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Autore: Bibliotecaria    28/10/2020    2 recensioni
In un mondo circondato da gas velenosi che impediscono la vita, c’è una landa risparmiata, in cui vivono diciassette razze sovrannaturali. Ma non vi è armonia, né una reale giustizia. È un mondo profondamente ingiusto e malgrado gli innumerevoli tentativi per migliorarlo a troppe persone tale situazione fa comodo perché qualcosa muti effettivamente.
Il 22 novembre 2022 della terza Era sarebbe stato un giorno privo di ogni rilevanza se non fosse stato il primo piccolo passo verso gli eventi storici più sconvolgenti del secolo e alla nascita di una delle figure chiavi per questo. Tuttavia nessuno si attenderebbe che una ragazzina irriverente, in cui l’amore e l’odio convivono, incapace di controllare la prorpia rabbia possa essere mai importante.
Tuttavia, prima di diventare quel che oggi è, ci sono degli errori fondamentali da compire, dei nuovi compagni di viaggio da conoscere, molte realtà da svelare, eventi Storici a cui assistere e conoscere il vero gusto del dolore e del odio. Poiché questa è la storia della vita di Diana Ribelle Dalla Fonte, se eroe nazionale o pericolosa ed instabile criminale sta’ a voi scegliere.
Genere: Angst, Azione, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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4. Un errore fondamentale
 
Mi resi ben presto conto che le la vita a Meddelhock era sempre appesa ad un filo invisibile e sottile che governava tutti: si chiamava tempo e ce n’era sempre troppo poco. Il ritmo cittadino era frenetico e non riuscivo ad abituarmi. Ero abituata alle lunghe giornate soleggiate a far nulla, al tempo lento e cadenzale della vita contadina che governava tutto a Lovaris, in città invece mancava sempre tempo e mi sembrava quasi che questa fosse la vera moneta. Andare a scuola richiedeva tempo, le lezioni richiedevano tempo, lo studio richiedeva tempo, oziare e attendere erano uno spreco di tempo, non bisognava fare perdere tempo agli altri e, soprattutto, il tempo non bastava mai.
Fu questo quel che pensai quanto scoprii che Garred era stato sfrattato da casa sua. A quanto pareva la sua famiglia aveva mancato il pagamento del affitto un volta di troppo e adesso erano costretti ad andarsene dalla loro vecchia casa. Vanilla ed io ci eravamo offerte per aiutarlo ad impacchettare le sue cose, gli altri avevano un impegno che non poteva essere rimandata. Ricordo quel giovane tritone sforzarsi di sorridere e di sembrare il solito bambino allegro per fare coraggio alla sua famiglia e alle persone a lui care mentre Vanilla cercava di mantenere il suo decoro mentre impacchettava tutti i pezzi di una vita. “Vanilla tutto bene?” Domandai notando che oramai era sull’orlo di un collasso. “Sì, solo che… conosco Garred da quando era un cosino minuscolo, venivo spesso qui da piccola. Come sai siamo vicini e la mia famiglia quando l’ha scoperto era a pezzi.” Disse lei e a quel punto guardai quella famiglia composta da tre streghe adulte, rispettivamente la madre di Vanilla e tre sue amiche, e altre cinque ragazzine, le sorellastre di questa, che stava facendo quel poco che potevano per aiutare. Non mi sconvolse scoprire che il padre di Vanilla avesse dei rapporti con altre donne, essendoci un rapporto di sette a uno tra maschi e femmine spesso gli stregoni si uniscono ad altre donne e formano un unico nucleo famigliare. Una struttura non troppo diversa da quella che nei tempi antichi erano chiamati sabba e streghe e stregoni erano ancora popoli nomadi. “Per giunta Garred… lo nasconde, ma anche lui è a pezzi.” Continuò Vanilla mentre riempiva lo scatolone con i bicchieri con della paglia. “L’ho notato. Quel piccoletto ha una maschera crudele.” Constatai mentre avvolgevo per bene i piatti in porcellana negli strofinacci. “In che senso?” Mi domandò Vanilla confusa. “Dover sorridere sempre. È una maschera crudele: fingere di essere felice o che andrà tutto bene quando sai perfettamente che non è così.” Spiegai, Vanilla abbassò lo sguardo. “Io la trovo una cosa coraggiosa.” Insistette e la guardai sorpresa.  “Non è con i sorrisi che si risolve tutto.” Commentai amaramente. “No, ma guarda questa famiglia? Credi servirebbe a qualcosa piangere? Cambierebbe qualcosa?” Lanciai una breve occhiata a quella decina di tritoni e sirene che stavano impacchettando i loro averi. “No. Ma neanche fingere che tutto andrà bene potrà. L’unica opzione sarebbe combattere.” Dissi aspramente. “Non tutti ne hanno la forza o la volontà.” Mi ricordò Vanilla. “Tu dici? Io credo che quel piccoletto sia abbastanza forte da farlo.” Dissi mentre lo guardavo consolare una sorellina facendo il buffone. Vanilla mi sorrise sprezzante. “E tu allora? Perché non combatti? Mi sembri piuttosto forte e la grinta non ti manca.” La guardai pacata. “La mia unica opzione è sempre stata studiare per diventare avvocato difensore e sperare di riuscire a valere qualcosa. E, sinceramente, non credo che nessuno darebbe mai ascolto ad una ragazzina. Conosco i miei limiti.” Le spiegai conscia che nessuno all’epoca mi avrebbe dato retta. “E se potresti?” Mi domandò Vanilla curiosa. “Lo farei, ma non ho idea di cosa adesso io possa fare.” Fu quella frase a risvegliare una certa idea in Vanilla, infatti la vidi confabulare poco dopo con Garred in tono sommesso e dalla serietà degli occhi scuri della ragazza e dal terrore in quelli gialli del ragazzino intuii che doveva essere qualcosa in cui era meglio non essere immischiati, eppure mi avvicinai. “Cosa state complottando voi due?” Domandai avvicinandomi, Garred mi guardò preoccupato per un secondo e poi si rivolse verso Vanilla per cercare di dirle qualcosa ma questa fu troppo veloce. “Stavamo pensando, dopo che abbiamo finito qui, ti andrebbe se ti presentiamo dei nostri amici. Vivono qui dietro l’angolo.” Ci fu qualcosa di strano nel modo in cui Vanilla disse quella frase. “Se si tratta della roba no grazie, non mi piace.” Ammisi in imbarazzo, immaginandomi già il resto del gruppo prendermi in giro e darmi della santarellina. Ho provato una sola volta quella roba e mi ha fatto schifo, non ho ritenuto necessario riprovare l’esperienza per il resto della mia vita malgrado vivessi negli anni in spopolava trai giovani, ma a quanto mi risulta alla fine la droga è praticamente veleno e un suicidio quindi meglio per me. “No, sono solo amici.” Disse Vanilla mentre vedevo Garred agitarsi sul posto.
