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Autore: SafeAndSound_    01/11/2020    1 recensioni
Dal testo:
"Tornai nell’area femminile e mi misi seduta sul letto a rigirarmi il cappello tra le mani: era nero e a punta, un classico. Dall’anno precedente Jareth e io lo avevamo portato ovunque, dunque era leggermente scolorito e un po’ ammaccato ai lati. Mai lo avevo osservato con tanta attenzione. Era solo uno stupido cappello, come avevo potuto renderlo così importante per me?"
[Questa storia partecipa al contest “Wr-Ink-Tober” indetto da fantaysytrash sul forum di EFP]
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Clarissa
 
 
 
 
 
 
 

Stavamo tornando dalla breve gita che l’Accademia organizzava ogni anno il primo giorno di ottobre, una giornata nei boschi che circondavano la nostra valle per riconnetterci con la natura dopo la fine delle vacanze. Noi eravamo seduti nell’ultima fila dell’autobus che ci era stato riservato, perché eravamo soliti partire col sole già levato e nessuno voleva correre il rischio che qualcuno vedesse qualche ragazzino inesperto del primo anno volare in pieno giorno; inoltre, solo quelli dell’ultimo anno potevano spostarsi autonomamente con le proprie scope, e noi, che stavamo per iniziare il penultimo, stavamo giusto parlando di quanto non vedessimo l’ora di essere anche noi così indipendenti e così potenti quando l’autobus imboccò il tunnel che collegava la valle alla piccola cittadina nella quale la nostra scuola si nascondeva. Il buio calò improvvisamente, e altrettanto improvvisamente mi sentii stringere da delle braccia, che si allontanarono giusto in tempo per non essere colpite dalla luce che spuntò non appena l’autobus fu uscito dal tunnel. Iniziò così, con un abbraccio nascosto, e continuò con una leggera, quasi impercettibile – ma permanente – carezza sul mio ginocchio, e il suo cappello posato sui miei capelli che riflettevano i colori del sole che stava tramontando
 
Quello stupido, dannato cappello. Era veramente dannato, oltretutto: Jareth lo aveva stregato con non so quale incantesimo, perché non me lo aveva mai voluto spiegare e io mai avevo notato degli effetti visivi su chi lo indossasse. Quello che temevo era che lo avesse incantato in modo da poter leggere i pensieri di chi lo indossasse, perché mi ero convinta che ci guadagnasse qualcosa, dal farlo indossare agli altri, e che quindi scegliesse con cura la persona sulla quale posarlo, che cercasse con estrema attenzione qualcuno che fosse degno del suo interesse. Che non fosse veramente stregato e che me lo avesse detto solo per avere qualcosa di cui vantarsi e farmi credere che lui fosse uno stregone migliore di me non mi era mai passato per la testa, tanto ero convinta delle sue capacità, superiori a quelle di tutti gli altri del nostro anno e forse anche di quelli più grandi.
 
Eravamo arrivati all’Accademia insieme, nello stesso giorno di cinque anni fa. Anche allora era ottobre, e un’improvvisa pioggerellina aveva fatto sì che, mentre aspettavamo che qualcuno ci desse il permesso di entrare, lui si avvicinasse a me mentre con un timido gesto gli offrivo un po’ di spazio sotto al mio ombrello. Non sapevamo granché di magia, al tempo, se non che dovevamo imparare a gestirla per evitare altri danni, e ancora non eravamo in competizione; eppure avvertivo, quasi inconsciamente, guardando i suoi occhi scuri che invece di ammirare l’immenso palazzo che avevamo davanti osservavano il viale alberato ormai tinto di arancione che si trovava di lato a esso, che era esattamente il tipo di persona per la cui attenzione avrei fatto qualunque cosa. 
Ci presentammo una volta entrati nell’immensa sala dove ci avevano accolti, e la prima cosa che mi disse fu che il mio nome, Clarissa, non era affatto un nome da strega, e non capiva proprio perché i miei genitori lo avessero scelto. Io amavo il mio nome, e solo da allora cominciai a vederlo come un difetto, soffrendo ogni volta che mi sentivo chiamare.
In quel momento la sensazione provata qualche attimo prima si tramutò in certezza.
 
