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Autore: D a k o t a    31/10/2020    4 recensioni
Di John, Dean, Sam e un'insolita caccia a Duluth.
"L’ultimo massacro - aveva sentito alla radio - si era tenuto nel bosco appena fuori città, poco lontano da una casa abbandonata, la cui porta scardinata emanava un odore di morte e sangue che si poteva percepire a distanza di metri. "
[Ispirata alla Creepypasta della bestia del Gévaudan - teenchester - protective!John&protective!Dean&hurt!Sammy]
[Partecipa alla #Trickortreatmentchallenge del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanfiction&Fanart]
Genere: Horror, Hurt/Comfort, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, John Winchester, Sam Winchester
Note: Kidfic | Avvertimenti: nessuno
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Peccato originale
 
Li sente subito: percepisce il cambiamento nell’aria del bosco, prima ancora di sentire il rumore dei loro passi, dei loro cuori, del loro respiro e qualcosa si solleva nel suo petto nel comprendere che non è ancora finita, che ha altri due muscoli cardiaci da strappare.
Rialza gli occhi e li vede fermarsi, incerti, sotto lo sguardo di quegli occhi dorati, resi immensi dalla follia; li vede inspirare più profondamente e la saliva le riempie la bocca, quando sente il cuore della donna accelerare e immagina il suo sangue scorrere rapido nelle sue arterie e sulla sua lingua.
Un rauco ruggito lascia la sua bocca.
***
John sa che donne e bambini sono le prime vittime, durante una guerra. Sono i primi e più numerosi danni collaterali che svuotano le strade e crepano le pareti delle abitazioni. Quando aveva saputo di quei corpi riversi nel bosco, come un sardonico promemoria del suo fallimento, John non era stato sorpreso. Aveva preso parte a troppe guerre, visto troppi infanti strappati dalle braccia delle madri e troppe donne essere sgozzate davanti ai mariti e ai padri per essere sorpreso. Era una mossa tipica.
L’ultimo massacro - aveva sentito alla radio - si era tenuto nel bosco appena fuori città, poco lontano da una casa abbandonata, la cui porta scardinata emanava un odore di morte e sangue che si poteva percepire a distanza di metri.
I tre scalini che precedevano l’ingresso, nella penombra, erano impregnati di sangue secco: era scivolato a rivoli lungo i gradini, lasciando lunghe strie rosse. Sulla porta c’erano impronte di mani, di dita trascinate via da una forza sovrumana. Aveva lottato, aveva cercato di portare sé stessa e suo figlio in salvo. E’ così, si dice, l’amore per i figli; disperato e straziante, come i segni di quelle unghie sulla porta.
Sospira. Lancia un’occhiata alle sagome a terra, poco oltre l’ingresso. Il perimetro era già stato delineato dalla polizia, ma non gli era bastato che sfoggiare il suo miglior tono da Marine e un tesserino da agente federale perché il poliziotto a cui era stato affidato il caso lo lasciasse passare senza fare domande.
“E’ il terzo massacro questa settimana. Perlopiù bambini, ma anche qualche donna” afferma il poliziotto al suo fianco, scuotendo la testa, con le spalle rese curve dalla preoccupazione. “Dio solo sa cosa può aver fatto qualcosa del genere.”
John annuisce lentamente, distogliendo lo sguardo dai sacchi neri che vengono portati via dalla polizia. Ci vuole solo un minuto – uno – per recuperare il contegno necessario per porre le domande di routine.
Non è facile, quando hai due ragazzini ad aspettarti, abituarsi alla morte – non quando si estende come una sagoma lunga poco più di un metro sull’erba.
“Qualche idea su chi potrebbe essere il colpevole?” chiede, ma il tono non è fermo come si aspettava.
A quelle parole, l’uomo corruga la fronte e lo osserva con più attenzione.
“Colpevole? Il padre del ragazzino ha avuto dei problemi con la giustizia, ma qui non c’è un assassino. E’ l’aggressione di un lupo. Ce ne sono state diverse, negli ultimi tempi” risponde con fermezza, studiando lui e non più l’odore del sangue rappreso. Poi scuote la testa. “Tim aveva solo dodici anni. Aveva i suoi problemi, ma aveva solo dodici anni ”
Dodici anni. Come Sammy.
