Serie TV > I Thunderman
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Autore: Alexa_02    02/11/2020    1 recensioni
La vita di rado è come la vorresti. Lexie lo ha capito nel momento esatto in cui si è resa conto di vivere in un incubo. Ha imparato ad andare avanti nonostante il dolore, la tristezza e la paura che la seguono come delle ombre. Il potere che le scorre nelle vene la rende un’arma potenzialmente letale e, allo stesso tempo, fragile e sola.
Dopo il trasferimento ad Hiddenville, le cose non sembrano essere cambiate. Sua madre cerca ancora la luce in ogni angolo di oscurità, Ben infesta la casa con il suo orribile carattere e con la violenza, e Lexie cerca di dissolversi e scomparire insieme al vento.
Ogni cosa appare uguale, finché il suo cammino incontra quello di Max Thunderman. Il suo nuovo vicino sembra essere la risposta a tutte le sue domande e tutto ciò che stava aspettando.
Forse tutto quello che l’ha portata a questo punto della sua vita non è stato fortuito.
Forse ne è valsa la pena.
Forse l’amore può essere la risposta, ma può essere abbastanza?
Genere: Commedia, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Max Thunderman, Nuovo personaggio, Phoebe Thunderman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Chapter 1
 
Hiddenville.
Ough.
Con tutti i posti del mondo, proprio Hiddenville? Non potevamo trasferirci in qualche località marittima? O in una grande metropoli? Era davvero questione di vita o di morte dover raccattare i nostri stracci e trasferirci nella città dei mille parchi?
Okay, Cleveland non è Parigi, ma almeno è abbastanza grande da richiedere più di un paio di ore per girarla tutta. Grande a sufficienza per poter sparire finché a Ben non è passata la luna. Larga quanto basta da permettermi di immaginare di essere qualcun altro. Di non sentirmi in trappola.
Dondolo il piede oltre il traverso di legno della finestra. Il furgone del trasloco è ormai scomparso dietro le siepi ben potate. Un cumolo di scatole di cartone, decorate dalla calligrafia arricciolata di mia madre, invade il vialetto e l’uscio d’ingresso. Dopo aver arraffato le mie cose, ho cercato subito la mia stanza.
La nuova casa è assolutamente identica a tutte quelle che la circondano. Una villetta di due piani, color cobalto opaco, con un piccolo giardino sul retro e un garage esterno. Ogni casa a schiera è collegata a quella accanto tramite una siepe bassa e uno steccato di legno.
La mia camera è posizionata esattamente su un vertice e le due grosse finestre rettangolari danno sul giardino e sul retro della casa dei vicini. Non proprio la vista migliore al mondo, contando che il nostro vecchio appartamento dava sul lago Erie.
La stanza alle mie spalle è vuota e spenta, in tono con il mio umore. È come una tela bianca che mi fissa con aspettativa, incitandomi a donarle un po’ di vita. Ma chi vorrebbe fare parte della mia esistenza?
«Lexie?». La voce melodiosa della mamma fluttua su per le scale. «Vieni ad aiutarmi?».
Scivolo giù dal traverso e raggiungo la porta. Le mie Vans blu navy sguisciano contro il pavimento di parquet, producendo una specie di grido. Il suono stridulo mi ricorda un’altra orribile verità: non solo ci siamo trasferite nella città più piccola e noiosa al mondo, ma abbiamo anche portato con noi l’escremento umano per eccellenza.
Ben Stewart.
Come posso descrivere Ben? Immaginate la persona più sgradevole che abbiate mai incontrato, unitela a un serio problema di alcol e di gioco d’azzardo, aggiungete cattiveria e violenza come se fosse in saldo e, voilà, ecco a voi il fidanzato di mia madre: Ben RifiutoUmano Stewart.
 Scendendo le scale è la prima cosa che vedo. Siede spaparanzato sul divano lilla, con una birra in mano e i Cleveland Browns che corrono in televisione. Ha seguito i trasportatori finché non hanno mollato il divano e la tv in soggiorno, poi si è slacciato la cintura e ha smesso di muoversi. A meno che ruttare e sbraitare trangugiando come un gorilla nel deserto non siano considerati movimento.
