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Autore: PrincessintheNorth    28/10/2020    1 recensioni
Nuova edizione della mia precedente fanfic "Family", migliorata ed ampliata!
Sono passati tre anni dalla caduta di Galbatorix.
Murtagh é andato via, a Nord, dove ha messo su famiglia.
Ma una chiamata da Eragon, suo fratello, lo farà tornare indietro ...
"- Cosa c’è?
Deglutì nervosamente. – Ho … ho bisogno di un favore. Cioè, in realtà non proprio, ma …
-O sai cosa dire o me ne vado.
- Devi tornare a Ilirea."
Se vi ho incuriositi passate a leggere!
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Morzan, Murtagh, Nuovo Personaggio, Selena | Coppie: Selena/Morzan
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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MURTAGH
 
Il mattino seguente mi risvegliai per un tuffo sullo stomaco.
«KILLIAN!» urlai, più per lo shock del risveglio violento che per la rabbia. Davanti mi ritrovai i suoi occhietti vispi, sotto i quali si era acceso un sorriso da peste. «Quante volte te l’ho detto che queste cose non le devi fare?» sospirai prendendolo in braccio. «È pericoloso …»
«Ma tu non hai uno bimbo nella pancia» obiettò. «Avevi detto che ela pelicoloso con la mamma».
«È pericoloso per tutti» gli spiegai. Dire “non discutere” sarebbe stato facile, ma Katie ed io avevamo deciso di spiegare il perché delle regole ai piccoli, così che le comprendessero e le facessero proprie, seguendole per convinzione anziché per paura di una punizione. «Nella pancia ci sono molti organi importanti, e bisogna evitare di danneggiarli, perché altrimenti ci si potrebbe fare molto male».
«Anche molile?» domandò preoccupato.
«No» mentii, perché non era il caso che si crucciasse alle otto del mattino. «Però potrebbe avere effetti gravi. Non mi hai fatto male, non preoccuparti» lo rassicurai. «Però tu, Evan e Belle dovreste cercare di non farlo, quando giocate tra voi. D’accordo?»
«Plomesso» fece, annuendo.
Visto che Belle ed Evan dormivano ancora profondamente mi presi quel tempo per dedicarmi al più piccolo della casa: nonostante fosse stato il più bravo da quando Katherine era stata rapita, sapevo che aveva sofferto moltissimo la sua lontananza, soprattutto perché non capiva perché lei, da un giorno all’altro, non ci fosse più. La mia partenza non l’avrebbe reso molto felice (due sere prima, quando gliel’avevo detto, mi aveva messo il broncio e persino graziato del suo primo insulto), per cui volevo addolcirgli almeno un po’ la medicina. Durante i mesi intercorsi tra il rapimento di Kate e la partenza lui era stato il bambino su cui mi ero dovuto concentrare di meno: era più sereno e tranquillo rispetto a Belle ed Evan, sia caratterialmente sia verso la situazione che aveva vissuto. Si svegliava piangendo praticamente ogni notte, ma non stava male quanto gli altri, semplicemente perché aveva un po’ meno consapevolezza. Anche per questo ero deciso a dedicarmi un po’ di più a lui: sentivo di averlo trascurato.
Facendo attenzione a non fare rumore, ci intrufolammo in cucina e rubammo gli avanzi della torta, per poi tornare di sopra e mangiarceli sul letto, accompagnandoli con una buona dose di panna, frutti di bosco, chicchi di melograno e, per lui, un gran bicchiere di latte e cioccolato, a cui avevo aggiunto un po’ di caramello.
«La mamma si arrabbierebbe moltissimo se sapesse che abbiamo mangiato in camera» dissi, facendolo ridere. «E anche le nonne …»
«Acche la nonna tlis» aggiunse con la bocca piena, riferendosi alla mia bisnonna, Anne, che lui, Belle e Killian chiamavano, appunto, “nonna tris”. «Si allabbia taaantissimo. Pelò è divettente!» fece. Improvvisamente, però, si rabbuiò. «Ma dopo vai a plendele la mamma?»
«Sì» sospirai, mettendo a malincuore giù la mia fetta di torta. Avevo già capito dove quella conversazione sarebbe andata a parare.
«E poi tonni? Con la mamma?»
«Certo …» risposi e mi maledissi l’attimo dopo. E se invece non fossi tornato? Se, cosa ancora peggiore, non fossimo tornati né io né Kate? Killian avrebbe passato l’eternità ad odiarmi per quella promessa mancata. Però cosa potevo dirgli? Che non sapevo se sarei tornato? Non potevo instillargli quel dubbio, quella paura.
«Quando? Stasela?» domandò: i suoi grandi occhi castani, identici a quelli di Kate, erano spalancati, colmi di speranza, in attesa di una risposta. «E poi andiamo a casa? Da Valion e Spilit e Mellie?»
Nel sentire quelle domande provai una grande tristezza: Killian non voleva altro che tornare a casa e alla nostra vecchia vita, alla bella vita che avevamo prima che Katie venisse rapita. Gli mancavano sua madre, il suo cagnolino, la sua casa: tutte cose che, ancora per un po’, non avrebbe potuto avere.
