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Autore: yonoi    22/10/2020    8 recensioni
Un italiano a Tōkyō, un lutto recente per la perdita dell’amata Fumi, una donna giapponese. Due lavori – il servizio di pulizie in una grande azienda e un part time in un ristorante – che non aiutano a colmare interamente la solitudine. All’improvviso un incontro, qualcosa di Fumi sembra tornare nelle delicate sembianze di un giovane cliente del locale.
Prima classificata al contest “Folklore d’Italia” indetto da Vintage sul Forum di EFP; partecipa alla challenge "Riproviamoci! Challenge a tempo" indetta da Mystery Koopa sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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“Piccole case
somiglianti ai vasi
della festa dei morti”
(Yosa Buson)
 

3. Komorebi o della luce che filtra tra le foglie
 

La sede dell’editrice si trova in un villaggio arrampicato sulle montagne, un viaggio di tre ore che attraversa boschi di brina, pini così svettanti che sulla cima sfoggiano già un cappuccio di neve.  
Il pullman ce la fa a stento, scala le marce e pare sempre sul punto di ruzzolare all’indietro, lungo tornanti che salgono sempre più in alto e mano a mano diventano sempre più stretti.
Da un certo punto in poi, la vegetazione assume un aspetto primordiale.
I salici formano una cupola, una galleria d’ombra che dà l’impressione di viaggiare in piena notte.
La strada ha perso anche l’ultimo lastrone di asfalto ed è ridotta a un sentiero accidentato.  
Inutile dire che ho il sospetto di aver completamente sbagliato indirizzo anche se Be, intento a divorare ciambelle al mio fianco, mi assicura che il paese esiste veramente e la casa editrice Natsukashii esiste pure lei, quanto meno è citata nell’elenco del telefono. Be ha svolto le sue indagini prima di mettersi in viaggio, vuole evitarmi possibili delusioni. Credo che mi consideri come un oggetto fragile, da trattare con cura.
Natsukashii è una di quelle parole che non hanno equivalenti in altre lingue. È la nostalgia che si assapora come un tè caldo in una giornata di pioggia, è gustare i ricordi attraverso un filtro che sa spremere il succo persino dalle foglie meno azzeccate e dai giorni più storti.
 La mia nostalgia, invece, è tutta occidentale, è soltanto rimpianto.
È questo ciò che provo, ora che i grattacieli e lo sfrigolio delle insegne cedono il passo al lieve filtrare del pulviscolo tra le foglie. Persino il brusio che avvolge Tōkyō di giorno e di notte, e si avverte anche a molti chilometri di distanza, è annullato da un lieve stormire di fronde.
Cosa rimpiango non saprei dirlo, o forse non voglio ammetterlo.
Sarà che il paesaggio intorno, così pervasivo e opprimente, mi ricorda Hirano Ryumei al punto che il vecchio bus sembra caracollare sul suo corpo disteso, immenso come le statue delle divinità nei templi. Gli odori che mi circondano mi riportano a lui, eppure anche Hirano Ryumei fa parte del fremito cittadino che mi sono lasciato alle spalle.
Dubito che avrò un’altra occasione per incontrarlo.
La sua vicinanza fa parte dei ricordi, come quella di Fumi.     
Il signor Be sospira, allunga il suo cartoccio per invitarmi a pescare uno di quei dolcetti a forma di gattino, di coniglio, di Pokémon. Nelle tasche, per gentile concessione di Muso che non lo sa, ha due pacchi di tovaglioli da ridurre in striscioline. Quando esprimo i miei dubbi riguardo a un editore così fuori mano e alla possibilità di ottenere un contratto, Be si dà una manata sopra alle tasche gonfie, come a dire che andrà tutto bene. Io non ne sono così sicuro, dal momento che il mio agente letterario non sente e io non parlo giapponese. Difficile dire se in questo caso l’unione fa la forza oppure farà fiasco.
Be non si scompone, cava fuori la prima strisciolina della giornata e mi onora del suo parere: hai fatto bene a spedire i tuoi disegni a un piccolo editore. Si comincia dal piccolo per arrivare al grande.
“Guarda che io non ho spedito niente a nessuno,” faccio presente a Be, e solo in quel momento mi rendo conto della stranezza di questo appuntamento tra le montagne. “Ho inviato dei bozzetti a delle riviste di Tōkyō, ma è passato molto tempo e nessuno mi ha mai risposto. Questa Natsukashii, fino a ieri non sapevo neppure che esistesse.”
Adesso lo sai, commenta Be sulla sua strisciolina. Probabilmente fa parte di qualche grande gruppo. Oppure, qualcuno l’ha contattata al posto tuo.
Quest’ultima ipotesi, di fatto la più assurda, è quella a cui ho pensato anch’io fin dall’inizio.
Di nuovo mi ritrovo a passare in rassegna volti e possibilità. La Momoko-san legge solo riviste di giardinaggio, non sa nulla di manga e al massimo protesta quando lascio il mio tavolo da lavoro in soggiorno nel caos più totale. A suo tempo, Fumi ha scritto per me decine di lettere di presentazione, ha esaurito la pazienza di amici e parenti, finché non è stata più in grado di alzarsi dal letto. Il signor Be non ha mai visto prima d’ora i miei disegni, Muso possiamo scartarlo a priori e con questo direi che il cerchio delle mie conoscenze si chiude. Rimane fuori solo Hirano Ryumei, che senza dubbio possiede l’autorità e i mezzi per convincere un editore a pubblicare uno sconosciuto.
