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Autore: QueenOfEvil    01/11/2020    0 recensioni
[Seguito di 'Non c'è ombra senza luce']
Prima che Aa perdesse due dei suoi tre occhi. Prima dell'ultimo verobuio. Prima della Profezia.
Mia era senza alcun dubbio "una ragazza con una storia da raccontare".
Ma, vedete, gentili amici, quella definizione poteva benissimo valere anche per i suoi genitori.
Una volta, quando Julius aveva sette anni, suo padre lo aveva portato ai Giardini.
Lì, circondati dalle grida e dalle suppliche degli schiavi morenti a qualche piede dalle loro teste, Atticus aveva spiegato a suo figlio che il mondo era diviso in due gruppi: le persone che erano persone e le persone che erano cose. Rispetta le prime, calpesta le seconde e avrai successo.
In quel momento, a quasi vent'anni di distanza, Scaeva realizzò che suo padre aveva avuto torto.
Chiunque poteva essere una cosa, per chi sapesse come farne uso.
Genere: Dark, Fantasy, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Alinne Corvere, Altri, Darius Corvere, Julius Scaeva, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Neh diis lus'a, lus diis'a'
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Hic labor est





 

Una delle poche cose che Julius aveva conservato dal suo soggiorno ad Elai erano stati i libri. 
Nei mesi prima del suo rientro, mentre organizzava il viaggio verso Godsgrave e dava ordini alla servitù, a tutti gli effetti padrone della villa, aveva passato molte ore nella biblioteca della zia, incuriosito dalla moltitudine di volumi che essa racchiudeva. Anche se non vi aveva trovato le risposte che cercava in merito alla sua natura di tenebris -risposte che aveva smesso di cercare non appena aveva realizzato di stare solo perdendo tempo- si era reso conto che se avesse voluto riempire le lacune della sua educazione quello sarebbe stato un ottimo punto di partenza. Non aveva molte speranze, d’altronde, di rimettere le mani su quanto aveva lasciato nella sua vecchia casa alle Costole.
Il catalogo e la successiva cernita avevano richiesto molti cambi, perché la maggior parte dei testi presenti si era rivelata essere raccolte sacre che Julius non aveva nessuna intenzione di leggere, e che solo la preziosa rilegatura e le miniature colorate gli avevano impedito di bruciare per partito preso; aveva bisogno di tutto il denaro che fosse riuscito a trovare e distruggere parte del suo patrimonio non sarebbe stata una mossa oculata. In mezzo alle preghiere e alle leggende, però, era anche riuscito a trovare qualcosa che valeva la pena di essere approfondito.
Non si sarebbe mai aspettato di trovare un manuale di arkemia tra quegli scaffali, appartenuto più probabilmente al suo defunto zio piuttosto che alla moglie, ma lo aveva sfogliato con interesse crescente, sia quando ancora in territorio liisiano che una volta tornato a ‘Grave, nelle lunghe illuminotti che erano seguite alla scarcerazione di suo padre dalla Pietra. Con il trascorrere dei mesi vi aveva scoperto un passatempo con cui baloccarsi nelle ore di noia, di certo più stimolante delle agiografie dei santi di cui Hëloise era stata un’avida lettrice, e aveva in fretta ricercato più materiale sull’argomento. Ad otto anni di distanza, poteva dire di avere acquisito una buona preparazione sui fondamenti della materia1.
O almeno, ciò era vero in teoria.
In pratica, la poltiglia violastra che si era condensata sul fondo della ciotola di rame davanti a lui era molto distante dal risultato sperato. 
… Credo che tu abbia sbagliato qualche passaggio…” Sussurro, arrotolato sulla scrivania a poca distanza dal suo gomito, squadrò il risultato dell’esperimento con malcelato scetticismo: “… Anche più di uno, in realtà…
“Sei il benvenuto a prendere il mio posto,” Julius gli scoccò un’occhiataccia “dato che sembri saperne più di me in proposito. Mi piacerebbe vederti provare”
… Non c’è bisogno che tu te la prenda…” l’ombravipera scosse la testa “… E non sto mettendo in dubbio la tua esperienza, quanto piuttosto il tuo stato d’animo…
“In che senso?”
… Sei nervoso…
“Beh, direi che ho tutti i motivi per esserlo, considerando la mia situazione,” si alzò di scatto, allontanando il recipiente da sé con entrambe le mani. La ciotola ruotò su se stessa e una punta del liquido al suo interno schizzò sul tavolo a meno di un pollice da Sussurro, colpendo la superficie di legno con un tonfo poco promettente. L’ombravipera si scostò di lato, emettendo un sibilo di protesta.
… Allora non dovresti indulgere in un’attività che richiede calma…
Julius gli rivolse un’occhiata furente, i lineamenti del volto induriti e le iridi, se possibile, ancora più scure: “Stai per caso cercando di dirmi quello che posso o non posso fare?”
Un silenzio pesante calò sulla stanza e nessuno parlò per lunghi, lunghissimi secondi.
Infine, Julius distolse lo sguardo e scosse la testa: “Hai ragione, non riesco a concentrarmi,” strinse le labbra e posò una mano sulla finestra, sentendo il freddo che gli pizzicava la pelle attraverso il vetro: “Sono passati quattro cambi da quando ho saputo di Corinna e tre dal mio incontro con Severo e non ho idea di cosa…” Sospirò, rinunciando a terminare la frase.
Aveva trascorso l’ultima illuminotte a camminare avanti e indietro per la sua camera da letto senza chiudere occhio, riflettendo sulle possibili scelte che ancora gli si presentavano, e le conclusioni a cui era arrivato erano a dir poco sconfortanti.
Gli sembrava di stare scalando una parete di necrosso perfettamente levigata con nulla più di un piccolo scalpello da scultore. Non dubitava che sarebbe arrivato in cima -in un modo o nell’altro, si sarebbe aperto una strada anche a costo di intagliarla con le sue stesse unghie-, ma l’idea di spendere anni ed anni a rincorrere le cariche minori della Repubblica2, vedendosi superato da individui più giovani e di certo meno capaci, lo nauseava.
Non aveva fatto ciò che aveva fatto, da ragazzino, solo per rimanere all’ombra di suo padre.
Sentì un brivido lungo la schiena e dopo qualche istante Sussurro si posizionò attorno alle sue spalle, i non-occhi ben fissi nei suoi: “… Troverai una soluzione, come hai sempre fatto in questi anni. D’altronde…” l’ombravipera inclinò il capo “… ti sei districato da situazioni molto peggiori di questa…
Julius annuì e fece per replicare, quando sentì uno sfrigolio sospetto alla sua destra. Si voltò di scatto e ciò che vide riuscì, anche solo per un attimo, a dissipare le sue preoccupazioni, per sostituirle con altre più impellenti.