«Vedi» gli spiegai. «La mamma è in un posto molto lontano da qui, per cui non riusciremo a tornare entro stasera. Ti prometto che faremo velocissimo, piccolo, ma ci vorrà qualche giorno. Poi però torneremo qui da voi e poi andremo a casa, d’accordo?»
Killian rimase in silenzio qualche secondo, riflettendo: aveva le sopracciglia corrugate, ed in volto un’espressione molto più matura di quella di un normale bimbo di quasi tre anni.
«In tempo per il tuo compleanno» aggiunsi rapidamente: un sorriso gli illuminò il viso. «Non ce lo perderemmo mai, per nessuna ragione. Quanti anni compirai quest’anno?»
«Tle!» esclamò indicando il numero con le dita: quella era una delle sue ultime conquiste in fatto d’apprendimento, oltre alla corretta pronuncia del suo nome e di quello dei suoi fratelli (per Katherine e Murtagh era ancora troppo presto), e la sfoggiava ogni volta che poteva.
«Giusto, tre» confermai. «Tre anni di Killian Kirk. Ti senti vecchio?»
Lui scosse la testa, ridendo. «Sono glande!» disse. «Vecchio no. Il nonno è vecchio!»
«Certo che lo è. Centodieci anni non sono mica pochi» risposi. «Perché non vai a vestirti da solo, visto che sei grande? Andiamo a fare un giretto».
Lui annuì rapidamente e corse nella stanza dove avevo messo le casse con i miei vestiti e quelli dei bimbi, riemergendone cinque minuti dopo intrappolato nella tunica e con i calzoni al contrario. Almeno mi aveva dato il tempo di vestirmi.  
«Mi sevve una mano papà» sbuffò irritato. «Non ci vedo niente».
«Ecco» ridacchiai facendo riemergere la sua testolina dal collo della tunica. Anche in questo lui somigliava tanto a Kate: il fallimento non lo faceva piangere, lo infastidiva. «Non preoccuparti. Neanche Belle è ancora così brava a vestirsi da sola … sei comunque molto più bravo di certi grandi che si fanno ancora vestire dai servitori».
«Non liescono?» domandò mentre gli mettevo il suo mantello. «Pecché sennò quando impalo bene gli vado a spiegale come si fa …»
«Non è che non riescono» dissi, prendendolo in spalla e dirigendomi verso l’uscita. «È che non vogliono imparare, perché sono stupidi».
«Come dice la mamma!» esclamò, e la sua risata squillante riempì il silenzio della foresta. «Stupidi! Stupidi! Puzzoni facce di tliglia!»
«Il fatto che la mamma dica queste cose non vuol dire che tu debba imitarla» sbuffai. «E poi quand’è che l’hai sentita parlare così?»
«Di nascosto» rispose semplicemente. «Pallava con un glande. Uno vecchio pelò, che sembla vecchio. E che puzza di blodo».
Doveva essere il maggiordomo del Tridente che avevamo licenziato qualche mese prima: Katherine gli aveva fatto notare la propria inadeguatezza in ben più di un’occasione prima di sbatterlo fuori a calci.
Io vado a caccia, disse Castigo. Tanto partiremo fra un paio d’ore, dovrei fare in tempo. Tu invece dovresti andare dal fabbro per il tuo nuovo stuzzicadenti.
Passò rapidamente in volo sopra di noi e lasciò cadere dagli artigli la mia nuova spada: poco ci mancò che non mi prendesse in testa.
Sei un idiota, lo sai?, sbuffai mettendo giù Killian per raccogliere la spada e assicurarmela alla cintura. Avresti potuto colpirci. So che non t’importa molto della mia salute, ma pensavo che dessi ai bambini un po’ più di considerazione.
Sapevo quando buttarla giù, replicò divertito.
No, invece.
Che ne sai?
Sono il tuo Cavaliere, gli ricordai. Non so se ne sei al corrente, ma sento i tuoi pensieri, e dunque anche le cose a cui non pensi. Ad ogni modo, va a caccia lontano da qui. Non voglio che tu comprometta l’alleanza con gli elfi solo per la tua pigrizia.
D’accordo, d’accordo …
«Ehi, Killian» lo chiamai. «Adesso andiamo a fare un giro dal fabbro».
«Chi è?» chiese incuriosito, allungando le manine verso di me perché lo prendessi in braccio.
«È colui che crea gli oggetti dal metallo … come le spade, i chiodi, i martelli …»
«Acche i mestoli?» domandò.
«Certo che fa anche i mestoli. Chi li farebbe, altrimenti?»
«Tu» replicò, come se stesse dicendo un’ovvietà. «O la mamma o il nonno Molzy o il nonno Delek. Con la magia».
