito, se non nel provvedere rifornimenti al loro comandante.
Non che la
dimensione delle proprie mani fosse attuale oggetto di complessi per
Iris.
«Più
o meno. -
Camilla le si accostò con un sorriso inspiegabile, insieme
al suo Togekiss e a
Milotic – Su, falle vedere la specialità,
tesoro.»
Afferrando il
collo
della lunga serpentina realizzata in biancheria da donna, l'Allenatrice
dai
capelli viola fece volteggiare l'estremità: un artiglio
grigio, dalle membra
nodose in ferro intrecciato, si dondolava come l'arto rinsecchito di un
mendicante affamato.
Poi Iris lo
raccolse al volo e dimostrò la flessibilità,
piegando i bracci spessi quanto il
manico di un coltello fine, i quali mantennero la posizione.
«Possiamo
attaccarlo e tirarlo su.»
«Hey,
quelli sono i
ferretti del mio reggiseno!»
«Intendi
“dei
nostri” reggiseni, Anemone.»
Non aveva usato
i
tanto odiati vezzeggiativi, ma la Campionessa era riuscita a trattarla
con accondiscendenza
anche così.
«Dai,
quello era
uno dei miei preferiti! Iris, tu non hai contribuito?»
«Non
mi serve una
spranga in titanio del genere, - la giovane non la degnò
nemmeno di uno
sguardo, allargò i bracci dell’attrezzo,
precisione e fretta si azzuffavano fra
i suoi polpastrelli - la mia schiena si regge benissimo da
sola.»
Mentre lei
lavorava, le quattro si scambiarono una perplessità
aberrante: era un’offesa a
loro? Ai loro seni? Alla loro ossessione per gli stessi? Alla critica
per chi
la compativa per la mancanza degli stessi?
«…Non
si parla così
a delle persone più grandi...? – Catlina si rese
conto di non saper sgridare e
cambiò discorso – Camilla, per favore,
di’ qualcosa.»
«Hmmm…»
L’idea
di infilare
le dita dentro lo scarico fece rabbrividire la ragazzina.
Arricciò il naso e
ogni volta che il ferro non ne voleva sapere di incastrarsi nelle
fessure della
bocchetta, violava il suo voto al pudore ed afferrava
l’intero componente
metallico sul centro del piatto doccia ed il ribrezzo diminuiva pian
piano.
A casa di Nardo
richiamava tutte quando lasciavano i capelli nella doccia, li tirava su
e
riconoscerne il colore andando a richiamare la colpevole le gonfiava il
petto,
invece.
«Ci
riflettevo
prima: stiamo letteralmente aiutando il Team Plasma facendo
così. - La
Campionessa volle condividere la sua saggezza – La prima
volta mi hanno presa
d’assalto quando ero da sola, poi alla Lega ci hanno tutte
divise e ci hanno
quasi messo in ginocchio.
Ragazze, stiamo
perdendo di vista la cosa importante: dobbiamo restare unite, almeno
per questa
volta.»
«No,
no, - Camelia
la incalzò – Iris ha ragione: quel reggiseno
è davvero orrendo, punto e basta.
– si rivolse ad Anemone, appoggiandole le mani sulle spalle
da dietro – davvero
tu vai in giro con roba del genere addosso?»
«Uh…»
«Ce
l’ho fatta. –
Tacquero tutte, Iris si alzò in piedi, le mani aperte alla
ricerca di un piano
su cui asciugarsi – Potete per favore prestarmi i vostri
Pokémon per tirare su
la corda? Da sole non ce la faremo mai.»
Quello stoicismo
l’aveva resa irriconoscibile, certamente. Ma non per nulla,
anche molto più
affabile.
La
più piccola del
gruppo era andata incontro al problema senza la sua spessa corazza di
vittimismo
e di auto-commiserazione. Aveva affrontato la belva a mani nude e ne
era uscita
con la pelliccia in pugno.
«Mettete
i più
pesanti in basso, i più leggeri verso l’alto,
quelli che possono volare o
fluttuare tirano tutti nella stessa direzione. Attenzione a non farvi
male,
piccoletti.»
Pur non avendo a
loro disposizione raggi laser, getti ad alta pressione o palle di
energia, dai
volatili ai draghi, agli psichici e ai terrestri, con versi colmi di
entusiasmo
esercitano la forza di cento Terremoti. La corda non gli
scivolò dalle zanne o
dal becco, nonostante il chiaro dolore ai denti e alle mandibole.
Era il momento
della loro vita in cui gli era richiesto l’impegno mai
sprigionato prima, di
fare insieme del proprio meglio, di darne tale prova alle loro
Allenatrici
ancora ignoranti di quel concetto.
«Però
volevo dire
che… Una ciocca violetta le cadde sul naso, con un soffio la
bandì lontano dal
suo sguardo. Si sarebbe risistemata dopo i capelli, aveva la netta
sensazione
che nessuna delle sue compagne l’avrebbe giudicata
– Ma quanto è figo l’avere
un piano, per una volta tanto?»
Voleva anche
complimentarsi con loro, che lo avevano seguito step per step:
l’assalto
per via della fantomatica infezione doveva essere realistico; niente
battutine
sulle tette o sulla loro vita sessuale, in quei tre mesi ci erano
sempre andate
troppo piano. Iris gli aveva fatto intendere che dovessero picchiarla a
sangue,
di non fermarsi se gridava e le implorava di darle tregua. Nessuna
safeword.
Vedere il
successo
della sua impresa come un martirio in favore della libertà
era riduttivo; i
segni delle ferite, le cicatrici le sarebbero state care, a lungo
andare.
Il suo profilo
abbronzato, nel cuore di Camelia, Anemone, Catlina e Camilla, aveva
ottenuto
una posizione riverenziale, un’aura di ammirazione per il suo
coraggio la
circondava e faceva presa in loro. Non avrebbero mai definito Iris una
tipa
“tosta” od “eccezionale”,
eppure aveva ottenuto il rispetto che era suo dovere
guadagnarsi, non esigere od elemosinare strisciando ai loro piedi.
Il tutto
ricordava
loro la pesca a gettoni delle sale giochi, una versione con
più di qualche
centesimo e dieci secondi del loro tempo in palio.
«Vero!
Dovremmo
farla più spesso, ‘sta cosa del
“piano”…» Catlina ruppe la sua
faccia di bronzo
e dimostrò il suo consenso a tale disposizione a lei aliena.
«Sei
troppo avanti
per noi. – La pilota le batté la spalla con
delicatezza, rivolgendole un tono
fraterno – Non ci dici le cose per vedere se anche noi
minorate mentali ci
arriviamo?»
Si
distaccò dal
voler salire su un piedistallo e voler attivamente dargli delle idiote.
O
meglio, era sicura sarebbe giunta l’occasione per
ricordarglielo, ma non erano
il tipo di idiota che eleva il sé
all’auto-celebrazione. Avrebbero potuto
scappare via insieme, aver avuto una perfetta sincronia e rimanete
tutte,
appassionatamente, delle ragazzine senza cervello. E non avrebbe voluto
che
questo cambiasse.
«Adoro
– la mora
dette il suo parere, sempre con il suo atteggiarsi serpentino, tuttavia
si
tradì con delle buone parole – come Iris ci stia
tirando fuori da qui. Ha
ragione il Team Plasma.
Siamo un branco
di
lesbiche inutili. Nel vero senso della parola.»
Ad Iris stava
quasi
per scivolare una risatina: non sapeva se si trovava
d’accordo con Camelia o
no, per quanto non le sarebbe dispiaciuto istituire un anniversario per
tale
raro evento.
“Quattro
deficienti
con le mestruazioni isteriche” … chi aveva detto
questa cosa? Era stato
sorpassato presto.
«Oddio…
- La voce
bassa di Camilla fu inghiottita da un boato gutturale, i calcinacci
appesi alla
base si dondolavano ai resti del silicone rimosso – Wow,
ragazze… Solo… Wow.»
Come il piatto
della bilancia su cui erano messe in palio le loro
possibilità di riscatto da
una vita da prigioniere del dittatore Harmonia, la plastica sporca in
bilico
sotto la salda supervisione dei loro Pokémon in combutta
liberò un miasma
ancora più potente, più organico e vivo
dell’odore di chiuso di quei giorni.
Finì
adagiato sul
pavimento, l’accesso alla voragine apertasi sotto era
completamente libero.
Potevano passarci il Garchomp di Camilla ed il Dragonite di Iris senza
problemi, cinque fanciulle dalla corporatura ammorbidita nei punti
giusti avrebbero
avuto poco da temere.
«No,
ci sta andando
tutto troppo bene: secondo me adesso moriamo.»
L’aristocratica tremò.
«O
magari muori tu
e dirai “ragazze, andate avanti senza di me!”,
visto che sei un peso morto.» La
canzonò la mora.
La pozza nera,
per
quanto poco romantico suoni, aveva eccome un fondo: un cotto tappezzato
dalle
alghe, viveva e respirava anch’esso come un vivente,
frusciava e deglutiva
quale una belva sveglia dal letargo.
«Andiamo,
dai. –
Camilla si toccò il ciuffo, incerta anche lei su cosa le
avrebbe attese laggiù
– Le reclute daranno l’allarme a momenti e non
abbiamo molta scelta nel coprire
le tracce.»
Iris
imbastì la
corda, tramutandola in un rampino: sarebbe stato come alle elementari,
quando
la maestra la sgridava e le toccava scendere dall’albero
più alto del cortile,
facendo attenzione a non impigliarsi con la gonna sui rami del pesco.
Ma ora era
diverso.
Lei era diversa. Non era più lei, da sola.
«Uhm.»
Annuì, con
convinzione.
Fece strada,
aggrappandosi alla corda e tenendosi in equilibrio con i piedi, lungo
la parete
viscida. La sua squadra la seguì a ruota, osservando che non
cadesse per quei
cinque, sei metri. Gli esemplari che potessero offrire supporto alare
aiutarono
le ragazze meno agili, con la mossa Psichico scesero anche i
più pesanti.
Non
c’era altra via
di uscita.
Erano le
Allenatrici venute dal basso, cadute nell’abisso per mano di
Ghecis, di
Acromio, della spazzatura che era la politica e la legislazione di
Unima.
Non avevano
scelta.
Se volevano
almeno
provare risollevarsi dalla loro caduta, dovevano scendere ancora
più in basso,
attraversare la bolgia e sperare di approdare sul versante nudo del
monte Purgatorio.
E quindi una ad
una, una dopo l’altra, scesero. Furono accolte dal buio che
ci si aspetta in
una serata lontano dai lampioni, ma in cui la luna è fulgida
in cielo; potevano
discernere dove fosse attraversabile solo dal riflesso
dell’acqua sulla sponda
impiantita.
Erano giunte
allo
Stige. Al posto delle anime dei dannati a galleggiare nello scorrere di
liquami
verdi una lattina di Lemonsucco, l’involucro sfaldato di un
Dolce Gateau ed un
bicchiere in plastica con la cannuccia ancora infilzata che proveniva
dalla
stessa catena di fast food dove avevano ritirato il pranzo la volta
della
caccia al Sangue del Drago: possibile che gli stesse scorrendo davanti
agli
occhi proprio lo stesso bicchiere che avevano gettato via? A volergli
dire che
il flusso dell’esistenza altro non era che un circolo, chiuso
in se stesso,
senza punti di conclusione o di partenza?
Ma le cinque
eroine
avrebbero corso più veloce della trasmigrazione, della luce
e della morte.
Finché avevano ancora gambe su cui sostenersi ed uno spirito
ancora fremente
nella gola secca, sarebbero andate avanti.
Senza fermarsi,
continuavano a muoversi attraverso i condotti delle fogne di Austropoli.
«Ci
stanno già seguendo, dobbiamo aumentare il passo.»
