Storie originali > Fantascienza
Segui la storia  |       
Autore: Cladzky    04/11/2020    0 recensioni
Un entomologo è contattato per investigare su degli strani fenomeni. Sembra che l'intera famiglia delle Formicidae, ovvero le formiche, stiano mandando strani segnali radio, in una lingua incomprensibile ma che deve essere tradotta al più presto, perché forse è in quelle onde che sta il motivo dietro l'improvvisa aggressione degli insetti contro il genere umano e che potrebbe portare alla sua estinzione in una lotta contro un nemico infinito e mostruosamente organizzato, pronto ad affermare la propria posizione come specie dominante sulla Terra.
Genere: Horror, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il primo giorno in cui avemmo l’impressione che le formiche intendessero sterminarci fu il giorno che il mio vicino di casa volle sterminare un formicaio. Quando mi svegliai quella domenica mattina mi affacciai alla finestra e vidi la sua macchina parcheggiata. Doveva essere appena tornato dal suo viaggio di lavoro che lo aveva trattenuto nel fine settimana ed era già indaffarato nel giardino sul retro. Non mangiai, misi qualcosa addosso e lo raggiunsi. Avrei voluto salutarlo ma non me ne diede l’occasione, perché subito proruppe a lamentarsi.

―Questo è assurdo― Mugugnò mentre caricava un nebulizzatore con una tanica di Bifentrina.

―Che cosa?

―Te le ricordi quelle formiche cilene dei signori accanto?― Disse, indicando nel contempo la siepe oltre la quale un signore dai folti baffi la andava potando. Al sentirsi l’indice addosso lo guardò storto.

―Formiche argentine.

―Non serve che mi ricordi di essere un entomologo― La tanica del nebulizzatore era ormai piena da strabordare e lui ebbe difficoltà a chiudere l’imboccatura con ancora la confezione di bifentrina stretta nell’altra mano. Lo aiutai reggendogli lo strumento ―Fatto sta che da quando hanno fatto la disinfestazione nella casa accanto, qualche giorno fa, quelle bastarde devono essersi infilate nel mio giardino e si sono fatte il nido. Quando sono tornato ho trovato la mia cucina invasa, stavano ovunque ed era disgustoso.

Mise a posto la bifentrina e si riprese con violenza il nebulizzatore che gli avevo retto. Chiesi di poter vedere la cucina e lui scrollò le spalle. Aggiunse di fare in fretta perché presto sarebbe passato anche lì con un trattamento alla deltametrina e non ci sarebbero più state formiche vive da osservare. Varcai la soglia e già vidi sul soffitto in stucco bianco una scia ordinata di piccoli corpi color bronzo che spasmodicamente facevano avanti e indietro, penetrando da sotto la traversa della porta, sopra la mia testa. La seguì fino alla cucina e constatai che il mio vicino non scherzava quando l’ebbe definito uno spettacolo disgustoso.

La dispensa attaccata al muro era presa d’assalto, in diverse direzioni, da orde confuse di razziatori che si calpestavano l’un l’altro, correndo lungo le pareti. Alcune colonne riuscivano a infilarsi, seppur con difficoltà, fra l’anta e il mobile, altre invece si erano aperte la strada masticando il legno. Aprì una delle ante, un po’ tremando a dire il vero, e diedi un’occhiata all’interno. Le confezioni in cartone, in gran  parte con il rivestimento masticato, brulicavano come alveari. Quelle in plastica avevano subito un destino simile, sebbene per gli insetti era stato comprensibilmente più difficile forarle e si erano limitate a poche aperture che attraversavano diligentemente, aspettando il proprio turno per uscire o entrare. Ogni genere alimentare che non fosse chiuso in scatola era trasportato pezzo per pezzo via dal mobile e credo che se avessero avuto più tempo avrebbero trovato un modo anche per forare l’alluminio.

“Cristo” pensai “Tutto questo in due giorni”.