Chissà se si può davvero creare un mestolo con la magia, mi ritrovai a chiedermi. Bisognerebbe avere a disposizione abbastanza metallo ed energia per renderlo malleabile, quasi al punto di fusione, e poi per farlo solidificare subito. In ogni caso faccio molto prima ad andare a comprarlo in una fucina. Magari a Kate piacerebbe, come regalo.
Di sicuro l’avrebbe trovato molto divertente.
Se usciremo vivi da tutta questa faccenda lo farò, mi ripromisi, e mi venne da sorridere. Le regalerò un mestolo, tanto per vedere che faccia farà.
Arrivammo davanti alla bottega del fabbro cinque minuti dopo: l’elfo che la gestiva, che avevamo conosciuto durante quei giorni, era già al lavoro. Stava cantando sottovoce, trasformando un piccolo pezzo di ferro, altrimenti privo di alcuna utilità, in una libellula.
Vedere quell’arte all’opera riuscì nell’impossibile: ammutolì Killian, che fino a quel momento aveva continuato a chiacchierare di qualunque cosa gli passasse per la mente. Ovviamente non durò a lungo.
«Mettimi giù papà» sussurrò, parlando pianissimo, come se non volesse disturbare con la propria voce la maestria di Elemmìrion. Camminando in punta di piedi raggiunse il tavolo dove stava lavorando il fabbro, per poter ammirare la magia più da vicino.
Un quarto d’ora dopo la statuetta era finita, così bella e dettagliata che l’avrei scambiata per una vera libellula se non l’avessi vista nascere dal ferro.
«Wow» Killian esclamò una volta che vide il metallo smettere di ondeggiare. «Sei blavissimo!»
Elemmìrion sorrise e soffiò sulla libellula: grazie ad un incantesimo, le ali di traslucido ferro iniziarono a sbattere e la statuetta iniziò a volare intorno a Killian, che scoppiò a ridere e a cercare di acchiapparla. «È tua, se la desideri» gli disse.
«Glazie!» il piccolo gridò felice.
«Sì, grazie» ripetei. «Non eri tenuto a farlo».
L’elfo sollevò le spalle. «Molti, molti inverni fa sono stato piccolo anch’io. Un regalo inaspettato era la più gradita delle sorprese. Ad ogni modo, cosa ti porta qui così presto?»
«Avrei bisogno di sistemare questa» dissi porgendogli la spada.
Lui annuì lentamente, studiandola con l’occhio di chi sa quel che fa. «Hai già in mente un nome?»
«Varya».
Avevo passato la notte a riflettere su che nome dare alla spada: non era stato un compito facile, soprattutto perché era la prima volta che dovevo farlo. Scegliere il nome per un bambino, in confronto, era una passeggiata: ma una spada … una spada doveva riflettere colui che la impugnava, e soprattutto cosa aveva intenzione di farci. E io, cosa volevo farci? Volevo uccidere Galbatorix, questo era certo. Volevo usarla per abbattere chiunque si frapponesse tra me e Kate, tra me e mio figlio: volevo che distruggesse chiunque osava attentare alla vita di coloro che amavo.
Eppure, nonostante fossero queste le mie intenzioni, non riuscivo a trovare un nome adatto che le esprimesse. La soluzione era arrivata come un fulmine a ciel sereno quando avevo sentito Evan piangere per un incubo, e dunque ero andato a prenderlo per consolarlo: l’uccisione e la distruzione dei miei nemici non era il mio obiettivo, era il mezzo per conseguirlo. Io volevo proteggerli. Volevo proteggere i bimbi, Kate, chiunque amavo e di chi temevo la morte. Quello era ciò che volevo fare con la mia spada: proteggerli.
«Protettrice» il fabbro tradusse, annuendo in approvazione. «Appropriato. E le sta anche bene. Aspetta qui mentre le imprimo il glifo giusto».
Elemmìrion scomparve all’interno della propria bottega, così mi incamminai per raggiungere Killian nella radura accanto, dov’era andato inseguendo la libellula di ferro. Quando lo raggiunsi, però, lo spettacolo che mi si presentò davanti non era dei migliori.
Castigo, lo chiamai.
Sono a caccia.
Vieni subito qui, è urgente.  
Davanti a mio figlio c’era un elfo: il volto era, naturalmente, senz’età, ma doveva essere abbastanza giovane per i canoni della loro razza. Non aveva armi in mano, né sembrava che stesse usando la magia, ma ogni singola fibra del mio corpo urlava che era una minaccia.
«Chi sei?» domandai portando una mano alla cintura: avevo lasciato la mia spada ad Elemmìrion, ma per fortuna avevo avuto l’accortezza di portarmi dietro un pugnale e l’arco. «Killian, vieni qui».
«Ha la libellula …» protestò con un filo di voce, indicando la mano destra dell’elfo. Un raggio di sole la colpì, facendo scintillare la libellula di metallo che teneva stretta fra le dita.
«Vieni qui» insistetti. Killian non fece altre storie e si nascose dietro di me, avendo cura di rimanere coperto dal mio mantello.