Dato che come mi presentarono questi loro amici venni scacciata a forza mentre mi davano dell’assassina affibbiai a questo la preoccupazione di Garred che quando mi riaccompagnò in casa sua mi guardò di sottecchi mentre Vanilla si atteggiava indignata aprendo la strada. “Mi dispiace.” Sussurrò lui, io gli sorrisi. “C’è chi sopporta questa merda una vita, sopravvivrò per dieci minuti di insulti.” La cosa mi aveva turbata, e parecchio anche, ma decisi di non farne una questione di stato e di reprimere il mio desiderio di picchiare quei due bulletti di prima. Garred mi sorrise nuovamente ma pareva che stesse ridendo della mia ingenuità. Ma non vi diedi peso perché subito dopo scoprii che il prossimo anno sarebbe stato l’ultimo anno scolastico di Garred, il che era già un traguardo enorme tenendo conto che viveva in città e che frequentava il classico, sarebbe potuto diventare un insegnante delle elementari per soli Altri nel giro di uno, due o tre anni, a seconda quanta richiesta ci fosse, però notai che Garred aveva un sorriso triste e forzato: probabilmente gli sarebbe piaciuto completare il liceo.
 
Qualche giorno dopo io e Giulio stavamo seguendo la lezione di letteratura e questi notò che ero giù d’umore. Ricordo che mi sfiorò con la penna per attirare la mia attenzione e iniziò a scribacchiare in una pagina strappata del diario scolastico. “Tutto bene?” Mi scisse per poi guardarmi negli occhi preoccupato. “Non è nulla, solo il mestruo.” Lo vidi chiaramente arrossire un secondo ma si ricompose e riprese a scrivere. “Voi della regione dei Fiumi siete sempre così spontanei?” Mi domandò, io sorrisi. “No, sono io che sono strana. Non hai idea di quante volte mi abbiano ripresa per essere brutalmente diretta.” Risposi e mi sorrise dolcemente. “Meglio essere sincera che falsa.” “Non fare il santarellino, so bene che voi maschi volete che la vostra femmina sia brava ed accondiscendente.” Scrissi per metterlo a disagio. “Personalmente trovo attraenti le femmine toste.” Scrisse e fui io a sentirmi a disagio ma decisi di ignorarlo e di mantenere la facciata di sicurezza. “Cos’è una proposta di matrimonio?” Lo presi in giro, tuttavia non ebbe il tempo di rispondere: in quel istante suonò la campana e ci dirigemmo verso le successive lezioni, che non avevamo in comune quindi ci dovemmo allontanare. Odiavo l’organizzazione delle lezioni di Meddelhock: cambiare continuamente aula per seguire corsi in comune con altri indirizzi per risparmiare denaro su un paio di insegnanti lo trovavo sciocco. “Ci vediamo a pranzo.” Mi salutò lui con educazione. Fu strano: di solito i ragazzi mi trattavano al pari di un maschio e mi vedevano come una di loro, invece lui mi stava trattando come di solito vedevo i miei amici con le altre ragazze. Scossi la testa dicendomi che faceva così solo perché era troppo ben educato: tempo un mese e avrebbe iniziato a chiamarmi fratello. “Vedi di arrivare in orario o divorerò anche la tua porzione.” Risposi scacciando il pensiero che quello di prima fosse un atto di corteggiamento. Io e Giulio andavamo d’accordo per svariati motivi: lo trovavo simpatico, aveva l’abilità di mettere a proprio agio chi lo circondava, riuscivo a trovare un accordo con il suo modo di vedere il mondo e i punti in cui non concordavamo erano interessanti punti di conversazione tanto quanto i primi. Mi piaceva sentirlo parlare della sua numerosa e chiassosa famiglia, cosa che a me non è mai stata concessa, almeno non in quel modo, e ammetto che lo invidiavo per questo. Non negavo a me stessa che fosse un bel ragazzo: quei capelli bruni un po’ mossi, gli occhi dalle sfumature marroni e dorate, il corpo ben piazzato, non era particolarmente più alto di me, giusto qualche centimetro, era affascinante, ma in quel periodo non lo riuscivo a vederlo in altro modo se non come un amico.