La mia mano stringeva ancora la maniglia dell’anta. Mi ci ero afferrato con forza quando vidi quelle moltitudini di occhi composti, mandibole e antenne saettare da tutte le parti, indaffarate, come se fosse l’ultimo giorno del loro ciclo vitale da operaie. Non ero ovviamente facilmente impressionabile alla vista di Imenotteri come loro, ma qualcosa nella spensieratezza e costanza con cui andavano lavorando mi inquietava. Si discuteva molto nel mio campo se insetti sociali come le formiche fossero entità senzienti, ipotesi verso cui ero favorevole, ed ebbi l’impressione che ci fosse qualcosa di coscienziosamente maligno nel loro agire. Capii infine perché: In un ripiano, dove il mio vicino teneva le spezie, le bustine erano state aperte, violate da morsi continui, feroci e il loro contenuto era scivolato fuori, liberando un forte e confuso odore nell’aria di cannella, peperoncino, sale e pepe. Erano lasciati ad andare a male, inconsumati, perché nocivi alle formiche da ingerire e soprattutto repellente per loro, giacché disturba il loro sistema di orientamento olfattivo, basato sul rilascio dei feromoni. Perché aprire confezioni di qualcosa che sapevano non avrebbero potuto usufruire? Ci ripensai presto su. Chiaramente non dovevano sapere che cosa le confezioni contenessero fino a che non le avevano forate.
All’improvviso dovetti ritrarre la mano. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse strappato via un pelo dal corpo, molto lentamente e bruciava, come se il dorso stesse rosolando. Mollai la maniglia dell’anta e guardai. Una di quelle Linepithema humile, altresì detta formica argentina, aveva risalito le mie dita passando sulla superficie del legno, percependo i movimenti di un grosso oggetto che era appena entrato nella stanza, e aveva affondato le sue piccole mandibole nella mia pelle. Era ridicolo, pensavo mi fossi rammollito. Possibile che mi fossi indebolito tanto che il piccolo morso di una comunissima argentina, per quanto impregnato di didolicolo e iridomirmecina,  mi procurasse tanto dolore? Diedi una schicchera con la sinistra all’insetto e quello volò per aria, atterrando sul piano cucina. Mi guardai il morso, diventato rosso vivido e che andava già a gonfiarsi come punto da una zanzara. Non era per nulla normale, pensai e poi posai gli occhi sulla formica che avevo scacciato, ma non c’era già più. Sparita. Guardai meglio e la vidi. Scendeva dal piano cucina, giù per il mobile di legno, come se volesse portare a termine lo scontro con me. Ammirai la sua resistenza, pareva del tutto incolume dal colpo di prima o quantomeno nascondeva bene il dolore a differenza mia. Ma poi ricordai, con orrore, un dettaglio: Il dolicolo e iridomirmecina contenuti nelle secrezioni del morso di un’argentina oltre a possedere capacità irritanti al contatto avevano anche lo scopo di rendere la preda un richiamo per tutte le altre operaie. Vidi decine staccarsi dalle colonne principali e scendere lungo i muri e i mobili, veloci e imperturbabili, come l’onda di una stampa giapponese. Alcune, direttamente, saltarono giù dalla dispensa e una mi atterrò con le sue sei zampe dritta sul naso. Ebbi un sussulto e riuscì a rovesciarla lontano con un colpo secco a mano aperta proprio mentre apriva le mandibole tossiche. Arretrai, prima camminando all’indietro, poi, constatato che quelle operaie non avevano la benché minima intenzione di fermarsi e, anzi, si calavano in un numero sempre maggiore, attratti dalle sostanze rilasciate sul mio dorso dalla compagna, scappai, correndo come se avessi dietro chissà quale mostro. Attraversando il salotto, da quella colonna di legionari minuscoli che marciava sopra la mia testa, si paracadutarono alcuni individui, che fortunatamente reagirono con eccessivo ritardo all’odore di allerta e finirono alle mie spalle. Solo una volta in giardino mi resi conto di quanto sarei apparso uno stupido se qualcuno mi avesse visto, ma mi bastò un’occhiata allo sciame gigantesco affaccendato in cucina per rendermi conto che forse non avevo commesso la scelta sbagliata.

Mi tenni ben lontano da altre colonne di argentine, sperando che l’odore si dissolvesse presto. Lanciai un’occhiata intanto al mio vicino, che aveva preso a spruzzare il composto di bifentrina ai confini della sua siepe in fondo al giardino, dove stava l’imbocco attraverso gli arbusti che gli insetti usavano per introdursi nel suo giardino. Il nido doveva trovarsi in mezzo alle piante, nascosto. Se la prendeva con loro con particolare delizia, sghignazzando da sotto la maschera.