John sussulta appena, ma recupera subito il controllo perduto.
“Non è un animale. E’ un mostro” conclude poi quello, con lo sguardo fisso nel vuoto.
Il cacciatore non gli dice quanto ha ragione semplicemente perché a volte l’ignoranza è davvero un dono.
***
Le strade di Duluth sono diverse da come Dean se l’era immaginate. Non può fare a meno di pensare, mentre osserva dal vetro dell’Impala gli sparuti passanti che attraversano la strada con i passi rapidi di chi sta fuggendo da qualcosa, che quella fuga possa non bastare, possa continuare per mesi prima che riescano a trovare una soluzione.
E’ suo padre, aprendo lo sportello, a distrarlo da quel pensiero.
“Papà, hai scoperto qualcosa di importante?” chiede.
John lo guarda: suo figlio ha sedici anni, l’aria di chi un po’ è nuovo all’adrenalina della caccia, un po’ è spaventato a morte, anche se non lo ammetterebbe mai. Ad ogni modo, non fa davvero nulla per meritarsi l’occhiataccia che gli rivolge.
“Dov’è Sammy?” ribatte, senza rispondere a quella domanda.
L’ansia sembra tingere la voce di suo padre e questo non può non agitare il maggiore dei Winchester. Sussulta.
“A scuola, l’abbiamo lasciato lì prima di venire qui” risponde, in maniera del tutto istintiva. “Cosa è successo?”
Quando riprende parola, John non riesce ad appianare le rughe di preoccupazione che gli segnano la fronte, insieme all’immagine di quel sangue, di quei dodici anni che si estendevano nel terreno e che non riescono ad abbandonare la sua mente.
“Niente. Ti porto a casa” risponde bruscamente per poi mettere in moto, non lasciandosi sfuggire l’occhiataccia che l’adolescente gli rivolge, mordendosi appena il labbro inferiore.
John avrebbe da ridire, perché suo figlio sa bene che deve rivolgersi con più garbo, ma per un attimo è solo sollevato nel saperlo al suo fianco, nel saperlo vivo, nonostante quell’espressione di insolita belligeranza dipinta sul suo volto.
“Se hai qualcosa da dire, dillo ad alta voce, ragazzino” lo istiga alla fine, ma Dean non coglie affatto quella sfida aperta come avrebbe fatto Sammy.
Non alza la voce, non esplode, limita la sua protesta ad un subordinato borbottio. Non gli dice che gli ha fatto saltare la scuola per nulla, come farebbe suo figlio più piccolo.
“No, signore” risponde, con gli occhi fissi sulla strada, prima di prendere coraggio e decidere di concludere. “Ma avevi detto di avere bisogno di me, papà”
La voce di Dean esce più strozzata, più interrogativa di quello che vorrebbe. L’uomo al suo fianco sospira e non sa se sentirsi orgoglioso o triste della preoccupazione che incrina la voce di suo figlio.
Per un attimo resta in silenzio, mentre i chilometri si nascondono sotto le ruote dell’Impala. Si dice che non gli deve alcuna spiegazione, ma quando parcheggiano davanti a quel motel che ha avuto il coraggio di definire casa e Dean fa per aprire la portiera, John gli appoggia una mano sulla spalla e attende fino a quando gli occhi di Dean si posano sui suoi, prima di iniziare a parlare, tradendo una certa urgenza.
“Ho bisogno di te a casa. Usa il computer che ho regalato a Sammy per cercare informazioni su altri massacri analoghi e sulle famiglie delle vittime. Appena puoi, chiama tuo fratello per dirgli di venire subito a casa, dopo la scuola. Mi hai capito, Dean?”
Suo padre parla con una tale consapevolezza e una tale certezza nella sua voce, che nella testa del maggiore Winchester ogni minima contravvenzione a quelle regole sarebbe costata la vita a suo fratello o a entrambi.
“Sì, signore” risponde semplicemente.
La mano di suo padre sulla sua spalla si stringe in una stretta impercettibile, in un gesto di non sufficiente conforto, in un gesto che non basta.
***
Vorrebbe ucciderlo.
