Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Bibliotecaria    04/11/2020    2 recensioni
In un mondo circondato da gas velenosi che impediscono la vita, c’è una landa risparmiata, in cui vivono diciassette razze sovrannaturali. Ma non vi è armonia, né una reale giustizia. È un mondo profondamente ingiusto e malgrado gli innumerevoli tentativi per migliorarlo a troppe persone tale situazione fa comodo perché qualcosa muti effettivamente.
Il 22 novembre 2022 della terza Era sarebbe stato un giorno privo di ogni rilevanza se non fosse stato il primo piccolo passo verso gli eventi storici più sconvolgenti del secolo e alla nascita di una delle figure chiavi per questo. Tuttavia nessuno si attenderebbe che una ragazzina irriverente, in cui l’amore e l’odio convivono, incapace di controllare la prorpia rabbia possa essere mai importante.
Tuttavia, prima di diventare quel che oggi è, ci sono degli errori fondamentali da compire, dei nuovi compagni di viaggio da conoscere, molte realtà da svelare, eventi Storici a cui assistere e conoscere il vero gusto del dolore e del odio. Poiché questa è la storia della vita di Diana Ribelle Dalla Fonte, se eroe nazionale o pericolosa ed instabile criminale sta’ a voi scegliere.
Genere: Angst, Azione, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
5. Tra rapine, cuori e bugie
 
Il giorno seguente mi misi alcuni vestiti comodi e andai a casa di Garred: dovevo aiutarlo a sistemare un problema di spazio nella sua nuova casa che si trovava sul limitare di quella minuscola isola sospesa sul canyon che era Meddelhock.
Glielo avevamo promesso tempo fa tutti noi ragazzi, eccezione fatta Galahad che era impegnato a svolgere il primo test per la maturità. 
Arrivata lì notai che già tutti si stavano preparando per costruire la nuova stanza di quella enorme fattoria ricavata da un vecchio magazzino. Garred mi spiegò che un tempo era un granaio ma che, quando l’azienda agricola era fallita decenni prima, la famiglia di Garred aveva trasformato la struttura in una discreta casa. Ricordo che era presente la famiglia di Garred al completo, la quale comprendeva circa una quarantina di membri legati per sangue e per matrimonio. Vivevano quasi tutti in quella casa enorme; presentava quattro piani e era anche abbastanza ampia a dire il vero, ma considerando il numero d’inquilini era un miracolo che finora a loro fosse bastata considerato che, da quel che mi diceva il mio amico, cugini e fratelli dormivano in grossi stanzoni, mentre i genitori dormivano nelle stanze più piccole in cui ci stava appena il letto, per non parlare del grosso problema legato al unico bagno. “Come mai tutta questa gente?” Commentai ad un certo punto. “È per fare prima: sai molti adulti devono comunque andare a lavorare i campi fuori città e di certo non possiamo affidare questo compito ai bambini.” Mi spiegò Garred mentre vedevo quel manipolo di tritoni e sirene dirigersi verso i campi o gli uffici in cui lavoravano. “Certo capisco.” Dissi sovrappensiero mentre notavo Giulio alle prese con un bambino che voleva a tutti i costi arrampicarsi su di lui; non riuscii a trattenere un sorriso. Poi mi ricordai del bacio e distolsi lo sguardo cercando di mantenere il mio decoro. “Non ti ho ancora ringraziato per l’altra sera, quindi grazie.” Garred mi distolse dai miei problemini da adolescente media. “Figurati, una cosuccia, e poi tu sei l’unico che è tornato a casa con le sue gambe, non come qualcuno di mia conoscenza che mi ha quasi vomitato addosso mentre facevamo le sei rampe di scale.” Dissi riferendomi a Galahad, Garred scoppiò a ridere e venni contagiata dalla sua risata e dal suo buon umore.
 
Passai la giornata a svuotare scatoloni, riempirne altri e a pulire oggetti da polvere, ragnatele e ruggine di ogni sorta. Ad aiutarci c’erano anche altri giovani amici della loro famiglia, e notai che erano quasi tutti tritoni e mi stavano guardando male, li ignorai, sapevo che avevano tutti i motivi del mondo per odiarmi in quanto umana, non dovevo farmene un cruccio, vedevo quegli sguardi anche nella mia città natale, non era una novità. Ciò non ostante dovevo sforzarmi per restare calma quando sentivo dei commenti amari. Ad un certo punto mi accorsi addirittura che stavano facendo di tutto per tirarmi fuori dal lavoro ma io insistetti ad aiutare con gentilezza forzata e frecciatine quando necessario. A pranzo nessuno tranne i miei amici mi rivolse la parola. “Sono così mostruosa?” Domandai seccata a Garred dopo l’ennesima occhiataccia da quella che pareva una zia bisbetica. “Diana! Tu non sei mostruosa!” Esclamò Garred attirando l’attenzione di tutta la tavolata, gli lanciai un’occhiata preoccupata non capendo cosa avesse in mete. “Non è colpa tua se sei nata umana!” Esclamò alzandosi da tavola ed iniziando a gesticolare focalizzando l’attenzione di tutti su di noi. “Per quanto mi riguarda, non ho mai incontrato un’umana meno umana di te! Sei sicura di non essere in realtà un elfo o un licantropo, forse una maga!?! È facile confondervi!” Esclamò Garred facendomi sorridere. A vederla dal vivo la sua sceneggiata era particolarmente buffa: quel suo modo teatralmente esagerato, il tono da scemo e i commenti senza senso, era un bravo buffone. “Temo di essere abbastanza sicura delle mie origini di sangue, e non le posso cambiare, nessuno di noi può.” Dissi cercando di trattenere le risate. “Ma il sangue è solo il retaggio, giusto?” Domandai e Garred mi sostenne continuando a parlare. “Certo! Io sono figlio di mio padre, ma lui è un burbero io invece sono favoloso.” Disse gonfiando il petto come un galletto. “Tu sei uscito male Garred, sei un buffone!” Esclamò qualcuno dei suoi parenti. “Ah, ha parlato mister tutto d’un pezzo.” Continuò il ragazzo intrattenendo tutti con estrema facilità, lo guardai con dolcezza: era proprio bravo a sciogliere le tensioni, dote non da poco che gli sarebbe servita molto come adulto.
Per il resto della giornata quanto meno smisero di guardarmi come se fossi un mostro abominevole e a lavoro concluso mi invitarono a cena con il restanti membri della famiglia. Era una cena a base di pesce d’acqua dolce e mi sorprese non vedere i frutti di mare visto che a casa di Nami quello era il piatto forte. Fu una serata piacevole.
 
Senza che me ne rendessi conto tornai a casa alle nove e mezza, non me ne preoccupai troppo ad essere sincera: ero convinta che i miei genitori avessero il turno fino a mezzanotte, ma mi sbagliavo.