 
Arrivata al aula vidi Nohat intento a leggere gli appunti della lezione precedente. “Ehi, il prof non è ancora arrivato?” Domandai sorpresa. “La risposta mi pare evidente.” Disse Nohat che, come al solito, mi ignorava e sopportava a stento la mia presenza. Non riuscivo a capirlo, Lukas e la sua famiglia, o qualsiasi altro vampiro con cui mi fossi confrontata finora, non era mai stati così scontrosi a prescindere e non per così tanto tempo. “Volevo solo instaurare una conversazione.” Risposi aspramente. “Se vuoi chiacchierare rivolgiti a quegli idioti di Felicitis o Galahad, avrai anche incantato gli altri ma non me. Tu sei solo una sporca umana che si diverte a giocare a fare l’inclusiva, ma scommetto che nel momento della verità volteresti lo sguardo come tutti.” Rispose lui aspramente, mi alzai e sentii il desiderio di picchiarlo impossessarsi di me: volevo vedere quei suoi occhi di quel azzurro così innaturale che parevano fluorescenti contratti dal dolore, sentire la mia carne che si scontrava con la sua, quel suo sorrisetto soddisfatto tramutarsi in una smorfia, ma sfortuna volle che entrasse il professore.
Ad ora di pranzo io e Nohat arrivammo a mensa a tre metri di distanza l’uno dall’altra e non ci guardammo negli occhi. Notai Garred e Felicitis impallidire. “Ma che…?” “Chiedilo alla signorina qui presente.” Disse Nohat. “È lei che non sa affrontare l’aspra realtà.” Disse lui, stavo per andare a spaccargli la faccia, ma Vanilla mi bloccò. “Dai Diana, lascia perdere: Nohat è un idiota.” Forse le avrei dato ascolto se Nohat non avesse ripreso a dare aria alla boccaccia. “Sì, ascolta Vanilla, se mi picchi vorrà dire che non sei diversa da qualunque altra umana.” Fu a quel punto che non ci vidi più e gli diedi un cazzotto ben assestato allo sterno. Questi si strinse lo stomaco e fece del suo meglio per non attirare troppo l’attenzione. “Se fai lo stronzo con me un’altra volta…” “Cosa…? Te ne vai?” Domandò Nohat sfidandomi con lo sguardo. “Non hai nessuno oltre a noi, questo perché sei troppo strana per essere amata da quelli della tua razza.” Lo guardai con ira e a quel punto Giulio, che dove essere arrivato in quel momento, afferrò Nohat e lo trascinò via. “Nohat, facciamoci un giro.” Disse il ragazzo incazzato che venne seguito da un preoccupato Garred. Galahad sospirò e mi rivolse la parola. “Ignoralo, Nohat odia gli umani sopra ogni cosa. E non sopporta che tu ti sia avvicinata a noi e soprattutto a Giulio.” Galahad mi guardò e si sorprese quando notò che la mia rabbia non era scemata ma bensì aumentata. “Allora perché mi avete accettata?” Domandai seria guardando fisso negli occhi verdi del mio compagno. Galahad non si scopose. “Perché volevamo capire se fosse vero. Non ho mai incontrato in tutta la mia vita un’umana che stia sinceramente dalla nostra parte. Tu sei diversa dagli altri Umani, ma non sei un Altro, questo è chiaro. A me piaci Diana, e credo di poter parlare anche a nome di tutti i qui presente e anche a nome di Garred e Giulio.” Mi spiegò Galahad per poi prende un profondo respiro. “Tuttavia, Nohat non lo può accettare.” “Perché?” Domandai, Galahad fece per rispondere ma non se la sentì, fu Felicitis a parlare. “Sua madre è morta tre anni fa a causa di un agente S.C.A., da quel che ne so l’hanno anche…” Ci fu un attimo di esitazione in Felicitis e da come si scurì il suo sguardo intuii quel che era successo ma non ci volli credere. “Hai capito.” Alla conferma di Felicitis mi sentii congelare le vene. “Suo padre ora è in un brutto stato, beve molto, troppo, e lo zio di Nohat ha fatto in modo che suo padre non avesse più la sua custodia.” Mentre parlava iniziai a capire perché mi guardava sempre con odio. “Non ce l’ha veramente con te: fa lo stronzo, ma si comporta così perché non ha mai superato il lutto. Per di più ti sei molto avvicinata a Giulio, lui e Nohat sono amici da sempre, gli è stato accanto nel suo periodo più difficile, è semplicemente geloso e ha paura che tu gli porti via il suo amico, ecco tutto.” Mi spiegò Felicitis e mi sentii profondamente in colpa: che diritto avevo io in fondo rispetto ad un’amicizia durata anni, pensai a come mi sarei sentita se qualcuno avesse fatto la stessa cosa con Oreon o con Zafalina, e mi resi conto che avrei dato di matto. Da allora io e Nohat non diventammo amiconi, ma riuscimmo a tollerare la nostra presenza reciproca.