Sente il lupo che è in lui ringhiare di piacere all’idea di penetrare le zanne e gli artigli nella carne di quel ragazzino e di tirare fino a lacerare la pelle e il grasso, fino a frantumare le articolazioni e le ossa con uno schiocco secco.
Vorrebbe ringhiare, saltare e strappargli la gola. Immagina il rumore che farebbe la cartilagine tiroidea se la serrasse fra le zanne e la trascinasse via dal suo collo, portando con sé vasi e nervi squarciati.
Vorrebbe ucciderlo e invece si limita a osservarlo, come un cacciatore osserva la preda, appena fuori da scuola.
***
Trovare il padre di Tim Wilkins non era stato difficile per John Winchester: era un’ombra al suo funerale, chiuso su sé stesso, su quel corpo smembrato nella bara bianca, circondato da morte e disperazione e da un’altra bara, quella di sua moglie. John era rimasto in disparte, però. Non aveva interrotto, non in quel momento: quel lutto era qualcosa che si sentiva di rispettare. Tuttavia, non era stato difficile, attraverso i mormorii di quella città, sentire una storia riguardo ad un omicidio colposo per cui il signor Wilkins non era stato condannato pur essendo sicuramente colpevole. Il padre di un’altra vittima – Simon, 14 anni - aveva invece investito una ragazzina dieci anni prima. Due casi non fanno uno schema però, e il terzo sembrava non avere nulla a che fare con gli altri due; Mark era cresciuto in un’ottima famiglia, nessuna ombra nel loro passato, nessuna colpa che potesse giustificare la violenza di quella brutale e atroce punizione.
Esita per un attimo e si trova a pensare distrattamente che le colpe dei padri non dovrebbero ricadere sui figli. Non lascia che il suo pensiero indugi su cosa potrebbe succedere a Sam e Dean, semplicemente perché è il cellulare a salvarlo.
“Ehi, Dean. Trovato qualcosa?” chiede al ragazzino.
Dall’altro lato del telefono, può sentire il ticchettare del mouse di Dean e una mezza imprecazione sul fatto che suo fratello non ci fosse mai quando ne aveva bisogno.
“Sì, signore. Mark è stato adottato” gli risponde, con quel tono per metà orgoglioso del suo lavoro e per metà bisognoso della sua approvazione.
Per un attimo John si trova distrattamente a pensare se la colpa di quell’uomo sia stata abbandonare suo figlio o se semplicemente fosse un serial killer o un pazzo omicida. Si chiede se voglia davvero conoscere quella risposta.
“Hai fatto un buon lavoro, ragazzino” acconsente alla fine.
Il tono è ancora quello di una concessione. Eppure, nella brevissima pausa di silenzio che segue, si permette di immaginarselo, di gustarsi quel sorriso da bambino che ha ancora illuminargli il viso, a quel complimento.
E’ un pensiero che dura un attimo, però: giusto il tempo di ricordare quello strazio di sangue, ossa e denti da latte.
“C’è dell’altro?” chiede dunque.
La risposta di Dean arriva pronta e sicura.
“Sì, signore” conferma, per poi proseguire. “Nel ‘700 in Francia ci furono diversi massacri. Tutti donne e bambini. Si pensava fossero dei lupi, ma...”
John sbuffa ed è abbastanza perché suo figlio tentenni, arrestandosi di colpo. Dean a quella reazione sembra ingoiare il sangue e la bile e qualcos’altro.
“E’ dall’altra parte dell’Oceano, Dean. Non ho tempo da perdere” replica, cupo.
Il maggiore dei Winchester incassa quel colpo e boccheggia per un istante, prima di riprendersi.
“Ascoltami, papà. Non si è mai saputo cosa fosse. La bestia del Gévaudan è stata uccisa con una pallottola d’argento” continua Dean, cercando di mantenere fermo il tono. “Ma pensano che avesse fatto in tempo a riprodursi. Magari qualche demone è riuscito a portare qualche cucciolo di quel figlio di puttana qui in America e c’è una strana annotazione di un parroco in merito...”
John si lascia andare ad un respiro pesante, perché adesso ci mancava solo il lupo-assassino nato in Francia. Come se l’America non fosse piena di mostri, come se non bastassero a riempire una vita intera.