―Ve la siete voluta, figli di un’unica puttana. Quando avrò finito con voi l’Olocausto parrà uno scherzo in confronto.

―Ma non sarà meglio chiamare un disinfestatore?― Gli gridai dietro. Lui si voltò, interrompendo il suo assalto.

―Con quello che costano oggi faccio meglio da solo― Guardò di nuovo in basso, per riprendere l’uso del nebulizzatore, ma esitò ―Che scherzo è questo?

―Che succede?― Gli gridai di nuovo, avvicinandomi all’ombra di un albero, ma non a lui, sia per evitare di inalare per sbaglio la bifentrina sia per non invitare di nuovo altre formiche a mordermi.

―Queste maledette si muovono ancora. È assurdo, come se non respirassero.

Concordai silenziosamente con lui, mentre tornava alla sua opera di disinfestazione amatoriale. Se quello che mi aveva detto era vero, cioè che quelle formiche argentine altro non erano che un formicaio che si fosse spostato dall’ambiente già disinfestato dei suoi vicini al suo, era possibile che nel giro di poche generazioni avessero già sviluppato una resistenza agli stessi pesticidi? Ma i miei ragionamenti furono tagliati corti da un grido. Il mio vicino indietreggiava barcollando, lasciando cadere il nebulizzatore per terra e afferrandosi il ginocchio, per poi cadere all’indietro, in mezzo all’erba. Lasciai perdere ogni mia paura e gli corsi incontro, mi piegai su di lui e cercai di rimetterlo in piedi, in mezzo a quell’atmosfera dal forte odore di insetticida. Lo trascinai via, per evitare di risultare nuovamente dei bersagli per quegli animali, afferrandolo da sotto le spalle e accompagnandolo nel suo garage. Una volta lì si era ripreso abbastanza dallo shock dovuto al dolore improvviso e si arrotolò i pantaloni, scoprendo una delle argentina con le mandibole ancora piantate nella sua carne bianca. La schiacciò senza pietà con un pollice, rigirandolo per bene, finché il corpo del piccolo invertebrato non fu niente che una macchia nera irriconoscibile di endoscheletro infranto e organi sparsi. Nel farlo trasalì, perché si schiacciò anche il morso, che, come il mio, aveva preso a crescere ad un ritmo spaventoso, assumendo un colorito rossiccio di sangue raccolto.

―Chiamiamo un disinfestatore, non possiamo farcela da soli― Insistetti.

―Ma sei scemo?― Sbottò lui, dandomi uno scossone che mi fece cadere da piegato a seduto sul pavimento in cemento della stanza, sbattendo la schiena su uno scaffale in metallo di vernice e lucido ―Ma ti senti quando parli? Suggerisci di scappare di fronte a delle maledette formiche? Ma va la, solo un morsetto mi hanno dato!

E si rimise in piedi, seppure non ci riuscì la prima volta e scivolò in ginocchio. Fece appello a tutte le sue forze e con uno sbuffo tornò eretto e si recò a riprendere il nebulizzatore. Ma era tardi, le formiche ormai lo avevano completamente ricoperto. Lo raggiunsi e guardammo insieme quello strano fenomeno.

―Sembra che non vogliano ridartelo― Commentai, affascinato.

―E io lo prendo lo stesso.

Lui se ne tornò dentro casa. Sentì un rumore di utensili e un lavandino aprirsi. In un minuto tornò fuori con un secchio pieno d’acqua. Io intanto mi ero allontanato di nuovo sotto il suo ciliegio, perché le formiche avevano di nuovo preso ad avvicinarsi a me. Si recò verso il nebulizzatore e ci rovesciò l’acqua sopra, sollevando una nuvola di vapore. Era bollente. Le varie formiche che lo coprivano erano morte e, se le si fosse potute osservare al microscopio, avevano lasciato indietro dei terrificanti cadaveri contorti dalle ustioni. Si tolse la giacca e la avvolse sul nebulizzatore per afferrarlo senza scottarsi, lo portò via e aspettò che si fosse raffreddato per tornare a mettere in pratica il suo piano contro quella specie infestante.