La sua sola presenza mette tutti i miei sensi sull’attenti. La prima volta che l’ho conosciuto ho pensato che fosse apposto, un tipo un po’ bizzarro ma apposto. C’è voluto un po’ per realizzare che mamma aveva fatto entrare in casa nostra un mostro. A mia discolpa, quando ci siamo conosciuti, avevo solo nove anni e mamma non lo faceva mai restare troppo a lungo. E poi credo che sia stata tutta una tecnica, ha finto di essere una persona normale ed equilibrata finché non abbiamo abbassato la guardia, e quando ci siamo rese conto di chi diavolo fosse, ormai lui aveva messo radici peggio di una sequoia. È da quando ho dodici anni che condividiamo il tetto e vi posso giurare che sono stati i cinque anni più lunghi della mia vita.
Scendo l’ultimo gradino e i suoi pensieri mi investono come un treno in corsa. Volgarità di ogni genere mi ronzano in testa, insieme a immagini sfuocate di lui in mezzo ad un campo da football e il boato assordante della folla. I suoi ricordi sono così sbiaditi dall’alcol che sembrano quasi irreali, faccio fatica a distinguerli dai suoi sogni. La figura del giocatore che corre in televisione si sovrappone a quella di Ben, come se immaginasse di essere lui ad eseguire il touchdown. Evidentemente, nel suo passato buio e patetico, doveva essere una promessa del football o qualcosa del genere. Non faccio fatica ad immaginare cosa possa essere andato storto.
Salta in piedi con un guizzo improvviso, esultando insieme alla folla allo stadio. «Sì, cazzo. Vai così, Chubb!». Ondeggia la mano che stringe la birra e il liquido ambrato si riversa sul pavimento. «Merda!». Scrolla la mano bagnata, schizzando tutto quello che gli sta intorno. «G! Portami un’altra birra!».
Intravedo la figura di mia madre, dietro il separé di carta, che si muove rapida verso il frigorifero. Guai a farlo aspettare.
Sgambetta rapida nei jeans sdruciti e si appresta al suo fidanzato con una BUD ghiacciata. «Ecco qui, tesoro».
Lui afferra la bottiglia senza neanche guardarla in faccia. Come ringraziamento, le molla una sonora pacca sul culo. «Brava la mia gattina».
Un verso di puro disgusto mi risale lungo l’esofago. Lui non la merita. Mia madre è bellissima, forse la donna più bella che abbia mai visto. I capelli biondi e gli occhi azzurri come il cielo la fanno assomigliare ad una divinità, mentre l’altezza e il corpo mozzafiato la fanno assomigliare ad una modella. E il suo aspetto è solo una piccola parte. È dolce, gentile, sempre sorridente e cerca di aiutare tutti in tutti i modi possibili. Lei riesce a trovare il buono in ogni persona, anche in un abbietto come Ben. Non merita di essere trattata in quel modo da lui e da nessun altro.
Il mio sospiro nauseato attira la sua attenzione e, purtroppo, mi fa finire nel suo campo visivo. Alcune volte riesco a capire perché mia madre lo ha notato. I ricci castani, la barba folta e gli occhi chiari lo rendono quasi avvenente. Oggettivamente Ben è un bell’uomo, ma il suo modo di fare altera i suoi lineamenti e mi causa un ribrezzo così intenso, da renderlo uguale all’uomo delle caverne. Forse peggio.
Il suo sguardo mi percorre come un serpente a sonagli. Ogni tanto lo becco a fissarmi un po’ troppo a lungo e percepisco i suoi pensieri cozzare. Quasi tutte le sue cellule mi disprezzano fino al midollo, ma una piccolissima parte di lui apprezza ciò che vede. Suppongo sia dovuto alla somiglianza con la mamma. Abbiamo gli stessi capelli e gli stessi occhi, ma due fisicità opposte. Lei sembra Cindy Crawford e io, beh, io sembro un nano da giardino.
Per i suoi pensieri discordanti e per la paura di quello che potrebbe venire, ho adornato le mie onde bionde di adorabili ciocche blu. Lui le detesta e io adoro il blu. È una doppia vittoria.