Quando entrai vidi i miei genitori furiosi e preoccupati aspettarmi in cucina. “Oh…” Fu la prima cosa che dissi vedendo mia madre sull’orlo di una crisi isterica e mio padre furioso mentre metteva giù il telefono dicendo. “Marco è tornata, avvisa gli altri, ci vediamo domani.” Sentii la cornetta del telefono squillare nello stesso istante in cui mio padre l’appoggiò, la ignorò fino a quando non smise di suonare e a quel punto alzò la cornetta così che nessuno potesse disturbarci. “Siete tornati presto.” Commentai entrando in cucina ancora sporca di polvere. “Dove sei stata? Sono due ore che ti aspettiamo e il coprifuoco per te è saltato tre ore fa!” Tuonò mio padre furioso. “Sai quanto eravamo preoccupati!?! Piccola stupida ingrata!!!” Urlò mio padre furibondo. “Claus!” Esclamò mia madre cercando di fermare mio padre ma questo si liberò dalla sua presa in un gesto. “Cosa pensavi?” Iniziò mio padre avvicinandosi. “Che avremmo lasciato correre questa scappatella!?! Che potevi non dircelo perché saremmo arrivati più tardi!?!” Mi stava sbraitando addosso e il suo sguardo era sempre più minaccioso così come il mio, come il riflesso distorto d’uno specchio. Non resistetti e a quel punto risposi. “Sono andata a casa di un amico. Aveva bisogno d’una mano a sistemare casa. Problemi? Mi hanno in vitato a cena, una vera cena. Non quel cibo precotto che mi rifilate voi. Non mi sono resa conto dell’ora. È un problema così grosso? Non serve che monitorare ogni mio movimento. Sono abbastanza grande da sapermi muovere anche di sera.” Dissi seccata cercando di trattenere la voglia di urlare che pervadeva la mia gola arsa per l’ira che bruciava dentro di me. “Diana! La gente muore e sparisce ogni giorno! Non puoi fare di testa tua!” Tuonò mio padre furioso. “In questa casa ci sono delle regole per un motivo! Vedi di rispettarle!” Eravamo a meno d’un metro di distanza e lui mi stava quasi sputando in faccia facendo valere quei pochi centimetri di differenza che avevamo. “Che si fotta il copri fuoco!” Non avevo ancora finito quando sentii un dolore acuto alla guancia, il mio viso si voltò spontaneamente e mille piccoli aghi mi perforarono la zona lesa: mio padre mi aveva dato uno schiaffo. Alzai lo sguardo dovevo sembrare davvero furibonda perché la mamma si mise in mezzo prima che ci picchiassimo a vicenda. “Fermi voi due!” Tuonò lei. “Luisa non ti intromettere! A questa ragazzina va insegnata la disciplina!” Tuonò mio padre che in preda al ira scostò con troppa forza mia madre facendola sbattere contro al tavolo. Come mio padre si rese conto di quel che aveva fatto si voltò sconcertato da quel che aveva fatto. Improvvisamente il nostro litigio non ero più importate. “Luisa, mi dispiace, io…” Mia madre si alzò con tutta la compostezza del mondo e guardò furiosa mio padre. Anni che stavano assieme e mio padre non aveva mai sfiorato la mamma, neanche nei sui eccessi d’ira peggiore. Pertanto rimasi di ghiaccio nel vedere la scena. “Fallo un’atra volta e giuro sul Sole e sulla Luna che divorziamo.” Lo minacciò mia madre furibonda alzandosi. “Luisa mi dispiace io… Diana…” Mio padre tentò di raccattare una scusa ma senza molto successo. “Non dare a nostra figlia la colpa dei tuoi problemi!” Tuonò mia madre facendo rizzare i peli a me e mio padre. A quel punto abbassò lo sguardo e se ne andò. Mio padre, ovviamente, la seguì sprofondandosi in un oceano di scuse che mia madre ignorò.
Dopo qualche istante di gelo, in cui non seppi cosa fare, ritornai ad essere la bambina impicciona che si nascondeva nel armadio per sentire i discorsi dei grandi e li spiai mentre litigavano da dietro la porta della loro stanza. “La devi smettere! Diana non è più una bambina! È forte quasi quanto te rischiate di finire al ospedale!” Fu la prima frase che riuscii a distinguere chiaramente. “Luisa quella ragazzina non mi ascolta né con le buone né con le cattive!” Continuò mio padre. “Non cambierà idea se la picchi!” Rispose mia madre. “E che altro dovrei fare? Parlarci?” “Sarebbe una buona idea tanto per cambiare!” Rispose mia madre. “O la perderai definitivamente! Claus, io ti amo, e sei un marito fantastico, ma con Diana non sai più rapportarti!” “È lei che non mi ascolta!” “Non è solo quello. Tu vuoi importi su di lei, ma oramai è quasi una donna, lo sai. Tra un paio d’anni si potrà sposare senza il nostro consenso se vorrà, potrà trovarsi un lavoro, andare al università se lo desidererà o fare entrambe le cose se necessario.” Disse mia madre più calma ma comunque furiosa. “Lo sai che non le taglierei mai i viveri Luisa.” “Lo so, ma lei potrebbe non accettare più nulla da te. So che fai fatica perché avete lo stesso carattere ma devi smetterla di trattarla come una bambina capricciosa.” Esclamò mia madre. “E cosa dovrei fare? Lasciarla andare in giro fino all’una? Permetterle di andare a delle manifestazioni in cui rischia di essere arrestata o ferita?” Domandò mio padre chiaramente preoccupato. “Preferisci che faccia queste cose di nascosto?” Domandò mia madre. “E che un giorno sparisca dalle nostre vite senza che ce ne accorgessimo? Abbiamo lottato tanto per averla, non voglio perderla. E so che non lo vuoi anche tu, quindi ti prego, ti prego, smettila di nutrire la bestia che c’è in Diana.” Supplicò mia madre, non volli sentire nient’altro e mi rinchiusi in camera. L’ultima frase di mia madre mi aveva turbata: la bestia dentro di me, era così che lei chiamava quel fuoco, quella rabbia che mi consumava giorno dopo giorno e mi domandai quanto dovesse essere forte oramai. Era da quando ero piccola che avevo imparato quella lezione che adesso mia madre stava cercando di sradicare: o ci si dimostra forti imponendosi urlando e colpendo o non si è nessuno.
Mi sdraiai sul letto e controllai la mia guancia: si era arrossata e a toccarla bruciava, contro voglia mi alzai dal letto e recuperai da una piccola cassetta del pronto soccorso che tenevo in camera da tempo immemore dato che preferivo non far notare a mia madre quanto spesso entrassi in una rissa. Tirai fuori la crema contro le abrasioni e me la spalmai generosamente in viso malgrado l’odore fosse insopportabile. A quel punto potei solo aspettare che si assorbisse. E mentre fissavo il soffitto mi tornò in mente che la prima volta che avevo preso a pugni mio padre aveva avuto una dinamica simile.
 
Avevo quattordici anni, c’era stato un diverbio con papà per qualcosa, non ricordo cosa per l’esattezza, probabilmente qualche sciocchezza che la me preadolescente riteneva importante rimarcare. Però ricordo che ad un certo punto mi aveva dato uno schiaffo. A quel punto lo avevo spintonato lontano da me per poi avergli dato un pugno colpendolo in pieno sterno, da lì avevamo iniziato a picchiarci. Ricordo perfettamente la sensazione dei calci e dei pugni che diedi e che ricevetti, gli strattonamenti, gli schianti, le leve, tutto quello che avevo fatto aveva sorpreso me e mio padre che furioso rispondeva con sempre meno controllo alle mie provocazioni. Gli diedi filo da torcere ma se non fosse intervenuta la mamma ad un certo punto avrei ricavato qualcosa in più di un naso rotto. Non dimenticherò mai lo sguardo confuso di mio padre né quello preoccupato della mamma quando mi rialzai e gli sputai contro. Ma che cosa potevano pretendere? Erano stati loro a crescermi nell’idea che il più forte mangia il più debole e i più forti si sanno difendere, e io avevo appreso come difendermi tempo fa, ero sempre stata più forte delle mie coetanee, anche dei miei coetanei e dove non potevo vincere con la mera forza vincevo grazie alla tecnica e all’astuzia, e per questo dovevo solo ringraziare i miei genitori che senza volerlo o saperlo avevano generato una macchina da guerra, fortuna che la forza fisica non era il mio solo talento, o molto probabilmente non sarei ancora viva. Ricordo che quado mi avevano messo in punizione avevo presi a calci i cuscini e misi su un po’ di rock per far uscire la mia rabbia. Sarà contraddittorio ma più la musica era potente più mi calmava.