 
Con l’avvicinarsi dell’estate potemmo finalmente iniziare ad uscire la sera, e riuscii ad evitare di dover supplicare il permesso tutte le sere usando la scala antincendio attaccata alla mia camera grazie alla quale potevo salire e scendere quando volevo. Fu grazie ai miei nuovi amici che conobbi un nuovo gruppo di Altri, per la maggior parte si trattava di ragazzi della nostra età o poco più grandi di noi, al inizio non mi sopportavano, poi però iniziarono ad incuriosirsi a me, come se fossi una qualche specie di animale esotico. Era gente strana, erano molto vaghi sul loro lavoro e i loro discorsi sapevano molto da criminali, iniziai seriamente a chiedermi come Giulio, Felicitis, Vanilla, Garred e Galahad li avessero conosciuti e dopo un po’ sentii che neanche Nohat ci avrebbe avuto mai nulla a che fare normalmente. Per di più i ragazzi erano sempre vaghi sul come si erano conosciuti e perché si frequentavano. Più passava il tempo più sospettavo che quei ragazzi centrassero con qualche banda o fossero i secondini di qualche famiglia mafiosa.
 
Con la fine della scuola per di più notai che ogni tanto sparivano nel nulla, avrei compreso se fosse stato Galahad che aveva l’esame di maturità quindi passava quasi tutti i giorni in clausura a studiare, ma il resto del gruppo si stava arrampicando sugli specchi delle scuse assurde. Fu così che iniziai a vedermi più spesso anche con la gente che mi era stata presentata per cercare di capire cosa stesse succedendo. Per di più notai che quando venivano chiamati da questi strani imprevisti erano sempre seri e che spesso il giorno prima avevano sempre ricevuto un messaggio da Idoler, un gargoil dalla pelle grigiastra, gli occhi di ghiaccio, corti capelli grigio-bianchi sulla trentina inoltrata. I sospetti al inizio vaghi come il fumo diventarono sempre più concreti nella mia testa. Ma non mi sarei mai aspettata che un giorno, il 16 giugno 2023, la mia vita sarebbe stata catapultata in un vortice da cui sarebbe stato quasi impossibile uscirne.
 
Idoler quel giorno mi prese in disparte e mi fece una proposta che in parte mi spiazzò ma che a ripensarci c’erano stati alcuni segnali per cui avrei dovuto intuire cosa stava per succedere. “Diana, ti hanno lasciata sola oggi?” Mi domandò il giovane gargoil avvicinandosi a me. “Sì, sono tutti spariti, un altro dei loro imprevisti. La scuola è finita da appena una settimana e siamo di già in questo stato.” Ridacchiai leggermente irritata. “Cosa c’è di divertente?” Mi domandò appoggiandosi al tavolo della paninoteca dove stavo consumando il mio pasto in solitario. “Nulla, solo che da dove vengo io mancare ad un invito a casa diverrebbe una questione di stato.” Spiegai ripensando ai miei vecchi compagni.
“Ti piacerebbe sapere dove spariscono tutte le volte?” A quella proposta non trattenni un sorriso. “Sì, certo. Ma tanto non me lo diranno mai.” Dissi spensierata, a quel punto calò un imbarazzante silenzio: io e Idoler non condividevamo nulla e riduceva con me l’interazione al minimo eppure era lì a parlarmi, lo trovai strano, soprattutto perché era stato uno di quelli che non mi rivolgeva la parola nei primi tempi. “Diana sinceramente non ti capisco: perché un’umana dovrebbe coltivare un amicizia con persone come Noi, perché dovresti sostenere i Nostri diritti ed esserci fedele? Perché?” Mi chiese ed intuii che mi stava testando quindi soppesai accuratamente la mia risposta. “Perché non dovrei?” Mi limitai a rispondere. “Come prego?” “Ho passato tutta la mia vita in mezzo agli Altri e agli umani e mi sono resa conto che non c’è poi questa grande differenza come crediamo. Indipendentemente dalla razza a cui apparteniamo ci sono persone con cui andrò d’accordo e altre che odierò, persone che comprendo e altre meno, persone intelligenti e stupide. È vero la razza ci porta ad essere un po’ di versi, per aspetto, per cultura, per l’ambiente, per le convinzioni con cui cresciamo, ma sinceramente penso che se non fosse per le leggi restrittive la più grande differenza che ci possa essere tra le razze consiste nel aspetto fisico.” Risposi pacata per poi addentare un’ultima volta il mio panino con soddisfazione. Come mi voltai verso Idoler notai un sorrisetto soddisfatto, quasi altezzoso. “Hai mai pensato di fare qualcosa di concreto a tal proposito?” Mi domandò in un modo che mi fece suonare un campanello d’allarme, mi voltai per osservarlo e confermai che stavamo parlando di qualcosa in più di una manifestazione. Abbassai il capo, sapevo di dover prestare attenzione alle mie parole d’ora in poi. Riflettei su come agire velocemente. “Certo, ma chi si fiderebbe di un’umana, figlia di agenti S.C.A. per di più?” Domandai per poi tornare ad osservarlo. “Magari qualcuno che ti conosce potrebbe garantire per te.” Propose avvicinandosi un po’ troppo per i miei gusti ed abbassando il tono della voce. “Non mi pare sufficiente.” Notai abbassando a mia volta il tono. “Beh, la tua debolezza, per così dire, di essere umana e figlia di agenti S.C.A. potrebbe anche renderti appetibile.” Riflettei a quelle parole. “In che modo?” Domandai prestando particolare attenzione al suo linguaggio non-verbale. “Nessuno penserebbe a te come prima sospettata e magari saresti in grado di fornire qualche informazione utile oltre che poter accedere senza difficoltà a posti a noi Altri altrimenti negati o di difficile accesso.” Continuò Idoler. “Stai cercando di dirmi che qualcuno potrebbe essere interessato?” Domandai guardandolo negli occhi, questi sorrise. “Quanto meno non sei stupida.” “Mi è concesso sapere di chi si tratta?” Domandai sulla difensiva ma cercando di mantenere un tono di voce pacato. “Solo se mi segui e questa è la tua unica offerta ed occasione.” Ci riflettei. Ero conscia che questi gruppi erano tendenzialmente pericolosi, molti erano semplici criminali, però c’era una piccola fazione che avevano proposte politiche e sociali interessanti. Però senza il nome del gruppo non ero in grado di dire che genere di persone fossero. “I ragazzi sono coinvolti, giusto?” Domandai affidandomi alla loro capacità di giudizio. “Sì.” Riflettei ancora per qualche istante indecisa e mi convinsi che nessun gruppo prettamente criminale avrebbe mai accettato un’umana, figlia di agenti S.C.A. per giunta. “Tutti? Anche Gahad?” Domandai conscia che lui era il più giudizioso del gruppo. “Sì.” Affermò, lo fissai per qualche istante negli occhi e mi alzai. Idoler mi fece cenno di seguirlo.
