Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: yonoi    04/11/2020    9 recensioni
Un italiano a Tōkyō, un lutto recente per la perdita dell’amata Fumi, una donna giapponese. Due lavori – il servizio di pulizie in una grande azienda e un part time in un ristorante – che non aiutano a colmare interamente la solitudine. All’improvviso un incontro, qualcosa di Fumi sembra tornare nelle delicate sembianze di un giovane cliente del locale.
Prima classificata al contest “Folklore d’Italia” indetto da Vintage sul Forum di EFP; partecipa alla challenge "Riproviamoci! Challenge a tempo" indetta da Mystery Koopa sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
“Crepuscolo autunnale
da solo faccio visita
a un’altra solitudine”
(Yosa Buson)
 

4. Jizo dei piccoli

 
A Komorebi ritorno presto, perché la Natsukashii non solo intende pubblicare Furin nel vento d’estate, ma mi chiede subito un’altra storia completa, da presentare all’editore entro cinque giorni.
La telefonata arriva alla mattina presto, durante il consueto giro di pulizie alla Bio Nihon, e mi getta nello scompiglio al punto che persino il carrello traballa, i detersivi sussultano, gli stracci alzano le mani in segno di resa e, se l’avessi ancora, il mio furin tintinnerebbe in preda a un attacco di panico.
In cinque giorni devo farmi venire un’idea che non sia carta straccia, concepire la sequenza narrativa, realizzare le tavole. Se penso che ci ho messo più di due mesi per completare la prima storia, avverto un cappio bello grosso stringersi attorno al collo. Soprattutto, all’altro capo della linea indovino il sorriso a trentadue zanne dell’ineffabile signorina Nakamura.
“Come, non lo sapeva?” dice, in un italiano perfettamente affilato. “Guardi che da noi funziona così. La nostra casa pubblica sessanta storie al mese e solo perché siamo un piccolo editore. Qui i manga sono prodotti di consumo, mica roba di élite.”
In Giappone, i disegnatori possono contare su greggi di assistenti che sgobbano come gli impiegati della Bio Nihon, ma io ho solo due mani e una testa che sembra un retino per le farfalle, nel senso che le idee a volte ci s’impigliano ma più spesso fuggono via.
In breve, ritorno a Komorebi per firmare il contratto, ricevere le ultime minacce da Nakamura e passeggiare per le stradine silenziose in cerca di ispirazione.
Proprio fuori dal fienile che è la sede dell’editore, un piccolo torii segna l’inizio della salita che conduce al santuario. Salgo gli antichi gradini di pietra, ben spazzati dai monaci che hanno accatastato ai lati mucchi di foglie, aghi di pino, rovi. Ovunque c’è odore di resina, di funghi, di umidità. I tanti che sono passati prima di me hanno impresso, nel tempo, le loro impronte sulla roccia.
Sulla cima mi coglie un senso di straniamento. La foschia che mi avvolge è fatta del respiro umido delle piante, ma ciò che mi colpisce è la particolare qualità del silenzio: è quello che si crea quando in un luogo sono presenti molte persone e tutte quante tacciono nel medesimo istante.
Dove sia questa folla, lo scopro inoltrandomi lungo un sentiero delimitato da cippi e colonnine, pagode in miniatura che ospitano divinità. I cespugli di felci proteggono da occhi indiscreti un camposanto, che sembra piccolo perché è nascosto ma che in realtà si snoda lungo tutto il crinale.
Percorrendo uno dei viottoli scopro molte statuette di Jizo, il monaco sorridente che protegge i viandanti e che ho incontrato spesso nelle strade di campagna e al paese, persino all’incrocio che conduce alla casa della Momoko-san. Qui Jizo è presente ovunque col suo volto pacifico e tondo, la testina pelata come quella di un neonato. Lungo il pendio ci sono file intere di queste figurine, una platea silenziosa che indossa bavaglini e cuffiette, addirittura piccole giacche a vento, come se fossero a tutti gli effetti dei bambini da proteggere dal freddo.
Ogni Jizo possiede un corredo di giocattoli, bastoncini d’incenso, girandole sbiadite dalle intemperie. Quelle più nuove ronzano catturando la brezza, altre giacciono a terra assieme alle statuette, forse perché nessuno viene a visitarle da tempo o forse per la burrasca della scorsa settimana.