Hirano Ryumei, magari. Mi piace crogiolarmi in quell’idea assurda mentre il pullman procede a scossoni, i passeggeri sonnecchiano, Be accartoccia il sacchetto vuoto delle ciambelle. Sul bosco aleggia una bruma leggera, che già a metà mattina preannuncia la sera.
Dimentico per un attimo l’intera faccenda, mi immergo nel ricordo di Hirano Ryumei che mi tampona il viso con il suo fazzoletto. Immagino un improbabile seguito alle manovre di pronto intervento di quella sera, io che rinuncio a sottrarmi a un’attrazione invincibile e gli prendo le mani, gli accarezzo la nuca. Tra le mie dita avverto la consistenza forte, viva dei suoi capelli e d’un tratto mi arriva una gomitata nelle costole, non da parte di Hirano Ryumei ma da parte di Be, che gesticola capolinea, si scende.
Il villaggio di Komorebi ci proietta fuori dal tempo. Casupole di legno con i tetti spioventi per permettere alla neve di scivolare, palizzate che chiudono giardini silenziosi, la gobba di un ponticello che scavalca un torrente. Arroccato su una collina di nebbia, in lontananza, un tempio.
Non c’è neppure l’ombra di segnaletica stradale, sicché io e Be impieghiamo più di un’ora per trovare la sede dell’editore. Ci perdiamo nei vicoli accompagnati dal tintinnio dei furin che sono appesi un po’ ovunque, alle grondaie e all’ingresso dei negozietti, alle finestre decorate con vasetti di spezie.
L’aria è tonificante e avverto una piacevole sensazione di vigore. In fondo, dove c’è un furin io sto bene e di furin, qui, ce ne sono a bizzeffe. Rimane la sensazione che Hirano Ryumei possa materializzarsi da un momento all’altro, alla curva di un vicolo, all’uscita di un emporio che vende di tutto, dalle seghe da tagliaboschi al tè verde. Il signor Be mi elargisce un’altra gomitata e gesticola: smettila di pensare, siamo arrivati.
Una targhetta affissa su quello che a prima vista sembra un fienile riporta il logo dell’editore: un panda con gli occhiali, un libro tra le zampe e un fumetto sopra alle orecchie. Nella vignetta è scritto, in ideogrammi fluttuanti, Natsukashii edizioni
L’incaricata ci accoglie attorno a un tavolo basso che impone ovviamente di accovacciarsi sui tatami. L’idea che le mie gambe si addormenteranno nel giro di un attimo è già un pessimo inizio, il timore che la mia interlocutrice non conosca una sola parola di inglese è quasi una certezza. Mentre la ragazza aggiunge foglioline dentro a un’elegante teiera di ghisa, mi affanno a cavar fuori i disegni dalla cartella e cerco lo sguardo di Be, che a sua volta è distratto da un vassoio di mochi posato sul tavolo. Durante tutto il colloquio, il mio agente si limita a sgranocchiare dolci, mentre io scopro che la ragazza non solo si esprime correntemente in inglese ma parla anche italiano.
“Ho studiato in Italia, lingue e letteratura,” si scusa quasi la signorina Nakamura, direttore della collana dedicata ai manga. “Come casa editrice, siamo presenti ogni anno al Salone del Libro di Torino. Immagino che avrà avuto occasione di visitare il nostro stand.”
Mentre con raccapriccio scopro che il signor Be sta spazzolando tutto il vassoio di mochi, provo a cavarmela con una mezza verità.
“È da un paio d’anni che vivo a Tōkyō. Diciamo che sono un po’ fuori dal giro.”
A questo punto dovrei attaccare con il mio discorsetto di presentazione, a lungo preparato, corretto, rimuginato. Estraggo dalla cartellina il mio pezzo forte, venti tavole che raccontano di Fumi e della sua passione per la musica, la porta sbattuta sul naso del sottoscritto, lei che dopo la morte si trasforma in furin per continuare a parlarmi con la voce del vento.
La signorina Nakamura serve il tè e a quanto pare è già al corrente di tutto.
“Non si preoccupi,” taglia corto. “Le sue opere e il suo stile sono stati così ben descritti dal nostro sponsor che non c’è bisogno di aggiungere altro. Esamineremo la sua storia per stabilire se è conforme alla nostra linea editoriale. Provvederemo noi a contattarla.”
Di fronte alla mia espressione sbalordita, la mia interlocutrice si degna di concedermi qualche spiegazione in più.
“Immagino lei saprà che grazie ai nostri sponsor la Natsukashii, oltre a vendere al pubblico, distribuisce gratuitamente negli ospedali. Quello di cui hanno bisogno i nostri lettori è armonia. Niente scene violente, niente volgarità, su questo non si ammettono eccezioni.”
Ripasso mentalmente ogni singola tavola di Furin nel vento d’estate. Non mi pare di ricordare che ci sia traccia di quello che la buonanima di mia nonna definiva linguaggio da scaricatore di porto. Mia nonna aveva un metro di valutazione molto nipponico.
L’oggetto del mio struggimento, tuttavia, è un altro.   
“Posso sapere chi vi ha fatto il mio nome?”
La signorina Nakamura mi guarda come se fossi uno strano tipo di extraterrestre.
“Chi è stato a presentarla dovrebbe saperlo lei,” osserva, e a un tratto sembra inquieta. “In ogni caso, le direttive aziendali vietano di rendere noti i nominativi degli sponsor. Per quanto riguarda la pubblicazione, le faremo sapere.”
“Vi ringrazio davvero per la vostra attenzione.” Abbozzo un inchino, facendo ondeggiare le antenne da mostriciattolo che in quel momento sento di avere sulla fronte. La Nakamura aggrotta le sopracciglia di fronte a Be, intento a raccattare le ultime briciole con la punta del dito. Quindi prende in consegna la mia cartellina.
 