 
Il mattino seguente i miei decretarono che per punizione non sarei potuta uscire per il resto della settimana, inutile dire che sarei uscita comunque di nascosto: tanto stavano fuori praticamente tutto il giorno e non avevano nessuno che potesse controllarmi. Tuttavia non fu l’unica novità quella mattina: mentre leggevo un libro, sentii il telefono suonare. “Pronto?” Domandai tenendo la cornetta leggermente distaccata dall’orecchio, avevo un sospetto su chi fosse. “Ciao Diana!” Stinsi gli occhi infastidita: tutte le volte che ci sentivamo i miei compagni dovevano urlare quando erano al telefono. “Ehi ragazzi. Che novità?” Chiesi mentre mettevo il segnalibro e appoggiavo il romanzo sul tavolo. Ero ansiosa di ascoltarli: non li sentivo da una settimana, erano letteralmente spariti. “Indovina!” Urlò Lillà tutta eccitata. Ci pensai su ma non mi venne in mente nulla di plausibile. “Uhm… non saprei c’è stato un terremoto che ha lasciato illesi tutti tranne Deitre lasciandogli una bella commozione celebrale?” Domandai sperando che si sbrigassero con questo gioco, non ero del umore adatto. “No! Ancora meglio gamba lunga!” Mi disse Gahan con il suo vocione nanico prematuro per un quasi diciottenne. “Meglio di liberarsi della piaga di Lovaris? Dura a dirlo, avanti sputate il rospo.” Ordinai con fare annoiato convinta che ben poco mi potesse sorprendere a questo punto. “Lillà…” Iniziò Tehor con fare sommesso. “A te l’onore.” Continuò lui tutto eccitato e divertito. “Mi sposo!!!” Esclamò Lillà e per poco non caddi dalla sedia. “EHEHE!?!?!” Esclamai incredula. “E tu sei invitata!” La notizia mi lasciò scioccata: Lillà era sempre stata quella più infantile di noi nei modi, per di più aveva sempre la testa per aria. “O per il…” Sussurrai mordendomi la lingua conscia quanto lei odiasse le mie bestemmie. “Quando?” Domandai sperando che fosse in un tempo ragionevole. “E con chi?” Aggiunsi così da sapere il nome del bastardo a cui fare il terzo grado la prima volta che tornavo. “Il quindici d’agosto con Gestro.” Rimasi di sasso. “Quello di quinta che l’anno scorso ti faceva il filo e che tu maledicevi in continuazione sperando che sparisse?” Domandai incredula “Sì, lo sappiamo Diana, assurdo, vero?” “Taci Fina!” Urlò Lillà zittendo la mia compagna. “Che c’è, è vero! L’anno scorso hai addirittura detto che gli avresti preferito strapparti le tue belle ali di farfalla piuttosto che avere le sue sudicie mani addosso.” Disse Fina facendo ridacchiare tutti, inclusa la sotto scritta, quasi immaginavo le ali purpuree di Lillà abbassarsi per la vergogna mentre quelle da libellula di Fina frullavano divertite. “Beh, in effetti Lillà ammetterai che ci hai sconvolti tutti quando ce l’hai detto: solo l’anno scorso lo hai minacciato di morte non so quante volte!” Disse Oreon divertito. “Vero! Vi ricordate?” Domandò Zafalina in lontananza. “Oh, povera me! Quello sciocco! Non è una fata è una zanzara fastidiosa che meriterebbe solo di essere schiacciata!” Scimmiottò Zafalina seguita a ruota da Gahan. “Non potete capire cosa sto passando!” “Va bene, adesso basta o farete prendere un infarto alla sposa!” Li bloccò Kallis. “Oh, ma andiamo, guasta feste, non ci si può mai divertire!” Esclamò Gahan. “Va bene, va bene, calmatevi!” Dissi cercando di trattenere le risate. “Lillà l’invito quando mi arriverà?” Domandai. “Ti arriverà tra breve. E mi raccomando vestirti elegante! Se indossi i tuoi soliti pantaloni da soldato e maglietta giuro che ti rifilo uno dei miei vecchi vestiti stucchevoli.” Disse Lillà minacciosa. “Dubito che mi potrebbero anche solo stare i tuoi vestiti ma farò come comanda signora, eseguirò gli ordini!” Esclamai. “Sarà meglio per te.” Mi avvisò Lillà. Ci salutammo da lì a breve. Il mio primo pensiero fu come convincere i miei genitori, ma sapevo che per quello avrei trovato una soluzione, dovevo solo aspettare che arrivasse il momento propizio; l’altro problema era dove comprare un vestito decente dato conto che l’unico abito elegante che avevo era una camicia bianca e dei pantaloni neri che indossavo quando venivano a casa i colleghi dei miei. Sospirai, avrei corrotto Felicitis e Vanilla per accompagnarmi a trovare qualcosa di decente da mettere. Poi però mi tornò in mente un’altra cosa: da quel che ricordavo ad agosto ci sarebbe stata una missione discretamente importante, avevo sentito gli altri discuterne. Sentii l’angoscia pervadermi: non avevo idea di come queste cose funzionassero, per di più ero appena arrivata, non potevo già dire che sarei sparita per tre o quattro giorni. Un senso d’ansia mi invase ma lo scaccia, oramai ero dentro a questa vita dovevo abituarmi a queste situazioni, per di più non ero neppure sicura che io sarei stata necessaria o che la data del matrimonio coincidesse con quella della rapina. Espirai e decisi che come prima cosa il giorno dopo avrei dato un’occhiata al calendario appena finita la riunione a cui dovevo partecipare e avrei anche chiesto ai ragazzi come comportarmi per ottenere il permesso di lasciare la città per qualche giorno, ammesso e non concesso che fosse possibile.