 
Mi portò nei vicoli più bui e malfamati della città, quelli in cui nessuno sano di mente avrebbe mai messo piede se non avesse saputo di essere nel proprio territorio e iniziai a sospettare di aver sbagliato i mei conti. Si avvicinò con circospezione a una porta di ferro che supposi doveva accedere ad una cantina dato che era posta leggermente più in basso rispetto al livello della strada, bussò due volte e la porta si aprì con un piccolo cigolio. Idoler mi fissò, i suoi occhi parlavano chiaro: era l’ultima occasione per tornare in indietro. Mai prima d’ora camminare mi era parso faticoso. Sapevo cosa stava accadendo però non avevo pensato abbastanza alle conseguenze, forse se fossi stata più coscienziosa non sarei mai arrivata dove sono ora ma non lo saprò mai perché entrai in quel lungo, buio e spoglio corridoio che si muoveva sotto agli edifici. Tutto mi parve uguale per i primi trecento metri: una porta di ferro, sei passi, una porta di ferro sei passi e avanti così. Quando vidi in fondo una porta di legno sentii il cuore salirmi in gola e pregai il Sole e la Luna di vegliare su di me. Idoler a aprì la porta rivelando a una specie di salotto: nel mezzo della sala c’erano dei vecchi divani dalla pelle logora, un tavolino rotondo basso in mezzo a queste e infondo un piccolo bar con alcolici. C’era un bel po’ di gente tra cui i miei compagni di scuola, non ché amici. Scambiai un breve sguardo con loro, avevano gli occhi sgranati e spaventati, la cosa mi confuse. Un istante dopo un signore sulla cinquantina mi si avvicinò con fare minaccioso. “Dunque saresti tu l’umana che ha aiutato quei tre ragazzi come noi.” Accennai un sì e iniziò a ridere. “Bene, bene, bene era da un po’ che volevo conoscerti. Ma prima…” Disse facendo sparire repentinamente il sorriso delle sue labbra. “Vorrei farti una domanda: perché esporsi per degli Altri?” La domanda non mi sorprese, a quanto pare era la domanda che tutti amavano rivolgermi. “Erano in difficoltà e li ho aiutati, questo è l’unico motivo e dovrebbe essere sufficiente.” In volto gli apparve uno strano sorriso: agghiacciante, divertito, soddisfatto e spaventoso. “Tu hai idea di chi sono io?” Mi chiese fissandomi mantenendo quel sorriso. Lo squadrai dall’alto al basso: capelli lunghi e rossi con delle strisce bianche, il viso tondo, il mento affilato, gli occhi grandi e neri, le orecchie lunghe e a punta, di corporatura mingherlina, piuttosto basso e la carnagione pallida e giallognola, avrei giurato che fosse un folletto, ma non vedevo le ali di libellula; notai in fine una bandiera nera con una fenice bianca appesa alla parete e compresi. “Tu sei Malandrino il capo dei Rivoluzionari n’è vero?” Domandai, ne avevo sentito parlare ai giornali, avevano reclamato qualche atto contro il governo e la liberazione di alcuni Altri venduti e usati alla stregua di oggetti, ma anche diverse rapine. “Arguta la ragazzina.” Commentò mentre sentivo ogni mio muscolo tendersi: il resto dei presenti non mi spaventava per lo più, ragazzini o persone poco più grandi di me, ma lui sapeva di pericoloso e mi stava studiando come se fossi un pezzo di carne, decisamente poco piacevole. “Allora piccola, come ti chiami?” Chiese facendo cenno di portargli da bere. “Diana Dalla Fonte.” Risposi sostenendo lo sguardo del uomo. “So che i tuoi genitori sono degli agenti S.C.A., giusto?” “Sì.” Confermai atona. “Ma non ho niente a che fare con il loro lavoro. Sono sempre stata contro i principi della S.C.A.” Risposi, sapevo che ne era cosciente ma preferivo che fosse chiaro fin da subito. “Lo immaginavo. Ma quanto sei contro i loro ideali?” Mi chiese avvicinandosi a me ad un livello a dir poco invasivo. Arretrai d’un passo spaventata da quel comportamento malato. “Allora? Quanto odi la S.C.A. e ciò che rappresenta? Quanto odi il governo? I giudici e gli avvocati corrotti? Le proibizioni? Le restrizioni? Il sistema?” Mi chiese Malandrino alzando la voce rabbioso. “Sopra ogni cosa.” Risposi facendo di tutto per mantenere la mia voce salda. “Odio tutte queste cose, odio tutto ciò che riguarda la S.C.A. e ciò che rappresenta, odio che la gente non faccia nulla e non si accorga di quante ingiustizie vi sono al mondo e odio sentirmi impotente verso queste persone.” Risposi senza battere ciglio, a quel punto Malandrino smise di invadere il mio spazio vitale iniziò a ridere. “Un umana che odia gli umani. Questo è fantastico.” Disse prendendo i due bicchieri che gli avevano preparato. “Perché mi avete portata qui?” Domandai afferrando il bicchiere che mi offrì. “Per farti un offerta: entra a far parte dei Rivoluzionari, ci