Nessuna di
quelle
parole attraversò la bocca di Camilla, troppo occupata ad
ossigenare il
cervello per ricordare le indicazioni di Lucinda, le braccia con cui
reggeva la
sua migliore amica e non lasciarla indietro ed il cuore, per non farla
soccombere alla paura, allo sfinimento o alla rassegnazione.
Per quanto lei
non
disponesse di un fisico atletico e nemmeno di un abbigliamento che
perlomeno le
consentisse di ovviare all’aerodinamicità ridotta,
doveva stare in testa e fare
da guida. Si crucciava di non riuscire a scacciare gli stormi di Zubat
che
volavano contro di loro e le unghie incolte penetravano nella carne di
Catlina
e si aggiungevano alla sofferenza di costringere una ragazza quasi
immobilizzata ad un moto brusco.
«Per
favore,
tienimi. - Camelia avrebbe desiderato mille volte un’uscita
di scena in slow
motion, con il ticchettio dei tacchi alti in sottofondo – Mi
fa già male la
milza…»
«Ti
tengo, ti
tengo. - Anemone optò per la manica dell’uniforme
come punto di traino: il
professore di educazione fisica valutava i suoi tempi al test di Cooper
con gli
standard maschili non senza una ragione - E poi dice che mille calorie
al
giorno ti bastano…»
Non lo disse per
cattiveria, in quanto la denutrizione faceva preoccupare anche lei di
dover
bruciare i suoi muscoli sodi; adorava il fisico snello e sottile della
compagna, ma non era certa del contrario, da quanti complimenti aveva
riservato
ai suoi glutei e ai suoi bicipiti.
Lungo il
cavalcavia
usato dagli addetti alla depurazione si muovevano compatte, quale una
falange
sulla via della ritirata, attente a non scivolare nell’acqua
putrida o a
slogarsi una caviglia fra le piastrelle sconnesse.
«Dobbiamo
andare verso
una scala che ci porti su?»
«Camilla,
avranno
già piazzato la polizia ad aspettarci sopra ogni
tombino…»
«Risparmiati
il
fiato, so dove stiamo andando… Ah…» La
Campionessa reputò la propria confidenza
con Catlina approfondita al punto tale da potersi perdonar quella
leggera
rudezza.
«E da
chi lo sai?»
La incalzò.
«…Lo
so e basta.»
«Come
sapevi della
corda, prima di tutte noi. E sapevi anche del video
nell’onsen… ma non ce lo
hai detto.»
Con le meningi
ormai
otturate dall’adrenalina, la donna non comprese appieno le
ultime supposizioni.
«…basta
che mi dici
perché. – Affievolì la voce, cosa che
la biondina sapeva fare ad arte,
ringiovanendo di dieci anni sonori – Se è una cosa
fra te e…»
«Ferme!»
Un ritardo nei
riflessi gli impedì d’arrestarsi in
prossimità del resto del gruppo. Tirare il
freno durante una corsa spericolata, con gli sgherri di Ghecis alle
calcagna
non era concepibile.
«Iris,
ci
ammazzano! – le gridò la rossa, a circa dieci
metri da lei, i muscoli ancora
caldi per riprendere lo sprint verso la destinazione –
Muoviti e…»
«Non
abbiamo tempo,
veloce, veloce!» Camilla gesticolò con la mano
libera, come se potesse
lanciarle un sortilegio e convincerla a rimettersi in marcia.
D’un
tratto, una
sirena intensificò l’ululato, piangendo come un
cucciolo ferito dalle trappole
dei cacciatori.
«Andate
avanti,
arrivo subito.» Gli rispose, voltando l’angolo con
calma serafica.
«Non
possiamo
fermarci, non possiamo…»
«Andrà
tutto bene,
ho visto solo…» Fu interrotta.
«Iris,
ascoltami: -
la Campionessa ispirò, la voce roca per
l’agitazione - non possiamo lasciarti
qui, da sola.»
«…guarda:
ci sono dei Pokémon qui.»
«Ah?»
Da dietro il
muro non uno, due musetti curiosi si porsero sul palmo della
ragazzina, lasciandolo maleodorante e umidiccio.
«Un
Aaron e… come si chiama, lo stadio base di
quell’uccello antico, di cui
rimangono le piume calcificate?»
«Archen.
– l’esserino gracchiò confuso, non
doveva vedere una persona in
carne ed ossa da tempo – Questi Pokémon sono
rarissimi. Chi li ha buttati nelle
fogne… oddio.»
Constatò
dagli enormi buchi ancora visibili sulle parti molli del collo e
del ventre che non si trattava di un Allenatore crudele o di una
Poké Ball
scivolata nel drenaggio per sbaglio. Avevano entrambe
un’etichetta sbiadita
legata alla zampa, quella di Aaron stretta gonfiandogli il piedino.
Non si aspettava
tutto questo, nemmeno dall’organizzazione criminale che
prelevava i Pokémon dalle loro case, dalle loro tane, per
farci esperimenti di
mala etica. I poveri reietti di cui aveva parlato Zania, ritrovati
martoriati
dopo la traumatica esperienza, erano una minoranza: sotto la
superficie,
lontano dagli occhi indignati dei politici e delle associazioni
multimilionarie, alcuni Pokémon aspettavano il ritorno dei
loro padroni, pieni
di speranza, nutrendosi di ciarpame, lottando contro i postumi degli
abusi del
Team, sia fisici, sia psicologici.
«Non
sono i miei Pokémon. Io non sono la loro Allenatrice. Non
sono neanche
di tipo Drago. Però…»
«Camilla!
Camilla! – Iris la chiamò, sovrastando gli allarmi
con il suo
acuto – Posso tenermeli?»
L’alzata
di spalle
e l’ennesimo invito a darsela le disegnò un
sorriso a denti aperti, contenta sì
che tutte le sue file bianche avorio fossero al loro posto e non dimeno
dell’avere due nuovi compagni di squadra (che a casa sua non
avrebbe mai potuto
tenere, né a Boreduopoli né al villaggio).
«Allora,
volete
venire con noi? Siamo buone! E carine. E anche voi siete carini!
Okay?»
Con falcate
fulminee, non rallentata da zavorre umane, saltò davanti a
tutte: dopo una
settimana di inattività, una pioggia grigia e deprimente,
sgranchire le gambe
non le era certamente in odio: fuori dalla gabbia atemporale in cui il
re
Harmonia voleva rinchiuderle e trasformarle nelle sue bambole, correre
verso il
futuro, per quanto incerto, era sempre una bella sensazione.
Ghecis non
sarebbe
sceso a prenderle per i capelli; gli rimaneva soltanto da lamentare la
sua
vecchia età, la forza di inerzia che lo relegava ai piani
alti. Fra i cunicoli,
la traccia di feromoni si sarebbe persa, le sue spie ad inseguire una
chimera,
là sotto.
Ogni centro
metri c’era
una biforcazione: non la prima, né la seconda.
«Qua,
a destra.» La
donna fu svelta ad avvisare l’amica, che diresse il gruppo
come l’asso di un
battaglione aereo.
«Cami…
cioè,
leader. Cosa… - la mora si portò una mano alle
carotidi, stavano per esplodere
– Quello… Quello non è un vicolo cieco?
Ancora? Un altro cliché da film
d’azione del…»
«Ma le
scritte
rosse…» Provò a protestare.
«Oh
no, - la mora
intervenne, sconfortata – basta, ragazze: R.I.P.
Camilla…»
«No,
eccole là. –
Anemone se la sentì di condividere
quest’informazione - Servono a indicare dove
espandere il tunnel, se a qualcuno interessa.»
«Belle,
non lo dico
con cattiveria – Camelia reiterò, portando avanti
le mani – Questo. Rimane.
Comunque. Un vicolo cieco. Giriamoci e andiamo avanti? O volete
annegare
nell’acqua dei cessi sporchi?»
«Oddio,
che mood.»
Le fece eco la sua ragazza.
«Spostatevi.»
Iris fece
scrocchiare indici e medi, il rumore le infuse energia, come quando
spezzava la
sua bacchetta colorata ad un concerto ed il fluido fluorescente
illuminava
l’oscurità prima dell’ouverture.
C’era
un ultimo
muro a separarle dal mondo esterno. Ma non gli sarebbero bastati
trucchetti,
infiltrazioni o le suppliche per superarlo. Serviva coraggio. Forza. Un
pizzico
di determinazione.
«Iris…»
Senza
ribattere, la leader decise di affidarsi a lei senza dubbi o indugi.
Aveva il sentore
che
non avrebbe fallito neppure quella volta, se l’avesse
lasciata mantenere la
concentrazione.
Notò
un pattern nel
suo modo di pensare: partiva sempre da dati sensibili. Anche una cosa
piccolissima.
«Qui
l’acciaio è smussato… Uhm…
Se non possiamo usare i nostri, di Pokémon,
non ci resta altra scelta.» Gli
tastò la fronte ed Aaron si fece ritroso subito.
«Archen
è un
fossile, giusto?» Le chiese la ragazzina, ormai sicura su
cosa dovesse fare.
«Ci
hai azzeccato. –
Schioccando le dita per invitare le altre tre a farsi da parte, le
rivolse un
sorriso di incoraggiamento – Iris, fai del tuo
meglio.»
«Sì!
– batté le
mani una volta, presa dall’entusiasmo, contando sulla propria
capacità di
improvvisazione in lotta, contro l’ostacolo metaforico
– Archen, usa Forzantica!
Aaron, tu Zuccata!»
Sebbene non
avessero stretto un legame profondo in quei dieci minuti di strada da
invidiare
agli Allenatori in viaggio da decenni assieme ai loro
Pokémon iniziali, gli
attacchi si combinarono perfettamente, fisico e speciale, mirando
l’uno alle
fondamenta, l’altro alla giusta altezza per far attraversare
Camelia e Camilla,
dato che superavano tutte e due il metro e settantacinque.
Dalla polvere di
cemento, con la tosse intermittente di Catlina a rassicurarle di non
aver perso
l’udito dopo tale boato, emersero le figure tozze e smagrite
dei due piccoli,
uno trotterellava verso la sua nuova madre, l’altro si prese
il suo tempo per
ammirare l’opera dell’uomo ridotta in briciole,
un’esperienza che non doveva
aver visto nella sua era mesozoica.
«Woah,
che figata.
- Anemone non si risparmiava i complimenti, quando sapeva di doverli ad
altri –
Ma… dove andiamo, ora? Dento là? Sappiamo almeno
se si esce fuori?»
Iris raccolse il
quadrupede in braccio, stupita dal peso dello stesso, intanto che il
volatile
si era appollaiato con le zampe sul suo nido spettinato.
«Ti
stai
lamentando? Faccio strada io, allora! – Camelia si
distaccò dalla presa
dell’altra, voltandosi indietro: si mise in posa e fece in
successione sia il
segno della pace, che il dito medio – Bye bye, hasta luego,
sayonara, zàijiàn Team
Plasma.»
«S-Si
dice
“saraba”. Vuol dire “addio” ma
è ancora più forte – Catlina
precisò – Con
“sayonara” ci può essere la minima
possibilità che ci rivedremo. E farei
volentieri a meno, sinceramente.»
Il muro divelto
le
costrinse a saltare fra i mattoni travolti, talvolta abbassando la
testa. Anemone
offrì il suo Swoobat affinché illuminasse la
viscera con Flash: appariva come
una normalissima grotta naturale, nei Percorsi ce n’erano
alcune per
incoraggiare gli Allenatori alle prime armi ad appassionarsi
all’arte
dell’esplorazione.
«Andiamo!
Andiamo!»
Esultò la bionda. Il suo Garchomp ed altri
Pokémon massicci si diedero da fare
per coprire il buco alla bell’e meglio. Le reclute se ne
sarebbero accorte
comunque, ma almeno avrebbero guadagnato tempo prezioso.
Si proposero di
seguirla fino in fondo, una volta uscite avrebbero abbandonato le
cavigliere
localizzatrici dentro ad una pozza di acqua o sotto un cumulo di
detriti.