Il grumo viola che era uscito dalla ciotola era ancora sulla scrivania e sembrava star lentamente corrodendo il legno del mobile. Il foro si allargava a vista d’occhio e un simile fenomeno doveva starsi verificando anche in profondità.
Julius non aveva idea di cosa sarebbe successo se quella sostanza non identificata avesse raggiunto il pavimento -anch’esso di legno- e non aveva intenzione di scoprirlo.
Si diresse in fretta verso la porta, Sussurro che già scivolava dentro la sua ombra, fondendosi con essa e scurendola, e sporse la testa oltre l’uscio: “Magistra!”
Un suono di passi leggeri e veloci sul parquet si mescolò alla replica che giunse, sollecita: “Mi domine? Avete bisogno?”
“Ci dovrebbe essere dell’acqua sul fuoco, in cucina. Portamela.”
“Immediatamente”
Ella assolse al suo compito quanto più in fretta possibile e rimase a guardare, mentre Julius versava nel recipiente tre abbondanti manciate di sale e due gocce di succo di giglio e tamponava la scrivania con uno strofinaccio imbevuto del liquido. Con un sospiro di sollievo, la poltiglia violastra si dissolse in una nuvola di vapore.
“Avete bisogno di altro, mi domine?”
Lui scosse la testa, lanciandole un’occhiata di sottecchi. Odile era rimasta sull’uscio, mani intrecciate in grembo e le sue iridi marroni che lo guardavano in attesa del prossimo ordine. Era la prima domestica che avesse assunto, quando aveva deciso che era tempo di iniziare a ricostruire la reputazione della sua familia, e in quei quattro anni in cui l’aveva avuta con sé aveva imparato a riconoscerne l’efficienza e la discrezione. Malgrado fosse sulla soglia dei cinquanta ormai -o almeno, così gli era parso di capire dalle poche allusioni che ella faceva alla sua vita-, nulla nel suo atteggiamento aveva rivelato disprezzo o scetticismo, nei primi mesi di servizio, né aveva mai messo in dubbio i suoi ordini, malgrado all’epoca egli avesse avuto non più di sedici anni. Era un atteggiamento che aveva apprezzato all’epoca e continuava ad apprezzare.
Stava iniziando a considerare seriamente la possibilità di sciogliere i vincoli di servitù prima del tempo ed offrirle un posto retribuito, da donna libera. La riconoscenza in casi come quello avrebbe potuto servirlo meglio di un obbligo che non lasciava altra scelta tranne che ubbidire.
Questo, ovviamente, se fosse diventato sufficientemente benestante da poterselo permettere.
“No, non c’è altro,” disse, congedandola con una mano “puoi andare”
La donna abbassò lo sguardo e si apprestò a prendere congedo, quando si sentirono uno, due, tre colpi decisi al portone d’ingresso.
“Aspettavate visite, mi domine?”
Julius aggrottò la fronte: “No. Va’ a verificare chi sia, ti prego.” 
Sperava con tutto il cuore che fosse un fastidio di poco conto, liquidabile con un sorriso di cortesia e qualche parola veloce: non era affatto dell’umore adatto per perdersi in chiacchiere con chicchessia. Sentì perciò lo stomaco arrotolarsi su se stesso quando la voce di Quintus risuonò per il corridoio, seguita da quella, più pacata, di Odile.
Aveva provato troppe volte a liberarsi della sua presenza per sapere che non se ne sarebbe andato prima di avere ottenuto ciò che voleva -che, nella maggior parte dei casi, si traduceva in pratica in una distrazione dalla noia. La sostanza della distrazione assumeva varie forme, a seconda dell’umore di entrambi.
“Buon cambio Julius,” Il giovane superò la magistra e posò entrambe le mani sulle sue spalle, un largo sorriso che gli spaccava le labbra: “allora, come va?”
Una rapida ispezione al suo aspetto, -dagli occhi lucidi alla cadenza strasciata con cui aveva pronunciato il suo nome- fu sufficiente a Julius per capire che l’altro era più ubriaco che sobrio. Non che fosse inusuale, conoscendolo: Quintus era spesso invitato in case altrui e approfittava dell’ospitalità concessagli senza farsi pregare, intrattenendo i commensali con storie e pettegolezzi e pretendendo di essere intrattenuto alla medesima maniera.
Il fatto che fosse venuto da lui, però, significava che aveva qualche notizia particolarmente curiosa da condividere. Cacciarlo sarebbe stato controproducente e anche inutile, perché con tutta probabilità non avrebbe voluto sentire ragioni. Sperò solo che la notizia in questione non si traducesse in un pettegolezzo di poca importanza e nessun interesse per lui.
“Potrebbe andare meglio,” rispose, posandogli a sua volta una mano sulla spalla ed invitandolo ad entrare nello studio. Poi, si rivolse ad Odile: “Di’ a Marcus di portarci una bottiglia di rosso e due calici.”
Quintus cercò di mostrare il proprio dissenso verso quell’ultima parte della frase, argomentando di avere già bevuto troppo per quel cambio, ma Julius zittì le sue proteste con un cenno del capo: lo conosceva abbastanza bene da sapere che, per quanto avesse voglia di commentare quanto avvenuto, l’alcool gli avrebbe sciolto la lingua quanto bastava per farsi raccontare tutto senza remore. E, considerato l’umore nero che l’aveva accompagnato per tutta la mattina, prima fossero giunti al punto meglio sarebbe stato.
Il suo compagno si lasciò cadere sul divanetto con un sospiro soddisfatto e socchiuse gli occhi, assaporando la luce del sole che filtrava dalla finestra. Julius, invece, si sedette alla scrivania, badando di non toccare il recipiente di rame ancora contenente i resti dell’esperimento fallito, e attese il momento giusto per iniziare a fare domande. Perché Quintus si aspettava delle domande, ovviamente.
“Allora,” disse infine, quando gli sembrò che fosse passato un intervallo di silenzio sufficientemente lungo “di chi sei stato ospite quest’oggi?”
Quintus appoggiò un gomito sul bracciolo del divano ed appoggiò il mento sul palmo della mano: “Il padre della mia promessa ed io abbiamo avuto una lunga discussione riguardo i dettagli del matrimonio”
“La dote?”
“No. O almeno, la discussione è partita da lì, ma si è spostata verso lidi decisamente più piacevoli poi”
“Di che tipo?”