I suoi pensieri schifati mi riempiono di un profondo orgoglio e mi ricordano di quanto odi i miei outfit total black. Allunga il dito verso il pavimento. «Pulisci questo casino, ragazzina».
Vorrei ribattere che è il suo di casino, ma da quando siamo in città che non alza le mani e vorrei davvero ritardare quel momento il più possibile. Perciò mi mordo la lingua e vado a cercare uno straccio.
«Hai trovato lavoro?» domanda brusco.
Mamma fa un piccolo passo indietro. «Non ancora. Quando abbiamo finito di sistemare vado subito a cercare…».
«I soldi non crescono sugli alberi, Georgia» ringhia «Questo trasferimento ci è costano una fortuna, come pensi che potremmo mantenere questa casa se batti la fiacca?».
La rabbia mi scorre sottopelle come elettricità. Odio il suo tono, odio come si rivolge a mia madre e odio che le dia la colpa. È lui che ha scommesso la nostra casa e ha deciso che saremmo venuti a vivere in questo buco, è solo colpa sua se siamo qui. Mi ci vuole uno sforzo immane per non dare fuoco a lui e alla sua faccia da culo.
Mamma gli accarezza il braccio. «Troverò subito un lavoro, promesso. Non preoccuparti».
«Ti conviene, se non…» intima.
Il secchio di metallo che stringo tra le mani sbatte per terra con irruenza. Lo sguardo di ghiaccio di Ben mi si pianta addosso. Serra la mascella e stringe i pugni. Sa che l’ho fatto cadere apposta. Fare da parafulmine è il mio di lavoro. 
«Ops» bisbiglio con finto dispiacere.
Fa un passo in avanti e io già pregusto il livido che mi lascerà, ma il suo cellulare non è della stessa opinione. Gli trilla con irruenza nella tasca dei pantaloni e lo costringe a smettere di incenerirmi. Lo scruta con aria critica e poi se lo rimette addosso. «Devo andare». Bacia mia madre come se qualche secondo prima non l’avesse ripresa e mi lancia un’occhiata. «Metti a posto». Esce dalla porta e finalmente posso smettere di trattenermi. L’energia che stavo covando si riversa fuori come una cascata e il fuoco mi avvolge. Fiamme bianco latte mi risalgono le mani e le braccia, fino al gomito. Riesco a percepire ogni fonte di calore nella stanza, ogni singola fonte di energia. So che potrei controllarle tutte e bruciare tutto ciò che mi circonda come se fosse legna da ardere. E saprei esattamente da cosa cominciare.
«Alexis». Sospira la mamma, infilandosi in cucina e tirando una tenda. «Smettila».
Sbuffo e le fiamme ubbidiscono, ritirandosi sottopelle. «Potrei arrostirlo come uno spiedino».
Raccoglie il secchio. «No».
Alzo le spalle. «Non deve essere niente di così plateale, posso semplicemente fargli dimenticare come si respira». Sorrido al solo pensiero. «O potrei fargli credere di essere una dodicenne con le trecce».
Mi accarezza la guancia. «Ne abbiamo già parlato, i tuoi poteri sono una benedizione e non voglio che li usi per fare del male».
Mi siedo sul bancone di marmo. «Per lui potremmo fare un’eccezione».
«Lexie» esala «Per favore».
Abbiamo avuto questa conversazione un milione di volte e il risultato è sempre lo stesso. Ben deve ringraziare il cuore buono di mia madre, se non fosse per lei lo avrei già sciolto come un ghiacciolo. Indico la porta. «Non capisco come fai a stare ancora con quello lì, è un mostro».
Scuote la testa. «È complicato, tesoro. Lui non è un mostro, ha solo bisogno d’amore. Siamo la sua famiglia e lui è la nostra, ci aiutiamo a vicenda».
Mentre blatera scuse, mi infilo silenziosamente nei suoi pensieri. Ogni volta che parla di Ben, tutto ciò che le frulla in testa si mescola e si annebbia, impedendomi di scovare la verità. Ci sono sprazzi di lui così belli e luminosi che mi risulta difficile credere che siano la stessa persona. Ma, quando provo a trovare la ragione alla base della loro storia, vengo avvolta della foschia. 