Proseguirono
ancora
tenendosi strette l’un l’altra: davvero sarebbe
stato tutto in discesa, da quel
momento in poi? Davvero il peggio era passato?
Il Team Plasma
non
era il loro unico nemico. Aveva solo il vantaggio di essere
l’unico da cui una
farsa carnevalesca, una corda di stracci e un’esplosione
potevano cavarle fuori
indenni.
❁
La sabbia del
Deserto della Quiete, distesa immensa nella penisola settentrionale
della
regione, non aveva sentito sulla sua cute dorata nient’altro
che le carezze
delle rose di Gerico e le lacrime del cielo, una volta ogni decennio.
Invece, i passi
che
sprofondavano in essa, lasciando una trama romboidale sul fondo di
piccole
buche allungate, dovevano farle male, come uno sciame di pesti che
alterava la
candidezza della distesa farinosa, una scabbia umana.
L’eremo
tuttavia
rifiutava i pellegrini invadenti, si impossessava a sua volta dei loro
corpi e
dei loro pensieri.
Innanzitutto,
imbrogliava le Allenatrici: quando credevano di aver superato una duna
alta
quanto un’automobile, una di taglia doppia si presentava
sull’altro versante,
rimpicciolendole, lasciandole in balia di discese e salite infinite.
Poi gli
domandava attenzione, come una vecchia scorbutica.
Era una lotta di
sopravvivenza,
uomo contro natura.
«Oh!
Ferme! Ferme
un attimo! – la voce di Camelia, in coda al gruppo, diventava
liquido che
permea, appunto, nella sabbia asciutta –
Aspettate…»
Si
chinò e la
sabbia aderì alle guance lucide, per sostenersi immerse la
mano sulla coltre di
essa e la vide inghiottita, come l’arto del re che tutto
poteva trasformare in
oro.
Sulla terra, il
profilo della sua adorata Zebstrika, dal manto ruvido e spettinato, gli
occhi
chiusi per l’accecamento dovuto alle particelle minuscole,
disegnava una sagoma
delicata, dal contorno perfettamente uniforme. Dopo quella di Swanna,
di Dragonite
e l’intera squadra di tipi Psico, di Emolga che aveva avuto
la fortuna di
soccorrere prima che piombasse giù, un’altra
modesta tomba era stata scavata
sotto la pallida luce del sole calante.
La giovane non
volle nemmeno pensare a tale associazione. Prese la Poké
Ball e richiamò il
Pokémon Zebra immediatamente, pregando la propria
immaginazione impazzita di
non lasciare la polpa in pasto ai Mandibuzz selvatici, di non mostrarle
le
costole color alabastro seppellite dalle tempeste.
Nel silenzio
della
piana arida, Archen prese a strepitare, sebbene avesse seguito il
corteo
tranquillo durante tutto il tragitto, trascinandosi le ali ancora
inadatte al
volo.
Aaron si fece
strada scostando la sabbia con il musetto, sollevandone un turbine ad
ogni
passo indietro. L’intero convoglio fu costretto a fermarsi,
lusso che nessuno,
né persona né Pokémon si
sentì meritevole di concedersi.
Aveva concesso a
Catlina di utilizzare la groppa di Garchomp come mezzo di trasporto,
affidandosi all’immunità dei Tipi Terra, Acciaio e
Roccia al clima desertico;
l’istinto le aveva guidate dalla prigione fino a sotto le
sfumature rosa del
crepuscolo, una nozione di buon senso gli aveva mostrato solo dune,
tane di
Darumaka e altre dune.
Potevano essere
passate
ore ed ore senza bere, mangiare o riposarsi e non poterne ricavare
alcuna
ricompensa, né per gli occhi né per la loro
sanità mentale.
Colei che si era
tenuta
in prima linea, mantenendo un’andatura cadenzata nonostante
gli acciacchi
continui, si lasciò cadere sulle ginocchia, sperando che il
terreno fosse
benevolo ed attutisse, ma come l’acqua e il grano, le
proprietà fisiche si
presero gioco delle sue gambe deboli.
«Basta,
non ce la
faccio più, non riesco a camminare… Ho le
vesciche.»
Iris non credeva
fosse possibile sentire il bisogno di andare in ospedale.
Più tempo passava più
si scopriva dolorante, la testa gonfia e allampanata, il respiro
tremante, non
aveva dimestichezza con sintomi tanto potenti da farle mettere in
dubbio i suoi
quindici anni di perfetta salute. Le botte intanto si facevano di un
indaco
intenso, ma le scorticature rimanevano sempre della stessa
tonalità di rosso,
coperte della stessa sabbia annidatasi fra i capelli, fra le dita,
nelle pieghe
dei vestiti di tutte loro.
Non
slacciò neppure
le scarpe e le svuotò del contenuto infiltratosi fra le
intercapedini. I
calzini ancora umidi le fasciavano il piede pulsante come bende di lino
unte di
unguento, ad imbalsamarla lì dov’era, insieme agli
altri cadaveri spogli.
Loro cinque
erano
criminali appena evase, sulle cui letterali tracce c’era
già un’operazione in
moto per acciuffarle. Dovevano essere state rimesse in catene,
avrebbero fatto posar
loro la prima pietra per costruire il mausoleo del dio del sole, per la
luna
del deserto, per il tempio della gloria.
Sulle loro ossa
sarebbe giaciuta la vita eterna del re Harmonia, una mummia coperta
dello
stesso oro che in quel momento bruciava le loro bocche e gli macerava
le
palpebre.
«Rimettitele
su, o
rischi che un Sandile ti mangi un piede. – Due battiti delle
mani di Camilla vicino
all’orecchio la stordirono, mentre cercava di rimuovere delle
pellicine
biancastre dall’alluce colme di siero appiccicoso –
Dobbiamo andare. Dovrebbe
mancare poco.»
«Manca
poco a cosa?
– Camelia alzò la voce per attirare
l’attenzione di tutte, ponendo davanti agli
occhi della leader la Sfera in cui riposava il suo terzo
Pokémon di fila
esaurito dalla fatica – Che moriamo di fame e di sete? Che un
Darmanitan o un
Krokodile selvatico venga a sbranarci? O, il top del top: Ghecis si
è preso un
elicottero e abbiamo fatto tanta fatica solo per la soddisfazione di
picchiare
Iris a sangue.»
«Non
ti lamentavi mentre
mi prendevi a pugni in faccia e mi gridavi offese razziste,
ah?!»
La mora
gettò
un’occhiata di disprezzo alla ragazzina, ancora per terra,
scalza. Era sua
l’idea dell’evasione, ma poteva imputare solo al
suo istante di sciocca
benevolenza l’averla voluta assecondare per prima fra tutte.
«…N-Non
provare ad
andare a dire in giro che sono razzista, sai?»
Iris si
portò
l’indice alle labbra, per complicità.
«Mai
pensato! Sei
antipatica, crudele e io ti odio… ma non sei razzista.
Scusa.»
«Dopo
il dossier
credo che la community della moda mi abbia cancellata e adesso sono
irrilevante
e nessuno vorrà più sponsorizzarmi e
dovrò trovarmi un lavoro serio dove si
suda e bisogna avere un diploma e… Aspetta, noi stiamo per
morire, possiamo
pensare a questo?!»
«Beh,
non è mica
detto che moriamo… – Catlina aveva la testa a
penzoloni sulla spalla del drago
della compagna, gli occhi serrati per i capogiri –
…di stenti o ammazzate.
Potresti
prenderti
un colpo di calore. O una commozione celebrale. O un
infarto…»
Mossa
dall’avversione nei confronti di tale pessimismo, ma memore
della potentissima
lavata di capo inflittale da Camilla il giorno che erano arrivate a
casa di
Nardo, raccolse l’unica delle compagne con un senso
dell’umorismo abbastanza
versatile e le sussurrò.
«Per
fortuna che
non ci sono lampadari o lampadine nel deserto…»
«Iris,
pff…»
Adorò
la vista di
Camelia che si copriva la bocca e tratteneva una sonora risata,
meravigliata
dalla sua inventiva comica. Un piccolo traguardo raggiunto prima di
passare
all’aldilà, stupire di gusto la modella
più viperina sulla faccia della Terra;
per la prima volta la mora stava ridendo con lei e non di lei, ma della
sub-leader. Sperò solo che quella non avesse sentito niente.
«Boh,
io ho sonno. –
La biondina sistemò il braccio come cuscino, affondando la
guancia nella parte
liscia della manica, assorbendo la sua voce delicata nel tessuto
– Detto
questo, crepate in silenzio, per favore. Già non sopporto il
rumore che fate vivendo,
figuratevi i discorsoni drammatici che vi farete quando vi mancano 5
secondi di
vita. ‘Notte.»
Per assicurarsi
che
l’aristocratica inferma non dissimulasse la morte con il
sonno, prese a
punzecchiarle il viso senza difetti, come si fa con i molluschi arenati
sulla
spiaggia. Aveva le guance morbidissime, Iris si accorse, non aveva mai
avuto
vero e proprio contatto fisico con Catlina e si dispiacque di
ciò.
«Anemone,
- Camilla
aveva diligentemente controllato le pulsazioni dei membri del Team
rimasti in
piedi, non trascurando neppure quello della sua amica di infanzia,
scacciando
Iris dal suo breve passatempo, nonostante il suo infantile, evidente
disappunto
– stai pensando a qualcosa?
«Uhm!
– La rossa
annuì una volta, strabuzzando le iridi azzurre, irrorate per
i granelli di
sabbia – Mi è appena venuto in mente che, woah,
tutte le altre volte sì e
questa no? Ce l’hai con me per quella cosa che ho detto in
cella? Che ti avevo
minacciato?»
«Niente
nomignoli,
non devi dirmelo due volte.» La donna sospirò,
dandole una pacca sulla spalla.
«Ma,
boh… -
sgonfiate le guance dall’aria raccolta per simulare un
broncio indispettito –
non è che a me dispiace se mi chiami “tesoro,
cara, amore”. Okay, magari non
tutti quanti insieme. A me partono i neuroni quando lo fai apposta
per… avere
la mia simpatia? Cioè, sembra che te ne freghi di me solo
quando ne hai
bisogno.»
«Ah.
Io… mi
dispiace. Pensavo che ti facesse piacere, visto che siamo tutte
femmine, avere
un po’ più di intimità fra di noi.
Visto che sei stata tu a fare il primo passo
e presentarti, quel giorno…»
Anemone
arrossì
sotto la coltre di sudore dispersa sui suoi zigomi: credeva davvero che
Camilla
la considerasse un semplice digestivo per quando le circostanze non
andavano
giù lisce come lei si aspettava. Voleva spesso arrendersi ed
accettare quelle
gentilezze a braccia aperte: non ne poteva più di sentire il
suo nome dai
compagni delle superiori, il cognome dai colleghi e suo nonno che
recitava
tutto per intero quando lei difettava di obbedienza.
«A
proposito di
giorno! – Batté le mani così forte da
risvegliare Catlina e le altre dalla
trance e si precipitò sulla cresta della duna, modellata dal
vento con una
salita in apparenza dolce ma che ricadeva in uno strapiombo nel lato
opposto –
Il sole sta tramontando.»
Iris non
ascoltò
l’istinto di auto-preservazione ed alzò la testa:
un doloroso velo nero le
balenò davanti alle pupille. La sua compagna lo aveva
menzionato e lei aveva
provato a guardare la palla di fuoco direttamente, che
ingenuità per una che
aveva insistito nel non affidarsi più all’istinto.
L’aviatrice
stese
un braccio verso la porzione di cielo screziato e l’altro in
direzione perpendicolare.
«Quindi,
quello è
occidente – Camilla intuì – dove il sole
cade.»
«Se
quello è
l’ovest, questo è il nord. Quindi… - si
chinò, disegnò con il dito una croce e
ci mise le iniziali dei punti cardinali alle estremità
– Per di qua andiamo a
Sciroccopoli, di là torniamo ad Austropoli... ma non ci
conviene, visto che
avranno piazzato la polizia ad ogni angolo.