“Beh,” il giovane accavallò le gambe e si appoggiò contro lo schienale “io ho fatto notare al vecchio che organizzare la cerimonia nel bel mezzo di freddoinverno sarebbe stato di gran lunga più costoso che a ridosso della veraluce -vestiti pesanti, bracieri sempre accesi… sai benissimo come funziona-, quindi gli ho proposto di spostarla di qualche mese”
“Spendere denaro per una festività non mi ha mai spaventato, mi pare,”
Quintus ridacchiò, scuotendo la testa: “Diciamo che la mia richiesta era più… interessata di quanto io l’abbia fatta sembrare”
In quel momento, la porta si aprì e Marcus entrò nello studio, reggendo in una mano un vassoio con una caraffa di vino e due calici. Julius gli fece segno di appoggiarlo sulla scrivania e lo congedò subito dopo, versando poi il liquido in entrambi i bicchieri e porgendo quello più pieno a Quintus.
“Temo che non possa reggere il confronto con quello a cui sei abituato, in fatto di qualità e prezzo,” disse, osservandolo mentre beveva: “Ma dovrebbe essere comunque di tuo gradimento”
L’altro vuotò il calice in pochi sorsi ed annuì: “Il buon gusto non è qualcosa che si compra con i soldi, purtroppo. È un po’ come il sangue: o ce l’hai o non ce l’hai. Fin troppi midollani di questi tempi non sono altro che arricchiti alla disperata ricerca di un modo per legarsi alle dodici familiae più antiche. Farebbero praticamente qualsiasi cosa. Insomma, guarda i Remus”
Quell’ultima frase attirò l’attenzione di Julius: “Che intendi?”
“Comunque sia,” riprese l’altro, ignorando la domanda ed alzandosi per riempirsi il bicchiere una seconda volta “il padre di Calpurnia ha una certa fama di oculato risparmiatore, quindi una volta considerata attentamente la mia proposta ha convenuto con me che si trattava della soluzione migliore. Certo, questo ha richiesto che si apportasse qualche cambiamento al tutto.”
Fece una pausa, sorseggiando il proprio vino e lasciando intendere al proprio interlocutore che quello era il momento giusto per fare altre domande. Julius avrebbe di gran lunga preferito chiedere informazioni riguardo al padre di Liviana -con cui anche Severo sembrava avere contatti-, ma sapeva che Quintus non avrebbe gradito che la loro conversazione si distaccasse dall’argomento che gli premeva, prima che esso non fosse stato sviscerato a fondo. E lo conosceva abbastanza da sapere che il suo umore poteva cambiare tanto rapidamente quanto l’arredamento della sua camera da letto. Così, con un sospiro, decise di assecondarlo.
“Che cambiamenti?”
“Oh, nulla di importante.” Il sorriso luminoso che si fece strada sul suo viso, mentre terminava il secondo bicchiere e si apprestava a berne un terzo, contraddiceva largamente quella sua affermazione. “Solo che, vedi, per un’occasione così importante è bene che sia presente l’intera familia sia dello sposo che della sposa e Calpurnia tiene molto a questa cosa, ha detto più di una volta di non voler nessun matrimonio se non a queste condizioni. Come sai, Gaius doveva unirsi alla sua legione di Luminatii di qui a poche settimane…”
“… ma immagino che non voglia causare un dispiacere alla sorella”
Il suo interlocutore gli scoccò un’occhiata complice: “Ha dovuto rimandare la sua partenza di un anno intero. Credo di avere abbastanza tempo per convincerlo a rinunciarvi del tutto”
Julius bevve un sorso dal suo calice, ancora mezzo pieno “Ti piace davvero allora. Non gli dedicheresti tante attenzioni, altrimenti.” Quintus era tanto costante nella sua ricerca di artefatti pregiati quanto era incostante nelle sue infatuazioni.
“Ha un bel viso e non è affatto stupido: è più di quanto potrei dire della maggior parte delle mie conoscenze,” strinse le labbra “forse un po’ troppo con la testa tra le nuvole, ma a quello c’è rimedio. Con un po’ d’impegno, potrei convincerlo a darsi alla politica invece che alle campagne militari”
“Sei certo di riuscire a convincerlo?”
“E perché non dovrei? Non appena inizio a parlare pende dalle mie labbra”
Julius pensò che potesse avere senso, in effetti. Quintus aveva quasi ventiquattro anni e, a dispetto degli stravizi in cui spesso indulgeva, aveva un aspetto avvenente e una personalità che catturava l’attenzione: era il tipo di personaggio da cui era facile lasciarsi ammaliare, se si mancava di autostima.
“Ha diciannove anni, quindi gli mancano ancora un paio di verobui prima di potersi candidare come quaestor, ma con i giusti appoggi potrebbe avere delle buone possibilità quando sarà il momento”
“Giusti appoggi,” replicò Julius, articolando quelle parole come se fossero intrise di dalia rossa “che tu intendi procurargli, immagino”
Quintus si servì del vino per una quarta volta ed alzò le spalle nel rispondere, la bocca impastata e gli occhi socchiusi: “Potrei. Sono, cioè, sarò pur sempre il marito di sua sorella. Mi sembra un favore sensato da fare”
Julius avvertì l’ombra agitarsi sotto i suoi piedi e strinse i pugni, ricacciando indietro la rabbia che, dopo un breve intervallo, era tornata a mordergli lo stomaco. Come era ovvio che fosse, il suo ospite non avrebbe avuto problemi ad aiutare Gaius perché lo considerava un buon investimento e perché i suoi parenti avevano una posizione abbastanza alta nella scala sociale da non rendere il suo supporto sospetto o sconveniente. Nessuna delle due motivazioni poteva valere, invece, nel suo caso.
Si morse il labbro inferiore, cercando di non pensarci.
“Detto questo,” Quintus si passò una mano sulla bocca ed inarcò il collo all’indietro, socchiudendo gli occhi “i miei genitori sembrano felicissimi della nostra unione.”
“Ti riferisci a Calpurnia o a suo fratello?”
L’altro scoppiò a ridere: “A lei, purtroppo. Sono sollevati soprattutto dal fatto che non finirò per associarmi a una di quelle familiae arricchite da poco che darebbero qualsiasi cosa per ritagliarsi il loro angolino nell’alta società”
Julius colse l’occasione al volo: “Intendi come i Remus?”
Quintus girò la testa su un lato, appoggiando la guancia allo schienale del divano ed aggrottò la fronte: “Dove… dove l’hai sentito tu questo?”
Sembrava che il vino avesse finalmente fatto effetto e che si fosse dimenticato dell’allusione fatta poco prima. Julius gli lanciò un’occhiata critica e lo giudicò abbastanza ubriaco da poter arrischiare qualche domanda più precisa.
“Oh, ne parlano un po’ tutti in giro, non è un gran segreto,” gli disse, riempiendogli il calice una quinta volta.
“Ah sì?” il suo ospite bevve ed inspirò profondamente “Credevo che volessero tenerlo segreto, fino a che non avessero ufficializzato la cosa. Sia loro che Severo…”
Julius finse indifferenza, anche se il nome di Severo aveva ravvivato ancor di più la sua attenzione: “Magari è stato un servitore che ha chiacchierato un po’ troppo. Sai come vanno le cose, quando si prendono in casa le persone sbagliate,” e, vedendo che Quintus annuiva, aggiunse “tu, invece, da chi l’hai saputo?”