“Cosa c’era scritto, Dean?” chiede allora, ignorando la soddisfazione che suo figlio tradisce, quando gli permette di andare avanti.
Dean esita solo un attimo, alla ricerca di quell’appunto.
La Giustizia divina, dice Sant’Agostino, non può ammettere l’infelicità degli innocenti. La punizione da lui mandata presume sempre la presenza del peccato di chi l’ha attirata su di sé.” legge poi Dean, in maniera del tutto diligente. “E’ attratto dal peccato, quindi. Quel bastardo uccideva solamente bambini e donne. Che colpa può mai avere uno stupido ragazzino? Papà?”
Per un attimo un campanello sembra accendersi nella sua mente e improvvisamente sembra tutto così distante e faticoso e -
Aveva i suoi problemi, ma aveva soltanto dodici anni.
John non spiega a Dean che colpa possano avere quei bambini. Non gli spiega nulla e non è una cosa nuova, non è qualcosa a cui suo figlio non è abituato – non lo sono neanche il silenzio e le omissioni.
Ma non si chiede più nemmeno quale sua colpa possa attirare la bestia a sbranare i suoi figli: pensa semplicemente alla colpa.
Alla presenza del peccato nel sangue di Sam.
***
Sam”
A quel nome, si lascia andare ad un verso e lo osserva con più attenzione, soffermandosi sui lineamenti del suo viso e non più sul sapore del suo sangue. E’ solo un attimo.
Il ragazzino fa appena un passo, prima che possa saltargli addosso.
***
E’ convinto di essere morto.
Prima della verità scritta nera su bianco sull’agenda di suo padre, prima della prima volta che era stato portato a caccia, prima di tutto questo, Sam Winchester non aveva granché amato i film di paura. Li aveva guardati con suo fratello, per sentirsi desiderato, per rifugiarsi nel calore affettuoso di Dean come era giusto che fosse, nella vaga illusione che quelle immagini non l’avrebbero tenuto sveglio la notte, nella sua stanza riempita solo dal silenzio radio di un padre sempre al lavoro per proteggere qualcun altro.
Aveva provato una mattina a parlarne con Dean, quando era solo un bambino di sette anni reduce da una notte insonne a causa di Chucky la bambola assassina ma suo fratello l’aveva guardato con un sorriso ironico, liquidandolo con un secco: Sei proprio scemo, fratellino, queste cose non esistono.
Certo. Ne esistono altre. Ma Sam non lo sapeva, sapeva solo che non c’era spazio per le sue paure.
Dopo l’agenda di papà, quei film sembravano solo scarne e imperfette parodie della realtà, che avevano perso qualsiasi interesse: perché guardarli, quando la sua vita era molto più spaventosa? E con quale tempo, che c’è sempre un nemico pronto a bussare alla porta, un trasloco da fare, qualcuno – mai lui, ma questa è un’altra storia – da salvare?
Sam è convinto di essere morto, ma quando apre gli occhi è sorpreso dal dolore pulsante dei graffi sulle sue braccia, dal quello lancinante della gamba e dal fetore del sangue – è il suo? - e dei denti dell’animale che brillano, nella penombra di un tardo pomeriggio autunnale.
La prima reazione è urlare – Urlare non ti servirà a niente, Sammy. Ciò di cui hai bisogno è una dannata pistola.
La seconda è una preghiera – Se ci fosse stato un Dio, la mamma non sarebbe mai morta, Sammy.
La terza reazione è lo spostarsi indietro trascinandosi con le mani, prima che la belva gli stramazzi addosso.
Poi sono solo le braccia di Dean che lo stringono delicatamente, facendo attenzione a non fare nessun movimento brusco, a non fare più niente che possa spaventarlo. Dean lo sente scuotersi contro il suo petto e non può fare a meno di sospirare contro i suoi capelli, notando le ferite sulle braccia e sulle gambe.
Solo dopo il minore dei Winchester si accorge di suo padre, a poche centinaia di metri, preso ad inveire al telefono contro il 911.
“Dean” sussurra, contro la stoffa della maglietta di suo fratello, tra un singulto e l’altro e lui annuisce.
“Sì. Va tutto bene, Sammy” ripete, attento a non stringerlo abbastanza da fargli male.