Fu solo a metà del primo anno, però, dopo vari tentativi falliti che mi avevano provocato un’immensa tristezza, che capii che per mantenere costante la sua attenzione su di me dovevo far sì che mi vedesse come un ostacolo tra lui e il riconoscimento di stregone più capace dell’anno, e poi della scuola. Fu una doppia vittoria, per me, perché oltre ad essermi aggiudicata la sua ammirazione e la sua attenzione avevo decisamente migliorato i miei voti e soprattutto le mie abilità magiche. Ed è con me infatti che si confidò quando gli venne in mente di provare a stregare per la prima volta un oggetto. Ci avevano fatto esercitare varie volte a lezione e con vari seminari, ma mai nessuno di noi aveva provato a farlo per scopi personali, e Jareth ovviamente voleva essere il primo. Presa com’ero da voler capire che tipo di incantesimo volesse usare e a quale scopo, non pensai di provare a mia volta, e così finii semplicemente per aiutarlo. Ne parlammo per tutte le vacanze, avevamo tutto il tempo perché avevamo entrambi deciso di rimanere all’Accademia. Quella fu la prima volta che passammo del tempo insieme senza lottare e scontrarci per dimostrare chi fosse più capace, e fu soprattutto in quei mesi che credetti di essermi assicurata non solo la sua attenzione, ma il suo amore. Cominciammo a lavorare seriamente al progetto all’inizio del terzo anno. Era ottobre, pieno autunno, eppure il sole non si decideva a far spazio alle nuvole, e così quasi tutte le lezioni si svolgevano all’aria aperta. Il mio compito consistette quindi essenzialmente nel dover controllare che nessuno entrasse nell’aula che alla fine delle nostre lezioni decidevamo di occupare. Non era un compito facile, considerata la struttura dell’Accademia, che prevedeva che l’area delle lezioni fosse totalmente separata da quella occupata dagli alloggi e dalla cucina; chiunque poteva passare in ogni momento, e io non ebbi mai l’occasione di vedere cosa combinasse colui che era diventata la mia condanna. Quando glielo chiedevo mi rispondeva che mi avrebbe mostrato tutto una volta che ci fosse riuscito, e quando finalmente ci riuscì era ormai Natale, eravamo lontani e quando tornò disse di averlo dimenticato a casa dai suoi.
«Com’è possibile!»
«Così come tu sei una strega di nome Clarissa, io ho lasciato il cappello a casa.»
Nonostante il suo gesto fosse totalmente illogico, perché si era dimenticato di portare con sé l’oggetto a cui si era dedicato per tutti quei primi tre mesi di lezioni, la prima volta che rividi quel cappello fu quando me lo posò sulla testa di ritorno dal nostro viaggio nei boschi. È così che è iniziato il mio tormento. Non quando ho capito che tutto ciò che facevo lo facevo per provocare una qualsiasi reazione in lui, che fosse di fastidio o piacere non faceva differenza, e nemmeno quando soffrivo così tanto da volermi fare del male fisico appena notavo che ciò non accadeva, o peggio, che le sue attenzioni si erano posate altrove, perché non poteva esistere niente che non fossi io, per lui, dal momento che era così per me, a tutti gli effetti. Perfino le mie doti magiche venivano usate principalmente per lui, ma per quanto mi facesse soffrire mai avevo pensato di usarle contro di lui, di farlo piangere per qualcosa che non fosse la sua ambizione ferita.
Nei frequenti pomeriggi di pioggia di autunno ci nascondevamo in uno dei porticati più lontani dall’area degli alloggi. Guardavamo il cielo perdere a poco a poco il suo colore aranciato e diventare scuro, sempre più scuro, finché la sola luce che ci raggiungeva era quella di alcune fiammelle che volteggiavano per il cortile. I poteri di ciascuno di noi erano generati da un nostro legame con uno dei quattro elementi, e sin dal primo anno era stato evidente che io eccellevo nella gestione del fuoco, e me ne rendevo conto ogni qual volta mi trovavo di fronte a un fenomeno da esso generato, per l’energia che sentivo vibrare in tutto il corpo. In quei momenti cominciava a far più freddo, e, mentre ci stringevamo nei maglioni che ci portavamo da indossare sopra i nostri mantelli, non potevo fare a meno di pensare che noi avevamo avuto la stessa trasformazione del cielo, da quando avevamo deciso di dedicarci a quel cappello. Era ovvio che ci fosse qualcosa che prima non eravamo riusciti a vedere, impegnati come eravamo a competere, ma in più, e questo era ciò che rendeva tutto più cupo, nero, la mia ambizione di rientrare fra le sue grazie era divenuta un vero e proprio bisogno di rimanerci, a tutti i costi. Questi pensieri aumentarono di intensità dopo quel viaggio di ritorno dalla nostra gita nei boschi, quando quei nostri momenti a osservare la pioggia cadere erano diventati delle specie di appuntamenti, o almeno era quello che pensavo io. Capire cosa pensasse lui era un’esperienza che mi era preclusa, e ciò mi agitava quasi quanto non sapere a cosa diamine servisse quel cappello stregato.
Mi resi meglio conto che ai miei occhi i confini tra lui e l’oggetto a cui aveva lavorato così tanto si erano come sfumati quando vidi che lo aveva posato sui capelli lucenti di Demetria.
 