“È stata mia zia,” ridacchiò “è incredibile: non esce quasi mai di casa, ma sa sempre tutto di tutti. A volte mi domando se non sia una maestra arkemista e ci spii dalla sua camera da letto.” Fece schioccare la lingua “Mi ha anche detto che lei, suo marito e sua figlia verranno invitati al matrimonio, molto probabilmente, e che non ha nessuna voglia di andare. Insomma, lei e la moglie di Severo sono amiche da anni, ma passare l’intero cambio con Labienus Remus? Una tortura. Al suo posto io non…” 
Julius smise di ascoltare, mentre metteva rapidamente in ordine le informazioni appena ricevute.
Si sarebbe celebrato un matrimonio tra due componenti delle familiae Remus e Severo.
Clodius era l’unico figlio di Severo abbastanza adulto da potersi sposare e ripensando all’incontro con Liviana, una settimana prima, escluse che la prescelta fosse la secondogenita: i genitori non l’avrebbero mai vagare per la città da sola, senza protezione, se fosse stata in procinto di ufficializzare un’unione di quella portata. E di certo non l’avrebbero ignorata, come invece le parole che Liviana gli aveva rivolto durante il loro breve incontro lasciavano intendere. Il che implicava, che la scelta fosse ricaduta sulla sorella maggiore, Tullia, che Julius non aveva mai incontrato.
Tamburellò con le dita sul legno della scrivania, mentre gli angoli della bocca gli si sollevarono nell’accenno di un sorriso. Forse quella chiacchierata gli era servita a qualcosa, dopotutto.
Quintus si stava assopendo sul divano e non aveva intenzione di lasciarlo lì per ore, in attesa che si riprendesse dalla sbornia. Per quanto avesse bevuto, lo aveva visto camminare dopo aver finito intere bottiglie di aureovino ed era confidente che sarebbe riuscito a trovare la strada di casa in ogni caso. Se lo avesse lasciato solo e fosse uscito, nulla gli avrebbe impedito di curiosare tra i suoi possedimenti e non aveva intenzione di perdere delle ore a causa sua.
Si alzò dalla sedia e si mise davanti all’altro scuotendolo energicamente per la spalla.
“Credo che sia ora che tu ritorni all’ovile.”
L’altro emise un brontolio molto simile ad un grugnito: “Non sono un animale”
“No,” gli diede ragione “ma faresti la stessa fine di una pecora ad un banchetto se tuo padre non ti ritrovasse a casa al suo ritorno dal Senato.” Non aggiunse altro, lasciando che il suo interlocutore elaborasse le parole appena ascoltate, ma confidente che gli avrebbe dato retta: una delle migliori qualità di Quintus era che, oltre un certo stadio di ubriachezza, diventava molto più accondiscendente ai suggerimenti altrui.
Come da programma, Quintus sbadigliò: “E io che speravo di passare il cambio lontano da lui. Ma mi sa che hai ragione, sarà meglio che vada” Si aggrappò a lui per tirarsi in piedi e rimase immobile in quella posizione per una manciata di secondi, fronte contro la sua guancia e braccio attorno alle spalle, prima di riuscire a fare uno, due passi incerti verso il portone d’ingresso. 
Julius temette che il compagno non riuscisse a varcarlo, accasciandosi mezzo addormentato contro la parete, e tirò un sospiro di sollievo quando lo sentì accomiatarsi, biascicando parole incoerenti di cui non si preoccupò di ricercare il significato.
Quando nella casa tornò il silenzio, tornò nello studio e vuotò il calice appoggiato, ancora mezzo pieno, sul bordo della scrivania. Preferiva decisamente i vini rossi ai bianchi -ad unica eccezione forse dell’aureovino- e ancora ricordava i pochi sorsi di uno in particolare che Atticus gli aveva fatto assaggiare, durante l’ultimo verobuio che avevano passato insieme -lui, suo padre e la moglie. Prima del suo soggiorno ad Elai. Non ne conosceva il nome, ma gli sarebbe piaciuto assaporarlo di nuovo, in memoria dei vecchi tempi.
Scosse la testa, allontanando quelle riflessioni: non era il momento di essere sentimentali.
… Mi sembra di capire che ci siano stati degli sviluppi interessanti…
“Direi di sì,” annuì e si passò una mano tra i capelli, lo sguardo fisso sul legno del mobile davanti a lui. Ragionando e calcolando. Infine, si diresse verso l’ingresso: “Magistra?”
Odile fece capolino dalla stanza attigua, i lunghi capelli neri raccolti in uno stretto chignon sul capo: “Cosa posso fare per voi, mi domine?”
“Ci dovrebbe essere un ombrello, nel ripostiglio in fondo a sinistra. Credo che ne varò bisogno a breve”
Un’ombra di confusione cadde sullo sguardo della donna, la cui voce al contrario mantenne la medesima inflessione atona: “Credete che pioverà?”
Julius lanciò un’occhiata al cielo terso e limpido, su cui dominava l’occhio rosso del Semprevigile, e sorrise: no, non credeva che avrebbe piovuto, ma l’utilizzo che aveva in mente per quell’oggetto era molto diverso dal ripararsi da acqua e vento. Era, a dire la verità, molto più interessante.



❊❊❊

 

C’era una piazzetta, subito dietro agli appartamenti consolari della prima Costola, che la maggior parte degli abitanti della città non aveva mai degnato di un’occhiata e di cui ancora meno sapevano l’esistenza. Era ritagliata nello spazio tra gli edifici circostanti, nata più dal caso che per un’attenta pianificazione urbana, e pertanto aveva una forma irregolare, un poligono senza nome creato da angoli convessi e concavi che si sommavano l’uno sull’altro senza una chiara direzione. Anche il selciato era diverso da quello delle altre piazze di Godsgrave, composto non da mosaici multicolore ma da semplici tasselli di arenaria grigia dalle forme irregolari, incastrati uno a fianco all’altro nella terra marrone. Sembrava, insomma, che non fosse stata la consapevole mano di un uomo a crearla e modellarla, quanto piuttosto la città stessa.

Julius ne aveva scoperto l’esistenza durante un’illuminotte in cui il sonno tardava ad arrivare. Dopo i mesi passati ad Elai, non era mai riuscito a dormire per più di cinque, massimo sei ore per cambio e questo gli aveva fatto prendere l’abitudine di fare lunghe passeggiate per le vie deserte, il vento che gli scompigliava i riccioli e i propri passi come unico suono a spezzare il silenzio. Era stato in uno di questi vagabondaggi, in cui solo Sussurro gli faceva compagnia, che si era imbattuto in quell’angolo solitario, così vicino al centro del potere della Repubblica e al contempo dimenticato, rilegato nell’ombra, ed era rimasto a lungo in piedi al suo limitare, immerso nei propri pensieri. Non vi era tornato in seguito -una serie di associazioni gli avevano reso quel posto sgradito-, ma aveva continuato ad accarezzarne il ricordo con la mente, di tanto in tanto.