―Le formiche argentine― Dissi sovrappensiero nell’attesa, più a me stesso che a lui ―Sono riuscite a colonizzare tutti i continenti, Antartide esclusa.

―Di certo non riusciranno a colonizzare il mio giardino, stanne certo― E dicendo questo afferrò rabbioso il nebulizzatore, stringendolo con forza, ancora troppo caldo, e, claudicante per il morso di prima, si diresse a concludere il lavoro. Dopo una mezz’ora circa aveva finito la sua scorta di bifentrina, scaricandola tutta su quei corpicini neri. Nonostante la loro inziale resistenza le formiche si erano piegate sotto il potere tossico del piretroide, che aveva completamente distrutto il loro sistema nervoso, portandole ad una lenta agonia fatta di delirio e paura. La colonna che collegava il formicaio alla casa era stata interrotta. Le altre dovevano essersi chiuse nel nido avvertendo il pericolo o cambiato strada, mentre quelle in cucina aspettavano, confuse dall’aver perso contatti con il resto della colonia. Su quell’erboso campo di battaglia dovevano giacere almeno i cadaveri di trentamila formiche argentine. Se non si fosse trattato di insetti sarebbe stato spaventoso. Per un momento cercai di figurarmi uno scenario alternativo dove non erano le formiche ma trentamila piccoli esseri umani ad essere stati uccisi da una singola, gigantesca argentina armata di nebulizzatore, ma scacciai subito quel pensiero dalla testa.

―”Chiamiamo un disinfestatore”― Mi fece il verso lui, mentre andava a sistemare l’attrezzo mortale in garage ―Ma fammi il piacere.

―Tutto a posto la gamba?

Se la scrutò un poco, alzandosi la gamba del pantalone. Io feci lo stesso con la mia ferita al dorso che non accennava a sparire.

―Mah, mi pare di sì. Ormai non lo sento più― Disse, ma avevo intuito dal tono della sua voce che mentiva ―Tempo di fare una visita a quelle rimaste in cucina.

―No― Intervenni deciso ―È meglio attaccare il nido adesso. Non possiamo lasciargli il tempo di riorganizzarsi. Le formiche argentine possiedono circa una regina ogni centoventicinque operaie e se anche una sola dovesse scapparci avrebbe la capacità di fondare una nuova colonia e tu ti ritroveresti punto e a capo.

Lui si grattò il mento dalla barba incolta.

―E sia― Accettò ―Mostrami dove sta il nido.

Non fu difficile, bastò potare un poco la siepe per trovare, ben in profondità, in mezzo alle sue radici, due aperture di un formicaio, a dieci metri di distanza l’una dall’altra. Io allargai ancora un poco il buco in mezzo ai rami con le cesoie mentre lui era tornato in casa a prendere un altro secchio. Tornò e lo rovesciò senza complimenti  per metà su ognuno dei due buchi. Potei solo immaginare cosa si provasse ad essere una di quelle operaie, chissà, forse intente ad accudire delle pupe, giù in quei condotti scuri di terriccio, per poi ritrovarsi immersi nell’acqua calda, ustionati e annegati al tempo stesso in mezzo ai corpi delle tue sorelle. Anche questo pensiero fui portato a scacciarlo con forza. Dopotutto, pensai, alle formiche non deve interessare troppo di morire. Chissà, forse neppure provano dolore. Ma ciononostante quella bruttissima sensazione non mi mollava.

―Bella pensata vecchio mio― Disse il vicino, dandomi una sonora pacca sulla spalla che mi ridestò da quei pensieri. Si diresse poi a prendere la tanica di deltametrina e a riversarla nel nebulizzatore, pronto a finire il lavoro in cucina, dove lo attendevano le ultime argentine, inconsapevoli della morte delle loro regine e camerate ―Vuoi dare un’ultima occhiata alle pesti prima che sia troppo tardi, entomologo?

―Per favore no― Dissi, tornando in casa per mangiare qualcosa. Mi sentivo patetico per aver risposto così ma non potevo farne a meno. Per quanto microscopico, quel massacro non fu piacevole, affatto. Cominciavo a sentirmi male e tornai a casa, con la consapevolezza che, per quanto lo aborrissi, ero stato un complice.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantascienza / Vai alla pagina dell'autore: Cladzky