Avevo appena finito di esercitarmi con lo spostamento in aria senza scopa, ed ero così soddisfatta da voler correre subito da lui per mostrargli quanto fossi più capace nonostante il suo cappello stregato. Sapevo che lo avrei trovato nel cortile a studiare topi e altre povere creature, e infatti era lì: con il solito sorriso che gli tagliava in due la faccia, perché era così spontaneo che stonava con i suoi tratti precisi, scolpiti da un grande intenditore, che prendeva il cappello dalla sua testa e lo posava su quello della ragazza che gli stava di fronte, di cui non vedevo l’espressione ma di cui potevo comunque immaginare la soddisfazione, perché solo qualche settimana prima l’avevo provata anch’io. Quello che sentii inizialmente non fu niente che avesse a che fare con il cuore spezzato: fu anzi un calore interno, sempre più forte, che sentiva la necessità di sfogarsi, di abbattersi su qualcuno. Desiderai aver seguito meglio le lezioni sulla gestione del fuoco della mattina precedente, ma Jareth mi stava raccontando qualcosa che in quel momento non riuscivo ad afferrare, a cui purtroppo avevo dedicato tutta la mia attenzione. 
Quella fu la prima volta in cui desiderai fargli del male.
La seconda fu quando lo confrontai, quella sera stessa, sotto il nostro solito porticato. Le fiammelle avevano appena iniziato a bruciare, e il mio sguardo si concentrava sulla più vicina, quasi come a voler assimilare il suo calore ma soprattutto la sua potenza, mentre gli chiedevo di cosa stesse parlando con Demetria quel pomeriggio, e perché le avesse fatto provare il nostro cappello. E mentre lo pregavo di dirmi una volta per tutte a cosa diamine servisse, non potevo fare a meno di ripetermi il nome dell’altra strega in testa, un nome cosìadatto a una strega. Lui parlava, gesticolava, mi spiegava. Ma ormai era troppo tardi. Era buio, sempre più buio, e la notte tra noi era calata definitivamente quando aveva condiviso il cappello con un’altra persona. Fu quando dichiarò, balbettando – per la prima volta incerto, spaventato da me – che non era affatto riuscito a stregare il cappello, e che lo aveva fatto provare a Demetria – ma che nome perfetto! – solo per vedere come le stesse, che decisi che mi sarei vendicata. E lo avrei fatto in un modo di cui lui solo in quel momento, vedendomi forse per la prima volta nella mia interezza, con gli occhi neri che riflettevano il fuoco delle fiammelle che si erano raccolte intorno a me, come se avessero percepito la rabbia e la follia che in quel momento mi componevano, capì che ero capace.
 