Credeva che nessun altro di sua conoscenza vi trascorresse del tempo -era un ambiente troppo anonimo le dominae e noiosamente spoglio per i senatori-, ma fu una piacevole sorpresa scoprire che si sbagliava.
Liviana era seduta su una scanalatura della pietra ed era intenta a disegnare i tetti che si intravedevano in lontananza, una gamba leggermente piegata all’indietro per mantenere in equilibrio il blocchetto di fogli, i capelli raccolti in una treccia morbida e le labbra dischiuse, che intonavano una melodia leggera, subito persa nell’aria. Non si accorse di Julius fino a che la sua ombra non oscurò la luce di Saan.
La canzone le morì sulle labbra, che invece si piegarono in un leggero sorriso.
“Non mi aspettavo che qualcun altro conoscesse questo posto,” disse lei, riponendo le carte e il carboncino in una sacca di pelle ai suoi piedi “in tanti mesi che ci sono venuta, l’unico rumore che ho mai sentito è stato quello dei gabbiani”
“Gabbiani?” chiese Julius, spostando lo sguardo da lei al cielo “eppure non siamo nei pressi del porto”
Liviana si alzò e mosse qualche passo verso il limitare sinistro dello spiazzo: “Credo che abbiano fatto un nido da qualche parte qui intorno. Ovviamente, adesso che è freddoinverno è vuoto ma in primavera il loro canto fa da ottimo sottofondo per un pomeriggio tranquillo. Non sono molti i posti dove si possa apprezzare il silenzio, in questa città”
Julius le rispose con un cenno del capo e un sorriso sottile: “Avete ragione, e mi scuso per avere, con il mio arrivo, interrotto la vostra concentrazione. Se preferite continuare ciò che stavate facendo, invece che rivolgermi la parola, prometto di non disturbarvi oltre”
“Non potrei comunque,” Liviana scosse il capo e si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio “ho bisogno di essere completamente sola quando disegno, altrimenti il risultato non è soddisfacente. O almeno, non è soddisfacente per me. Questo è uno dei pochi posti in cui sono sempre sicura di non trovare nessuno” Pausa “Beh, lo ero”
Julius inarcò un sopracciglio e fece un passo indietro: “Mi rincresce, mea domina, non volevo essere importuno,” fece un cenno verso la direzione da cui era venuto “se bisognate che io me ne vada allora…”
“Oh no, vi prego,” disse lei, “la mia intenzione era di complimentare questo posto, non di muovervi un rimprovero. Né sarei nella posizione di farlo, se lo volessi: non è nelle mie facoltà di impedire ad un cittadino della Repubblica di camminare sul suo territorio”
“Ma è nelle facoltà di un cittadino della Repubblica di rispettare il desiderio di solitudine di un altro cittadino, se quest’ultimo lo esprime senza mezzi termini”
Liviana chinò la testa: “Ed è nelle facoltà di questo ipotetico cittadino anche di fare il contrario, se una terza persona lo richiede in modo esplicito?”
Il sorriso di Julius si allargò: “Immagino che lo sia.”
Rimasero in silenzio per un po’ e Julius, mani intrecciate dietro la schiena e schiena dritta, notò con piacere che la sua interlocutrice gli lanciava delle occhiate in tralice di tanto in tanto, che lui fu ben attento a non reciprocare.
Era davvero stata una coincidenza curiosa -la parola ‘destino’ sarebbe stata forse più appropriata, se non avesse sempre rifiutato di credervi- che Liviana si fosse trovata proprio lì quel pomeriggio, stando alle notizie che Sussurro gli aveva riportato dopo una lunga perlustrazione. E l’occasione gli era sembrata davvero troppo bella per non coglierla al volo. 
Meglio fingere che il caso li avesse fatti incontrare una seconda volta, che esternare subito un interesse apparentemente immotivato.
Aspettò ancora qualche minuto ed infine, vedendo che Liviana non accennava a parlare ancora, decise di prendere lui l’iniziativa: “Spero di non essere indiscreto -e nel caso, avete tutto il diritto di rimproverarmi per questo-, ma posso chiedervi quali soggetti stavate ritraendo?”
La ragazza socchiuse le labbra, sorpresa, e un vago rossore le imporporò le guance: “Cose… cose molto semplici, in verità. Alberi, uccelli, strade, nulla di speciale,” Julius non distolse lo sguardo, modellano il proprio volto per porre una domanda silenziosa. Liviana parve comprendere perché chiese, una punta di esitazione nella voce: “Volete vederli?”
“Ne sarei onorato”
Ella si affrettò a prendere la borsa e a tirarne fuori il plico di fogli, per poi tenderli a Julius, che li prese tra le mani con ostentata delicatezza. Come ella aveva effettivamente detto, i soggetti ritratti erano banali: un rampicante sul muro, una casa con le finestre aperte, un gatto disteso al sole. La mano non era quella di un’artista professionista -a dispetto della sua poca disponibilità economica, Julius poteva dire di essersi documentato sufficientemente su opere ed artefatti per poter avere un’opinione a riguardo-, ma neanche di un principiante alle prime armi. Buona abbastanza per ricevere sinceri complimenti di ammirazione da amici e conoscenti e rimanere al contempo ignorata dagli estranei. Troppo precisa per essere definita mediocre, troppo poco originale per lasciare un segno nella mente dell’osservatore.
“È solo un passatempo,” si affrettò a spiegare lei, vedendo che Julius osservava i disegni senza dire una parola ed interpretando quel silenzio come un giudizio critico nei suoi riguardi “nulla a cui io mi sia mai dedicata seriamente. Ho imparato tutto quello che so dai libri”
“Autodidatta, quindi?”
Liviana annuì.
“Sono di certo l’ultima persona in Itreya a poter giudicare,” commentò lui, dopo un silenzio che reputò lungo a sufficienza “le mie abilità con il pennello sono tutto tranne che impressionanti, ma avete un’ottima mano e un’attenzione particolare per i dettagli. Ovviamente,” aggiunse subito, per schermirsi “un pittore esperto potrebbe spingervi a migliorare più delle mie lodi”
“Oh, non ho mai avuto intenzione di trasformare questo mio passatempo in un’attività seria,” Liviana riprese i fogli dalle mani di Julius e li infilò nuovamente in borsa, badando che non si danneggiassero “mi serve per distrarmi e rilassarmi quando sono preoccupata. Libera la mente e non fa pensare al mondo esterno"
Julius le rivolse un’occhiata di velata curiosità: “E c’è qualcosa che vi turba anche in questo momento, mea domina?”