******
 
Solo una volta usciti mi viene in mente che sopra alla cartellina c’è un adesivo di Kung Fu Panda che mostra il sederone con la scritta fuck off. Irritato, me la prendo con Be che ancora si lecca i baffi, con l’aria da grosso gatto randagio che ha fatto il pieno.
“Non mi sei stato granché di aiuto,” ringhio. “A saperlo, te ne restavi da Muso.”
“Te la sei cavata benissimo da solo,” gesticola il mio agente, sorridendo con la sua bocca da salvadanaio saggio. È l’unica persona che conosca che è in grado di sorridere persino con le orecchie. Mi indica una locanda con un maialino come insegna, srotola dalle tasche la solita strisciolina.
Possiamo ancora gustarci una buona zuppa di funghi prima che parta il pullman.
“Non ti sei già rifocillato abbastanza?”
La zuppa di funghi è una specialità di questa zona. Qui è pieno di ristorantini, ma tu non ci hai fatto caso perché hai la testa per aria, annota Be, rivolgendomi un’occhiata pregna di sottintesi.  
Chissà perché, mi sento su di giri e mi viene da ridere. Sarà l’aria pungente, l’idea di un editore nascosto in un fienile, sarà il pensiero dalla signorina Nakamura che legge fuck off sulla mia cartellina.
Nella locanda del maialino, le pareti di legno e una stufa a muro diffondono un tepore che è quasi un miracolo. La zuppa è un conforto in grado di riconciliare chiunque con il mondo: densa e fortemente aromatica, ha un retrogusto piccante di zenzero. Altroché il ramen di Muso.
Fatti preparare una porzione da portar via, scrive Be, questa volta sul tovagliolo del ristorante. Riuscirai a consegnargliela giusto in tempo per l’ora di cena.
Lì per lì non afferro dove il mio agente voglia andare a parare.
Be ammicca in direzione del padrone della locanda, intento a riporre una cotoletta dentro a un cofanetto di legno. Una volta chiuso, lo avvolge in un furoshiki di stoffa finissima. Grazie a una complicata architettura di pieghe, l’involto si trasforma in una confezione regalo e al tempo stesso in un sacchetto con i manici. La stoffa riproduce un volo di gru su un laghetto.
Sarebbe un bel dono per Puzza sotto il naso. Direi che è proprio il caso di ringraziarlo.
“Che c’entra quel tizio, adesso?”
Pubblicherai i tuoi disegni grazie a lui.
“Regalare una zuppa mi sembra un’idea stupida.”
Forse, ma è un’idea tua.
Una volta di più, le doti di veggente del signor Be mi colgono alla sprovvista.
 