Ancora lo scorso
inverno ho fatto ricognizione intorno ai gasdotti che attraversano il
deserto e
se non mi sbaglio, c’è un’autostrada.
Basta seguirla e…»
La rossa
gesticolò
qualcosa in codice al suo Unfeazant, prima che spiegasse le ali bigie
verso
l’alto. Dopo neanche una ventina di metri l’uccello
puntò a nord-ovest. La
ragazza sorrise, interpretandolo come un ottimo segno. Se la forza
della natura
le trascurava così crudelmente, la trigonometria le
assisteva con una distanza
inferiore ai due chilometri dall’intersecare il lembo scuro
d’asfalto che
connetteva a capitale ed il centro divertimenti di Unima.
«Okay.
Quindi: -
Camelia calpestò la rosa dei venti e si posizionò
di fronte alla sua ragazza,
avvolgendola con la sua ombra – la tua idea è di
andare a piedi attraverso il
Deserto della Quiete fino a Sciroccopoli?
Tesoro, ti devo
ricordare che fino a ieri non ti ricordavi nemmeno il tuo orientamento
sessuale
o…?»
«Uh…
Sì? Fra poco
fa buio. - Tre secondi di silenzio. Anemone rovesciò lo
sguardo a terra, dove i
piedi si erano insabbiati – Di notte la temperatura scende
anche fino a venti
gradi sotto zero. Ritenzione termica, se ti interessa.»
«Aggiungo
anche –
Catlina si svegliò, tramortendo anche il Pokémon
su cui era sdraiata con quella
strana eccitazione – “ipotermia” alle
possibili cause di morte. Ricapitoliamo:
ustione, fame, sete, omicidio, ipotermia, stenti… o
l’ho già detto? Vabbè,
attacco di Pokémon selvatici…»
Con uno
starnazzare
sgraziato, più riconducibile ad uno Spearow a cui si tira il
collo per farcirlo
ed infornarlo a pranzo che ad un esemplare del tutto evoluto,
l’Unfeazant
mandato a misurare la distanza dall’autostrada cadde a terra,
esausto. Non
riportava ferite.
La sua
Allenatrice
sospirò, munendosi della Sfera per richiamarlo dopo
l’aiuto offerto loro.
«…tempesta
di
sabbia.»
«Tempesta
di
sabbia! – Il colore svanì dalle gote della
Superquattro, la polvere biancastra
un perfetto fondotinta e illuminante – No, aspetta, a parte
Garchomp e i
trovatelli di Iris non ci rimangono altri
Pokémon…»
«E
allora, andiamo.
– Camilla cacciò il ciuffo dietro
l’orecchio e quello scivolò immediatamente
nella sua posizione iniziale, disobbedendo alla fisica e alla sua
padrona –
Supereremo anche questa prova, ne sono certa! Del resto, pensare sempre
che
“potrebbe andare peggio” non è una buona
cosa.
Se una forza
soprannaturale potesse soffiarci da sotto il naso tutto il nostro
progresso,
avrebbe senso continuare a sperare? Ci pensate mai, a
cos’è la speranza?»
«Uhm…?»
La incalzò
Iris. Dopo tutto quello che avevano subito e scavalcato, le mancavano i
monologhi filosofici della sua leader.
Scesero dalla
collina in fila indiana, sfruttando la pendenza per slittare in basso
senza
dover inciampare sui lacci o sulla roccia friabile. Il vento della sera
aveva
già livellato molti dei dossi e se non fosse stato per le
tane dei Drilbur
birichini ad intralciarle, potevano dire che la parte più
aspra del sentiero
era ormai alle loro spalle.
Quella che
Anemone
aveva chiamato autostrada non aveva nemmeno parapetti degni di non
venire
scavalcati da una bella rincorsa spericolata. Non c’erano
strisce pedonali, ma
che pro scomodare la verniciatura stradale fino a quel punto morto
sulla mappa
della regione? Guardarono comunque a destra, sinistra e ancora destra,
su entrambe
le corsie, solo poche scie degli anabbaglianti rossi dei van container.
Ancora, non
c’erano
fondi per ricostruire edifici antichi, per tenere un processo, per
assumere
personale con esperienza a tenere d’occhio i furfanti: che
speranza potevano
avere le infrastrutture e i trasporti?
Mancava qualche
giorno al solstizio d’estate, ma nemmeno il faraone poteva
comandare al dio del
sole di non ritirarsi sotto i monti; nessuno però impediva
agli altri mortali
di sfidare l’egemonia della sua luminosità: le
quattro lettere di un’insegna al
neon rosa baluginavano una dopo l’altra. Nope…
Enop… Open.
Catlina
protestò
subito, ribadendo quanto il solo venire spottate da un cliente del road
bar o
da un’automobilista curioso avrebbe messo fine alla loro
corsa, costruendosi
pure una contro-argomentazione in riguardo a chi diamine interessasse
riportare
alla polizia delle luride saltimbanchi colte in flagrante
nell’imperdonabile
atto di andare a sistemarsi la zazzera. Disse che il malloppo che
Acromio aveva
promesso anche ad Anemone per corromperla rimaneva nelle tasche del
Team,
almeno temporaneamente.
Fu inutile,
Garchomp aveva ormai attraversato le due aree di servizio, dove ancora
nessun’auto si era fermata. Il tintinnio del campanello
allertò una giovane
cameriera, che si strinse nel canovaccio e nel bicchiere che stava
lucidando e
gli sorrise educatamente.
«Mi
scusi, possiamo
usare il bagno?»
«Uhm?
– batté le
ciglia pesanti per il mascara messo a dura prova dal clima desertico -
Sulla
destra.»
Dopo averla disturbata, Camilla eseguì un inchino per insolito riflesso culturalmente inappropriato, guidando le compagne come fossero in gira scolastica attraverso il pavimento in piastrelle a scacchiera, sull’intonaco acquamarina targhe di vetture d’epoca, segnaletica stradale corrosa artificialmente e cimeli più o meno autentici da un decennio specifico fra metà e fine secolo, nessuna però riuscì ad identificare quale per l’esattezza.
Il fruscio del
ventilatore a muro e la radio a medio volume con un dj invasato
rinfrescavano
il locale. Nessuno occupava gli sgabelli o i tavoli attorno al bancone.
̴
Lo scarico
ruggiva, il loro consumo d’acqua potabile in grado di far
rabbrividire
gli ecologisti e gli enti benefici delle pubblicità
progresso emotivamente
manipolanti di prima serata.
Le cinque
ragazze
si crogiolarono in quel sollievo momentaneo. Certo, se avessero avuto
un
Pokédollaro per ogni volta che si ritrovavano in una
toilette a rimuginare
sulla loro incredibile abilità di sopravvivenza…
avrebbero avuto due Pokédollari.
Non era molto,
ma
gli parve strano che fosse capitato ben due volte nel corso della
stessa
avventura. Quando si parla di diversificazione delle strategie, i
manuali di
narrativa non sono mai incorporati nella nostra realtà
crudele.
Erano contente
di
quel bagno pulito, uno sprazzo di normalità al profumo di
candeggina.
Iris non aveva
mai
passato così tanto tempo davanti allo specchio in vita sua.
Le sembrò proprio
che il tempo fosse rallentato e non provava pena per quelle sue
coetanee
dall’agenda piena di appuntamenti romantici per cui quella
sensazione esoterica
si ripeteva ogni singola sera.
Si
lavò le mani
fino ai gomiti e sfruttò le articolazioni già
snodate dalla corsa per sporgere
le ginocchia fino alla vasca del lavabo, conscia delle sue maniere poco
signorili. Più che delle ferite vere e proprie ferite, dallo
strato di sabbia
appiccicosa emersero solo dei tagli irritati. Doveva aver solo fiducia
che sua
epidermide guarisse senza disinfettante o garze.
Si
lavò il viso, le
sembrò quasi di riuscire a vedere tutto più
chiaramente, come se avesse pulito
le lenti sporche di un paio di occhiali invisibili. La coda di cavallo
ora era
a posto.
Si era lasciata
il
piacere maggiore per ultimo, apposta: le labbra color pesco toccarono
il flusso
pulito e limpido, ignorando il retrogusto calcareo ed il leggero
refrigerio
alle gengive, rese ancora più sensibili dalla
disidratazione. Non credeva di dover
cedere, un giorno, ai proverbi semi-ovvi di sua nonna adottiva, ma non
c’era
davvero nulla di meglio dell’acqua fresca sulla faccia della
Terra.
«Okay.
A posto. –
Si sentì strattonare i capelli non con eccessiva violenza,
se non che si lasciò
allontanare dalla sua deliziosa fonte artificiale di gioia –
Dai, Iris, basta.»
«Ma io
avevo ancora
sete…»
«News
flash: bere troppa
acqua fa gonfiare lo stomaco e la pancia. – Avrebbe fatto
opposizione a
qualsiasi consiglio estetico non convenuto Camelia le avesse appioppato
in
qualsiasi altra occasione, ma non le restò che un mugolio
indispettito – So che
tu non lo sai, quindi te lo dico con gentilezza, ma se rovini la mia
idea ti
stacco io le poche tette che hai e, boh, cosa dovrei farmene? Sono
talmente
insignificanti, non me ne farei niente…
Forza,
ritenzione
idrica! Aiuta queste povere anime come hai aiutato me a uscire dal
ghetto e
fare i milioni.»
«Però
tesoro, –
seduta sulla tazza chiusa con la testa adagiata al ginocchio, Anemone,
già terminata
la sua toelettatura, osservò la sua ragazza con scetticismo
– non ci hai ancora
spiegato bene cosa dobbiamo fare esattamente il
“piano” che avevi pensato. Si
sta facendo buio, fuori.»
La ragazzina si
stupì ancora di come i cambi d’umore della
compagna non la infastidissero per
niente.
La modella aveva
insistito di voler essere gentile e di volerle proteggere. Alle altre
tre
fuoriuscirono gli occhi dalle orbite: la concorrente più
bisbetica e viperina
che finalmente puntava il dito contro se stessa. Quello sì
che si poteva
definire uno sviluppo del personaggio! O meglio, si sarebbe potuto
definire
tale se non avesse aggiunto il personale desiderio di rivalsa dal non
aver
contribuito alla creazione di un signor piano, senza le virgolette ai
lati.
«Vi
faccio uno
spoiler: - chiuse pollice e indice e li agitò sfacciatamente
– non include
entrare nelle fogne, pestare la gente di botte o sporcarci le mani in
alcun
modo. Facile come catturare un Magikarp con una Master Ball.»
Non colse la
parola
precisa, ma una di esse fece scattare Anemone in piedi e quella
scoppiò in un
applauso compiacente, accolta da un mezzo abbraccio
dall’altra.
«Camelia
Taylor è
la mia – enfatizzò il possessivo, sorridendo beata
- Campionessa di Unima!»
«Yay,
sì, amore
mio! – attirò nella stretta anche la biondina,
confusa da tutto quell’affetto
ma comunque non restia. La mora attirò infine
l’attenzione della leader, sicura
di una qualche obiezione alla sua idea brillante da spianare con un bel
dibattito – Camilla?»
«…eh?»
La donna si era
lasciata
ciondolare contro la porta del bagno, senza dire una parola fino a quel
momento, in cui aveva poco velatamente dichiarato di non averci capito
nulla.
Camelia lo avrebbe preso come un “chi tace
acconsente”.
Tuttavia, il
dolce
profumino del cioccolato al latte e il rumore delle granelle croccanti,
musica
sotto i denti…
«Camilla,
dove hai
preso quel gelato? – Iris inclinò il capo
– N-Non abbiamo soldi per pagare…»
«Senti
chi parla.» La sua coscienza
la pizzicò nel fegato. Le sue compagne non sapevano nulla
della sua piccola scorribanda, ed invece era proprio quella la ferita
che
dentro lei era invecchiata peggio.
«…volete?»