Papà?, mi chiamò. Nella sua mente si agitava un’intensa paura. Evidentemente anche lui aveva capito che quell’elfo doveva costituire una minaccia. Ancora non ci aveva dato motivo di crederlo, ma fino a quel momento l’istinto non mi aveva mai tradito: ormai avevo imparato che era meglio ascoltarlo.
Va tutto bene, lo rassicurai. Adesso recuperiamo la libellula e andiamo a casa. Facciamo una seconda colazione con Belle, Evan e tutti gli altri, d’accordo?
D’accordo …
«Devi essere molto orgoglioso di tuo figlio» l’elfo disse sorridendo mellifluo.
«Chi sei e cosa vuoi?!»
«È un bambino molto intelligente. Sono sicuro che vederli sbocciare grazie ai propri insegnamenti sia molto gratificante. È bello, vero, creare un legame con lui? La certezza dell’amore che vi lega … spesso questa certezza è l’unica cosa che molte persone hanno. E quando viene recisa … la sofferenza è incommensurabile».
Castigo!
Sono qui.
Con un boato atterrò nella radura, facendo tremare la terra sotto i nostri piedi. Scoprì i denti in un ringhio basso, d’avvertimento: fiammelle rosse danzarono per un momento dietro le fauci.
«La certezza che ho io è che non mi piace chi minaccia mio figlio» dissi estraendo l’arco ed una freccia dalla faretra ed incoccandola. «Ma siccome sono una persona educata te lo chiederò un’ultima volta. Chi sei e cosa vuoi?»
«Cìrdan!»
Elemmìrion corse nella radura: sul volto aveva un’espressione d’orrore. «Cìrdan, cosa stai facendo?»
Ma l’altro non lo ascoltò. «Bene, un testimone» sorrise malevolo. «Il mio nome è Cìrdan, del casato di Thoronné. Per vent’anni fui pupillo ed allievo di Oromis, Cavaliere di Glaedr, lo Storpio che è Sano».
Mi bastò che pronunciasse quel nome per comprendere il suo obiettivo: era ovvio, voleva vendetta.
Papà volio andale a casa … Killian mi pregò: aveva iniziato a piangere.
Va tutto bene, leoncino, davvero. Adesso ci andiamo, a casa, te lo prometto.
«Capisco come ti senti» dissi a Cìrdan. «Mi dispiace per la tua perdita, e soprattutto per averla causata. Se avessi potuto scegliere non l’avrei mai ucciso, posso giurartelo …»
«I tuoi giuramenti ed il tuo dispiacere non mi riporteranno colui che per me era come un padre» sibilò con odio. «E non riporteranno in vita Glaedr, l’ultimo degli Antichi. Devi pagare per ciò che hai fatto. Se potessi ti ucciderei qui ed ora, ma sfortunatamente farlo causerebbe una guerra, che non è ciò che serve ora al mio popolo. Nulla però m’impedisce di abbassarmi al livello degli umani e lanciarti una sfida, così che tu capisca a cosa andrai incontro».
Così dicendo, si sfilò un guanto di cotta di maglia dalla cintura e lo lanciò nella mia direzione.
«Cìrdan, non compiere simili sciocchezze» Elemmìrion insistette. «Stai dando un triste spettacolo di te stesso. Raccogli quel guanto e vai per la tua strada, abbandona questi cupi pensieri. Non ti porteranno nulla di buono».
Nel frattempo il guanto rimaneva lì: sembrava che mi fissasse, in attesa che prendessi una decisione. Non mi ero mai sottratto ad una sfida: rifiutare di raccogliere un guanto, tra gli uomini, era segno di disonore, e questo Cìrdan sembrava saperlo bene. Se l’avessi lasciato lì dov’era mi sarei macchiato di codardia proprio di fronte a mio figlio: non era un pensiero che potevo sopportare.
«Sii ragionevole» Elemmìrion mi pregò. «Almeno tu, usa il cervello».
è una sciocchezza, aggiunse Castigo. Posso renderlo un mucchietto di cenere qui ed ora. 
«Non posso» sospirai, e raccolsi il guanto, con tutte le implicazioni che ne derivavano. «Cìrdan, accetto la tua sfida, in rispetto del dolore che provi per la perdita del tuo maestro. Non sei un umano, quindi sappi che hai diritto ad un duello all’ultimo sangue, che sia condotto però con onore e rispettabilità. Visto che sei stato tu a sfidarmi potrai scegliere il giorno ed il luogo del duello e le armi con cui ci affronteremo».
Lui annuì, e chinò appena la testa. «Non temere» fece. «Saprai quando vorrò la mia vendetta».
Senza dire altro si allontanò fra gli alberi, lasciando cadere a terra la libellula di Killian, che corse a riprendersela. Rimase qualche momento immobile, fermo in mezzo alla radura, controllando attentamente che il suo giocattolo non avesse subito danni. Poi le sue spalle si rilassarono ed infilò la libellula nella tasca del mantello, con cura, come se stesse maneggiando una gemma.
«A casa» mormorò quando lo presi in braccio.