Liviana sospirò, distogliendo lo sguardo dal suo interlocutore e spostandolo verso l’alto, nel punto in cui, a sua detta, i gabbiani erano soliti fare il nido. Le sue mani si spostavano lungo la tracolla di pelle della borsa, stringendola ed arrotolandola come se fosse un serpente in attesa di mordere la sua preda. I lineamenti del viso, dolci fino a quel momento, sembrarono indurirsi appena e Julius ebbe l’impressione, anche se non avrebbe potuto dirlo con certezza, che ella fosse dibattuta se rispondergli o meno. Aveva effettivamente rischiato ponendole quella domanda -che molti avrebbero trovato indiscreta, soprattutto se posta ad un’estranea-, ma Liviana aveva dimostrato di apprezzare l’interesse che le aveva dedicato fino a quel momento e anche nella sua reticenza attuale non comparivano tracce di fastidio.
“Nulla di particolare,” disse infine lei, scuotendo il capo “pensieri, riflessioni, come capita spesso in questo periodo dell’anno. Con un solo occhio di Aa in cielo, è facile lasciarsi prendere dalla malinconia: i cambi sono freddi, c’è poca luce, le ombre sono lunghe… non è una bella stagione.”
“Sono d’accordo,” mentì Julius, “non sono mesi facili da sopportare, ma una lunga attesa rende più piacevole l’evento, quando infine si verifica. Non apprezzeremmo così tanto la veraluce, io credo, se non la ricercassimo ardentemente.” Pausa “Ed è un discorso che potrebbe valere in molteplici situazioni in realtà. Lacci molto stretti legano insieme desiderio e valore.” Lo sapeva molto bene lui, che aveva scoperto di amare la città in cui era nato e cresciuto solo quando aveva creduto di non poterla più rivedere. 
C’erano tante cose che la nobiltà itreyana dava per scontate, che chiamava ‘diritto’ quando la parola giusta sarebbe dovuta essere ‘privilegio’ e con cui si intratteneva come un bambino avrebbe potuto fare con un giocattolo nuovo.
Il vantaggio in tutto ciò, Julius pensava, era che raramente si è in grado di difende qualcosa che non si pensa di poter perdere.
La sua interlocutrice dischiuse le labbra per replicare, quando alle loro spalle giunse un rumore di passi frettolosi e la voce di una donna risuonò squillante nella piazzetta: “Liviana!”
Sia Julius che la diretta interessata si voltarono e ai loro occhi apparve una figura alta e robusta, capelli castani con sottili striature grigie che le ricadevano sulle spalle, che camminava nella loro direzione, una serva di non più di sedici anni che le correva a fianco, nel disperato tentativo di stare al passo.
“Ti ho cercato per più di un’ora: iniziavo a preoccuparmi”
Liviana abbassò lo sguardo ed incurvò le spalle: “Mi dispiace, magistra, non era mia intenzione causarvi apprensione. Anche se,” aggiunse, una traccia di polemica nel tono “sono mesi che vengo qui a disegnare e non ne ho mai fatto mistero”
L’altra ignorò l’ultima parte della frase e le mise una mano sull’avambraccio, spingendola in avanti: “L’importante è averti trovata. Tua madre mi ha mandato a cercarti quasi un’ora fa e sono sicura che sarà già su tutte le furie per il ritardo”
La giovane sembrò sorpresa da quelle parole: “Mia madre necessita della mia presenza?”
“Tua sorella, in realtà. Ci sono dei problemi con il ves…” La donna si interruppe e spostò lo sguardo alla sua destra, finalmente accorgendosi della presenza di Julius: “Perdonatemi l’impudenza, mi domine, ma voi chi siete?”
Non conosce il mio nome o la mia identità, il che significa che non sono nessuno a cui deve portare necessariamente rispetto. Domanda scuse che sa già di non essere costretta a porgere, rifletté Julius, scacciando il fastidio e rispondendo con cenno del capo e un mite sorriso sulle labbra: “Nessuno di importante, mi domina. Un estraneo che si è trovato qui per caso e che non aveva alcuna intenzione di risultare importuno,” accennò un inchino, iniziando a prendere congedo “vi auguro un buon cambio: che il Semprevigile possa sempre benedirvi con la sua radianza.”
La magistra lo squadrò con diffidenza: “Lo stesso per voi, mi domine,” e poi, rivolta a Liviana “avanti, non è davvero il caso di far aspettare tua sorella e tua madre.”
La sua interlocutrice non si oppose, né replicò in alcun modo e le andò dietro, mentre la serva -rimasta in disparte fino a quel momento- le prendeva di mano la tracolla e le sistemava i capelli.
Appena prima di svoltare l’angolo, però, ella si guardò alle spalle, non vista da nessuna delle due accompagnatrici, e rivolse un flebile sorriso in direzione di Julius.
Questi lo ricambiò, sentendosi genuinamente soddisfatto.
Aveva fatto un passo avanti.
Minuscolo ed insignificante, questo era vero.
Ma pur sempre un passo avanti.



❊❊❊

 

La voce di sua madre travolse Liviana ancora prima di poter mettere piede nel salotto di casa.
“Finalmente sei arrivata, è più di un’ora che ti ho mandato a chiamare!” Domina Remus non la guardò neanche quando ella comparve sull’uscio, troppo intenta ad esaminare tre pezzi di stoffa che a Liviana parvero tutti del medesimo colore, ma che -a giudicare dall’attenzione che la donna stava riservando loro- dovevano differire per qualche oscuro ed importantissimo dettaglio.
“Mi scuso, madre,” disse lei, spostando lo sguardo verso il basso “avevo lasciato detto che avrei passato il pomeriggio a disegnare come di mio solito. Non sapevo che la mia presenza fosse richiesta”
“Beh, lo era. Lo è ancora, in realtà,” la donna si voltò infine nella sua direzione, posandole tra le mani un vaporoso ammasso di stoffa bianca ed azzurra, sulla cui cima adagiò poi una collana di brillanti blu “la sarta non è potuta venire per aggiustare il vestito e tu sei l’unica ad aver accompagnato tua sorella quando se l’è provato la prima volta. Ricordi come piegarlo ed allacciarlo?”
Liviana avrebbe voluto replicare che non era poi così difficile, considerato che era una tunica in tutto e per tutto simile a quella di centinaia di ragazze che si sposavano ogni anno, ma conosceva sua madre abbastanza da saperla insensibile all’ironia. Anzi, nel suo attuale stato d’animo, qualsiasi risposta diversa da un assenso incondizionato sarebbe potuto sfociare in un alterco.
E non aveva la forza per litigare con lei, quel cambio.