La donna
alzò le
spalle, con calma serafica. Spezzò la rigidità
del polso ed offrì lo stecco di
cui ormai rimaneva soltanto la crema alla base. Sotto il ciuffo, i suoi
occhi la
pregavano di rifiutare ed avere pietà del suo essere stata
privata del suo
snack preferito, avendo pure bevuto il cocktail di vendetta al gusto
Plasma e
sale.
«No,
grazie…» La
più giovane ottenne un sorrisino ingenuo e lasciò
in pace la sua leader a
godersi quel piccolo premio per non aver perso le staffe neanche una
volta dall’uscita
dal carcere.
«Ah,
Iris, -
Camelia si intromise nello spazio personale di lei, alla ricerca della
tasca
posteriore dei pantaloni della tuta – mi serve un attimo, per
completare le
preparazioni…»
«No,
aspetta, -
provò a recuperare l’oggetto che la ragazza
più grande le aveva strappato di
dosso, ma come un micio che si lancia sul puntatore laser, la statura
di una
top model poteva benissimo eludere i suoi salti a due piedi, ridicoli
– non
puoi usare i miei Pokémon… Tanto non ti
ascolta…»
Sbalordito dal
repentino cambio di situazione, ma pur sempre sollevato dal non
trovarsi esposto
alla tempesta di sabbia, condizione metereologica non favorevole, il
draghetto
dalla corazza verde scarabeo si sgranchì le zampe.
«Fraxure,
- la
Capopalestra, che non aveva mai allenato un tipo diverso
dall’Elettro in
diciassette, quasi diciotto anni di vita e sei nel circuito
competitivo,
addolcì il tono, fissando le pupille nere del
Pokémon sulle sue. Poi gli fece
tre strani segni – usa Forbice X sulle nostre
uniformi.»
«No,
no, no, no,
no, no, no, no, no…»
Iris aveva
afferrato al volo. Non era fiera del proprio intuito, visto che ormai
la
supposizione più sconveniente e infima si rivelava sempre,
purtroppo, la
risposta corretta, quando si trattava delle idee delle sue amiche.
Una linea sotto
il
petto per domarli. Una sopra il bacino per trovarli. Infine, una a
livello
dell’inguine per condurli da loro e portarle almeno fino a
Sciroccopoli.
Stettero tutte
immobili, lasciando lavorare gli artigli affilati del loro sarto
personale.
La stoffa di
qualità scadente si lasciò smembrare, lasciando
un labbro sfibrato come le reti
di un pescatore vuote dopo una battuta poco fruttuosa. In quanto a loro
però,
era appena caduto il muro che le separava dal mare delle
opportunità, insieme
ad una buona porzione del pantalone e tutto il tessuto fra i due bordi:
finito il
lavoro impeccabile durato solo alcuni istanti, Camelia
invitò le altre a
disfarsi di quei cilindri di stoffa inutile ed utilizzò una
striscia del suo
per legarsi i capelli a mo’ di bandana dietro la frangetta.
La
più giovane
Allenatrice si portò i palmi davanti alla bocca e sulle
guance: i pezzi
tagliati intanto erano scivolati da soli, lei non aveva mosso un
muscolo per
spogliarsi di essi.
«Perché.
Cioè…
perché.»
Trattenendo il
respiro, sfilò verso il basso la parte centrale. Volle
battersi la fronte:
Camelia aveva ragione al cento per cento: la sua pancia color
caramello,
dall’ombelico aperto marcato da un solco sottile, alla linea
alba sembrava
piatta più del solito, le costole si notavano leggermente
perché la pelle
aderiva alle ossa, non avendo sviluppato addominali prorompenti o
tessuto
adiposo.
Proprio per
quello
scelse di non arrotolare la maglia sotto il seno. Calciò via
i due tubi delle
gambe, notando come la cucitura asinina del cavallo delle braghe fosse
larga
solo in apparenza. Senza la gamba completa, l’elastico si
attorcigliava lungo i
suoi glutei e fra le sue cosce, le quali di solito non si toccavano,
causavano
un leggero attrito a cui si abituò di malavoglia.
L’unica
modifica
che richiese fu che la forte Anemone le strappasse con le sue mani le
maniche
lunghe. Erano nel deserto, faceva caldo. Invece di rompere il
poliestere, ormai
assodato come più duttile della seta di un atelier di alta
moda, la rossa
riuscì a sbregare le cuciture sulle spalle e a rendere
quella che era la tuta
unica della sua amica una canottiera a spalline larghe abbinata ai
pantaloncini
corti che ella metteva spesso anche nella sua quotidianità.
«Direi
che siamo
pronte?»
«Aspetta…
ultimi
dettagli…» la mora stava raccogliendo con un
elastico fatto del medesimo
materiale la fiamma brulicante della compagna in uno chignon un
po’ arruffato,
lasciando scendere due ciuffi più lunghi ai lati, davanti
alle orecchie.
«E
tutto quello che
dobbiamo fare è… - Catlina aveva annodato la sua
chioma bionda, sicura di non
avere chance nel districare i numerosi nodi formatisi in quel nido di
Swellow e
fatto un fiocco all’estremità –
sorridere, testa alta, petto in fuori, pancia
in dentro?»
Non si fece
cruccio. Sotto le luci i segni delle cicatrici si vedevano, ma magari
era solo
un’illusione ottica. Ai pantaloni tuttavia, avrebbe preferito
una bella gonna
ampia, ma le circostanze non le avrebbero permesso di metterne una,
neanche
fosse stata disponibile nel loro guardaroba.
«Così,
sì.
Atteniamoci al piano.»
Camilla
esalò un
sospiro divertito, tenendo ancora a penzoloni fra i canini lo stecco
del suo
gelato. Avendo notato subito quanto quell’abbigliamento fosse
indecente, specie
per una della sua età, si mise d’impegno per
rigirare i bordi strappati, per
nulla consoni ad una giovane perbene. Fallì
nell’accorgersi che adesso oltre
mezza natica era rimasta scoperta e che il peso che si ritrovava a
portare
davanti non bilanciava quello dietro: nella sua regione i magazine
avevano
passato settimane indulgendo in gossip sui vestiti della Campionessa.
Almeno, con le
sue
care ragazze, poteva per una volta andare in giro per con
più pelle esposta che
coperta senza sentirsi giudicata.
Camelia si mise
al
suo fianco in testa al gruppo, con la sua fidanzata attaccata a lei, lo
sguardo
perso sull’alquanto originale trovata di sbottonare la maglia
e legarla sotto
il petto, trasformandolo in un delizioso tank-top vintage con vista
premium.
Finché
i loro
outfit coordinati non erano tutti all’ultimo grado non
sarebbero uscite dal
bagno. Regola non scritta delle adolescenti.
Quando lo
fecero,
la cameriera di prima lasciò precipitare un piatto dietro il
bancone;
mortificata, raccolse i cocci, dietro le gote paonazze.
La musica si
fece
più intensa, la chitarra elettrica esultò dagli
amplificatori. Era ora.
«Ricordate:
non
fate saltare la copertura. State rilassate e concentratevi. –
Camilla sussurrò
ed un “uhm!” raggiunse i suoi padiglioni, ma lo
sguardo era dritto verso
l’uscio del locale – Da qui in poi, solo iniziali.
Andiamo,
ragazze.»
Appuntandosi di
non
chiamare mai Camilla, Catlina e Camelia (da come aveva storto il naso
anche
Anemone ci aveva fatto caso) Iris si accarezzò i capelli,
lasciando respirare
la nuca fino a che potevano approfittare del condizionatore.
«…andiamo,
dove? Questo “piano” non funzionerà mai.
Speriamo almeno che ci si diverta.»
̴
Trascorsero un
quarto d’ora appollaiate sugli avambracci, il marciapiedi si
era ormai raffreddato e le tre giovani, la modella, la leader e
l’aspirante
Allenatrice, si godevano le venature sulle rocce rugose
all’orizzonte, i
lampioni ai lati della strada si erano già accesi: il
cronometro ticchettava e
ancora nessuno aveva accostato.
Camilla si
alzò e si stirò le spalle. Non era un miraggio.
Qualcuno aveva
messo la freccia a destra.
Destò
le altre due dal loro ozio catatonico, gli bastò solo il
rombo di un
motore aggressivo, ancora bollente per la corsa a oltre centoventi
chilometri
orari sul rettilineo che connetteva le metropoli.
«Ma
buonasera, dolcezze!»
L’ereditiera
e l’aviatrice udirono quel saluto invece, ricambiando con una
calorosa accoglienza che poteva essere motivata solo un buon salario o
una
grande disperazione. Nessuna persona sana di mente risponde
“oh, buonasera a
voi!” di sua spontanea volontà dopo essere stata
chiamata con un vezzeggiativo
da un estraneo.
«Oggi
deve essere il nostro giorno fortunato, eh? Siamo quasi a secco nel
mezzo del dannato deserto e non solo il gasolio ci viene meno del
solito… Ma
abbiamo beccato pure un servizio che… eh.»
O da un intero
branco di estranei. Catlina si arricciò con
l’indice una
ciocca caduta dalla coda socchiudendo gli occhi verdi, mentre lo stesso
interlocutore lasciò libera una chioma bruna e incurvata dal
casco
impiastricciato di adesivi di loghi tribali. Si acconciò
invece baffi e barba
con il dito, attorno a quel ghigno vittorioso per un semplice saluto.
«Eh,
ultimamente – Anemone gli indicò la tabella dei
prezzi a ridosso della
prima postazione: personalmente, trovava gli aerei un argomento di
conversazione molto più interessante delle moto, ma non era
a caccia di un uomo
con cui condividere i suoi interessi – il gasolio e il GPL
sono saliti. E per
trovare posti con prezzi onesti bisogna farne, di
strada…»
L’omaccione
le diede ragione insieme a tutto il branco, scambiandosi
qualche parolaccia giusto per dimostrare apprezzamento per una donna un
filo
competente in materia. Una decina di membri orbitavano attorno alla
Harley
Davidson rosso vinaccia del capo banda, senza nemmeno
un’ammaccatura, a
differenza delle braccia villose su cui i segni di qualche rissa si
mimetizzavano con tatuaggi di Pokémon intimidatori.
Charizard, Rayquaza, Tyranitar…
chissà se li avesse almeno mai visti di persona,
quell’individuo losco.
«Prego,
da questa parte.»
Catlina
imitò le movenze dei valletti che servivano il tè
con i biscotti a
casa dei suoi genitori, mescolandoli all’ingenuità
posticcia delle maid che servivano
il tè nel distretto degli otaku di Cuoripoli.
Pensò ingenuamente che il
carburante fosse proprio come una bibita per veicoli, visto che solo
dei
fanatici potevano dedicare così tanto tempo e denaro a delle
creature non
viventi ed aspettarsi tali ossequi nel mentre.
«Fai
strada, biondina.»
Le due giovani
si presero
sottobraccio e tornarono verso la stazione centrale ridacchiando
soddisfatte.
Con una nota
telepatica, Catlina aveva tristemente notato che le loro belle
facce e qualche strappo strategico alle loro uniformi per rivelare un
po’ di
pelle non sarebbero bastati per attirare potenziali clienti: non ne
sapeva
molto di marketing, visto che gli Allenatori non avevano mai smesso di
affollare il Parco Lotta da quando i suoi genitori avevano ereditato
l’attività.
Ma guidando
altri tre chilometri e fermandosi ad uno strip club i centauri
avrebbero trovato, oltre a del make-up e dei costumi di scena
più raffinati,
anche attrici migliori. Serviva un ritocco al modus operandi.
Anemone
l’aveva coperta subito: usando solo una mano sfilò
dal pannello con
i prezzi il cartello bianco della seconda cifra dopo la virgola e lo
reinserì
capovolto nei suoi listelli. Faceva talmente tanti calcoli per le merci
all’ingrosso da trasportare che a volte perfino un cervello
allenato come il
suo si illudeva che uno punto sei fosse meno di uno punto nove, se non
arrotondato.