******
 
Sotto a un cielo già plumbeo, il pullman lascia la piazzetta di Komorebi. Tra le mani ho il tepore di una zuppa ai funghi avvolta in un furoshiki che ritrae una luna d’autunno.
All’andata il bus era carico di ceste di verdure e contadini anziani dagli occhi come rughe, due virgole sotto a spessi berretti di pelo. Al ritorno, gli unici passeggeri siamo io e il signor Be.
L’autista scodinzola con la disinvoltura di chi viaggia da solo. Raffiche furibonde tirano giù dalla montagna nuvole lampeggianti e un temporale coi fiocchi. Tutt’intorno si addensa una notte anticipata e picchiettata di gocce.
Io navigo sulla linea che va e viene dal cellulare, in attesa di mettermi in contatto con la Bio Nihon. Il numero me l’ha composto il signor Be, stufo di vedermi cavar fuori il telefono per poi riporlo a causa di una più che evidente mancanza di fegato. Faccio io, ha iniziato a smaniare a un certo punto. Il signor Be ha affrontato un intero clan di ristoratori cinesi ed è ancora convinto che riuscirà a spuntarla con il padre di Shu, il che gli conferisce una certa autorità. Non mi resta che consegnargli numero e cellulare, e augurarmi che l’intero sistema di comunicazioni della Bio Nihon sia fuori uso a causa di un assalto di pirati informatici, di un black out dell’intera città di Tōkyō, di una tempesta di fulmini come quella che stiamo attraversando in questo preciso istante. 
Sei tu quello che parla, ammicca Be, restituendomi l’ordigno che crepita sulla linea.
Rimango a lungo in un’attesa sospesa. I tuoni precipitano a rotta di collo dalla montagna, Be lancia dal finestrino occhiate cariche di un timore ancestrale. L’autista ora scodinzola con maggiore cautela.
“Bio Nihon International,” risponde una voce piatta di segretaria.
“Per cortesia, l’ufficio del direttore del personale.” Ricaccio indietro lo stomaco che a momenti mi ruzzola fuori dalla bocca, al suo posto faccio uscire l’inglese più business di cui sono capace.
“Il signor direttore è in riunione,” ribatte prevedibilmente la mia interlocutrice. “Non può essere disturbato per nessuna ragione.” Nonostante le interferenze sulla linea, riconosco il timbro della signora Namino, l’unica che in ditta viaggia senza fronzoli di Hello Kitty. Un autentico baluardo a difesa dei dirigenti della Bio Nihon, una che per smontarla ci vuole la fiamma ossidrica.
Non mi resta che buttarmi a testa bassa contro l’ostacolo.  
“Questa è una chiamata da Los Angeles, California.” Mi lancio in una parodia del perfetto accento yankee, declinata secondo l’orecchio musicale giapponese. “Volevo comunicare che, come da accordi con la vostra azienda, un incaricato della Muso Production giungerà in serata per incontrare il signor direttore e discutere della fornitura di zuppe per il vostro servizio mensa.”
All’altro capo della linea, la signora Namino vacilla. Avverto sin da qui il gigantesco punto interrogativo che apre una breccia nel suo cervello, sotto i colpi dell’incertezza. Presa alla sprovvista, inciampa sulle parole: “Los Angeles? Muso Production?” Finalmente trova una pista, una possibile via di fuga nei meandri dell’organizzazione aziendale. 
“Mi perdoni, signore, ma il servizio mensa non è di nostra competenza. La metto in contatto con il settore appalti.”
“Non mi faccia perdere tempo, miss, il tempo è denaro,” proseguo, inesorabile. Così direbbe zio Paperone, l’unico manager a stelle e strisce che mi viene in mente al momento. “Il nostro incaricato consegnerà un omaggio esclusivo da parte della ditta. La prego di rammentarlo al suo superiore.”
Passo e chiudo, lasciando la signora Namino a meditare sull’opportunità di compromettere le relazioni commerciali tra Stati Uniti e Giappone con inutili sottigliezze.
Muso Production, non so neppure come mi è venuto in mente.”
Non faccio in tempo a congratularmi con Be che proprio in quel momento il pullman sbanda, azzecca male un tornante ed esce di strada. D’un tratto mi ritrovo a testa in giù tra i sedili e a rimbalzare contro una serie infinita di spigoli, perché ho le mani impegnate a proteggere il furoshiki.
Il pullman volteggia, finalmente si ferma a pochi millimetri da un faggio piuttosto ben piantato. Il motore esala un ultimo sospiro e si spegne. Nel buio e nel silenzio che seguono – anche i tuoni tacciono per un lungo minuto – ha luogo una scena ai limiti del surreale: l’autista scende dal posto di guida, s’inchina a me e al signor Be impegnati a raccogliere membra acciaccate e sparse un po’ ovunque. Barcollante ma inappuntabile, annuncia agli unici passeggeri presenti:
“Il soccorso stradale è già stato avvisato. La società di trasporti esprime il proprio rammarico per questo inconveniente.”
Chissà perché quando c’è di mezzo Hirano Ryumei finisco puntualmente per ritrovarmi con una botta in testa. Comincio a vederci un preciso disegno del destino.
 