 
Il giorno seguente andai al quartier generale assieme ai ragazzi e come vidi Giulio sentii le gote arrossire e lo stomaco in subbuglio. Le possibilità erano due: o mi stavo ammalando o stavo ricadendo il quel orribile girone chiamato amore. “Diana.” Mi salutò Giulio e io scattai come una scema. “Giulio! Ehi! La sbronza ti è passata?” Domandai tutta concitata mentre mentalmente mi imponevo di darmi un minimo contegno. “Sì… mi è passata già da ieri.” Se dicessi che desiderai finire nel Oblio e non tornare più in dietro sembrerebbe esagerato? “E scusa se non ti ho ringraziata a dovere, ma l’altro giorno eravamo tutti un po’ presi.” Disse tranquillo. “Oh, rilassati! È stato un piacere.” Dissi mentre entravamo nella cantina, desiderando prendermi a pugni da sola per la quantità immane di sciocchezze che stavo farneticando. “Non ci credo neanche morto che ti sei divertita: Galahad vive al sesto piano e praticamente Garred fuori città, ci devi aver messo due ore solo per riaccompagnarci.” Disse Giulio tranquillo. “Sì, è vero, anzi ora che mi ci fai pensare è stata un’esperienza orribile: vi proibisco di prendervi un’altra sbronza simile in mia presenza. Fortuna che so guidare e ho la patente o non sareste neppure potuti tornare a casa visto che Orion era troppo ubriaco per poter anche solo toccare il volante.” Dissi già più tranquilla. “D’avvero? Ti ha lasciato prendere il furgone? In tre anni che lo conosco ha permesso solo a Nohat di guidarlo e solo dopo due mesi che aveva preso la patente e aver guidato con lui una decina di volte.” Mi informò sorpreso. “In effetti mi ha minacciata di morte se lo riportavo con anche solo un graffio, ma per mia fortuna i miei genitori mi hanno insegnato a guidare a dovere.” “D’avvero, quando hai fatto la patente?” Mi domandò Giulio sorpreso. “Devo già farla a Lovaris, ma con il trasloco e tutto ho dovuto ricominciare tutta la procedura qui a Meddelhock. L’ho fatta agli inizi di marzo ed è stata una fortuna che l’avessi con me: se mi avessero bloccata mi avrebbero portata in commissariato, fortuna che nessuno ha badato a me.” Gli spiegai finche ci avvicinavamo alla zona riunioni. “Su cosa sarà la riunione?” Gli chiesi. “Riguarda la prossima rapina, non credo che tu vi parteciperai, infondo sei appena arrivata e Malandrino non è il tipo che si fida facilmente.” Mi spiegò Giulio aprendomi la porta. “La cosa non mi sorprende.” Ammisi a bassa voce mentre osservavo tutti i presenti: erano circa venti persone e per la maggior parte trai quindici e i trent’anni, prevalentemente maschi ma c’era comunque qualche femmina, però io ero l’unica umana. Mi guardai in giro: nessun segno di Malandrino.
Mi sedetti con Giulio accanto agli altri miei compagni di scuola e attendemmo. La riunione era per definire la strategia per il prossimo colpo, una rapina ad una gioielleria del centro per permetterci in seguito di poter comprare armi e informazioni, le due cose più importanti per iniziare una rivoluzione prutroppo. Lì scoprii che avrei dovuto aiutare Nohat a creare una copia delle chiavi. Conclusasi la riunione andai a controllare il calendario degli attacchi previsti e ringraziai il cielo che ad agosto non fossero previste missioni tranne che alla fine del mese. Mi segnai mentalmente di chiedere ai ragazzi se dovevo informare ai piani alti un mio eventuale spostamento e a chi, e sperai vivamente che non si trattasse del Malandrino, quel folletto mi metteva a disagio come poche persone in vita mia, principalmente per il suo sguardo: quegli enormi occhi neri brillavano di una strana luce di pazzia e follia che mi spingeva a domandarmi se ciò che facesse avesse un senso oppure fossero solo deliri di un folle assetato di sangue.
 
Pochi minuti dopo mi ritrovai ad analizzare la carta dell’edificio che avremmo dovuto rapinare. Accanto a noi c’era Orion il quale sarebbe stato a capo della missione e che avrebbe tenuto d’occhio noi giovani scapestrati, come si divertiva a definirci, e appresi come si attua una rapina. Una parte di me si sentiva in colpa: era solo una gioielleria come tante ce n’erano all’epoca, quando si spendevano volentieri i soldi per i gioielli, che senso avrebbe mai avuto per noi rubare e rivendere quei gioielli e metalli preziosi al mercato nero. Quel senso di ingiustizia mi tartassò per l’intera giornata, anche quando durante la pausa mi misi assieme ai miei compagni di scuola a fare gli esercizi per le vacanze tranne Galahad che se ne stava da una parte a leggere per un libro che non riconobbi subito. Credetti che si trattasse di qualcosa che gli servisse per la seconda prova dato che aveva svolta la terza due giorni prima ma dopo una seconda occhiata capii cosa fosse: era un testo universitario, probabilmente sottratto alla biblioteca. Mi fece piacere che lo tenesse tra le sue mani, quella poca cultura un Altro poteva crearsi veniva prevalentemente dai libri che leggeva dato che non tutte le scuole erano accessibili per una questione di retta o di legge dato che non tutte le scuole superiori erano concesse agli Altri e le università erano inaccessibili a questi. Orion lo prese in giro dicendogli che si riempiva la testa di sciocchezze a leggere così tanto e che si sarebbe dovuto concentrare sulla terza prova e l’orale. Orion però non capiva, quelli della sua generazione e quella dei miei genitori non capivano mai quanto oramai fosse fondamentale possedere conoscenze superiori a quella che potevano offrire le scuole secondarie per tirare avanti in questo mondo che d’in anno in anno diventava sempre più tecnologico e complesso.
 
Due giorni dopo io e Nohat ci stavamo dirigendo alla gioielleria. Aspettai assieme a Nohat che il venditore chiudesse il negozio per la pausa pranzo bevendo qualcosa di fresco nella caffetteria accanto, e quando vidimo l’uomo uscire pagammo il conto e ci infilammo nella via in cui si stava dirigendo. Nohat gli si avvicinò e finse di sbattergli contro per poi prostrarsi in un’infinità di scuse. Poi, una volta dietro al vicolo, Nohat mi passò le chiavi e io ne feci la stampa di quelle per entrare sul retro su una pasta apposita. “Sei bravo a taccheggiare.” Commentai sorpresa, mentre prendevo le chiavi, non mi aspettavo che Nohat avesse le mani di velluto. “Me l’ha insegnato mio padre, non amo farlo ma è una dote utile in questi casi.” Mi informò lui freddamente. “Bene, quando si accorgerà delle chiavi?” Domandai. “Tra poco, lasciamole dove si è scontrato con noi crederà che gli siano cadute.” Andai io a posizionarle lasciandole cadere dove l’uomo si era scontrato con Nohat, nell’angolo. Restammo qualche minuto lì appostati fino a quando l’uomo non tornò indietro affannato ma come vide le chiavi si rilassò, le prese e tornò in dietro. “Pover uomo.” Commentò Nohat con cattiveria. “Tra qualche giorno le chiavi saranno pronte e per quando compiremo il furto si sarà già dimenticato della mia faccia.” Disse Nohat divertito mentre tornavamo alla base con la stampa delle chiavi. “Non sarebbe stato più facile forzare la porta?” Domandai curiosa. “Forse, ma Malandrino non vuole alcun rischio, se qualcuno ci vedesse o sentisse gli sbirri arriverebbero nel giro di poco tempo e questo sarebbe un problema.” Mi informò tranquillo. Una volta entrati nell’autobus smettemmo di parlare della rapina così decisi di instaurare una conversazione normale. “Sei riuscito a fare il primo tema?” Gli domandai più per parlare che per una vera curiosità. “No, non ho idee. Per di più è un tema scemo: definisci il concetto di Eroe.” Disse lui ironico. “Cosa siamo alle medie? Eroe, una bella favoletta per idioti e bambini. Gli Eroi non esistono al di fuori dei libri e nei fumetti.” Disse Nohat seccato. “Allora scrivi questo.” “No, dirà che sono privo di fantasia e che ho scritto una cavolata, il nostro professore vorrà l’elogio di una qualche figura, ma io non ho credo nell’esistenza degli Eroi.” “Neppure io, o almeno non nell’idea popolare: un cavaliere senza macchia e senza paura, dall’animo nobile e perfetto in tutto.” Dissi sincera. “Io credo che gli Eroi veri non esistono, poiché se si vuole che la storia si ricordi di te devi fare del male ad un tuo nemico, e si sa che la storia la scrivono i vincitori, quindi quello che noi elogiamo come eroe potrebbe essere stato un orrendo carnefice sotto un’altra luce, e io non credo che una persona possa essere perfetta, quindi l’Eroe non esiste realmente, esistono solo persone che secondo noi fanno del bene e che i loro errori valgono meno delle loro glorie.” Spiegai, mi ricordo bene quella conversazione e ciò che dissi, lo usai nel tema e presi un misero sette e mezzo ma il professore mi fece i complimenti per l’idea originale, l’avevo conservato quel tema se non ricordo male, chissà se i miei genitori voluto preservare a loro volta.