«Okay,
principessa marchesa contessa duchessa
margravina Yamaguchi-Haato, - Anemone le
avrebbe rivolto
un bel tono sprezzante per innalzarsi con quell’iperbole al
livello della
compagna più anziana e darle indicazioni su un concetto al
limite del banale,
ma che alle sue orecchie sarebbe inevitabilmente risultato alieno, in
quanto
lontano dalla sua limitante esperienza di vita; si
accontentò di ammiccare e
ricreare la sua battuta in testa, sapendo di essere ascoltata da un
cenno
minuscolo – hai mai fatto benzina?»
Catlina aveva il
mento incollato alla clavicola destra, pensierosa mentre
cercava di tenere il passo atletico della compagna. Quella
rallentò,
adattandosi ai secondi sprecati dalla bionda per confermarle una cosa
ovvia per
pura educazione, ossia il non avere neppure la patente.
«Uh…
no, non credo.»
«Bella…
allora, ti spiego: aspetta che i soldi se
li sia mangiati la macchinetta, appena vedi le cifre che cambiano sul
monitor,
schiacci “gasolio” e, ti prego, tieni la pompa blu
con la bocca girata verso
l’alto, che se ti rovesci la benzina sui piedi ci sgamano
malissimo…
Sì,
ma vabbè.»
Si
fermò d’improvviso, facendole quasi perdere
l’equilibrio e rovinare
sull’asfalto striato dai graffi neri di copertoni inclementi.
A Catlina non
piacque per nulla lo sguardo inquisitorio lanciatole dalla ragazza che
pur tenendola
ancora a braccetto, riuscì a farla sentire in colpa.
«Eh…
cosa?»
«Cat,
non ho parole… Mi stavi guardando le tette.»
«No,
non è vero.» Tirò
su col naso l’aria torrida e la tossì fuori,
insultata da quella
presunzione, la stessa che aveva avuto lei sulla rossa durante la lotta
al café
del centro commerciale.
«Capisco
– e le
appoggiò la
mano abbronzata sulla spalla, addolcendo il ghigno che esalavano anche
i suoi
occhi – che se la tua ragazza ti tradisce ti senti,
in un certo sento, in
dovere di vendicarti ma, sai com’è… io
sono ufficialmente fidanzata e se lo
viene a scoprire Camelia tu… tu a dicembre non ci arrivi,
per fare i vent’anni.»
Che ipocrita.
Avrebbe voluto aggiungere quanto fosse tipico della classe
medio-bassa riciclare le critiche mosse in passato ed usarle contro gli
altri.
Ma ultimamente, specie osservando la sua duplicità quando il
suo animo era
stretto nella morsa velenosa di Acromio, Anemone si era
inconsapevolmente
avvicinata a lei e vuotato il sacco di dubbi che entrambe si caricavano
sulle
spalle dall’inizio delle loro relazioni clandestine.
«D-Davvero
credi che Camilla non provi niente per
me? Sempre se ne possiamo parlare…»
«Niente?
Non direi, nah. Ma certo! Vieni dietro
con me e se non ci fai conversazione con questi delinquenti,
riprendiamo il
discorso.»
Era sicura che
l’altruismo di Anemone l’avrebbe portata a
strappare i
petali delle loro margherite, sperando di arrivare, imperturbate,
all’ultimo
“Camelia e Camilla ci amano, certo, è
sicuro”.
«Sono
un bel po’. Sembrano abbastanza agitati, ma non espressamente
malintenzionati. - Giunte a una spanna di distanza dal resto del
gruppo, con un
cenno serioso la leader diede inizio all’operazione.
– Il capo, quello con la
moto rossa là, seguono tutti lui. E, non so, anche a costo
di suonare
misantropa, state attente.»
«Poco
socievoli qua, le addette alla pompa. – Il capo
ringhiò e subito
scoppiò a ridere insieme alla banda, dando una botta al
manubrio per
crogiolarsi nella sua simpatia – Se va avanti
così, zero stelle al personale.»
Si munirono di
tergicristalli, liquido anti-gelo e la facciata da
dipendenti statali non troppo estatiche all’idea di dover
servire gli ultimi
clienti della giornata, ma senza far sospettare alla gang di
motociclisti di
non conoscere il protocollo delle stazioni di servizio con un servizio
in più.
I più
disinibiti fra quei brutti ceffi già inspiravano rivoli di
voglia,
afferrando la pelle dei sedili e scambiandosi commenti in codice
tutt’altro che
ermetico. Partirono schiamazzi e qualcuno suonò il clacson,
fischiando: quella
reazione in vista di una semplice interazione con delle ragazze
giovani, si
presupponeva lì per fargli solo benzina.
«Allora,
dove lo mettiamo, quell’olio, eh? Lascio fare alle tue belle
manine, tesoro!»
La ragazzina
più giovane ringraziò di aver trascorso gran
parte della sua
vita nel quartiere benestante di una delle città
più sicure della regione.
Neppure ai tornei dai quali era uscita vincitrice tanti occhi si erano
incollati a lei, alla sua pelle, su cui strisciavano quali echinodermi
viscidi:
anche lei aveva guardato Camilla così, quando
l’aveva vista brillare dietro al
braciere alla Lega?
«Camilla,
- le afferrò il polso e la donna appoggiò lo
straccio per pulire
la cromatura sulla spalla – non me la sento di
andare.»
«Uff…»
Sentì lo sbuffare della mora, ormai voltata e diretta dal
capobanda
con il suo incedere artificiale, ora l’attenzione era sulle
sue anche sporgenti
da sopra gli shorts.
«No,
h-hai ragione. Avremmo dovuto prendere questa cosa in considerazione.
Sei ancora piccolina per certe cose, Iris. E per fortuna, aggiungerei.
Lascia
fare a noi quattro. Tu ci hai aiutate fin troppo oggi.»
Inizialmente
temette il peggio, di ricevere accuse di arrendevolezza, ma la
risposta comprensiva della donna le diede sollievo nell’aver
dato voce ai
propri sentimenti.
«G-Grazie,
Camilla. – A parere suo, poco contava la sua età.
Sapeva che Camilla
era inesperta quanto lei e quel genere di situazione la esponeva ad
attenzioni
indesiderate - N-Non farti toccare da questi tizi, per
favore…»
«Nessuna
di noi vuole tutto questo, ma non c’è altro modo.
Fidati di me.»
Come un ago
attratto da un magnete ineludibile, la Campionessa di Sinnoh, ancora
imbattuta e rispettata a tanto che i suoi detrattori avevano dovuto
inventarsi
calunnie morali per screditarla pubblicamente, si presentò
al cospetto di un
motociclista calvo che, dopo averle fatto i complimenti e domandato se
si fosse
messa a dieta come se si conoscessero da una vita, inseguì
con lo sguardo il
seno della sua compagna, senza che lei dicesse nulla.
La ragazzina si
stese contro la parete e le scapole sporgenti le punsero la
schiena, rigida come un tronco. Anche in quel momento di estrema
difficoltà, di
vita o di morte, aveva scelto di onorare non solo la regola
d’oro imposta dal
loro distruttivo delirio nel parcheggio, solo che pur di non macchiarsi
di
ipocrisia aveva lasciato alle compagne il lavoro sporco.
Quelle quattro
avrebbero dovuto avere paura, averne molta più di lei e
delle sue paranoie inspiegabili.
Non le veniva in
mente nessuna che si sarebbe lasciata canzonare e
abbindolare da quei nomignoli mentre passava il lubrificante sui raggi
delle
ruote (quei mascalzoni non si stavano nemmeno accorgendo che le loro
preziose
figlie meccaniche stavano subendo vilipendio, da quanto erano assorti),
ma lo
sapeva come uno sa debolezze e resistenze del proprio Tipo, che le sue
compagne
avevano un rapporto discutibile con gli uomini.
Non con i
bambini, non con gli adolescenti o gli anziani. I compagni
impertinenti, gli ex-fidanzati manipolatori e borderline abusivi, i
loro
fantasmi permeati nella membrana del loro inconscio e le distraevano
dagli
allenamenti, dai successi, dalle gioie dei loro giorni tranquilli,
tutte
assieme.
«Ma
per fortuna che io non sono così.»
Iris
rovesciò la lingua e la lasciò schioccare sul
palato, come se alla sua
onorevole causa mancasse un nonsoché di concreto. Aveva
attutito calci e botte
come una sacca da boxe in nome dell’atarassia e dei loro
principi rivoluzionari
assicurando alle sue amiche che le chiedevano “E se ti
facciamo male?”, “E se
il Team Plasma ci scopre?” martellandole il sistema limbico
con la telepatia.
“Ce la
posso fare. Andrà tutto bene. –
Camilla aveva detto che era migliorata nell’auto-ironia,
quindi ruppe
quella sacralità - Non deve dispiacervi per me
proprio adesso, dai!”
Invece, a
sentirsi male perché Camilla, Catlina, Camelia ed Anemone
stavano
fingendo fin troppo bene di cadere nelle trappole di adescamento di una
banda
di centauri il doppio della loro età… era lei.
«Eh?
Cosa? – La modella era quella che, qualora non le andasse
proprio giù
che il capo flirtasse apertamente con lei sotto
l’indifferenza della sua
fidanzata, stava dissimulando meglio il suo disgusto – Ah,
capito, capito.
Provvediamo subito!»
Mentre si
alternavano nell’appropinquarsi al marciapiedi i due steli
flessuosi bianchi, la ragazzina pregò che Camelia non
venisse ad avvisarla del
fatto che il boss l’avesse riconosciuta da una
pubblicità in cui aveva fatto
cameo o da qualsiasi video o immagine strana lei desse il permesso ai
suoi
agenti di caricare su internet.
Quando le due
furono a distanza sufficiente per travestire le loro
confabulazioni con un manto di professionalità, Iris la
invitò a sciogliere le
mascelle da quel sorrisino maligno.
«Ugh…
che c’è ora?»
«Il
capo vuole che lo servi tu, non noi.»
«Eh?»
«Ha
detto che le tettone gli fanno schifo e preferisce le ragazze
più…
“piccoline”.»
«Eh?!»
Si trattava
forse di una
specie di scherzo perverso? Camelia era seria solo quando le comodava,
ma in
quel momento, anche se dare il cambio alla compagna impaurita e
fermamente
contraria era un colpo troppo basso anche per lei, doveva stare
scherzando.
Non era
possibile, Chaos si era intrufolato nella sua testa e aveva
ribaltato il ripiano delle verità assolute di Iris,
sistemate in boccette
sigillate e collezionate negli anni trascorsi in affitto come vivente
nel suo
corpo “piccolino”.
Non riusciva
proprio a concepirlo: a chi è che non piacciono le tette
grandi?
Tutti i suoi
amici maschi le adorano, le femmine le desiderano per sé o a
volte per la loro dolce metà. Era indubbio che perfino sua
madre, suo padre, le
sue sorelle, potendo mettere la mano sul fuoco anche il Campione di
Unima le
adorava.
Forse, se solo
non le fosse rimasto un grumo di orgoglio ad intasarle il
flusso di coscienza, Iris avrebbe potuto ammettere che anche a lei
piacevano,
le tette grandi.
Come per le
caramelle, i cuccioli, le feste, il gusto piccante, viene
automatico domandare “perché” se uno si
trova a non amarle, è naturale, se le
ragioni per cui dovrebbero essere apprezzate sono tante e valide a
livello a dir
poco universale: sono morbide, sono invitanti, puoi usarle come cuscino
e poi
assicurano nutrimento per i bambini ed un futuro familiare roseo.
Anche uno
volesse rispondere alla domanda di prima dando la colpa alla
società che detta i gusti delle persone e le mode del
momento, la verità è che
una “società” non ti rincorre in mezzo
al deserto. Non sarà comune come
preferenza ma visto che una taglia più moderata,
più petite è numericamente più
frequente, ha molto più senso ricercarla.