«Sì, adesso andiamo a casa» sospirai e presi la Varya, ora ornata da un glifo nero alla base della lama, dalle mani di Elemmìrion, ringraziandolo in fretta e porgendogli il denaro che gli spettava. Lui tuttavia scosse la testa.
«Sapere che sarai riuscito a riunire la tua famiglia e a superare indenne il duello con Cìrdan mi gratificherà più di denari che comunque non spenderei» disse. «Ma perché hai accettato la sua sfida? Lui non è altro che un giovane impulsivo, che brama la violenza della battaglia, Murtagh».
«Mi ha sfidato davanti a mio figlio» spiegai. «Tra gli esseri umani, non raccogliere un guanto di sfida è segno di codardia. Inoltre, se fossi stato io al suo posto, probabilmente avrei fatto lo stesso».
L’elfo sospirò, ma non replicò. Si limitò solamente ad annuire, scuotendo appena la testa.
«A casa papà!» Killian mi ricordò.
E così, dopo aver ringraziato un’ultima volta Elemmìrion per la spada e la libellula, ci incamminammo verso il nostro albero.
 
 
 
KATHERINE
 
«Nasci» provai ad ordinare al bambino con il tono più serio che mi riuscisse. «Per piacere. Non ce la faccio più».
Quello stronzetto, però, rimase lì dov’era.
Mai come in quel momento avrei desiderato essere al nono mese invece che all’inizio dell’ottavo: se il piccolo fosse nato in quei giorni sarei riuscita a recuperare le forze per scendere in battaglia, e tutte le sofferenze della gravidanza sarebbero finite. Certo, i postumi non sarebbero stati piacevoli … ma li avrei di gran lunga preferiti al continuo bisogno di fermarmi per espletare le mie necessità, alla sciatica, al tremendo mal di schiena e al continuo e sordido dolore al seno, oltre alla vergogna che provavo nel dover essere trasportata su un carretto come una balla di fieno. Qualche giorno prima, infatti, non ero più riuscita a cavalcare: la scomodità ed il dolore erano eccessivi. Così ci eravamo fermati per la notte in una fattoria e, con qualche moneta d’argento, avevamo comprato il carro che il contadino utilizzava per portare le proprie merci al mercato del villaggio. L’avevamo attaccato al cavallo di Alec e da quel momento quel mezzo di trasporto era diventato il mio paradiso. Nonostante non mi piacesse molto farmi trasportare, non potevo negare la comodità che il carro mi offriva: la paglia, che attutiva i colpi e gli scossoni derivanti dalle asperità del terreno, era un materasso meraviglioso, ed insieme alle coperte offriva un calore diffuso ed avvolgente; scendere e salire era semplicissimo ed agevole; ed inoltre era abbastanza grande perché qualcuno potesse starci su con me per tenermi un po’ di compagnia. Dopo qualche giorno di viaggio al nostro gruppo si era aggiunta una giovane gatta mannara che si faceva chiamare Occhi d’Ombra: non amava trasformarsi in umana, così passava le sue giornate acciambellata sul mio grembo a far le fusa. Alla sera, però, andava sempre a caccia con gli uomini: il suo olfatto straordinario faceva sì che avessimo sempre una cena sostanziosa.
«Eccoci di ritorno!» Alec esclamò riemergendo dal bosco, portando tra le braccia una gran quantità di sedano, cipolle e carote. Dietro di lui, Garlan e Viktor reggevano un palo su cui avevano legato la carcassa di un giovane cinghiale. «Come da ordini, ho preso tutto quello che ti serve. Adesso arriva Sìgurd con la farina, per la polenta».
«Ottimo» sospirai scendendo dal carretto per raggiungere il centro del nostro piccolo campo e mettermi a cucinare con Maedra, la levatrice. «Funghi? Ne hai trovati?»
«Sì, Altezza» mi rispose Robert sollevando un cesto colmo di porcini e chiodini. «Li preparo subito».
Garlan e Viktor appesero il cinghiale ad un ramo ed iniziarono a scuoiarlo, tenendo da parte il guanciale, la pancetta ed il grasso, che avrebbero accompagnato la polenta insieme ai funghi. Maedra iniziò a preparare il brodo per la carne ed io tirai fuori il taccuino che usavo per tenere la contabilità: non eravamo a casa, con immense sale del tesoro che ci consentivano di prendere qualunque cosa volessimo: tutti i denari che avevamo erano contenuti in un sacchetto di pelle che avevo rubato ad una guardia di Galbatorix durante la fuga dalla città, con il trucco vecchio quanto il mondo della povera damigella che inciampa. Il bottino era stato ricco, ma ne avevo fatto fuori la maggior parte acquistando dei cavalli in un villaggio per spostarci più rapidamente: ci rimanevano solo dieci corone, appena sufficienti a noleggiare una nave che ci portasse al Dente di Squalo. Per fortuna, però, stavamo per entrare nelle terre di Morzan: lì la gente mi conosceva, ragion per cui speravo che ci avrebbero accolti in qualche fattoria rifornendoci di un po’ di viveri che bastassero per arrivare a Kuasta, da cui poi saremmo andati al Dente di Squalo, dove finalmente ci saremmo potuti prendere un paio di giorni di pausa da quel viaggio forsennato. Forse avremmo potuto evitare di dover rubare, che era una prospettiva che non mi allettava per niente.