 
Sette giorni dopo, il trentesimo ed ultimo giorno del mese con solo uno spicchio di luna calante nel cielo, ero seduta in macchina ad aspettare che i ragazzi finissero di rubare i gioielli. L’autista che ci avrebbe dovuto aiutare stava male quindi Malandrino aveva rifilato a me il compito di stare in macchina per preparare la fuga dato che ero l’unica che sapesse guidare e che quella sera non avesse altri impegni o compiti da svolgere. Quando tutti uscirono con la loro refurtiva ed ebbero chiuso il bagagliaio feci salire in macchina Nohat, il quale mi rivolse il solito sguardo freddo, Orion e un altro paio di ragazzi che non ricordo chi fossero e partii senza fetta, era stato un lavoro veloce e pulito. “Dov’eri alle otto di sera del 30 giugno di quest’anno?” Mi chiese Orion, presi un bel respiro. “Ero fuori con Nohat a fare un giro per la periferia.” Risposi tranquilla sforzandomi di guidare piano e prudentemente malgrado volessi solo correre il più lontano possibile dal negozio. “Quando è che sei uscita?” Chiese di nuovo con un tono di voce più minaccioso. “Verso le sei e mezza circa.” Risposi indifferente. “Avete incontrato qualcuno che conoscete?” “No.” Ero ancora calma con mia grande sorpresa. “Quando sei tornata a casa?” Chiese duro. “Beh, a questa domanda non posso ancora rispondere non ti pare Orion?” Dissi cercando di spezzare la tensione più che palpabile in auto senza ottenere nessun successo, così risposi. “Dovrei arrivare verso le dodici e mezza a casa se non incontriamo traffico.” Dissi contenta di non essere caduta nel suo trabocchetto. “Non serve l’ironia Diana! È una cosa seria!” Era furioso malgrado non urlasse. “Va bene, ho capito cercavo solo di allentare la tensione.” Risposi pacata. Proseguimmo, Nohat era accanto a me e scoprii che non riusciva a restare calmo dopo un colpo, era iperteso e non c’era verso di scioglierlo.
 
Arrivata a casa salii per le scale antincendio e mi ripetei a memoria la storiella che avrei dovuto raccontare nella remota possibilità che fossi stata scoperta. Stavo per entrare dalla finestra quando vidi mia madre lì ad aspettarmi a braccia incrociate e lo sguardo truce, entrai comunque e sostenni il suo sguardo. “Il tuo coprifuoco è passato da molte ore.” Constatò mia madre fissandomi furiosa mentre io mi preparavo alla paternale. “Non dirò nulla a Claus, ma pretendo spiegazioni.” Alzai lo sguardo sorpresa non sapendo come sentirmi: da una parte ero felice che non avrebbe detto nulla a papà, ma dall’altra dare delle spiegazioni mi rendeva nervosa. “Voglio solo fare una vita da normale adolescente. Chiedo troppo?” Non mentivo, non serviva, era il mio desiderio, ma non sarebbe stato il coprifuoco prolungato a rendermi libera, oramai io ero una fuorilegge al servizio di Malandrino ma mia madre non sapeva questo di me. Pensava che i miei desideri fossero gli stessi della ragazza che aveva lasciato Lovaris mesi fa: la libertà di un coprifuoco che andasse oltre le sei, il poter scegliere la gente da frequentare, non dover ricevere un interrogatorio a ogni nuova amicizia e non dover andare a conoscere i loro colleghi. “Cosa hai fatto e con chi?” Mi chiese duramente. “Un giro in periferia con Nohat.” Risposi acida. “Nohat… il vampiro?” Alzai gli occhi al cielo alla sua domanda. “No, mamma, Nohat è il ragazzo più scontroso del gruppo, quello più riservato ma un buon amico quando gli gira, non il vampiro!” La rimproverai acidamente. Era così che i miei si riferivano ai miei compagni Altri, i miei compagni umani, invece, venivano paragonati a chi erano. Lei si voltò verso la finestra. “Da quanto tempo scappi fuori in questo modo?” Mi chiese calma ma severa. “Da poco tempo.” Una mezza verità, un mese in fondo non era molto. “Allora vuoi avere maggiore libertà?” Mi chiese retorica. “Sì dannazione!” Urlai esasperata. “Ti prenderai la responsabilità che essa comporta?” Mi domandò e feci un secco segno affermativo. “Ti darò fiducia e non dirò niente a Claus delle tue… diciamo fughe e vedrò di convincerlo, ma tu signorina porta a casa risultati e avverti quando esci o non vedrai mai più la luce del giorno. Sono stata sufficientemente chiara Diana?” Quella volta era quasi riuscita a fare la parte della mamma comprensiva quindi decisi di rischiare. “Sì, mamma, ho capito…” “Cosa c’è adesso?” Domandò mia madre notando che volevo dirle del altro. “Lillà, una mia ex-compagna, si sposa il quindici agosto. Posso andarci?” La vidi pensarci su. “Quante altre volte sei uscita di qui fuori orario, perché e con chi.” Chiese mia madre. “Oggi e due settimane fa circa, ero andata a bere con i miei amici, gli altri erano alticci e li ho dovuti accompagnare a casa, sarò tornata verso le due. Più l’altra volta che mi avete beccata.” Sussurrai sperando che non mi uccidesse o scoprisse la mia enorme bugia dato che era da ben più di un mese che sparivo mentre loro andavano a letto. Mia madre controllò a dovere il mio linguaggio non-verbale, era un esperta di interrogatori e il linguaggio del corpo era uno dei suoi punti forti, probabilmente è grazie a lei se ho imparato a mentire molto tempo fa. “Bene potrai andarci, ma vedi di non uscire più in questo modo!” Quando uscì tirai un sospiro di sollievo; mia madre era anche meno irascibile, impetuosa e manesca di mio padre, ma era terribilmente brava a estorcere informazioni, e sapeva essere particolarmente spaventosa quando voleva.
Un paio di giorni dopo sentii mio padre e mia madre discutere e comparve spesso il mio nome. Di certo si trattava della questione maggiore libertà. Ne uscii vincitrice.