farebbe utile una come te. Allora, accetti?” Disse Malandrino porgendomi il bicchiere per un brindisi. Mi guardai attorno conscia che se avessi accettato molte cose sarebbero cambiate, ma che se rifiutavo difficilmente sarei tornata a casa e sicuramente non sulle mie gambe. Ma oramai non importava, nello stesso istante in cui avevo lasciato intendere ad Idoler che avevo capito cosa mi stava proponendo avevo segnato il mio destino. E sapevo che avevo fatto uno sbaglio, un immenso e gigantesco sbaglio. “Accetto.” Risposi facendo tintinnare i bicchieri, Malandrino pareva soddisfatto. “Giulio, occupati della nuova arrivata. Falle fare il giro della base.” Giulio si alzò lentamente probabilmente confuso da quel che era appena successo. “Tra pochi giorni ti affideremo la prima missione, e dovrai dimostrare di esserci leale.” Decretò Malandrino per poi avvicinarsi ad un orco che doveva avere all’incirca la sua età e iniziare a parlare fitto con lui e altri due quarantenni. Io seguii Giulio fuori da quella stanza con la convinzione di aver appena fatto un’enorme cazzata ma oramai non potevo ritirarmi.
 
“Non avresti dovuto accettare.” Fu Giulio a rompere il silenzio dopo che uscimmo dalla sala, mi ricordo che il suo sguardo appariva perso. “Avevo scelta?” Chiesi retorica. “Sai meglio di me che se non avessi accettato mi avrebbe rapita o chissà cos’altro.” Ammisi e Giulio si bloccò, sorpreso della mia affermazione. “Per di più c’è qualcosa in Malandrino che mi disturba.” Iniziai continuando a camminare. “È come se avessi davanti qualcosa di troppo danneggiato per poter comprendere cosa è in grado di fare.” Dissi ripensando a quegli occhi neri e spiritati, quel sorriso forzato e a quel suo atteggiamento nel muoversi come se il resto del mondo fossero solo ombre. “Allora perché non ti sei voltata e non sei andata il più lontano possibile da qui?” Mi domandò infastidito. “Ciò che ho detto è vero: sono stanca di essere impotente.” Spiegai. “Non è una motivazione sufficiente.” Mi riprese Giulio. “Forse, ma oramai suono in ballo quanto tutti voi.” “Diana questo non è un gioco.” Mi ricordò con fare irritato. “Potresti crepare qui.” Mi informò preoccupato. “Non temere Giulio, so badare a me stessa. E anche se fosse non sarebbe una grave perdita.” A quel punto Giulio mi strinse il braccio. “Non le dire neanche per scherzo queste cose. Sei una persona intelligente, appassionata e... una buona amica. Se ti succedesse qualcosa faresti soffrire molte persone poiché avrebbero perso qualcuno di importante.” Lo osservai sconvolta, Giulio a quel punto arrossì e mi fece cenno di proseguire.
Giulio non aggiunse altro, fu l’unico vero discorso che ci scambiammo le restanti parole che sprecò furono per presentarmi il ripostiglio in cui avrei lavorato diciamo: c’era una zona computer, uno dei primi che avessi mai visto o toccato, non azzardai neanche a chiedere come avessero recuperato quegli scatoloni di metallo alti quanto una persona piazzati tutti in un’unica stanza fredda né tantomeno cosa se ne facessero, un centro operativo, che era più che altro una stanza con una tavola coperta dalla mappa della città con svariate puntine e una lavagna in cui erano scritte le date per le varie missioni con diversi mesi d’anticipo, c’era da dire che Malandrino era molto organizzato quando si trattava di un colpo, anche se piccolo, c’era una piccola infermeria a dir poco pietosa più adatta ad una rapida ricucita prima di essere spediti in qualunque altro posto purché non fosse quello, era così sporca da fare impressione, infine un’armeria decisamente ben fornita, addirittura troppo per una ventina di persone.
 
Quasi non ci credetti quando mi lasciarono tornare a casa e quando mi sdraiai sul letto mi domandai seriamente cosa diamine avevo fatto e se ero veramente uscita di testa. La risposta era un terribile ed eclatante sì: sapevo quanto quei gruppi fossero pericolosi, per un umana poi, era un miracolo che fossi ancora intera, e anche se fosse presto o tardi Malandrino mi avrebbe usata come vittima sacrificale per qualche missione. Rimasi in silenzio a rimirare il soffitto fino a cena dove i miei, come al solito, provarono ad estorcermi cosa avevo fatto ma me ne rimasi zitta e mi ritirai a letto in fretta. Ero spossata ma non riuscivo a dormire, così accesi il grammofono dove avevo lasciato un disco e lasciai che la musica mi avvolgesse per cercare di mettere ordine nei miei pensieri, ce n’era una in particolare che adoravo, Rivolta una delle prime canzoni che avrebbero iniziato il filone rock, mi lasciai avvolgere e riuscii a schiarire i mei pensieri.