Tornai al dormitorio e cercai di riprendere a pensare lucidamente sciacquandomi il viso con l’acqua fredda, senza nessun successo. La rabbia mi impediva di vedere bene, barcollai fino al letto che sperai mi appartenesse e mi ci accasciai senza nemmeno provare a stendermi per bene. Mi addormentai, e dormii un sonno apparentemente privo di sogni. Quando mi svegliai era da poco l’alba, e, per quanto la rabbia non se ne fosse andata, avevo le idee molto più chiare. La scena a cui avevo assistito il giorno prima si ripeteva nella mia testa in un vortice che non riuscivo a controllare. Demetria era una vera strega, non solo per il suo nome, ma anche per quei bellissimi capelli neri e lucenti che aveva. Come potevo io, Clarissa, essere una strega, con quei capelli chiari, delicati come un chicco di grano? Nessuno che non sapesse dei miei poteri mi avrebbe mai temuto. E quelli intorno a me, invece? Mi temeva Jareth, che oltre ad aver condiviso l’oggetto che più ci aveva unito con un’altra, mi aveva mentito spudoratamente per tutto quel tempo? No, non mi temeva affatto.
Mi alzai, e prima di chiudermi in bagno raccolsi le boccette di inchiostro che le mie compagne avevano posato accuratamente sul lungo e stretto tavolo levigato del dormitorio. Tutta l’Accademia dormiva ancora, e io in ogni caso non avrei partecipato alle lezioni di quel giorno. Non ne avrei avuto il tempo. 
Con lo sguardo ancora offuscato cominciai a svuotare le varie boccette sui miei capelli chiarissimi, spalmando poi il liquido nero leggermente viscoso con le mani che tremavano, rendendo tutto più difficile. Sarei mai riuscita a levare le macchie di inchiostro dalle dita e dalle guance? Quando ebbi svuotato anche l’ultima boccetta, mi guardai allo specchio e ghignai soddisfatta: non riuscivo a intravedere niente di quella sottospecie di streghetta che ero fino a un’ora prima. Lavai molto velocemente le mani, senza preoccuparmi di eliminare le tracce di inchiostro, e mi infilai completamente sotto le coperte. Quando le mie compagne cominciarono ad alzarsi io rimasi immobile nel mio letto, ignorando i vari richiami. Piano piano il dormitorio si svuotò, e solo allora tirai la testa fuori dalla coperta. Qualche mia compagna forse aveva insistito perché le seguissi o almeno rispondessi per sapere se mi sentissi male o meno, e forse io avevo risposto, ma non ero così sicura. Tutta la mia concentrazione era rivolta altrove. Quando sollevai la testa notai una macchia nera informe sul cuscino, e sorrisi. 
Anche il dormitorio maschile era ormai vuoto, e mi diressi al suo letto. Sapevo benissimo dove si trovava e dove teneva tutti i suoi oggetti personali. Riuscivo in qualche modo a vedermi da fuori, come se la mia anima si fosse separata dal mio corpo e mi osservasse con distacco. Per questo potei vedere benissimo l’espressione di vittoria sul mio volto sporco d’inchiostro quando trovai il cappello.
Tornai nell’area femminile e mi misi seduta sul letto a rigirarmi il cappello tra le mani: era nero e a punta, un classico. Dall’anno precedente Jareth e io lo avevamo portato ovunque, dunque era leggermente scolorito e un po’ ammaccato ai lati. Mai lo avevo osservato con tanta attenzione. Era solo uno stupido cappello, come avevo potuto renderlo così importante per me? 
Tirai fuori dalla mia sacca il manuale per stregoni, cominciando a sfogliare il capitolo che riguardava gli incantesimi a danno altrui, in particolare quelli che avevano a che fare col fuoco. Anche i poteri di Jareth erano generati da esso, ma lui trovava limitante questa concezione, voleva concentrarsi su tutti gli elementi così da essere più forte, lo stregone più potente di tutti i tempi. Era grazie alla sua arrogante ambizione che ero così capace – tutto quello che ero diventata era dovuto a lui, o comunque ero quello che ero sempre in relazione a lui. Ma lui non era riuscito a stregare un oggetto, ed era stato così meschino da non aver avuto il coraggio di dirmelo. Debole. Io ci sarei riuscita, gli avrei mostrato una volta per tutte che ero io la strega più capace dell’Accademia, anche se tutte le mie capacità dipendevano da lui. Mi fermai, strizzando gli occhi così forte da non riuscire a vedere per qualche secondo. Mi sarei ripresa la mia rivincita, la mia indipendenza. Trovai l’incantesimo che mi serviva, strappai la pagina e cominciai a sistemarmi, prendendo tutto ciò che mi sarebbe servito per concentrarmi, per poi chiudermi in bagno e cominciare a lavorare. Lui ci aveva provato per mesi, senza successo. Possibile che invece avesse fatto finta per tutto quel tempo, solo per vedere fino a che punto mi avesse in pugno? Non aveva più importanza. Me l’avrebbe pagata. Lavorai senza concedermi nemmeno una pausa. Non sentivo il bisogno di niente, in ogni caso. L’unica cosa che bramavo era la vendetta e la liberazione che avrei ottenuto con essa.
Doveva essere passata l’ora di pranzo quando sentii la sua voce chiamarmi attraverso il dormitorio. Avrei riconosciuto quella voce ovunque, purtroppo, sebbene quel tono mi fosse nuovo: sembrava preoccupato. Ghignai un’altra volta, senza rispondere a nessun richiamo, nemmeno quando sentii bussare alla porta del bagno, sempre più forte. Non c’era bisogno di essere così impazienti. Mi avrebbe vista tra poco, ma non glielo dissi, temendo che scappasse a nascondersi. Ormai avevo capito che era un codardo.
Mi chiamò ancora per un po’, tirando in causa anche il cappello che avevo tra le mani, accusandomi probabilmente della sua scomparsa. Infine, sentii i suoi passi che si allontanavano e la sua voce farsi sempre più fioca, finché non sopraggiunse il silenzio. 
Finii che era sera, e finalmente mi concessi di chiudere gli occhi per qualche minuto. 
Gli inviai con un incantesimo una nota che gli dava appuntamento al nostro solito posto dopo che avesse finito di mangiare. Io ancora non avevo appetito, per cui decisi di aspettarlo sotto al porticato. Prima di lasciare il bagno diedi una fugace occhiata allo specchio, intravedendo la follia che accendeva i miei occhi di solito così pacati, resi ancora più accesi dal contrasto dei capelli ormai neri con la pelle bianca.
 