Magari potrebbe nascere lì, sull’isola, pensai tra me e me. E non nei boschi come un lupacchiotto.
Ad ogni modo sapevo che augurarmi un parto prematuro era la cosa più stupida che potessi fare: le possibilità di sopravvivenza sia per me che per il piccolo sarebbero calate terribilmente.
Potrei fermarmi a Lionsgate. Lì sarei protetta dalla magia di sangue di Morzan, e sarei molto più al sicuro rispetto al Dente di Squalo. Avrei anche molte più comodità, che nella mia situazione non mi dispiacerebbero affatto. È chiaro che nelle mie condizioni non posso scendere in battaglia, e Galbatorix verrebbe a scoprire del mio inganno non appena non mi vedrà sulle navi dei pirati … quindi, tanto vale essere al sicuro. Da lì potrei usare gli specchi magici per avvisare gli altri del cambio di piano che ho fatto fare a Galbatorix, a meno che non ne siano già al corrente grazie alle spie, come dovrebbe essere … sembrerebbe la scelta migliore.
«Alec» lo chiamai. Arrivò nel giro di due secondi, preoccupato che fosse successo qualcosa.
«Tutto bene?» domandò infatti.
«Sì … solo, ho avuto un’idea» lo informai, per poi esporgliela. «Che ne pensi?»
Lui rimase in silenzio per qualche momento, riflettendo. «Mi sembra la cosa migliore da fare» asserì poi. «È una deviazione di un paio di giorni, però almeno noi potremo lavarci con dell’acqua calda, cambiarci i vestiti e rifornirci di viveri senza dover spendere soldi … e tu ed il bambino sareste molto più al sicuro rispetto al Dente di Squalo, dove Galbatorix potrebbe facilmente infiltrare un sicario. Non temi però che il re possa rendersi conto del tuo inganno?»
«Ci ho riflettuto» dissi. «Lo capirà comunque nel momento in cui non mi vedrà sulle navi».
«A questo punto una destinazione vale l’altra» concluse proseguendo il mio ragionamento. «Tanto tu, nelle tue condizioni, non potresti fare nulla comunque. Meglio un castello di solida pietra … ma se ti divinasse e scoprisse che non sei dove dovresti?».
«In teoria non dovrebbe né divinarmi né cercarmi con la mente, ha detto che non lo avrebbe fatto per evitare che papà o Morzan intercettassero l’incantesimo e mi rintracciassero. Inoltre …durante questi mesi ho osservato dei comportamenti strani da parte sua. Non l’ho praticamente mai visto usare la magia, mentre Murtagh e Morzan hanno detto che la usava sempre, per ogni minima cosa. Alec, penso che non sia così forte come vuole farci credere. Di sicuro è un mago potente, ed il fatto che sia lui che Trianna sappiano controllare gli spiriti li rende una minaccia molto seria, ma credo che abbia perso la maggior parte della sua forza quando Eragon lo ha sconfitto sette anni fa. Gli Eldunarì hanno detto che era da loro che traeva il proprio potere, ed ora ne ha solamente uno, per giunta di un drago giovane, quindi con poca esperienza. Penso che abbia tutte le intenzioni di risparmiare le proprie forze per la battaglia, dove dovrà affrontare cinque Cavalieri e cinque draghi adulti, non per controllare cosa io stia facendo».
«Quindi pensi che potremmo sconfiggerlo senza troppe perdite?» domandò abbassando la voce, per non instillare troppa speranza negli uomini.
«Non ho detto questo» precisai. «Penso che potremmo ragionevolmente ritenere che abbia perso la sua vecchia forza, ma non per questo dobbiamo sottovalutarlo. Sa controllare gli spiriti, e la loro magia, sebbene sia strettamente legata a quella dei draghi, è diversa da questa, più potente, imprevedibile … la magia non ha una volontà propria, mentre gli spiriti sì» aggiunsi, mentre lui annuiva lentamente. «Non so fino a che punto sia in grado di controllarli, anche se temo che sia molto bravo. Unisci questo al fatto che sappiamo che la sua più grande arma non risiede nella forza della sua magia ma nella sua abilità nel violare le menti e controllare gli esseri senzienti …»
«Potrebbe trasformarsi in uno Spettro senza perdere il controllo sulla sua vera identità» Sìgurd intervenne sedendosi accanto a noi, mettendo per terra un sacco di farina di mais. «Ho sentito Morzan discutere con lo zio Derek di questa possibilità, prima che partissimo. Morzan ha detto che Galbatorix ha sempre provato un certo fascino malsano verso gli spiriti e gli Spettri. Ad ogni modo sono favorevolissimo ad andare a Lionsgate» un sorrisetto gli spuntò in volto. «Magari è lì che ho lasciato la mia bussola. E poi mi prenderò una delle botti del tuo caro suocero per il viaggio … ne ha così tante che dubito che soffrirà per una».