 
Qualche giorno dopo stavo tornando da una riunione, Giulio mi stava facendo compagnia visto che doveva prendere il suo autobus e aveva una fermata che si trovava nel percorso per casa mia. Stavamo parlando del più e del meno, oramai mi ero convinta che non si ricordasse del bacio che gli avevo dato quando improvvisamente si fermò davanti ad all’entrata di un piccolo parco pubblico. “Ehi, senti, ci fermiamo qui?” Mi domandò. “Ho voglia di rilassarmi, sai tra i Rivoluzionari e il resto non sono più venuto qui.” Mi spiegò guardando l’entrata trasognante. “Non ci sono mai entrata con voi, lo frequentavate spesso?” Domandai mentre lo seguivo nell’entrata. “No, io di norma ci andavo da solo, ma ultimamente non ne ho avuto il tempo.” Mi spiegò mentre ci incamminavamo per quella stradina di ghiaia l’uno accanto all’altra e non potei non lanciare uno sguardo su Giulio: i suoi capelli castano scuro e la sua barba incolta lo rendevano attraente, per di più era un po’ più alto di me, aveva le spalle larghe e il petto scolpito, e poi c’era qualcosa nel suo odore che mi faceva stare tranquilla e che mi liberava dei centinaia di pensieri che spesso e volentieri affollavano la mia mente. “Ci sediamo?” Mi propose Giulio arrivati un punto soleggiato nell’erba, gli feci cenno che mi andava bene e ci sedemmo lì, non c’era nessuno quel giorno. “Diana, senti…” Lo guardai di striscio confusa. “Uhm?” Borbottai cercando di godermi il sole, cosa che non riuscivo a fare spesso di recente, a Lovaris stavo fuori quasi tutta l’estate ma in città era più difficile stare fuori con l’aria soffocante pomeridiana. “Cosa significava quel bacio?” Come lo sentii spalancai gli occhi e mi sentii sudare freddo. “N…ni…en…te” Pregai il Sole, la Luna e tutte le Stelle che mi vennero in mente perché quella assurda situazione si interrompesse. “Allora perché sei rossa?” Mi domandò ponendosi proprio difronte a me. Scostai lo sguardo, non avevo avuto molto tempo di pensare a Giulio, ma mi era chiaro che provavo più della semplice amicizia per lui ma non sapevo se lui l’avrebbe potuto accettare: io avevo già avuto le miei relazioni con persone che non erano umane ma non sapevo se Giulio fosse di mentalità così aperte. Poi notai come era messo, era vicino a me, non si era posto in una situazione di distacco ma d’intimità. “Credo per lo stesso motivo per cui tu mi sei così vicino.” Dissi guardandolo nei suoi occhi marrone-dorato. Giulio si bloccò un momento, incerto se ritrarsi o avvicinarsi, poi trovammo entrambi il coraggio e lasciai che Giulio mi baciasse le labbra, portai le mie mani trai suoi capelli un po’ mossi, erano morbidi come la pelliccia di un lupo e sorrisi con il cuore mentre mi stringeva alla vita dopo qualche istante d’incertezza. Dolcemente lo trascinai tra l’erba con me e lasciai che si stringesse a me, arrossii ma non mi scomposi troppo: avevo già avuto tre ragazzi prima di Giulio queste esperienze per me non erano nuove ma erano molto più piacevoli rispetto a come me le ricordavo. Dopo un po’ Giulio e io ci separammo e ci guardammo scambiandoci uno strano sorriso complice. “Hai mai avuto una relazione del genere?” Mi domandò. “Ho già avuto tre ragazzi e non erano umani.” Gli spiegai nervosa. “Ma non erano licantropi.” Specificai. “Okay… io invece prima d’ora non sono mai stato con qualcuna che non fosse stata una licantropa.” Mi spiegò un po’ in imbarazzo ma a me non diede fastidio. “Immaginavo… ti infastidisce?” Gli domandai mettendomi a sedere, cosa che fece anche lui. “No.” Ammise sincero guardandomi e donandomi un sorriso e cercando di avvicinarsi a me ancora un po’, lo lasciai fare: mi annusò curioso affondando la sua chioma scura nei miei capelli color del grano che portavo lunghi fino a più di metà schiena ed erano folti quindi Giulio si immerse totalmente nascosto dai miei capelli. “Hai un buon odore, lo sai?” “Immagino di sì visto che mi hai baciata.” Sussurrai mentre Giulio faceva capolino e mi guardava negli occhi alla ricerca di qualcosa nel mio animo sempre con quella espressione serafica che influenzò pure me. “Credo che tu mi piaccia.” Ammise Giulio avvicinandosi per accarezzarmi il viso. “Credo che la cosa sia reciproca perché anche tu mi piaci.” Gli risposi io avvicinandomi un po’ di più e baciandolo di nuovo, ora che potevamo, e lui rispose con piacere. “I tuoi come la prenderanno?” Mi domandò un po’ preoccupato quando ci separammo. “Non lo so. Finora non ho mai detto loro nulla sulle mie relazioni, per loro sono ancoro una povera ragazzina vergine e ignara.” Spiegai. “Ah, lo hai già fatto?” Mi domandò Giulio. “Sì, il più grosso errore della mia vita, tranquillo. L’ho mollato secoli fa quel damerino.” Gli spiegai. “Non intendevo questo, solo che… il tuo odore pare incontaminato, non so neanche come spiegarlo.” “Oh… ehm… quello credo che sia il preservativo…” Bofonchiai nervosa. “Il cosa?” “Preservativo, è un aggeggio che i maschi si mettono sul membro per prevenire la gravidanza.” Spiegai. “Oh, sì, giusto, quello… mio cugino me ne ha parlato una volta ora che mi viene in mente, ma con le mie precedenti ragazze non mi sono mai dovuto preoccupare.” “Sei vergine quindi?” Domandai. “Non ho detto questo.” Mi confessò. “Solo che capivo quando erano in calore quindi non mi preoccupavo neppure.” Mi spiegò pacato. “Oh, sì, Andrea mi aveva accennato una cosa simile anni fa.” “Chi?” Domandò lui confuso. “Un mio vecchio amico d’infanzia, anche lui è un licantropo, quindi mi aveva accennato qualcosa sul fatto che i licantropi sono in calore meno spesso degli umani.” “Oh, certo…” Lui rimase in silenzio qualche secondo poi trovò il coraggio e parlò. “Senti… se vuoi ti accompagno fino a casa tua, tanto la mia fermata è poco prima.” Mi propose sorridendomi timidamente. “Certo.” Decisi alzandomi assieme a lui che si avvicinò timidamente alla mia mano intrecciandola con la sua, la strinsi forte. “Hai le mani callose.” Notai sorpresa. “Lavoro un po’ in segheria con i miei quando posso.” Mi spiegò mentre sentivo la sua pelle sfiorare la mia. “Ma anche tu ne hai qualcuno sulle nocche e le dita.” Notò, mi sfuggì un sorriso pensando che quei quattro calli erano nulla in confronto ai piedi. “Sai, facendo per anni corsi di auto difesa e facendo parte della Squadra della classe qualche callo viene fuori.” Gli spiegai imbarazzata. Camminammo fianco a fianco prendendocela comoda e chiacchierando, restando vicini, mi sentii bene, di nuovo una ragazza.
Arrivati all’angolo dietro casa mia ci fermammo e gli diedi un piccolo bacio sulla guancia per salutarlo. “Allora a domani.” Lo salutai. “A domani.” Rispose lui, so che non avrei dovuto, ma quando fui sicura che lui pensasse che io fossi entrata mi voltai e lo spiai mentre esclamava uno strozzato e tornava in dietro con le mai dietro la fronte, non potevo vederlo ma sapevo che stava sorridendo, anche io lo feci e mi diressi a casa, per mia fortuna i miei genitori non erano ancora tornati a casa così, quando mi buttai sul letto con l’adrenalina in corpo per l’eccitazione non dovetti trattenere le miei risate divertite, mi dimenticavo troppo facilmente di questo aspetto di me: il cuore a mille, il sorriso sulle labbra che sfioravo neanche avessi fatto chissà cosa, era solo un bacio in fondo, ma sapevo che non lo era. A Lovaris era un conto, le coppie miste tra noi giovani non erano così strane ma oramai non ero più una ragazzina e sapevo che se volevo portare avanti questa cosa che avevo con Giulio dovevo esserne sicura perché dallo strano solleticorio che avevo nel cuore, dal caldo nel mio basso ventre e dalla pace serafica che mi pervadeva compresi che questa volta era serio, non era semplice curiosità o attrazione fisica ma amore, mi girai sul letto e immersi la faccia nel cuscino, pregai di aver interpretato bene i mei sentimenti questa volta.