Non pioveva e ne fui felice. Mi incantai a guardare le fiammelle che volteggiavano per il giardino, e tornai alla realtà solo quando sentii dei passi avvicinarsi. 
Lui era pallido, con il volto contratto dall’ansia. Vederlo così mi rese ancora più felice.
«Clarissa, i tuoi capelli…»
Cominciò a parlare, a dire parole con cui probabilmente chiedeva il mio perdono, ma io non lo ascoltavo. Lo fissavo muovere le sue bellissime, rosee labbra, mentre gli occhi scuri vagavano dai miei capelli alle mie guance alle mie mani che reggevano il nostro, ormai solo mio, cappello, in estasi per l’espressione sempre più spaventata che si stava formando sul suo volto perfetto. 
Feci un movimento con la mano come a voler mandare via le sue parole, facendolo ammutolire.
«Mi hai ferito, Jareth. Sin dal primo giorno sapevo che avrei fatto di tutto per te, non importava quanto tu mi ignorassi o mi trattassi con sufficienza,»  lui cercò di interrompermi, volendomi spiegare come le cose erano andate veramente, ma io feci lo stesso gesto di prima con la mano e ripresi il mio discorso: «mi sono sempre impuntata, continuando a fare di tutto per apparire interessante ai tuoi occhi, degna di essere guardata da te da pari a pari. Fino a scoprire che non ne valeva la pena.»
Sollevai leggermente il viso, tenendolo puntato su di lui: «me ne pento. Ma non importa, non più. Tuttavia, credo di meritare di tenermi questo», conclusi indicando il cappello che avevo in mano. Lui era pietrificato, sembrava non capire cosa fosse successo e cosa stesse succedendo in quel momento. 
«Ma sono buona, e te lo lascerò indossare un’ultima volta», glielo porsi accennando un sorriso che, notai, lo inquietò ancora di più. Ma non si decideva ad accettare il mio invito, facendo così sparire ogni ombra di sorriso dalla mia faccia. 
«Mettilo, Jareth» sibilai. Lui, ormai apertamente terrorizzato – che gioia pura, vederlo così! – obbedì, prendendo il cappello dalle mie mani e posandolo sui suoi capelli perfettamente neri.
Non accadde subito, e infatti vidi i suoi tratti rilassarsi. Ma io avevo smesso di dubitare delle mie capacità, così attesi tranquillamente, mentre lui cercava di riprendere il suo discorso: «ferirti non è mai stata mia intenzione, Clarissa. Volevo davvero riuscire a stregare questo cappello, e avevo insistito così tanto che non riuscivo a dirti che non ci ero riuscito, per questo…» ma non gli fu possibile continuare, forse per il bruciore che cominciava a sentire alle tempie. Successivamente accadde tutto molto velocemente. Il cappello prese a roteare sopra la sua testa, facendo girare anche il suo corpo, sempre più veloce, finché non sembrò esserci un vortice di fuoco nel cortile, accanto alle fiammelle che, come se si fossero incuriosite da tutta quella luce, si avvicinarono sempre più alle urla disperate di Jareth, che si trovava proprio al centro dell'incendio.
«Mi hai ferito, Jareth» ripetei, mentre mi perdevo con lo sguardo in tutto quel fuoco che non faceva altro che darmi più energia. Mi sentivo finalmente libera: stavo bene.
Lo spettacolo finì, e al posto di quel bellissimo vortice non rimase che un ammasso di cenere. Mi inginocchiai per toccarlo, scottava ancora. Riuscii a percepire anche dei brandelli del cappello. Sorrisi. Ero stata veramente buona: glielo avevo lasciato, alla fine. 
Le fiammelle erano tornate a vagare per il cortile, silenziose e leali. Mi passai una mano tra i capelli resi pesanti dall’inchiostro e cominciai a fare delle giravolte insieme a loro. Ero riuscita a stregare il cappello. Io, una strega con un nome poco adeguato.
Non sei più la mia condanna, mio caro, povero Jareth.
Sentii scendere l’adrenalina e una strana tristezza mi assalì, così dopo un’ultima occhiata d’affetto alla cenere rimasta sul prato tornai nel dormitorio. Provai un improvviso bisogno di piangere. Dalle campane non troppo lontane suonava la mezzanotte. Ottobre era finalmente finito.