Alec annuì, con un mezzo sorriso, e si alzò. «Bene, allora è deciso» disse. «Vado ad informare gli altri. Sìg, dalle una mano a cucinare».
«Non mi serve una mano per …» iniziai a protestare, ma compresi che era inutile proseguire quando Sìgurd, come sempre noncurante degli ordini, iniziò a preparare la polenta.
«Metto solo la farina nella pentola» fece. «Così non devi piegarti. Tranquilla, ti lascio mescolare e spadellare quanto vuoi».
La cena si svolse come di consueto: Maedra e Robert, le cui occhiate dolci si facevano sempre più eloquenti, distribuirono le razioni, e una volta terminato il pasto Alec e Garlan, di turno quella sera, si recarono al ruscello per lavare i piatti e le due pentole. Diversamente dal solito, però, andammo tutti a letto molto presto: la cavalcata quel giorno era stata più lunga del normale, ed il mattino dopo ci saremmo dovuti alzare alle prime luci dell’alba. Quando vidi che tutti si avviavano verso i propri giacigli seguii il loro esempio e ritornai al carretto, stendendo una coperta sulla paglia che usavo come materasso ed avvolgendomi nel mantello e nel sacco di piume, che avevo ottenuto mettendo da parte le piume degli uccelli che avevamo abbattuto durante quei giorni.
Stavo quasi per scivolare nel sonno quando un formicolio alle mie difese magiche mi fece scattare seduta, come se fossi stata percorsa da una scarica.
«Kate?» Alec mi chiamò stranito. Notai che tutti gli uomini si erano alzati all’improvviso: dovevano aver percepito anche loro che qualcuno stava tentando di divinarci. «Tutto bene?»
Rapidamente mormorai un incantesimo, che mi avrebbe permesso di scoprire chi stava cercando di divinarmi. In cuor mio speravo che fossero papà, Morzan o Murtagh, ma la magia smentì quella speranza.
Era Trianna, quella maledetta strega. Le mie difese e quelle di Morzan (di cui lui aveva dotato me e gli altri dopo che, durante la nostra conversazione in sogno, gli avevo spiegato come superare le mie protezioni) ressero, e dopo un paio d’istanti sentii la sua magia ritrarsi, per poi ritornare con molta, molta più violenza e forza. Stavolta non ebbi bisogno dell’incantesimo per capire chi stesse cercando di spiarmi.
 I soldati, Maedra, Alec e Sìgurd si portarono le mani alle orecchie: avendo loro meno magia di me, e dunque meno protezione naturale dalla stessa, la violenza di quell’atto doveva essere stata peggiore per loro.
«Katherine, che cazzo sta succedendo?» Sìg ringhiò quando l’attacco fu cessato, pochi istanti dopo.
Speravo che ci mettesse di più, maledizione.
«Galbatorix ha scoperto tutto» lo informai rapidamente. Le mie difese e quelle di cui avevo dotato tutti gli altri avevano resistito: né Trianna né il re erano riusciti a vederci, e dunque dovevano aver fatto due più due. Nessuno dei due era stupido, sapevano che c’era una sola ragione per cui dovevo aver impedito loro di divinarmi: riuscire a sfuggirgli in relativa sicurezza. Con la rapidità che il pancione mi consentiva scesi dal carro ed iniziai a rinforzare le difese che avevo posto sull’accampamento. «Sa che sono scappata, e probabilmente anche che voi siete vivi. Si preparerà a darci la caccia, ma per fortuna noi abbiamo un grande vantaggio. Dobbiamo arrivare a Lionsgate entro domani sera: una volta al sicuro decideremo il da farsi».
 
 
 
 
GALBATORIX
 
«Non capisco, sire» Trianna fece allarmata. «Non sono riuscita a divinarla nemmeno incanalando il potere degli spiriti …»
«Evidentemente è più potente di te» commentai asciutto per far sì che la mia voce non tradisse l’ira e la frustrazione che provavo. Le avevo chiesto di controllare dove fosse lady Katherine, per vedere dove si trovava e poter così calcolare quando sarebbe arrivata al Dente di Squalo per integrare i pirati nelle mie fila: eppure, non c’era riuscita.
Perché è contravvenuta ai miei ordini?, mi ritrovai a chiedermi. Le avevo espressamente detto di proteggersi dalla divinazione, ma di permettere a me e Trianna di controllarla, nonostante non ne avessi intenzione.
Con un cenno, un servitore mi porse lo specchio appositamente incantato per poter divinare e parlare con i miei sottoposti: tuttavia, al mio incantesimo, la superficie riflettente mi restituì solamente il mio riflesso.
Non è possibile.
Infusi più energia nel sortilegio, ma nulla cambiò: nello specchio continuai a vedere solo me stesso.