Una ghigliottina mentale interrompe le mie ricerche e mi sbatte fuori con irruenza. «Piantala» squittisce «Odio quando lo fai, mi fai venire il mal di testa».
Sì, lo so. «Scusami, mamma». Sono una figlia terribile.
Mi prende il viso tra le mani. «Non preoccuparti per me, stellina. So quello che faccio».
Il suo amore, incondizionato e così profondo, mi attraversa e mi riempie. Il contatto con la sua pelle crea un ponte mentale che mi permette di percepire tutto ciò che prova. I suoi sentimenti sinceri e amorevoli mi rilassano portandomi ad annuire anche se non sono molto convinta. «Okay».
«Ora mettiamo in ordine, così poi posso uscire a cercare un lavoro» asserisce.
Le sfilo lo strofinaccio dalle mani. «Qui ci penso io, tu vai».
«Sicura?».
È meglio se trova un lavoro prima che torni Ben. «Assolutamente. Sono super, ricordi?».
Mi bacia la fronte. «Sì, lo sei».
 
 
Strofino il pavimento macchiato di birra con tutta la rabbia che vorrei proiettare su il RifiutoUmano. E devo dire che ce né parecchia.
Non riesco a capire come mai i miei poteri non siano la supervelocità o la superpulizia, sarebbe tutto più facile. Okay, va bene, il secondo farebbe un po’ pena ma in questo momento sarebbe molto utile.
Ah, giusto.
La storia dei poteri. Non so esattamente dargli una spiegazione razionale, mamma dice che li ho ereditati da mio padre. Anche la questione papà è molto vaga, è un altro argomento che non riesco a decifrare nella sua mente e che le causa le emicranie. Vorrei davvero sapere, ma far esplodere la testa dell’unico genitore che ho non ne vale la pena.
L’unica informazione che sono riuscita a carpirle è che era un supereroe e che è morto quando avevo meno di un anno. Da allora mamma mi ha aiutato a controllare le mie abilità e a tenerle segrete. Abbiamo imparato insieme a governare quello che sono in grado di fare ed è per questo che lei è l’unica a potermi buttare fuori dalla propria mente. Crescere un super bebè ha anche i suoi vantaggi.
Una volta che la macchia è scomparsa, raggiungo il vialetto con rapide falcate e mi metto a trascinare gli scatoloni oltre la soglia. Sollevo uno degli stupidi pacchi di Ben, cercando di indentificarne il contenuto.
«Ehilà!» trilla qualcuno alle mie spalle.
Sobbalzo come se mi avesse sparato e la scatola vola in mezzo al salotto, producendo un suono orribile.
La ragazza non identificata entra nel mio campo visivo. «Oh, mio Dio. Scusami, non volevo!». Si copre la bocca con la mano. «È stata tutta colpa mia».
Raggiungiamo insieme lo scatolone e lo apriamo. I trofei di Ben mi fissano malconci, ridendo di quello che mi farà lui una volta visto cosa gli ho fatto. Mugolo. «Meraviglioso».
«Dovrei avere della supercolla a casa, possiamo aggiustarli» propone la sconosciuta.
Alzo lo sguardo, incrociando i suoi occhi castani e mortificati. «Non ti preoccupare, non è roba mia».
Si tormenta una ciocca bruna. «Sicura? Mi sento malissimo, non volevo».
Alzo le spalle. «È stato un incidente, Ben capirà». No, non lo farà. Potrei anche provare ad aggiustarli, ma sono sicura che lui se ne accorgerebbe lo stesso. Sarebbe solo uno spreco di tempo e di energie, preferisco pensare a quale maglione mettere che sia in tinta con il livido che mi lascerà.
«Scusami, davvero» sospira allungando la mano «Mi chiamo Phoebe, Phoebe Thunderman. Abito nella casa accanto, mi madre mi ha mandata a portarvi un cesto di benvenuto e non a distruggere i vostri averi».