L’oro
è difficile da estrarre e non si può produrre
nella fucina. Questo
non significa che un bracciale o un anello in argento faccia sfigurare
chi lo
indossa! Le miniere d’argento sono sempre attive e si
può ottenere anche dalla
raffinazione elettrolitica del rame.
«Ah,
già meglio! – Il capobanda strappò la
chiave dalla toppa e le fece
fare una piroetta intorno all’indice – Siamo
passati da un sei, appena la
sufficienza ad una promozione piena, eh!»
«…Buonasera.»
Iris
abbassò lo sguardo. Cosa doveva dire? Avendo a che fare una
persona
che non la attraeva affatto le serviva una tecnica troppo avanzata per
una
senza neppure le basi di come si flirta.
Gli porse il
palmo come fanno gli strozzini, pronta a chiudere il pollice
sulla banconota. Anche i suoi occhi si tinsero di impazienza da posto
di
lavoro, sebbene non avesse ancora l’età legale per
lavorare.
«Certo,
ecco. Gasolio.»
Chiuse il pugno
d’impeto e l’unica cosa che toccò furono
le sue stesse
unghie incolte. La ragazzina lanciò un’occhiata
allarmata al cliente, che le fece
cenno con il mento di voltarsi di centottanta gradi. Le unghie le
perforarono
ancora di più la pelle.
«Ti
è caduto. Prendili.»
«S-Scusi…»
La banconota era
stata ovviamente accartocciata per aumentarne il peso e la
gittata durante il lancio. Una giovane con i suoi riflessi
l’avrebbe afferrata
al volo, nel caso fosse caduta per caso, o non proprio per caso, e il
capobanda
lo aveva previsto. Le aveva teso una trappola, un tappeto di
Levitoroccia su
cui avrebbe per forza dovuto appoggiare i piedi.
Perché
quell’individuo non sarebbe certo sceso dalla moto per farle
il
favore.
Iris
controllò come se la stessero cavando le altre e vederle
servire i
centauri con risatine convincenti al punto giusto ed una scioltezza
inequiparabile alla sua le fece mordere il labbro e proseguire nella
farsa.
«Come
al solito, non importa quanto duro o
umiliante la situazione sia. Sono tutte che fanno del loro meglio. Non
posso
essere l’unica che si lamenta. Però, certo che con
questa filosofia uno può
fare qualsiasi cosa, eh?»
Si
piegò con le gambe leggermente divaricate. Se la
contendevano lei ed
Anemone in fatto di elasticità nei movimenti, abbassarsi con
le gambe le
sembrava una perdita di tempo quando il bacino era ancora oliato dalla
sua
propensione all’esercizio fisico… Alla fine, le
sue armi non erano totalmente
scariche.
Ora si trovava a
pochi passi dalla riuscita del piano di Camelia, ma nulla
di tutto ciò sarebbe mai cominciato senza una goccia di
combustibile. Una
scintilla era bastata. Dopo aver sfidato il destino così
tante volte, chi
l’avrebbe spenta più? Bruciava di fiducia in se
stessa. Fuoco caldo, e
personificandolo… sexy.
Avrebbe dovuto
mandare una cartolina alla Iris seduta scomposta sul suo
letto sul punto di fare canestro nel cestino con la lettera di Nardo.
«Oddio,
io sono senza mutande.»
Le ciocche viola
ricadute dopo aver assunto di nuovo la posizione eretta la
lasciarono leggermente disorientata. Assorbì il ronzio del
distributore dopo
aver inserito la banconota, senza dire nulla.
Si era accorta
però che quel potenziale infiammabile in lei poteva essere
attivato, come un’Abilità o un superpotere. Poteva
farne uso a suo vantaggio, lo
schioccare debole delle labbra del capobanda contava come un genuino
gesto di
apprezzamento. Si fece un memo in testa.
Il miele non
attira solo le farfalle e i colibrì. Anche le mosche
vogliono
impiastricciarsi le ali.
«Non
ti ho mai vista qua. Non che sia una cosa negativa… Come ti
chiami?»
«…Siri.»
Ci mise ben cinque secondi, giusto per visualizzarlo in testa e
leggerlo al contrario.
L’uomo
sbuffò, con un grugnire fuori luogo, visto che lo aveva
chiesto lui.
«Quanti
anni hai?»
Stavolta voleva
prenderlo in giro e fargli fare la figura del maniaco
attratto da una minorenne. Presa dall’ansia di farsi
scoprire, mancò
l’occasione.
«Diciotto.»
«Allora?
Si è persa la buona educazione di lasciare il cellulare,
quando ti
arriva una mancia bella grossa? Se sei libera sabato sera…
Tu, eh. Non una
delle tue amiche…»
«Non
pensarci neanche. Non toccarla, non guardarla, non provare neanche a
respirarle vicino!»
Qualsiasi
commento costui avesse da fare a proposito di un banalissimo
numero a costo di non terminare la conversazione e fargli perdere il
poco
progresso fatto con la falsa benzinaia, lei glielo lasciò in
bocca: ogni dito
perfettamente incastonato nella dentatura, una leggera pressione sulla
leva
fece sgorgare qualche goccia iridescente sull’asfalto,
facendo balzare la
ragazzina all’indietro.
Come durante la
cattura di Dragonite, non l’aveva sentita arrivare e se le
avesse chiesto cosa l’avesse spinta ad intervenire in quel
momento sgradevole
le avrebbe parlato di “istinto” o altre cose
incomprensibili. Ma andava bene.
Perché
come quando era andata a comprare martelli e bombolette per
vandalizzare la macchina, Camilla aveva una ferocia nel manipolare la
pompa
come fosse un fucile puntato alla tempia del capo che tutti i membri
del branco
andarono nel pallone e alcuni tentarono di fuggire a piedi.
Il che era un
male: nessuna di loro sapeva guidare una moto.
«Quindi…
adesso il piano è questo?»
Catlina si era
attempata nella procedura, persa nel suo gossip con la
compagna, e la sua bocchetta non aveva ancora raggiunto il serbatoio
del
motociclista che doveva servire.
«A
quanto pare… - Anemone invece rimosse la sua con una
violenza tale da
non permettere all’antiquato distributore di reagire con
l’allarme – A me sta
più che bene.»
Il capobanda
rimase impassibile. Doveva aver vissuto disavventure peggiori
o era semplicemente incuriosito da quella reazione. Intanto che Camilla
gli si
avvicinava, con la pompa carica, deglutì pesantemente.
«Hey,
calma, calma, bellezza. Stavo chiedendole solo se… No,
mettilo giù!»
«Zitto,
qua comandiamo noi.»
Pur oltraggiata
per il mancato rispetto del suo piano, Camelia raccolse
l’accendino
dal taschino in denim, sentendone il peso; non era
un’intenditrice ma tutti gli
intarsi pizzicavano il suo spiccato senso del valore. In qualche modo
adesso
era suo, glielo lasciò capire accendendo la fiamma giusto
l’istante di fargli
l’occhiolino.
Uno, due, tre
cerchi di gasolio per terra…
«Ti ho
detto di stare calma, ragazza. Se ci bruciate vivi qui ed ora, non
vedrete un centesimo.»
Il capo era
l’unico a non dare segni di nervosismo. Le Allenatrici fecero
attenzione a non rovesciare il liquido senza perdere la punta contro il
branco.
Cambiavano mira ogni tanto, tenendoli tutti sotto tiro, le braccia tese
e le
vene pulsanti.
La
più piccola del gruppo esalò, ammorbidendo la
presa. Quelle minacce le
ricordavano quelle delle reclute e tre ore di vagabondaggio non erano
bastate
per farle scordare quanto in basso certi individui possano scendere,
individui
a cui non voleva in nessun modo associarsi.
«Ascoltatemi,
noi…»
«Se
volete lottare, basta dirlo subito…»
«Vuoi
stare zitto? – Camilla gli rivolse lo sguardo più
torvo che le
riusciva con un occhio coperto – Lasciala parlare.»
«Noi
non siamo ladre. Ma…»
«S-Siete
delle ricercate?» Si intromise un altro centauro.
«Sì!
– La rossa alzò la voce. Si corresse subito,
maledicendo la propria
impulsività – Cioè, in
realtà, no. Ci hanno arrestate ingiustamente, Ghecis
Harmonia e i suoi.»
«Accusate…
di cosa? Cosa possono fare di così grave, cinque ragazzine
così
carine?» Gli fece la paternale.
«Ah,
piacerebbe saperlo anche a me…» Catlina
sbuffò.
«Voleva
solo toglierci di mezzo per prendersi il posto di Campione. –
Camelia puntualizzò - Siamo scappate. Non che potessimo fare
altro…»
«Mmmh…»
Calò
il silenzio. Ma la ragazzina dai capelli viola li incalzò,
le battute
finali erano vicine.
«Noi
dobbiamo assolutamente andarcene da qui. E al più presto. E,
uh… non
abbiamo soldi. - Guardò in basso, impaurita dalle semplici
parole, non
azzardando nemmeno il pensiero. Era tutto per loro cinque, dopotutto.
Si
rivolse al capo – S-Se è me che vuoi… a
me va bene.»
«Iris,
ti prego, tappati quella bocca prima che incendio anche te…
- La
voce di Camelia la intimorì. Quella rabbia nascondeva una
grande amarezza di
fondo – Lasciate fare a me. S-Sono esperta del
settore.»
«…Mi
chiamo Charles.»
Le cinque
tornarono con i piedi per terra mentre l’odore benzina
stava
cominciando a fargli girare la testa. Il capobanda si
sistemò la barba, non
cambiando mai il tono burbero, nemmeno per incutergli meno terrore.
«…e
sono un rubacuori. Vengo da Libecciopoli, giro in moto da queste parti
da oltre vent’anni.
E onestamente,
quel bugiardo lardoso di Ghecis sta pure a me sui… ci siamo
intesi.»
Gli fecero un
applauso, uomini e ragazze, insieme. Certo che alla fine non
erano così diversi. O magari lo erano, ma come faccenda la
si poteva superare
senza spargimenti di sangue. Chissà quante persone come loro
esistevano, sotto
lo stesso cielo che ora abbracciava Unima in una coperta indaco, non
nera.
«Allora,
dove volete andare? Ovviamente, avete a disposizione solo il
serbatoio che tenete in mano adesso.»
Quella era una
domanda che non doveva finire in fondo alla lista delle
priorità. Sia a nord che a sud non erano benvenute, ormai il
presidio doveva
essere stato esteso anche a Sciroccopoli e nei comuni vicini. Tornare a
Venturia
poi, come regalare la vittoria al Team Plasma.
«A
Spiraria, grazie.»
Catlina, per la
prima volta da quando l’aveva conosciuta, parve convinta di
una propria affermazione.
«Passeremo
per le vie secondarie, in modo da evitare i controlli sul Ponte
Meraviglia. Sarete lì entro mezzanotte
–
Spiegò loro, distribuendo caschi grandi come alveari, mentre
le giovani
esperivano al loro ruolo di benzinaie facendosi aiutare dalle mani
esperte dei
motociclisti. – Però, tu, ragazzina con quelle
belle gambe al cioccolato.»
Iris si
indicò il petto, temendo il peggio.
«Tu,
sì. – Batté la pelle squarciata della
sella del suo nobile destriero –
Tu sali dietro con me. E ti conviene dirmi come ti chiami veramente,
invece di
giocare con i sentimenti dei tuoi ammiratori.»
Quel commento le
rimase impresso per tutta la durata del viaggio, passata
stretta alla giacca di pelle dell’autista, la pelle
d’oca per il vento notturno
sul corpo così esposto. Ogni talvolta che passavano sotto ad
un lampione si
voltava a guardare le sue compagne, anche loro in groppa alle vetture
roboanti
e dai loro sorrisi le sembrò che loro corressero sempre
più veloci, che nessuno
potesse fermarle.
̴
❁
«I
gusti dei ragazzi… sono un argomento difficile. Mi fa venire
mal di
testa solo pensarci.»