 
Il giorno seguente mi ritrovai con i ragazzi difronte alla base dei Rivoluzionari, li salutai con un cenno, mi tenni in dietro e prima di entrare mi fermai un secondo e diedi un tenero bacio sulla guancia a Giulio che ricambiò per poi sorridermi con un candido imbarazzo, risposi divertita. Finita la riunione per organizzare lo scambio di informazioni del giorno seguente Nohat mi prese in disparte e mi obbligò a seguirlo in una stanza vuota per potermi parlare in privato. “Giulio mi ha detto di quel bacio.” Disse all’improvviso senza tante cerimonie, divenni tesa alla vista dei suoi occhi diventare di un colore più acceso del solito. “Quindi?” Domandai altezzosa. “Siete per caso usciti di senno? Sai quel che rischia Giulio se vi beccano?” Mi riprese Nohat mentre sentivo un pesante senso di colpa formarmisi nel petto: non ero d’avvero più a Lovaris. “Non giocare coi sentimenti di Giulio. Siamo amici da una vita e se lo ferisci, o gli succede qualcosa per questa vostra perversione, non avrai più una goccia del tuo sangue schifoso. Ho reso l’idea?” Mi ferirono molto le parole di Nohat ma le accettai: l’amore tra due persone di razze diverse è molto delicato e può guarire ferite come le può aprire. Non potevo giudicare Nohat per essere preoccupato per il suo migliore amico, solo che per una come me, che veniva dalla campagna e dal Sud certe cose erano considerate normali in giovinezza, non molto apprezzate dagli adulti, ma non così scandalose come invece parevano esserlo a Meddelhock. “Sì, lo comprendo. Non temere.” Dissi cercando di difendermi almeno un po’. “A me non sembra che tu capisca Diana.” Mi contraddisse Nohat guardandomi con i suoi occhi di ghiaccio divenuti luminosi per la scarsa luce. “Se qualcuno lo scoprisse aldilà di noi ragazzi sarete presi di mira. Giulio potrebbe finire persino in prigione.” “No, non c’è nessuna legge che impedisce rapporti tra persone di specie diverse, è solo... desueto.” Cercai di spiegargli ma l’esitazione sulla mia ultima parola era più che evidente. “Più che desueto direi impossibile. E poi, cara la mia Diana, ho visto gente finire in prigione perché si era approcciato ad un umano. Non so come siano le cose nel tuo paesino idilliaco di campagna.” A quell’affermazione gli diedi un’occhiataccia. “Ma qui non sono accettate quindi o prendi questa relazione seriamente o la chiudi adesso.” Decretò. “Non sono una sprovveduta, Nohat. E nel mio paesino idilliaco di campagna, come lo chiami tu, siamo molto più avanti su queste cose: baciare qualcuno di una razza diversa non è così strano.” Dissi irritata. “Ma quanti si sposano alla fine?” Mi incalzò Nohat cogliendomi in fragrante, abbassai il capo. “Nessuno, lo ammetto. Ma non parlare di quel che c’è tra me e Giulio come se ci dovessimo sposare: ci siamo dichiarati ieri per la miseria, mi sembra che tu corra un po’ troppo con la fantasia.” Dissi irritata. “Allora sei proprio scema. Giulio è serio, molto serio con te o non si sarebbe dichiarato e sono almeno due mesi che ha una cotta per te.” Una strana sensazione mi fece attorcigliare le viscere ma m’imposi di mantenere la calma, anche se Nohat notò la preoccupazione sul mio viso. “Oh… e ora come la metti santarellina? Giulio non vuole giocare, cosa farai adesso? Lo manderai a quel paese e gli darai del perverso? Fai tanto la bonaria ma al sodo non faresti nulla.” Disse Nohat ferendomi dentro: avrei voluto dirgli che finora erano sempre stata io quella seria e gli altri a giocare con me, ma ero una ragazzina all’epoca e Nohat non mi avrebbe creduto, sinceramente neanche io avrei saputo se credermi. “Non dici nulla?” Mi riprese il ragazzo guardandomi con sempre maggior rabbia. “Senti Nohat, ora come ora io non riuscirei a dire se quel che c’è tra me e Giulio sia serio o meno, lui mi piace e vorrei poter stare con lui senza dovermi preoccupare del giudizio altrui, ma non posso ignorare la cosa. Non so se Giulio diventerà l’amore della mia vita o sarà solo uno trai tanti ma quel che so è che come mi sono messa con lui perché è Giulio se mai lo dovessi lasciare sarà per lo stesso motivo, non perché è un licantropo. Io vorrei solo dargli un po’ di felicità e vorrei essere felice con lui. Nulla di più.” Erano parole vere anche se Nohat rimase scettico. “Se non sapessi come sei quando menti direi che ora stai sparando una gran cazzata.” Sorrisi, infondo mi apprezzava, quello stupido sbruffone.
 
Il giorno dopo avevo un altro lavoretto, quello che sarebbe dovuto essere il mio primo vero lavoro. “Devo andare Galahad, Nohat e Giulio mi aspettano!” Urlai prima di uscire con la borsa di stoffa dove avevo nascosto il cambio di vestiti. “Dove andrete?” Mi chiese mio padre teso e preoccupato: stava ancora cercando di accettare il fatto che ora avessi tutte queste libertà malgrado Meddelhock fosse esponenzialmente più pericolosa di Lovaris. “Vado alla paninoteca e dopo ci facciamo un giro nei dintorni. Dovremmo tornare tardi credo: tra le undici e mezzanotte forse un po’ più tardi.” Detto questo uscii sperando che andasse tutto bene. Entrata in autobus ero tentata di cambiarmi ma sapevo di non poterlo fare. Mangiammo i nostri panini parlottando del più e del meno, ma era evidente che Galahad fosse nervoso. Giulio ed io tentammo di calmarlo e l’unico modo fu lasciare la paninoteca prima del previsto perché altrimenti la gente avrebbe potuto insospettirsi del comportamento del nostro amico. “Scusatemi.” Sussurrò Galahad nervoso. “Calmati, è un lavoro semplice, finirà in fretta.” Disse Nohat mentre Giulio mi stringeva la mano, alzai lo sguardo. “Cosa c’è?” Sussurrai. “Sei sicura di farcela? Come prima missione è piuttosto delicata. E se la vendita va’ male chissà cosa faranno.” “So badare a me stessa Giulio, non temere.” Lo rassicurai stringendogli con forza la mano, tenendo per me che ero calma solo perché loro tre sarebbero stati accanto a me.