******
 
Arrivo alla sede della Bio Nihon alle otto di sera, inseguito dal temporale come se ce l’avessi attaccato ai garretti.   
Riesco a sgattaiolare approfittando del portiere che russa e nel giro di due minuti finisco intrappolato nell’ascensore. Mentre sul display appaiono le cifre corrispondenti al quarantaduesimo piano, una voce incorporea annuncia il quarantuno e a quel punto l’intera meccanica si scompensa. La cabina sussulta, le portiere si aprono sul calcestruzzo tra un piano e l’altro. In breve, il sottoscritto si ritrova inscatolato come se fossi anch’io una porzione di zuppa, cortese omaggio della Muso Production.
Spingo il pulsante di allarme e non succede niente. Spingo di nuovo e un operatore mi risponde con una voce così sferragliante che per un attimo ho il sospetto che a parlare sia stato l’ascensore. Forse Jeeg Robot d’Acciaio sta per giungere in mio aiuto, a suon di missili perforanti. Riporto a Jeeg la sequenza numerica della mia scatoletta, lancio un ultimo help me! da naufrago tra gli squali e rimango in attesa.
Appena sopra il mio naso, dal cemento filtra uno spiraglio di luce. Ombre che vanno e vengono nei locali della Bio Nihon, forse i passi di qualche anima in balia degli straordinari. Non per dubitare delle capacità risolutive di Jeeg, ma urlare con tutto il fiato che ho in gola mi pare un giusto contributo alla causa.
Di lì a poco l’ascensore ha un sobbalzo, scivola sulle guide, traballa fino al piano.
Le porte aperte inquadrano non il muso di Jeeg bensì un paio di tecnici in tuta verde e la minuscola signora Namino, che malgrado l’altezza esigua riesce perfettamente a squadrami dall’alto in basso.
“Dovevo immaginarlo,” esordisce, pungente. “Che cosa ci fa lei qui, fuori orario?”
 “Lavoro per la Muso Production,” rispondo, il che non è neanche troppo lontano dal vero. “Ho un omaggio per il signor direttore, da consegnare ben caldo.”
La signora Namino mi fulmina con uno sguardo di totale esecrazione. È il genere di occhiata che nel Giappone dei samurai equivaleva a un invito a suicidarsi sul posto. Il suo inglese si fa denso di spigoli aguzzi: “L’avverto che ho compiuto verifiche approfondite. La Bio Nihon non ha nessun contatto con Los Angeles, per lo meno attualmente. Ha con sé un biglietto da visita?”
“Si tratta di una zuppa strettamente confidenziale,” sorrido.
Ammetto che in fondo mi sto divertendo, malgrado gli abiti fradici e la piccola pozza che si va componendo, lenta, ai miei piedi.
Namino mi si para dinanzi con l’aria di voler vendere cara la pelle. È chiaramente disposta a immolarsi per testimoniare al mondo, o quanto meno alle risorse umane della Bio Nihon, che la Muso Production è una pura invenzione e che la voce al telefono era la mia.
“Andiamo, Namino-san,” insisto, e ormai il sorriso mi è arrivato da un orecchio all’altro. “Un semplice dono per il signor direttore.”
Le porgo il fukoshiki cercando di darmi un’apparenza dignitosa malgrado la botta in testa, un occhio semichiuso e un ginocchio di cui non ho ancora verificato le condizioni, ma che pulsa come se fosse sul punto di esplodere.
Non so neppure perché ma lo sguardo di Namino si ammorbidisce. È come se mi vedesse, in realtà, solo in quel momento. Per un attimo addirittura si confonde: “La stanza del signor direttore è la prima a sinistra.”
Chissà a quale direttore si riferisce.
So bene che l’ufficio di Hirano Ryumei è l’ultimo in fondo al corridoio, in una zona d’ombra dove la luce del giorno, in qualunque stagione, non arriva praticamente mai.
 