Sì. Sanno entrambi che non c’è bisogno che aggiunga altro.
Sì, sono io. Sono qui.
Solo allora Sam si abbandona completamente contro di lui.
Solo allora si accorge che il respiro più irregolare e più interrotto da singulti non è più il suo.
***
Quando si sveglia in ospedale, una mano fresca gli accarezza i capelli. Ci vuole un po’ perché possa aprire gli occhi, perché si accorga delle fasce sulle sue braccia e di quelle molto più importanti sulla gamba sinistra.
“Sammy...”
La voce di suo padre lo riscuote brevemente. Alza lo sguardo, intorpidito e tremolante, sull’uomo che gli siede di fronte. Ha gli occhi rossi e l’aria infinitamente stanca. C’era stato una parte di lui, che è il John che è stato ucciso a ventun anni in Vietnam, che gridava “mostro!” ogni volta che un commilitone moriva e lui non poteva fare nulla per evitarlo. Ma ci sono cose che cambiano, quando hai vissuto più di quarant’anni e della tua vecchia casa, della tua bellissima moglie non resta nient’altro che cenere e e polvere e qualche verme, che si è nutrito della sua carne, e ci sono cose che John non sa più come perdonare: non sa più come lasciare in vita chi tenta di portargli via le persone che ama, non sa più come dovrebbe farlo, se sia giusto farlo.
“Papà” risponde Sam per un attimo, con un accenno in più di agitazione nella sua voce. “Dov’è Dean?”
John inarca le sopracciglia, senza tradire quel moto di orgoglio che lo inonda sempre, quando si accorge di come si proteggano sempre a vicenda, senza più nemmeno bisogno che glielo ricordi.
“L’ho spedito a prendersi un caffè. Ho dovuto minacciarlo per farlo uscire di qui.” risponde semplicemente, con un mezzo sorriso nel vedere i lineamenti di Sam distendersi. Poi torna improvvisamente serio, riprendendo a parlare. “Sei stato fortunato, ragazzino”
Sam si limita a storcere il naso, perché onestamente, intontito dagli antibiotici, con le braccia fasciate e una gamba su cui chissà quando avrebbe potuto camminare di nuovo, si sente tutto fuorché fortunato.
Poi però intravede qualcosa.
“Ti sei spaventato, papà” nota.
Non è una domanda.
E’ un’osservazione.
Da John arriva un borbottio indistinto.
“Dean si è spaventato” ribatte poi, veloce.
Il sorriso che gli incrina le labbra racconta una verità diversa, una che Sam, alzando gli occhi al cielo, non è pronto a fargli passare.
“Certo, come no” borbotta, quando John gli accarezza i capelli, ancora una volta. Ha bisogno del contatto, di quel calore, che sa di vita, che gli ricorda che non c’è nessuna sagoma a forma di Sammy da nessuna parte. Che suo figlio è lì, che anche Dean sta bene e sta bevendo un caffè, da qualche parte dell’ospedale.
“L’infermiera sarà qui a momenti per controllare quelle ferite” mormora, sfiorando le bende che gli coprono entrambe le braccia, mentre Sam sussulta a quel contatto. “Puoi chiederle se puoi avere altri antidolorifici, se fa così male. Poi prova a dormire”
Suo padre lo guarda intensamente, e Sam la vede, quella preoccupazione rabbiosa nei suoi occhi, che mai come in quel momento ricordano quelli di Dean. Rivede quel pomeriggio, Dean che lo teneva fra le braccia, e suo padre che terrificato chiamava un’ambulanza. Rivede suo padre, rivede oltre quegli imperativi, e rivede oltre suo padre: vede se stesso relegato nel buio di una stanza vuota e sicura, si vede nei suoi occhi e comprende, per un attimo, il piccolo dramma racchiuso nello sguardo dell’uomo. Rivede quelle carezze fra i suoi capelli mentre dormiva: per quanto sarebbero potuti andare avanti, camminando nell’ombra dell’incertezza, dandosi la mano solo a volte e per momenti brevissimi?
“Rimani?” chiede in un sussurro che non viene dalla gola, ma più in basso, là dove dimora la verità.
“Oggi sì” mormora John, strappando un sospiro di sollievo misto ad indignazione al più piccolo dei Winchester.