Arrivata l’ora ci dirigemmo al punto prestabilito e ci cambiammo in un angolo buio indossando gli abiti scuri e il passamontagna così che non potessimo essere identificabili. Malandrino aveva insistito per avere me con loro sebbene tutti si fossero opposti: in primo luogo perché ero un umana e se qualcuno si fosse accorto di questo piccolo dettaglio avremmo dovuto dire addio allo scambio, in secondo luogo perché ero appena arrivata e molti sostenevano che non ero ancora abbastanza pronta o degna di fiducia per questo genere di missione e terzo perché ero una femmina e non potevo incutere timore quanto avrebbero potuto maschi grandi e forti come Giulio, Nohat, Galahad, Orion e Idoler. In parte condividevo questo loro ragionamento: malgrado fossi alta e anche abbastanza robusta non ero una presenza così minacciosa, eppure Malandrino aveva detto una cosa strana. “Sciocchezze uno sguardo di questa ragazzina terrorizza più di una pistola alla testa.” Non avevo ben compreso quel che intendesse, comunque non mi posi troppe domande e mi misi su il passamontagna.
Arrivammo al luogo in cui sarebbe avvenuto lo scambio, un vecchio parcheggio di un ufficio abbandonato e prossimo alla demolizione. Malandrino, Orion e Idoler ci stavano aspettando all’entrata ovest, l’altro gruppo sarebbe entrato da est. Ci infilammo nel edificio oramai sede temporanea di spacci, casa di barboni e incontri loschi, quindi non saremmo stati particolarmente notati anche se ci fossero state delle telecamere che non avevamo notato, il che era improbabile visto che Felicitis e Vanilla avevano controllato la zona innumerevoli volte e segnalato ogni singola telecamera nei dintorni. Guardai la valigetta in cui Orion teneva parte della refurtiva alla gioielleria: avevamo fuso l’oro e spezzato i vari gioielli così da poterli dare come pagamento a loro. Arrivati al punto d’incontro non dovemmo attendere molto, probabilmente volevano sbrigare l’affare in fretta. Gli individui con cui eravamo venuti a trattare erano chiaramente più vecchi di noi e uno era di sicuro un demone probabilmente il famosissimo ricercato dalla S.C.A. di quel periodo, Lombroso, lo sospettai a causa della coda spezzata che si agitava avanti e in dietro durante tutta la trattativa e la particolare forma ondulata delle corna. Gli altri erano irriconoscibili, di alcuni non ero neanche in grado di dire la razza o il colore della pelle, l’unica persona con un altro dettaglio identificabile era un maschio con uno strano tatuaggio che si intravedeva sul polso e doveva essere, assieme al presunto Lombroso, il capo del gruppo. Dietro avevano il loro piccolo corteo di scagnozzi come Malandrino aveva noi, solo che nel loro gruppo non c’erano di certo né umani né femmine. Mi domandai che genere di informazioni avremmo ottenute, di certo erano preziose considerata la somma. “Malandrino, ti porti sempre dietro quei lattanti.” Notò il presupposto Lombroso scrutando noi ragazzi. “Bando alle ciance, siamo vecchi colleghi, facciamo come al solito?” Domandò Malandrino. “Certo, manda avanti il tuo secondino.” Decretò Lombroso. Malandrino fece un cenno a Galahad che afferrò la valigetta e mostrò il contenuto con un sangue freddo incredibile. “Bene.” Disse il tatuato per poi mandare avanti un uomo molto più mingherlino accompagnato da uno ben più grosso, quello magro controllò da vicino l’oro e i gioielli. “Sono veri.” Decretò il mingherlino tornando in dietro con lo scagnozzo. “Le informazioni?” Domandò Malandrino. “Questo è il fascicolo che hai richiesto, il prezzo è quello pattuito.” Disse il tatuato mostrando un fascicolo che riconobbi nel formato: apparteneva alla S.C.A. ne ero certa e c’era pure la firma del capo della S.C.A., era sicuramente autentico. Malandrino mi fece cenno di seguirlo e gli andai a presso, notai che Giulio tentennò un attimo sul posto ma rimase fermo, sapeva che una mossa falsa mi avrebbe messa molto più in pericolo della vicinanza con quella gente. A quel punto raggiunsi il tatuato che mi porse il fascicolo. “È autentico?” Mi domandò Malandrino, lo studiai un secondo, avevo già riconosciuto il timbro ma sbirciai velocemente al interno, avevo visto questo genere di fascicoli tutta la vita visto che mamma e papà mi rifilavano quelli di scarsa importanza da buttare per disegnare e spesso li vedevo sfogliarli mentre erano a casa, ma l’analisi fu accorta. “Sì, ne sono certa.” Dissi malgrado non avevo capito cosa se ne facesse Malandrino d’un fascicolo così, pareva importante ma non avevo capito di cosa trattasse dato che non mi ero soffermata a leggere il contenuto. Malandrino a quel punto si fece passare la valigetta da Galahad e la consegnò a Lombroso, o al suo sosia, e io consegnai i documenti a Malandrino che li controllò rapidamente, potei vedere un sorriso velenoso formarsi sotto al passamontagna. “Alla prossima Malandrino.” Disse il tatuato dileguandosi assieme ai suoi compagni e noi li imitammo.
Quando finì ripresi a respirare, Giulio mi sfiorò il braccio e io gli feci cenno che andava tutto bene. A dire il vero mi stavo riprendendo dalla tachicardia che mi aveva fatto venire l’incontro ma mi imposi di riassumere la mia compostezza.
“Che informazioni erano?” Chiesi una volta tornata in abiti civili avvicinandomi a Malandrino. “Nulla che ti riguarda novellina.” Rispose acido Orion al posto suo. Strinsi i pugni, Orion aveva una certa abilità per farmi saltare i nervi.
 
Prima di tornare a casa compiemmo un breve giro per il centro per poi prendere la strada di casa. Galahad e Nohat ci mollarono quasi subito lasciandoci da soli. Il cuore mi batteva forte. Mi ripetevo di non fare stupidaggini mentre continuavo a darmi dell’idiota per comportarmi come una ragazzina di quattordici anni. “Diana ho saputo che Nohat ti ha dato una tirata d’orecchie ieri, spero che non sia così, ma credo che sia a causa mia.” Disse d’un tratto. “Sì.” Le parole erano pesanti dentro di me ma appena uscivano mi apparivano leggere. “Mi ha fatto il discorsetto sul fatto che io sono un’umana e tu un licantropo.” Dissi decisamente più tranquilla a questo punto. “Sarà difficile, tutti saranno stupiti e molti non capiranno. Tuttavia… io voglio rischiare, voglio provarci Giulio.” Lo guardai negli occhi e ci lessi sorpresa, seguita da dolcezza, mi passò una mano dietro all’orecchio sistemandomi una ciocca per poi passare dietro alla nuca, con cautela spostò il mio volto verso il suo, lo lasciai fare, tanto eravamo in una via nascosta, buia e quasi deserta, si avvicinò, entrambi chiudemmo gli occhi e ci donammo un bacio: era leggero, saporito, pieno di sentimenti e puro. Mi allontanai con riluttanza. “Baci bene.” Gli dissi mentre sentivo ancora il calore delle sue labbra su di me. “Tu no.” Aggiunse lui picchiettando sul mio naso divertito, in risposta io gli mollai un pugno al petto con fare giocoso ma abbastanza forte da fargli fare un lamentio. Insistette per accompagnarmi a casa ma rifiutai spiegandoli che non poteva girare come se niente fosse da solo, a piedi, nel quartiere più ricco di agenti S.C.A. della città, ma mi fece piacere che me l’avesse chiesto. Quando arrivai a casa erano le undici e tre quarti, fu una bella sensazione non dover entrare dalla finestra a casa propria a modi ladra mi faceva sentire meno sporca.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Bibliotecaria