 
Diedi la colpa a quella canzone se il giorno dopo mi presentai all’ora che mi aveva detto Idolen di presentarmi poco prima che me ne tornassi a casa invece di filare in centrale e dire cos’era successo, cosa che dovete fare se succede, indipendentemente che siate umani, figli delle guardie o qualsiasi sia la vostra situazione, per favore, non ripetete i miei errori e, fidatevi, a me è andata di lusso rispetto ad altri ragazzi. Malandrino sembrava contento. “Bene la nostra umana è arrivata.” Sembrava un pazzo in un momento di gioia mentre lo diceva. “Vediamo quanto vali piccola.” Disse Malandrino mentre mi portarono verso il centro città. Per tutto il tragitto sudai freddo pensando a cosa mi avrebbe chiesto, quale strambo rito di iniziazione possedessero i Rivoluzionari. A metà viaggio però mi dissi di smetterla coi piagnistei e di pensare a fare del mio meglio, che forse Malandrino era solo un po’ eccentrico ed ero io ad esagerare. Arrivammo davanti al municipio e mi misero in mano una bomboletta nera. Li guardai confusa. “Vandalizza il municipio, grazie.” Guardai Malandrino incredula e forse delusa, ma mi sbrigai a raggiungere le pareti bianche del municipio, mi sistemai meglio il passa montagna e iniziai a pensare rapidamente a cosa scrivere mentre agitavo la bomboletta per caricarla. Controllai che nessuna guardia fosse nei dintorni, l’area era libera, in seguito scoprii che conoscevano molto bene le ronde. Arrivata davanti alla parete non fu più necessario pensare a cosa scrivere, mi bastò scarabocchiare qualcosa di provocatorio in fretta e in furia. Tornai indietro in fretta con un sorriso d’eccitazione sotto il passamontagna: era stato spaventoso ed elettrizzante, proibito. “Cosa pensi di ottenere con una scritta così?” Mi domandò Orion, l’orco che avevo visto confrontarsi con Malandrino il girono prima, dando un’occhiata alla mia scritta: Lo sporco del nostro mondo è dentro queste mura. “Qualcosa.” Fu la mia unica risposta, la verità era che volevo togliermi dalla piazza il più velocemente possibile. “Hai fantasia ragazzina.” Disse il Malandrino. “Di certo sei più originale di certa gente.” Disse Malandrino voltandosi e guardando in malo modo un altro ragazzo.
Mi spiegarono che quello era il rito di passaggio per diventare uno dei Rivoluzionari, quando gli chiesi perché Malandrino rispose che anche lui aveva cominciato la sua vita in questo modo. C’era qualcosa di stranamente poetico ma ben presto svanì quando mi portarono nella base. Tutti i membri avevano preparato una festa a base di alcolici. Mi offrirono del whisky lo accettai ma non bevvi molto altro; non ero mai stata un’amante degli alcolici, un po’ perché non lo reggo molto bene e in parte perché per fin troppe volte mi ero ritrovata a dover fare da balia ad alcuni miei compagni ubriachi fradici e ciò mi aveva fatto perdere la voglia di bere in eccesso, per di più preferivo essere lucida se mi trovavo davanti a persone sconosciute. Ben presto il resto dei miei coetanei si presero una sbronza colossale e Orion, uno dei membri più anziani, mi lanciò le chiavi del suo pulmino ordinandomi di fare il giro delle case dei miei compagni di scuola altri ragazzi che vivevano nella stessa zona, del resto delle persone credo se ne fosse occupato Idoler. “Riportamelo con solo un graffio e ti lincio ragazzina.” Mi minacciò l’orco che li avrebbe riaccompagnati se non fosse lui stesso stato vittima del alcool.
Trascinai o condussi tutti i ragazzi a me assegnati dentro al camioncino e pregai che non facessero casini. Lungo la strada spesso mi dovetti fermare anche in quartieracci per lasciare che i miei compagni si liberassero del alcol in corpo. La prima che raggiunsi fu la casa di Nohat, che si trovava appena a due isolati da dov’era la base dei Rivoluzionari. Quelli che capii essere gli zii di Nohat guardarono male prima me, poi il ragazzo e se lo caricarono in spalla senza porre domande. In seguito lasciai Vanilla nelle mani di sua madre, che accettò di tenere Felicitis visto che mi aveva supplicata di non portarla all’orfanotrofio da sbronza. La donna mi continuò a chiedere cosa fosse successo anche dopo che glielo ebbi spiegato per tre volte, omettendo l’aspetto che gli amici erano dei criminali. Fu gentile, mi offri di entrare ma le spiegai che dovevo finire di accompagnare il resto delle persone nel pulmino e mi lasciò andare, promettendomi che non sarebbe mai più successo. Quando entrai notai che un paio di ragazzi erano scomparsi. “Non ce n’erano altri due?” Domandai confusa. “Vivono qui….” Disse Garred tra un lamento e l’altro. “Se devi vomitare è meglio che lo fai ora.” Gli suggerii, questo seguì il mio consiglio e si liberò sul bordo della strada.
Portare a casa Galahad fu un problema, visto che viveva al sesto piano di un edificio enorme con l’ascensore rotto, ci misi un’eternità a trovare la sua casa e una volta che i suoi tutori, che da quel che ricordo erano amici di famiglia, lo recuperarono mi promisero che gli avrebbero dato una strigliata per il disturbo causato. Qualche giorno dopo scoprii che i suoi genitori erano finiti in prigione anni fa per un crimine che non avevano mai commesso.