Fisso la sua mano con un certo nervosismo. Non mi piace toccare le persone, il contatto con la pelle amplifica i miei poteri e mi trascina nella mente altrui. Perciò, raccolgo la scatola con entrambe le mani e le faccio un piccolo cenno con la testa. «Alexis» asserisco «Moore. Lexie, per gli amici».
Quali amici? La voce fastidiosa nella mia testa adora sottolineare le ovvietà.
Phoebe recupera il cesto di vimini ricco di prelibatezze. «Benvenuta nel quartiere e scusami ancora».
La guido fino alla cucina e le lascio mettere il suo dono sul bancone. «Da dove vieni?».
Ispeziono i muffin. «Cleveland. Il fidanzato di mia madre ha trovato lavoro qui e ci siamo trasferiti». Non è esattamente la verità ma nemmeno una bugia completa.
Phoebe si siede educatamente al tavolo. «Che lavoro fa?».
Scelgo finalmente quale dolcetto mangiare e lo addento. «Credo qualcosa che riguarda i trasporti, ma non sono sicura. In realtà, non mi interessa granché».
Phoebe giocherella con uno dei suoi braccialetti. Riesco a percepire il suo disagio senza neanche concentrarmi. «Quindi siete solo voi tre? Sei figlia unica?».
Non capisco perché insista nel voler fare conversazione. «Già».
Spalanca gli occhi da cerbiatta. «Beata te! Io ho due sorelle e due fratelli».
Mi pulisco la bocca con il dorso della mano. «Wow».
Sorride con sincerità. «Ogni tanto vorrei diventare magicamente figlia unica, ma alla fine non sono così male. A parte mio fratello Max, lui lo regalerei molto volentieri».
Ridacchio. «Posso solo immaginare». Non mi dispiacerebbe avere una sorella o un fratello, almeno avrei qualcuno con cui fare fronte comune verso Ben. «Grazie per il cesto» faccio qualche passo verso il soggiorno «Lo darò io a mia madre quando tornerà». Spero davvero che capisca l’antifona.
«Figurati» esala con entusiasmo e senza muoversi di un centimetro. L’imbarazzo aleggia leggero tra di noi, finché Phoebe non decide di dare ascolto al suo senso civico. «Vuoi una mano a sistemare? Sono bravissima ad organizzare e ordinare».
Infilo le mani in tasca. «Non sei obbligata».
Sorride con onestà. «Lo faccio molto volentieri». La mente di Phoebe è così nitida e ordinata che mi ci vuole meno di un secondo per entrarci. La sua sincerità e la sua gentilezza mi avvolgono come una coperta rassicurante, non c’è una parola che le è uscita dalla bocca da quando è arrivata che sia una bugia. Tutta questa sua franchezza lede le mie difese naturali e mi porta ad annuire. «Va bene».
Madide di sudore e con le braccia più indolenzite che mai, ci lasciamo cadere sul divano con un sospiro.
«Devo assolutamente fare più cardio» esala Phoebe.
«Siamo in due allora» asserisco senza fiato «Penso di essermi stirata un muscolo della chiappa».
Lei ridacchia. «Almeno ne è valsa la pena, abbiamo spacchettato quasi tutta la casa».
Ed è davvero così. Il salotto è completamente arredato e in ordine, abbiamo riempito tutti gli armadietti della cucina e il bagno è pulito e pronto all’uso. Abbiamo sgobbato come matte e devo ammettere che senza l’aiuto di Phoebe non ci sarei mai riuscita.
«Grazie ancora dell’aiuto» mormoro.
Sorride dolcemente. «È stato un piacere». Si sistema il top di seta con ansia. «Immagino andrai alla Hiddenville High, giusto?».
Alzo le spalle. «Non mi sembra ci siano altre scuole».
Annuisce. «Già. In ogni caso, volevo chiederti se volessi un tour della struttura lunedì».
«Non dovrebbe essere uno dei compiti del preside?» domando.
Lei fa una strana espressione schifata. «Beh, il preside Bradford è un po’…particolare. Sono sicura che ti mollerà da sola appena ne avrà l’occasione, così ho pensato che potrei farti io da Cicerone».