«Boh,
io mi sono arresa subito. Nonostante sul mio posto di lavoro tre
quarti dei miei colleghi sono maschi, come quasi tutti i miei compagni
di
classe delle superiori, alla fine, mi cresce un altro cervello che poi
imploderà in se stesso.»
«Però
tu… come dire… Ti piacciono gli aerei, la
meccanica, gli anime e prima
che Camelia te lo imponesse dall’alto del suo egoismo non ti
sei mai truccata o
fatta le unghie. Anemone, secondo me tu hai un sacco di punti di
contatto con i
maschi e ci andresti d’accordo un sacco… Anche se
tu sostieni il contrario.
«Anche
no! Da compagna di ansia sociale, dovresti saperlo che saper fare
due chiacchiere con un essere umano non è sinonimo di
popolarità.»
«Ma mi
hai vista! Non riesco a rompere il ghiaccio, mi muoiono le parole in
gola. Al mio primo appuntamento sono stata zitta tutto il tempo:
“parliamo di
lotte? No, sembra che non pensi altro che al lavoro… Drama?
Vestiti? Cosa dico?
Cosa dico?”; Io, così, in testa mia.»
«Catlina,
tu non hai neanche bisogno di aprire la bocca! Giuro che se i
colori fossero persone, tu saresti il rosa fatto persona. Bevi il
tè come una
signorina, ci metti tre ore a lavarti i capelli e non penso che ti
vedrò
neanche al tuo funerale con addosso un paio di pantaloni. Questi
livelli di
femminilità dovrebbero essere illegali…»
«Non
è una questione di magnetismo… Va a finire che
pensino che io viva in
un universo diverso da loro. E poi, cosa che non nego, che non valga la
pena
corteggiare una ragazza ad alto costo di mantenimento. Non è
detto che gli
opposti si attraggono sempre. Essere etero non può essere
così facile…»
«Ma
non puoi negare che noi tomboy (tranquilla, non mi farei mai i capelli
corti) veniamo sempre considerate “solo amiche”. E
poi, perché un ragazzo
dovrebbe volere una ragazza con cui parlare di cose “da
maschi”, quando può
farlo con i suoi amici maschi?»
«Forse…
la fidanzata migliore per un ragazzo
è…?»
«Qualcuno
con cui condividere aspetti personali della tua vita, come i tuoi
hobby e le tue passioni, pur mantenendo una dinamica di scambio pari ed
equo in
cui non ci sono ruoli definiti in base al genere?»
«No.
la fidanzata migliore per un ragazzo è un altro
ragazzo.»
Buonasera, è la vostra ragazza etero che larpa fingendo di essere lesbica sull'internet. Come state? Avete fatto i compiti? Avete cenato con almeno una porzione di verdura? Vi siete lavati i capelli?
Guardate che se vi sgamo che non vi lavate i capelli almeno una volta ogni due/tre giorni io... ad ogni modo. Mi siete mancati *emoji da bottom*, bentornati a tutti, piccini ♥
Tonikaku. Immaginate avere una storia che si chiama Early Summer Girls e non la aggiornate d'estate, ma a ottobre. Momo, you had one fucking job. Ma eccolo qui, il capitolo.
Ho avuto un po' di problemi, il mio solito developement hell, ma almeno non ci ho messo un anno, è pur sempre qualcosa. Come al solito, recensite, aggiungete ai preferiti, fate quelle cose belle che i lettori non pagati/supplicati tramite scambi di favori su Facebook fanno. Per favore. Non ci perdete nulla, e potrei perfino inviarvi per sbaglio le tette in chat.
Ah, comunicazione di servizio: fra poco ripasserò a controllare/fixare/riordinare i vecchi capitoli, per aggiornare la storia alla versione... qualcosa punto qualcosa, ho perso il conto, lel. Ma ho intenzione di rivedere i primi capitoli, correggere non solo imperfezioni grammaticali, ma sistemare un po' la lore/la coerenza della long in generale. Insomma, andrò a mettere mano al contenuto, per la prima volta. Questo significa che domani mattina vi sveglierete con una storia che invece di parlare di Allenatrici lesbiche parla di alieni non-binary? Certo che no. Tuttavia, non so di preciso l'estensione delle modifiche che voglio apportare. Esempio concreti protebbero essere cose come la rimozione dell'uso delle armi da fuoco nel capitolo 10 per esigenze di trama, o cazzatine come l'height gap di Camelia ed Anemone, per rimanere più in canon. Significa che dovrete rileggere 22 capitoli di nuovo? No... (s-se non volete, ovviamente...). Aggiungerò una lista nel primo capitolo, così i veterani (raga, c'è gente che è qui dal 2016-2017... io non so come ringraziarvi) possono semplicmente proseguire la lettura senza perdere tempo.
Sore ni! La storia si fa sempre più lunga e come ho fatto anche in passato, mi adeguo sempre alle esigenze dei miei lettori in maniera il più possibile ragionevole, rimanendo nel copromesso. Dunque, ve la butto lì: read guides. Se ve ne serve una prima di iniziarle la lettura, se ne volete una per un amico, se ne volete una per ricordo, contattatemi via MP sia qui su EFP o nella pagina Instagram. Ovviamente è gratis. Ed è l'unico servizio che posso offrire. Ogni read guide sarà customizzata (come le copie di Mario 64), basterà mi indichiate un personaggio, una ship o anche qualsiasi cosa che vi piacerebbe leggere e io farò di tutto per evitarvi quelle parti che, come vi è lecito, potrebbero annoiarvi o non piacervi. Yoroshiku.
❁
Behind the Summery Scenery #22
The Momo Entertainment e
più precisamente su questo capitolo: quando dovevo
controllare e discutere con Daisuke alcune cose che aveva corretto, mi
è partita la scheda video a causa di un aggiornamento che ha
fatto surriscaldare e scaricare la batteria. Risolto questo problema,
accendo il computer per editare l'html e guess fucking what? Il mio
computer prende un malware che si è scaricato in background
mentre aggiornavo iTunes!
Tutto questo solo perché non compro Apple...
2. Da sempre sono appassionata di misteri dell'internet e di lost media. Circa un anno fa ho scoperto quel rabbithole tremendo che è la presunta esistenza di questo anime in cui delle ragazze liceali sono rinchiuse in un bagno senza uscite per tempo interminabile e per la disperazione cominciano ad impazzire, ad ammazzarsi a vicenda e a suicidarsi una dopo l'altra. Si chiama (in teoria...) Saki Sanobashi (o Saki-san no bashitsu, più probabilmente questo) ma... questo anime/ova non esiste! O meglio, nonostante i continui avvistamenti nessuno ha mai recuperato la source, nessuno sa se si tratti di uno scherzo di /b/ o no.
Quindi ho pensato ("wow, ho pensato"): perché non renderlo realtà? Momo-san no bashitsu! La stanza delle torture di Momo.
Un qualcosina per gli amanti dello splatter e del gore.
3. Le fogne, yahoo! Come i maniaci della lore avranno intuito immediatamente, dalle fogne di Austropoli è accessibile l'Antico Sentiero, che collega Austropoli e Libecciopoli dal Pokémon World Tournament. Da una delle uscite si accede al Castello Sepolto, quindi al Deserto della Quiete.
4. Non so perché sento il bisogno di difendermi per questo genere di cose, ma se qualcuno avesse intenzione di venire a indicarmi le inconsisenze o la mancanza di realismo in-lore del piano di fuga, del tipo "well. ACTUALLY asdfghcmvmafvmn", sono prontissima a dibattervi nelle recensioni. Posso accettare una sola critica, e la mia risposta è comunque di aspettare il prossimo capitolo. Credetemi, io sono la prima che critica questo genere di dettagli tecnici, ma credo di aver fatto abbastanza ricerca per questa volta.
5. "Io sono Charles. E sono un rubacuori." Non posso credere che un personaggio così i c o n i c o se lo sia dimenticato tutto il fandom. Io ho usato il design da himbo dei giochi, nelll'anime sembra troppo un hipster.
6. "Si trattava forse di una specie di scherzo perverso?" Ultimamente (= negli ultimi sei mesi, sono molto ossessiva con i miei interessi) mi sono appassionata alla saga di Fire Emblem! In particolare, Fire Emblem Three War Criminals and a little shortie angy lesbean that did nothing wrong uwu. Droppatemi la vostra route/casata/otp/waifu e io deciderò se avete diritti.
Edit: nel frangente, ho avuto occasione di giocare anche a Fire Emblem Una rincoglionita perde un braccialetto mentre il personaggio migliore della serie spiega che i pegasi non volano sbattendo le ali ma scalciando con i piedi e Fire Emblem Furry, razzismo e l'unica coppia yaoi che è valida.
Ma giuro, giuro, GIURO che quel "sub-umane" era del tutto casuale.
7. Scrivere questo capitolo mi è piaciuto un sacco, boh, mi faceva piacere dirvelo!! Personaggi che di solito non hanno chissà che interazioni si avvicinano, Iris diventa badass, la scena della fuga mi ha risvegliato dal torpore di due capitoli di solo dialogo e la scena della benzina mi ha fatto ricordare che questa storia è la più trasgry del fandom.
O non esattamente.
Non è che qualcuno m lo abbia mai chiesto, ma siccome vivo la mia vita di tutti i giorni con persone che vorrebbero farmi domande ma che hanno paura della risposta (non perché io li intimidisca, ma perché hanno paura di spezzarmi il cuoricino freddo come il ghiaccio e nero come il catrame che mi ritrovo) mi va comunque di esplicitare questa cosa.
«Ma Momo von Entertainment, perché nessuno dice mai le parolacce? E quando qualcuno è in procinto di dirne una ti auto-censuri?»
Allora, prima vorrei esporre le ragioni pr cui NON lo faccio: non me ne frega nulla di tutelare i miei lettori. Ho detto un miliardo di volte che se cercate un lesbian role model siete finiti nel posto sbagliato, non sono vostra madre, loooooooooool (sono più la zia simpatica e single che vi passa la droga nelle buste della paghetta, casomai). Inoltre, del canon me ne frega fino ad un certo punto: se altri autori vogliono far parlare i personaggi come scaricatori di porto, douzo. Anche io parlo un po' come uno scaricatore di porto, non ci vedo nulla di inerentemente sbagliato.
La vera ragione risiede nel concept e nella aesthetic della storia. Le ragazze che dicono le parolacce non sono attraenti come prodotto. ESG è il mio prodotto e non posso regalare (non dico "vendere" perché y'all broke ¯\_(ツ)_/¯) un prodotto che non gradirebbero i miei lettori/lettrici. So che una delle attrattive di questa storia è il suo essere un po' edgy/non-convenzionale/autoironica ma voglio che questi aggettivi se li meritino la trama, i dialoghi nado nado che ho cercato di creare in 5 anni, non la parola "fottuto" usata ad impromptu in ogni frase.
Seconda vera ragione: dato che gli insulti, gli improperi nado nado in Italia variano tantissimo da regione a regione, con la possibilità che un'imprecazione che a me sembra diffusa tradisca una specifica provenienza/dialetto, oltre a sembrare estremamente coatta, potrebbe contribuire ad auto-doxxarmi. E io invece voglio che i doxxer si mettano d'impegno, che vadano a scavare nei meandri dell'internet per scoprire dove vivo e cosa faccio nella vita!
8. Titolo del capitolo in inglese. Siate onesti, è tanto cringe? Hoes mad semper et comunque, ma non mi venivano idee per questo titolo! Ormai dopo oltre 20 capitoli avevo sviluppato la mia formula, ma stavolta... le ragazze usano il potere della loro intraprendenza il loro intuito e l'astuzia per fuggire, ma con un pizzico di arte seduttrice, di manipolazione proveniente dalla femminilità. Questo è lo stile ESG.
ESGism.
(Dai, se proprio vi fa schifo, il prossimo capitolo si intitolerà "16. 3,1415926535897932384626433832795028841971…")