«È in compagnia di lord Risthart» mentii lanciando via lo specchio, fortunatamente preso al volo dallo schiavo che l’aveva portato. Non potevo permettere che i miei servi, come Trianna, venissero a sapere che non ero stato in grado di divinare una ragazzina: altrimenti mi sarei già potuto dare per sconfitto. «Fa meglio la prossima volta. Non tollererò altri fallimenti in materie così elementari».
«Sì, mio re» Trianna bisbigliò e se ne andò, camminando all’indietro come un gambero per non darmi la schiena e passare per maleducata.
Finalmente solo e libero delle sue futili chiacchiere e piagnistei, potei ragionare.
Com’era possibile che non fossi riuscito a divinare la mia stessa allieva? Conoscevo perfettamente le sue capacità, dopotutto: gliele avevo date io. Lei non sarebbe mai stata in grado di erigere delle difese magiche tanto forti da respingermi. Nessuno c’era mai riuscito, a parte …
No. No, non può essere.
«Maestà!»
Lo schiavo ritornò di gran corsa, ansimante. Teneva lo specchio alto, come se fosse una fiaccola accesa: e non mi fu difficile riconoscere il volto che ora vi era riflesso. Con un ghigno soddisfatto in volto, Morzan mi guardava con la tipica aria tronfia con cui andava in giro a Vroengard, incapace di resistere all'impulso di ricordare a tutti quanto fosse più bravo.
Quando vidi quell’espressione sul suo volto, non riuscii più a contenere l’ira. Il mio contegno mi abbandonò, nonostante avessi lottato per mantenerlo: l’umiliazione era troppo forte.
«Cos’hai fatto?!» urlai, e quelle parole riecheggiarono per tutta la sala del trono.
Morzan ridacchiò. «Beh, da quando sono uscito da quella cella fetida in cui mi avevi rinchiuso, parecchie cose. Ti ricordavo più educato, mio vecchio amico. Non mi chiedi nemmeno come sto? Bene, grazie. Lo stesso non sembra potersi dire di te, però … che è successo? Posso aiutarti in qualche modo?»
Si stava prendendo gioco di me. Un tempo eseguiva i miei ordini senza poter fiatare, ed ora si prendeva gioco di me!
Ma non per molto, decisi. No, sul campo di battaglia li avrei sterminati tutti, fino all’ultimo. Lascerò in vita solamente i tuoi figli e nipoti, così da potergli tagliare la gola di fronte a te. Pagherai per questo affronto!
«Dalla tua espressione deduco che tu abbia perso qualcosa di prezioso …» continuò a canzonarmi. «O forse più di una cosa? Oh, ma è chiaro! Katherine, vero? Sei riuscito a perdere Katherine! Complimenti, complimenti davvero. Ad ogni modo risponderò alla tua domanda: negli ultimi due mesi ho fatto sì che Kate ritornasse nel pieno possesso delle sue facoltà mentali ed, insieme a suo padre, mi sono occupato delle sue difese magiche e di quelle del bambino, quindi non sperare di ritrovarla, visto che a causa dei miei incantesimi non riuscivi a divinare Murtagh nemmeno al pieno della tua forza. Poi, vediamo … ah, sì, lei mi ha raccontato tutto, ti ha ingannato e ha fatto sì che tu facessi partire tutte le tue truppe verso una trappola mortale. Ora non puoi più farci niente, visto che hai già inviato tutti i tuoi soldati a Teirm, come tutte le spie che abbiamo inflitrato hanno riferito. Non farai mai in tempo a spostare tutti quei … quanti, settantamila uomini? Ad ogni modo, ora sono praticamente arrivati. Avendoli tu dotati di eccezionale resistenza fisica hanno già superato le montagne, ma se le dovessero valicare nuovamente per tornare indietro sai in che condizioni arriverebbero allo scontro. Animo fiacco, lame spezzate dal gelo delle montagne … Toglimi una curiosità, però: come hai fatto a perdere Katherine? Insomma, è comunque una principessa incinta. È difficile non vederla … ah, non importa. Lo chiederò direttamente a lei. Visto che è ormai evidente la tua sconfitta su tutti i fronti, ti offro, in virtù della pena che provo per te, la possibilità di arrenderti ora, così da evitarti l’impiccio di una tediosa e dispendiosa battaglia … sì, perché sappi che risolveremo questa questione in una volta sola. Se invece senti proprio il bisogno di affrontarci in campo aperto per dimostrare qualcosa, siamo ben disposti a farlo. Attendo la tua risposta affermativa per domani a mezzogiorno. Se non sentirò niente, saprò che vorrai farti prendere a calci nel sedere. Ti auguro una buona serata!» sorrise. «La mia di sicuro lo sarà».
E veloce com’era giunta, la sua immagine scomparve, lasciando dietro di sé solamente furia ed una profonda, bruciante umiliazione.
Io mi riprenderò quella puttana e il bastardo che ha dentro. Vincerò questa maledetta guerra e mi divertirò moltissimo a buttare giù quel bambino da una rupe, una volta che avrà assolto al suo scopo. Io vincerò. E regnerò.








 
   
 
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