“Ovviamente,” disse dunque, annuendo “Tullia è in camera sua?”
“Sì, ti sta aspettando.” E poi, dopo una breve pausa “Cerca di fare in fretta, tuo padre vuole vederla, quando tornerà dalla seduta in Senato.” Non aggiunse altro, voltandosi nuovamente e riprendendo la contemplazione di quelle che ad una seconda occhiata Liviana scoprì essere stoffe per il corredo nuziale. Ebbe la tentazione di dire alla madre che Tullia detestava il giallo canarino -non a caso da piccola i vestiti di tale colore erano sempre i primi a sporcarsi-, ma desistette: ci avrebbe pensato sua sorella stessa a far sentire le sue rimostranze non appena li avesse visti.
Lei era un semplice ambasciatore, e aveva come unico vantaggio nella presente situazione quello di non dover portare pena per i messaggi che recava appresso.
Si avviò a passo spedito, i tacchi delle scarpe che rimbombavano nel corridoio ricoperto di marmo, fermandosi solo un momento davanti all’altare del Semprevigile, posto esattamente a metà tra la sua stanza e quella della sorella. Aveva detto la verità, prima, quando si aveva manifestato la propria insofferenza nei confronti della stagione: poca luce ed il clima rigido le causavano sempre una melanconia radicata, che solo la comparsa del secondo occhio di Aa riusciva a dissipare. Mai si sentiva così grata come nei cambi che preludevano alla veraluce.
Spostò i vestiti su un solo braccio e con la mano libera distese tre dita, in un silenzioso segno di rispetto nei riguardi della divinità, poi proseguì oltre, verso la camera della sorella.
La porta era socchiusa, così bussò con il tacco della scarpa: al contrario del fratello o dei genitori, non credeva che Tullia si sarebbe offesa se avesse trovato dei graffi sul legno.
“Chi è?” la sua voce chiese da dietro la porta, con un tono irritato che fece distendere le labbra di Liviana in una smorfia divertita.
“Solo io per fortuna” 
“Oh, Liv, vieni pure dentro!” La ragazza aprì la porta e la prima cosa che notò fu sua sorella in veste da camera, mollemente distesa sul letto, che, non appena entrò, le rivolse un sorriso a trentasei denti. Sorriso che le morì sulle labbra non appena si accorse del carico che ella portava con sé.
“Madre vuole che ti provi l’abito,” disse lei, scaricando il fagotto di stoffa sulla sedia più vicina “e ha lasciato a me l’onore di vestirti”
L’altra alzò gli occhi al cielo ed emise un suono a metà tra il gemito ed il sospiro: “Sono cambi che questa storia va avanti. Le ho già detto che sto benissimo e che non c’è bisogno di altri ritocchi, ma non vuole sentire ragioni”
“E quando mai lo fa? Inoltre,” Liviana si lasciò cadere sul letto al suo fianco, i suoi capelli neri che andavano a mescolarsi a quelli altrettanto scuri della sorella “credo che sia padre a tenerci, più che lei.”
Qualcosa negli occhi di Tullia si oscurò: “Te lo ha detto lei?”
“All’incirca, ma non mi sorprende. Madre ha occhi solo per Marcus e il nostro vecchio stravede per te: ha senso che voglia che il grande cambio sia perfetto, quando arriverà”
“Sì, non sono sicura delle tue ultime affermazioni circa le preferenze dei nostri genitori, ma anche se fosse,” la sorella si girò sulla pancia, puntando i gomiti sul materasso “non mi sembra un buon motivo per tediarmi ogni secondo in questi mesi. Non ho più avuto un momento di libertà, da quando si sono messi d’accordo.”
“Di certo sei stata parecchio al centro dell’attenzione. Ero quasi sicura che Marcus si sarebbe ingelosito: tra pochissimo entrerà nella legione dei Luminatii e nessuno gli ha ancora fatto le congratulazioni in familia
Tullia non parve apprezzare la considerazione: “Beh, non è lui quello che verrà usato come lasciapassare per le Costole. Capisco che sia difficile per lui da accettare, ma la gloria potrebbe arrivare da un letto e delle lenzuola bagnate, invece che da una spada fiammeggiante.” Si alzò di scatto, occhi puntati sul vestito bianco e blu: “Avanti, prima iniziamo e prima finiamo”
Liviana accettò di buon grado l’interruzione della conversazione, i cui toni stavano cominciando a farsi tesi, e iniziò a dispiegare la tunica, per poi avvolgerla e drappeggiarla attorno ai fianchi e alle spalle della sorella. 
Per quanto lei si ostinasse a negarlo, Tullia era davvero la favorita di loro padre e lo era sempre stata, sin dalla prima infanzia. Il motivo diventava evidente non appena i due si trovavano nella medesima stanza, fianco a fianco: bassa di statura, corpo dalle forme rotonde e piene e una folta cascata di riccioli che le arrivavano ben oltre le spalle, Tullia sembrava la versione femminile del proprio genitore, da cui aveva ereditato anche una risata fragorosa e squillante e un carattere sopra le righe. Tutto il contrario del loro fratello, a cui Domina Remus aveva dedicato le sue attenzioni e premure per anni -ringraziando ripetutamente il Semprevigile per il figlio maschio che aveva temuto di poter mai concepire- e trasmesso, complice il legame di sangue e l’affetto, la sua altezza, i suoi occhi marrone scuro e una completa mancanza di senso dell’umorismo.
Liviana evitava di guardare in superficie riflettenti quando era in loro compagnia, ad un ricevimento o una cena. Sapeva di essere un’estranea ed era terrorizzata all’idea che anche gli estranei se ne accorgessero.
I suoi genitori lo avevano fatto ormai da molti anni, quando avevano realizzato che la loro secondogenita non sarebbe diventata un loro riflesso come i suoi fratelli. Né carne né pesce, da sua madre aveva preso il fisico secco e dal padre la bassa statura. Dall’uno l’amore per le feste e la vita mondana e dall’altra un carattere riservato che la faceva sentire a disagio in mezzo a folle di estranei. I coniugi Remus avevano preso nota della sua ambiguità -del suo essere al contempo tutto e niente- con un rispettoso silenzio che spesso sfociava nella rassegnazione.
Forse era per quello, rifletté, mentre finiva di aggiustare le spille sulle spalle di Tullia, che nessuno si era mai preoccupata di chiederla in sposa. Non che il pensiero di diventare moglie la elettrizzasse più di tanto, in realtà.
“Allora?” chiese alla sorella, allacciandole il collier al collo “Che te ne pare?”