******
 
Pochi minuti dopo sono seduto alla scrivania di Hirano Ryumei, nella bolla di luce di una lampada a stelo. Lui è intento a scaldare la zuppa su un fornelletto, il giubbotto e la giacca del mio vestito buono pendono ad asciugare da qualche parte nel buio. Di là sale un odore di cane bagnato, che l’aroma di funghi copre solo a metà.
Ho un brivido più per l’imbarazzo che per il freddo.
Poiché continuo a tremare, Hirano Ryumei mi offre la sua giacca.
Infilo una manica e da lì sale un insistente odore di muffa. Forse è quell’odore di randagio sotto la pioggia che arriva fin qua.
Hirano Ryumei sembra non farci caso. Lo schermo del computer illumina il suo volto conferendogli la solita tonalità azzurrognola.  
“Posso sapere cos’è successo? Ha l’aspetto di uno che è finito sotto un treno.”
“Il pullman ha avuto un piccolo contrattempo.”
Ritengo superfluo informarlo che in questo preciso momento Be si trova al pronto soccorso, con gli ultimi due denti impacchettati nel fazzoletto. È stato lui a insistere perché, malgrado tutto, venissi qui a consegnare la zuppa Muso Production.
“Ci tenevo a farle avere questo piatto speciale da Komorebi,” riprendo. “È un modo forse un po’ strano per ringraziarla.”
Natsukashii è un buon editore, ma io non ho fatto niente,” ribatte Hirano Ryumei, refrattario a mollare la sua rigidità. “Semplicemente, trovo che i suoi disegni siano meritevoli.”
Eppure a sentir pronunciare Komorebi il suo sguardo si ammorbidisce, un velo di malinconia scende improvviso. D’un tratto ho di fronte l’immagine di un bambino che corre tra le case arroccate sulla montagna, fa rimbalzare i sassi sull’acqua del torrente, accompagnato dal tintinnio di milioni di furin.
Hirano Ryumei serve la zuppa in due bicchieri di plastica, in mancanza di altro.
“Andiamo sulla terrazza. Ormai ha smesso di piovere e il vento, fuori, è caldo.”
Come faccia a saperlo, lui che se ne sta sempre rinchiuso qua dentro, rimane un mistero.
Probabilmente possiede un filo diretto con la natura e il tempo, soprattutto con la bellezza del cielo. Forse tutte le bellezze del mondo comunicano segretamente tra loro.
 