Le sorrido timidamente. «Va bene, grazie».
Prima che possa aggiungere altro, la porta si palanca con irruenza e Ben fa il suo patetico e trionfale ingresso. Lo sguardo iniettato di sangue si fissa su di me e su Phoebe stravaccate sul suo stupido e prezioso divano. Il suo odio incondizionato e il disgusto mi trafiggono il cervello come una spada. Mi irrigidisco e Phoebe si ne rende conto, perché si raddrizza a disagio. Lui fa qualche passo incerto in avanti e, dal modo in cui vacilla, sono sicura che non sia sobrio.
Phoebe si alza. «Salve, mi chiamo Phoebe Thunderman, abito nella casa accanto».
Ben la osserva con circospezione e fastidio, come si guarda un moscerino che ti ronza vicino al piatto. Prima che possa spiaccicarla, la tiro per la manica e verso l’uscita. «Vieni, ti accompagno a casa».
Ben grugnisce e si riappropria del divano con tremenda soddisfazione. Spingo Phoebe fuori dalla porta in modo che non possa vederlo slacciarsi i pantaloni.
Raggiungiamo l’ingresso di casa sua in religioso silenzio. «Allora ci vediamo lunedì?» domando speranzosa. Spero che dopo quello che ha visto non abbia cambiato idea. Mi sono tenuta a debita distanza dalla sua mente per evitare di vedere la mia vita attraverso tanta purezza.
Sorride delicatamente. «Certo, ti aspetto all’ingresso».
«Perfetto» sospiro cercando di celare l’entusiasmo.
Mi tira in un abbraccio non richiedo e assolutamente non annunciato. La sua pelle calda cozza con la mia, impedendomi di avere il controllo e costruendo un ponte indesiderato. Scivolare dentro Phoebe è come cadere nell’acqua più cristallina. Rinvigorente e travolgente. Sincerità, amore e felicità mi bruciano sottopelle. Ma la sensazione che davvero mi toglie il fiato, è il potere prorompente e impetuoso che le ristagna dentro. Un potere inimmaginabile. Un potere che sembra assomigliare al mio.
Non posso indagare oltre, perché Phoebe si stacca e sorride. «A lunedì». Rientra in casa, lasciandomi sullo zerbino a fronteggiare qualcosa che non ero pronta ad affrontare. Una verità che mi sembra troppo assurda per essere tale: Non sono sola.
 
Con la mente ancora in subbuglio, mi chiudo la porta alle spalle e cammino verso le scale. Faccio per afferrare il corrimano ma qualcosa me lo impedisce. O meglio qualcuno. Ben mi afferra i capelli con furia e mi scaraventa sul pavimento come una bambola di pezza.
«Non ascolti mai» sbraita «Sei una stronzetta ingrata». Mi afferra per il polso e mi tira in piedi. «Quando ti parlo devi prestare attenzione». La sua enorme mano serra la presa fino a farmi guaire di dolore. «Ora mi ascolti, eh?». Stringo i denti ed annuisco. «Non voglio più vedere te o qualche tua stupida amichetta sul mio divano. Mai più». Le sue dita comprimono le ossa del mio polso tanto da farmi vedere le stelle. «È chiaro?».
Annuisco trattenendo le lacrime. «Sì».
«Sì cosa?» ringhia.
«Sì, signore» sibilo.
Ottenuto ciò che vuole, molla la presa facendomi ruzzolare a terra. «E ora vai a cucinare qualcosa di decente, sto morendo di fame».
Il dolore acuto si mischia alla rabbia più profonda e oscura, facendomi bruciare la pelle. Potrei dargli fuoco. Potrei farlo smettere di respirare. Potrei farlo diventare tutta un’altra persona. Ma poi dove sarebbe la differenza tra me e lui? Dove si traccia il confine? Potrei ancora definirmi una brava persona? No. Sarei un bullo proprio come lui e, sinceramente, preferirei morire che essere Ben anche solo per un minuto.
Perciò, lentamente mi alzo e faccio come ha chiesto. So che il karma prima o poi girerà e quando sarà il suo momento mi godrò la scena come mai prima d’ora.
   
 
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