Tullia fece una giravolta su se stessa, leggera sui piedi scalzi, e si guardò allo specchio: “È esattamente come me lo ricordavo,” e poi, storcendo le labbra, disse “Mi auguro solo che padre sarà abbastanza soddisfatto dal mio aspetto da dimenticare il conto che ancora deve saldare con la sarta. Quella donna somiglia ad una sanguisuga: ogni volta che le consegniamo una manciata di preti li afferra con tanta violenza da farmi credere che voglia mangiarseli” Il tono di voce recava una sfumatura infastidita, ma Liviana conosceva abbastanza bene sua sorella da sapere che era soddisfatta di quello che vedeva.
E ne aveva tutte le ragioni: era assolutamente stupenda.
“Magari vuole, ma non può,” le disse, prendendo dal tavolo della toeletta una spazzola e due pinze per capelli “credo che ormai le siano caduti la maggior parte dei denti”
“Potrebbe farsi fabbricare una dentiera d’argento, con tutto quello che l’abbiamo pagata”
Liviana pensò a quella donnina bassa e magra, la testa decorata da un unico ciuffo di capelli bianchi ed occhi così cisposi da apparire quasi cieca, e al suo possibile sorriso metallico e non poté fare a meno di ridere.
“A proposito di abiti,” la voce di Tullia si fece seria e il suo sguardo vagò dal letto alla finestra, “sai qualcosa dall’altra sartoria?”
Liviana sapeva che quella domanda sarebbe arrivata -era un rituale che si ripeteva da mesi, ormai, senza eccezione, e a cui aveva spesso cercato di sottrarsi, senza mai riuscirci- e per un attimo, un lungo, lunghissimo attimo, la possibilità di mentire le stuzzicò la punta della lingua, troppo invitante per venire ignorata. Ma poi i suoi occhi scuri incontrarono quelli più chiari della sorella, in cui più dell’abituale spavalderia colse un dubbio innominabile, e sentì la volontà venirle meno.
“Sì,” disse, in un bisbiglio indirizzato solo all’orecchio di lei “tra tre cambi, ha detto. Non vede l’ora di vederti”
Il viso di Tullia si illuminò a quelle parole e in quello slancio di gioia la abbracciò, per poi sollevarsi in punta di piedi e darle un bacio sulla guancia: “Grazie Liv,” le disse poi, nel medesimo tono sussurrato “Davvero, grazie. Non sai quanto io ti sia grata per quello che stai facendo”
Vedere sua sorella felice riuscì, malgrado tutto, a dissipare un po’ del suo umore nero: “Non dirlo neanche. Chiunque al mio posto farebbe la stessa cosa,” Era un’enorme bugia, lo sapevano entrambe, ma Liviana non si considerava il tipo da far pesare i favori a cui si prestava. Non quando si trattava della sua familia, almeno.
Prolungarono il silenzio ancora per qualche istante, riflettendo entrambe su quello che il messaggio appena recapitato lasciava preannunciare. Infine, Tullia si riscosse dai suoi sogni ad occhi aperti e si diresse verso la finestra, la voce nuovamente squillante: “E tu invece? Sono una pessima sorella: tu vieni qua per mettermi in ghingheri e io non ti faccio neanche qualche domanda. Come hai passato il cambio? Fatto qualcosa di interessante?”
Normalmente Liviana si sarebbe irritata a quelle parole, che sentiva più come una presa in giro che una reale dimostrazione di interesse -sua sorella sapeva, d’altronde, quanto blande fossero le sue giornate. In quel caso, però, la sua mente vagò indietro di qualche ora, al breve colloquio che aveva avuto con il giovane Scaeva -Julius? Non riusciva a ricordare con certezza il suo nome- e si sorprese a non volerne parlare, malgrado esso rappresentasse di certo una novità rispetto alla sua noiosa routine. 
Non che fosse accaduto nulla di strano, erano riusciti a scambiare a malapena due chiacchiere prima che la magistra arrivasse, però…
Scosse la testa.
“Ho disegnato al solito posto,” replicò perciò, stropicciandosi la gonna con le mani “nulla di particolare, ma se vuoi posso farti vedere” 
Si accorse solo in quel momento di avere ancora la tracolla con sé, ripresa dalla serva non appena rientrate alla villa, e ne slacciò le fibbie, vagamente orgogliosa di quello che era riuscita a tracciare sui fogli malgrado il poco tempo e le interruzioni.
In quel momento, però, qualcuno bussò alla porta: “Meae dominae, mi scuso enormemente per il disturbo, ma Dominus Labienus è rientrato e ha richiesto la vostra presenza in salotto il più in fretta possibile…”
“Arriviamo subito!” rispose Tullia, per poi rivolgersi alla sorella “Me li mostrerai dopo cena, ti spiace? Sai com’è nostro padre quando non ottiene subito quello che vuole…” E poi uscì in corridoio, senza lasciare alla sorella il tempo di replicare -né di commentare che quello era un altro tratto che lei e il genitore sembravano condividere. 
Liviana rimase ferma nella sua posizione per un tempo che le parve infinito, il plico di disegni ancora nelle sue mani.
Si chiese se la sua presenza fosse davvero richiesta, oppure se il servo avesse usato il plurale solo per non offenderla.
Non era sicura di voler conoscere la risposta.
Lacci molto stretti legano insieme desiderio e valore.
Allontanò dalla mente quella frase, insieme al volto della persona che l’aveva pronunciata, e con un sospiro si avviò al seguito della sorella.







[1] Per quanto riguardava i procedimenti permessi, ovviamente. La parte meno ben vista era un’altra faccenda ed avrebbe attirato la sua crescente attenzione solo negli anni a venire.
[2] Oltre alla questura, l’altra carica minore era l’edilità. Quattro
aediles venivano eletti ogni verobuio per condurre gli affari interni di Godsgrave, due di discendenza nobile e due plebea, attraverso i comitia tributa. L’unica differenza rispetto ai quaestores era che, essendo quella una carica che interessava solamente la capitale, solo i suoi residenti avevano la possibilità di prendere parte alla votazione. Diventare aedilis era considerato un passo importante -nonché obbligatorio- nella carriera di un qualsiasi senatore, perché permetteva al fortunato eletto di lavorare a stretto contatto con le alte cariche pubbliche, specialmente per la preservazione della sicurezza pubblica: un’ottima occasione, a detta di molti, per rafforzare conoscenze ed amicizie in vista del salto verso la pretura. 
Oltre che occuparsi dell’organizzazione dei giochi e delle feste annuali, gli aediles dovevano supervisionare la maggior parte dei progetti di pianificazione urbana, spesso presenziando alla costruzione in prima persona per monitorarne l’andamento: un’attività piacevole quando si trattava di abbellire un tempio con nuove statue e bassorilievi, un po’ meno se obbligava il malcapitato a scendere nei sotterranei della città per riparare le fognature.
Il denaro con cui venivano ricompensati, in ogni caso, bastava a lavare via sporcizia e sudore.

 
   
 
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