Sam capisce e nel capire soffre, perché sa che non sarebbe cambiato nulla, che avrebbe dovuto urlare e strepitare per farsi ascoltare da lui.
***
“Dean?”
Nella sala d’attesa, il ragazzo sobbalza a quella voce che interrompe i suoi pensieri vorticosi, come lo era stato quel pomeriggio. A volte vorrebbe sapere premere un grilletto con la freddezza con cui sembrava saperlo fare suo padre. John ha una tazza di caffè fra le mani, quando si siede accanto a lui.
“Sammy sta bene?” chiede, improvvisamente in allerta.
Suo padre annuisce, con una scrollata di spalle, prima di prendere un altro sorso di caffè.
“L’infermiera lo sta medicando. E’ un ragazzino forte” gli risponde poi, con una piccola punta di orgoglio, che non riesce a non tradire. “La dottoressa ha detto che può restare una persona sola per la notte.”
Il maggiore dei Winchester lo guarda, con un’espressione di puro terrore al pensiero di lasciare quel fratellino irriverente che si ritrovava, e non riesce davvero a trattenersi.
“Non farmi andare a casa, papà. Non posso, io...” inizia, ma viene bruscamente fermato.
Suo padre lo guarda con quell’espressione seria che riesce sempre a farlo vacillare.
“Ti ho forse detto di andare a casa?” lo rimprovera, senza alzare la voce.
Dean sussulta appena, per poi lasciarsi andare e appoggiare la testa al muro. Il pensiero di quella bestia sul suo fratellino non riesce ad abbandonarlo.
“Ci alterneremo” dice poi, cercando di dare un attimo di tregua al ragazzino.
Ha gli occhi fermi sul caffè, ma riesce comunque a cogliere con la coda dell’occhio il piccolo sorriso che si dipinge sulle labbra di suo figlio.
Segue una piccola pausa di silenzio, in cui Dean fissa il vuoto e John continua a bere il suo caffè. Poi il maggiore dei Winchester prende coraggio.
“Non capisco, papà” mormora alla fine, con aria grave. “Due di quei ragazzini erano bulli, il più grande era in qualche baby gang ma nessuno di loro meritava la morte”
Si interrompe, mentre delle linee di preoccupazione mista a confusione increspano la sua fronte. John si lascia andare ad un sospiro pesante.
“Ovviamente non la meritavano, Dean. Erano solo ragazzini” borbotta, e l’atmosfera è di nuovo la stessa di quella volta in cui suo figlio gli era stato accanto, in silenzio per ore, dopo l’ennesimo caso in cui non erano riusciti a salvare tutti, dove il peso dei morti gravava sulle loro spalle.
“Lo so. Ma cosa ha Sammy a che fare con tutto questo? Come sapevi che avrebbero attaccato lui e non me?” chiede ad un certo punto, scuotendo la testa. “Voglio dire, la cosa peggiore che gli sia mai balenata in quella testolina strana è rubare un pacchetto di M&Ms da un negozio per regalarlo a me. Io...ho fatto cose peggiori. Avrebbe dovuto...”
John si irrigidisce perché quella conversazione con suo figlio maggiore non è qualcosa a cui è preparato, non quella sera. Non è pronto né a sentirsi vomitare addosso quei sensi di colpa, né a parlare di quel mostro che Sammy si porta nel sangue come un ulteriore peccato originale.
Lo ferma prima che possa continuare.
“Non avrebbe dovuto attaccare nessun altro. Avremmo dovuto ucciderlo prima. Ed è stato solo istinto, Dean” mente.
Dean annuisce, poco convinto. John lo guarda e per un attimo si chiede quanto tempo abbia, prima che sia tutto troppo, prima che decida anche lui di scomparire come sembra fare l’aria nei suoi polmoni, a volte. E si chiede quanto di quella frase non detta di suo figlio – avrebbe dovuto prendere me – sia colpa sua.
 
NDA.  
L'annotazione del parroco che Dean riporta è vera ed è alla base della storia. 
La  creepypasta da cui questa storia è stata ispirata è quella della Bestia del Gévaudan. 
Partecipa alla #Trickortreatmentchallenge del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanart e Fanfiction. 
   
 
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