******
 
Arroccata sul tetto del quarantaduesimo piano, la terrazza è un trampolino lanciato verso la notte, questa notte di Tōkyō che è un palpito continuo di formicolii e bagliori.
La zuppa di funghi sprigiona un aroma in grado di raggiungere i confini del mondo, o almeno quelli interiori di Hirano Ryumei, che per la prima volta comincia a raccontare di sé. Mai sottovalutare l’incantesimo di un piatto capace di ricondurre all’infanzia.
“Lo sa? Ho vissuto a Komorebi quand’ero bambino,” dice, le lunghe ciglia curve sul tepore che sale dal bicchiere di carta. “Solo la mia obaasan era capace di preparare una zuppa così profumata.”
Dev’essere questo, penso, il vero natsukashii. Rivedere la nonna che affetta i funghi e lo zenzero, nella luce abbacinante dell’infanzia. Risentire il sapore di allora, tale e quale.
“Komorebi è un paese suggestivo. Molto antico Giappone.”
“Allora i furin suonavano per tutta l’estate.”
“È così anche adesso. Anche se ormai è quasi inverno.”
Siamo appoggiati alla balaustra, a un’altezza tale che la strada, una vertigine di molti metri più sotto, non si vede e neppure si sente. Quassù giunge soltanto il brusio calmo del vento. È come viaggiare di notte in aereo, quando si è raggiunta l’altezza di crociera e il volo pare fermo.
“Mi sono trasferito molto presto, andare avanti e indietro era diventato faticoso. D’inverno uscivo col buio e rientravo col buio. Ma è stato difficile anche lasciare il paese, forse addirittura di più. Ogni tanto ci torno. Vado al santuario o a far rimbalzare i sassi sull’acqua. Da bambino mi piaceva.”
“Io lo faccio ancora adesso. Sette rimbalzi è il mio record.”
“Da adulti, però, è diverso. Sono diversi i pensieri.”
Hirano Ryumei, come al solito, si limita a tenere la zuppa tra le mani senza assaggiarla. Forse vive di odori e soprattutto del natsukashii, l’aroma dei ricordi. Dopo un poco, riprende:
“A sei anni ho superato il test per entrare in una delle migliori scuole di Tōkyō. Essere ammessi in una buona scuola è il primo requisito per poter frequentare un liceo serio, un’università seria, e presentare un curriculum valido presso qualsiasi azienda. I miei ci tenevano molto. Hanno fatto dei sacrifici, per questo.” 
“Studiare le piaceva?”
“Dovevo. A dire la verità, non me lo sono mai chiesto.”
Forse perché mi vede ancora tremare, nonostante la brezza sia effettivamente tiepida, Hirano Ryumei versa la sua porzione tutta nel mio bicchiere.
“Si scaldi, ne ha bisogno.”
Mi sento autorizzato ad avvicinarmi a lui un altro po’. Adesso il mio braccio sfiora il suo, di più, ci sono interamente appoggiato e lo sento attraverso la stoffa della giacca. Di nuovo, la sensazione non è di tepore ma è una sorta di umidità fredda, da scantinato.
Strano. Forse anche Hirano Ryumei in realtà batte i denti e non vuole darlo a vedere.
“Lei non ha freddo?” domando, a quel punto.
L’uomo al mio fianco scrolla il capo. Il suo sorriso resta a lungo sospeso nel buio.
“E poi cos’è successo?” mormoro, e chissà perché mi viene spontaneo abbassare la voce.
“Ho conosciuto mia moglie. Ci siamo sposati a Komorebi, là è nato nostro figlio.”
“Sono la donna e il bambino della fotografia?” domando, tanto ormai la frittata è fatta e quindi tanto vale condividere anche quella, dopo il brodo di funghi della Muso Production.
“Sono loro,” conferma Hirano Ryumei come se la faccenda non lo riguardasse affatto.
“Mi perdoni per aver inventato la storia della zuppa aziendale. Ci tenevo sul serio a fargliela assaggiare.”
“Los Angeles, California,” Hirano Ryumei scuote il capo. “Non so come abbia fatto, ma c’è andato vicino. Partirò per San Diego subito dopo Natale.”
“Che cosa?”
“La Bio Nihon apre una nuova filiale. I miei saranno contenti.”  
“Un salto di carriera,” osservo, mio malgrado.
Fumi che si allontana un’altra volta ancora. La immagino attraversare l’oceano come fanno gli aerei, i voli intercontinentali e gli spiriti dei morti: in punta di piedi e senza rumore dopo il decollo, lasciandosi indietro il cielo limpido e vuoto.
Rivedo la spiaggia dietro alla casa della Momoko-san, le onde tra le foglie dell’aloe, e d’un tratto comprendo perché mi sono sempre sembrate così ostili, così pronte a afferrare tutto quello che trovano e a trascinarlo lontano.
 