Garred fu l’unico a tornare a casa sulle sue gambe, poiché, malgrado fosse il più piccolo del gruppo, resisteva bene al alcool e dopo la vomitata e aver scolato una bottiglia d’acqua era stato meglio.
Arrivata a casa di Giulio sperai vivamente che non mi causasse problemi visto che erano quasi le due di notte e che gli altri due passeggeri mi avevano urlato continuamente per dirmi dove abitavano e mi avevano obbligata a fare un giro assurdo per portali a casa. Sinceramente speravo che la serata finisse presto. Aperto lo sportello del pulmino fu subito chiaro che non mi avrebbe aiutata: dormiva nella grossa e non ne voleva sapere di alzarsi. Lo scossi una, due, tre volte ma fu del tutto inutile, lo chiamai, gli feci il solletico ma niente. Dopo la terza volta che gli urlavo nelle orecchie iniziai a credere che Giulio fosse l’unico licantropo con problemi di udito. Seccata iniziai ad osservarlo e, forse a causa della stanchezza e dei rimasugli di alcool in circolo, iniziai a notare ogni singolo dettaglio del suo viso: la barba scura e incolta, la piega ovale del suo viso, il naso affilato leggermente schiacciato nel mezzo, la forma dolce dei suoi occhi, le folte ciglia e sopracciglia, i suoi morbidi capelli castano scuro e mossi, la forma del suo petto, le sue braccia lasciate scoperte. La gola mi divenne secca, ripensai al modo in cui mi guardava quei sui occhi ambrati che riuscivano ad incantare chiunque con le loro sfumature marroni e dorate, i miei occhi caddero sulle sue labbra, rosse, socchiuse, sebbene sottili parevano morbide. Mi ritrovai in uno stato di trans, era come se fossi magneticamente attratta da lui, mi avvicinai più del dovuto, sentivo il calore del suo corpo attraverso i vestiti malgrado non lo avessi ancora sfiorato, non resistetti al fuoco della passione e gli diedi un piccolo bacio a fior di labbra, appena uno contatto innocente, o forse poco più. Giulio si svegliò ancora sbronzo con la bocca impastata dal sonno, non feci in tempo ad allontanarmi. “Grazie per avermi risvegliato principessa.” Divenni rossa alle parole di Giulio ma lui non se ne accorse poiché chiaramente non era nel pieno delle sue facoltà. “Non essere scemo e aiutami. Pesi troppo.” Lo rimproverai in imbarazzo. Quando si appoggiò a me la situazione non migliorò. Per la prima volta in vita mia mi sentii sovrastare da qualcuno: il suo odore che mi riempiva le narici, il peso del suo corpo contro il mio, il suo calore, il suo caldo fiato contro il mio collo. Strinsi con maggiore forza il suo braccio e lo trascinai fino al cancello, stavo per suonare ma qualcuno mi interruppe. “Giulio?” Mi voltai, una giovane donna, la sorella maggiore del interessato, era appena tornata dal suo turno nella trattoria in cui lavorava. “Che è successo?” Mi domandò confusa. “Ha bevuto un po’ troppo. Mi hanno rifilato il compito di riportare tutti a casa dato che sono sobria.” Spiegai, la giovane donna mi aprì il cancelletto e mi aiutò a portare Giulio in casa sua, sulla soglia ci salutammo e io corsi al pulmino. Tornai a casa e parcheggiai quel arnese sotto la scala antincendio. Orion mi aveva ordinato di renderglielo entro la sera seguente. Così mi trascinai in camera, a fatica mi infilai nel letto e sprofondai in un sonno profondo.
 
Il risveglio fu traumatico ma mi obbligai a sbrigarmi e di riportare il camioncino da Orion, trovare la zona fu relativamente facile, il problema fu che impiegai quasi mezz’ora per trovare la casa e mi toccò aspettare fuori dal suo appartamento quasi un quarto d’ora ovvero fino a quando non venne un ragazzino di forse dodici anni ad aprirmi, mi guardò in malo modo, io gli risposi a tono e feci per rifilargli le chiavi di Orion ma questo salì sul camioncino e mi fece cenno di fare lo stesso. “Papà mi ha detto di mostrarti dov’è il garage.” Mi disse, ci infilammo in una minuscola strada dove il camioncino ci passava per miracolo ed entrammo in una specie di piazzola di cemento circondata da sei complessi di appartamenti lì parcheggiai il camioncino, c’era Orion ad attendermi e dopo un’attenta analisi accennò un sì soddisfatto. “Ringrazia il cielo che sia tutto intero, a me questo coso serve.” “Non ne dubito.” Risposi, a quel punto venni congedata e raggiunsi la fermata della corriera, da lì a tutto il percorso verso casa non riuscii a togliermi dalla testa l’innocente bacio che mi ero scambiata con Giulio. Malgrado avessi problemi ben più grandi tra le mani e che richiedevano la mia massima concentrazione. Ad un certo punto mi diedi uno schiaffetto in viso per impormi di calmarmi. “Diana Dalla Fonte no, non è un buon momento per pensare ai ragazzi. Sei nella merda fino al collo, i ragazzi complicano solo le cose. Non ne vale la pena.” Mi rimproverai malgrado sapessi che oramai fossi cotta a puntino. L’Amore ha decisamente un tempismo terribile.
   
 
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