Il quinto e ultimo anno è finalmente arrivato. Demetria e io, secondo l’abitudine che abbiamo preso da quando siamo tornate all’Accademia, subito dopo la fine delle lezioni corriamo a prendere le nostre scope per volare intorno all’area a noi riservata, arrivando fino al confine, e cioè all’inizio dei boschi. È quasi sera, e la brezza autunnale ci accarezza dolcemente il viso mentre noi voliamo libere e spensierate, ridendo e allargando le braccia per sentire meglio l’aria. Quando atterriamo è sempre buio, e tenendoci a braccetto passeggiamo per i portici con le nostre scope strette nelle mani lasciate libere. Ci sediamo non troppo lontane da dove mi sedevo con Jareth. Guardo i bellissimi capelli di Demetria e ricordo la sensazione viscosa e appiccicosa provata nel maneggiare l’inchiostro. Poi sposto lo sguardo sul fiore che ho piantato lì dove una volta c’erano le ceneri di quello che era stato un grande e potentissimo incendio. Ho scoperto che Jareth vuol dire discesa, e mi è sembrato adatto a ciò che è stato per me, e per questo vi ho piantato un mughetto, che indica la felicità ritrovata. Tra le prime pagine del mio manuale per stregoni ho raccolto alcuni brandelli di quel cappello che una volta aveva rappresentato la mia follia, ma quando ogni tanto capitano sotto ai miei occhi perché magari sono scivolati via, li rimetto apposto con cura, cercando di non perderne nemmeno uno. Li contemplo mentre sono tra le mie mani, e non sento più bisogno di piangere, solo una leggera malinconia. Mi ricordano chi sono e chi sono stata: adesso credo che Clarissa sia un nome degno di una vera strega.
 
 
 
 
 
 

Note:
Questa storia partecipa al contest Wr-Ink-Tober indetto da fantaysytrash sul forum di efp con il pacchetto scarecrow.
Innanzitutto ringrazio chiunque sia arrivato a leggere fino a qui, è la prima volta che mi cimento in un’originale con il genere soprannaturale e spero non si noti troppo, ma appena ho visto il pacchetto è stata la prima cosa a cui ho pensato, e devo dire che scriverla mi ha divertito moltissimo. Non pubblico qui su efp da tanto tempo, a parte Espiazione, per cui devo ringraziare di nuovo fantaysytrash, ma che era comunque una flashfic, e sono contenta di essere riuscita a completare questa oneshot. Mi era mancato tutto tantissimo. Spero che vi piaccia e mi scuso per gli eventuali errori.
Alla prossima!
SafeAndSound_
  
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