******
 
È proprio allora che accade. Lassù, sulla terrazza.
Proveniente da un punto imprecisato della città e della notte, improvvisa esplode la musica.
È un brano che conosco, Mononoke Hime, La principessa fantasma. Fumi lo eseguiva spesso durante i suoi esercizi al pianoforte, ancora all’epoca in cui suonava insieme all’orchestra. Anche dopo ha continuato a sedere al piano ogni giorno, perché faceva meno fatica a esprimersi con le note che con le parole. Era il tempo in cui lei stessa si stava trasformando in uno spettro dai lunghi capelli sciolti e la vestaglia ondeggiante.
“Partirà insieme alla donna e al bambino della fotografia?”
Non posso fare a meno di chiederlo e non so dirlo diversamente.    
Loro non ci sono più da molto tempo.” Hirano Ryumei guarda verso il basso, nel buio della strada molti metri più sotto. “O meglio, mia moglie c’è ancora. Vive a Komorebi, dai suoi. Qualche volta le scrivo, il bisogno di parlare con lei è rimasto, ma trovo anche normale che non voglia rispondermi. C’ero io alla guida dell’auto, quindi non si è trattato di un incidente.”
“Mi dispiace,” dico, e non mi viene in mente nient’altro. 
“Non deve dispiacersi. È stato molti anni fa, e poi non riguarda lei.”
Di nuovo Hirano Ryumei recupera la sua corazza e la distanza. È pallido e sembra invecchiato di molti anni. Intorno a noi, la musica cresce d’intensità, la perfetta armonia del Mononoke hime riempie tutto lo spazio.
Chissà se Hirano Ryumei riesce a sentirla. Mi volto a guardarlo ma in questo momento lui è altrove, nel letto circondato dal ticchettio dei monitor della rianimazione, a rivivere l’attimo in cui inizia a svegliarsi e chiede di suo figlio. 
“Scendiamo,” dice a un certo punto. “È tardi e ho ancora molto lavoro da fare.” 
Lo seguo, senza aggiungere altro.
Le note della Principessa fantasma continuano a seguirmi anche in strada, dopo che ho lasciato gli uffici della Bio Nihon e sto andando al locale per avere notizie di Be. Alzo lo sguardo in direzione della terrazza. Da qui è impossibile scorgere cosa accade quarantadue piani più su, eppure mi sembra d’intravedere una figura affacciata al parapetto, una figura che non è quella di Hirano Ryumei. È piuttosto una donna che indossa una lunga veste. O forse è solo un brandello di nebbia.
Scherzi della stanchezza, mi dico, o della botta che ho preso rimbalzando da un punto all’altro del pullman come la pallina di un flipper.
Probabilmente, il musicista nottambulo è uno studente che abita da qualche parte qui intorno, sta preparando quel pezzo per l’esame di domani e la strizza lo tiene ben sveglio. Questa in fondo è l’ipotesi più sensata, e me ne convinco al punto che quando torno a guardare verso la terrazza non vedo più nessuno.   
Da Muso, incontro Be che sventola la solita strisciolina. È un pezzo che mi aspetta per dirmi che l’assicurazione pagherà tutti i danni, non soltanto gli ultimi denti perduti ma una protesi nuova da farsi su misura.
Persino il signor Muso gli ha usato dei riguardi. Sarà che al locale stasera c’è poca gente, ma il capo gli ha concesso di starsene lì a godere la brezza nel retro, sulla sdraio che Muso adopera di solito per i suoi sonnellini. Una porta scorrevole si apre su un cortiletto e sul Mononoke hime che ancora m’insegue.  
È una bella serata, annota Be, soddisfatto. Così tiepida che sembra che stia per arrivare la primavera.
“La senti questa musica?” Per un attimo dimentico che Be è sordomuto.
Per aver nuove anche le orecchie, dovremmo andare a prendere un’altra zuppa coi funghi e fare un altro incidente, scrive Be, e mi allunga una pacca sulla spalla. 
 
 
  
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