Le statue sono di pietra, difficile che si rompano. L’unica eccezione è un Jizo di ceramica di cui qualcuno sta raccogliendo i pezzi poco più in là. Mi fermo a osservare quella figura china, le dita che frugano il muschio mi sono familiari, le riconosco nonostante la bruma, la distanza e la strana sensazione che provo nel ritrovarlo in questo posto. D’altra parte, Hirano Ryumei mi ha parlato di un incidente e di un figlio. E questa dev’essere l’ala del cimitero riservata ai bambini.
Forse Jizo rappresenta il piccolo defunto oppure è una sorta di angelo custode, una guida nei territori dell’aldilà. L’unica cosa certa è che il dolore di Hirano Ryumei arriva fin qui, al limitare del viottolo dove mi trovo adesso, e il suo profilo è così dissanguato che spicca nell’ombra, come se fosse anche lui di ceramica.
Rivedo il volto di Fumi già col naso affilato, i capelli come fili di ferro sopra al guanciale. Il senso di impotenza degli ultimi momenti, la neve di quel giorno trascinata dal vento.
Hirano Ryumei fruga la terra, si allontana con in mano i cocci di Jizo e un berrettino di lana rossa. All’altro capo del viottolo la sua figura si perde ed è come se non fosse mai stato qui. Di lui resta un’impronta sospesa nell’aria, un grumo di foschia che mi ricorda Fumi vista di spalle. Per un attimo i capelli di lei ondeggiano seguendo il ritmo dei passi, poi mi accorgo che quello che sto fissando è la chioma di un salice.  
Al solito, ogni volta che ho a che fare con Hirano Ryumei l’irrazionale rischia di prendere il sopravvento. Però non posso fare a meno di pensare al misterioso legame tra la grazia di lui e il ricordo di Fumi, come se l’una sconfinasse nell’altro.
Soprappensiero, raggiungo la zolla d’erba su cui aleggia quella strana foschia. Trovo un altro frammento del piccolo monaco, l’intera testolina con due occhietti e un sorriso appena abbozzato. Strano che Hirano Ryumei, che ho visto andar via col berrettino in mano, l’abbia dimenticata.
L’indomani, pongo quella reliquia insieme alle altre su uno scaffale, accanto agli origami della volpe più grande e quella più piccina. Quel mucchietto diventa una presenza fissa nell’ufficio del direttore del personale. Lo incontro puntualmente durante il mio giro di pulizie, finché Hirano Ryumei decide che non c’è modo di rimettere insieme i pezzi, oppure è solo stanco di trovarseli sempre tra i piedi.
È così che una mattina, al momento di vuotare il cestino della carta straccia, un tintinnio mi sorprende.
Un fruscio sale dal fondo, qualcosa che assomiglia a un furin. Sono i cocci di Jizo Bosatsu, il paffuto personaggio che, a quanto mi ha raccontato il signor Be, oltre a proteggere i viaggiatori di questo mondo ha cura dei bambini che dimorano sulle rive del grande fiume dell’aldilà.
Secondo un’antica credenza, i piccoli spiriti sono bloccati in quella sorta di limbo dalle acque scure. Ogni volta che tentano di attraversarle sono respinti, perché non hanno accumulato meriti sufficienti per rinascere in terra o in qualche paradiso buddhista. Nella speranza che si permetta loro di oltrepassare il fiume, passano il tempo ad accumulare pietruzze e a costruire torri che i demoni del luogo puntualmente distruggono, costringendoli a ricominciare eternamente daccapo. In quella terra detta Sai no Kawara, che significa il luogo dell’inutile sforzo, Jizo difende i bambini, li accoglie sotto il suo manto, li aiuta nel passaggio all’altra riva.
Dubito di aver mai sentito una storia più triste. Chissà se Hirano Ryumei ci crede, se con gli occhi dell’immaginazione e del senso di colpa vede l’anima di suo figlio aggirarsi su quel bagnasciuga di ombre.
Raccolgo i pezzi del monaco Jizo, caduto dall’aldilà direttamente dentro a un cestino della carta straccia, insieme a fotocopie riuscite male e fax non andati a buon fine. Nella mia tasca, i cocci battono l’uno contro l’altro. Direi addirittura che applaudono, mentre ripongo il carrello nel ripostiglio e mi dirigo verso l’uscita.
La sera stessa, al paese, con tutta la miglior buona volontà non riesco a prendere sonno. Il motivo ufficiale è la storia da consegnare all’editore. Dopo essermi rigirato infinite volte nel futon, esco a fare due passi per schiarirmi le idee. Scendendo lungo il viottolo tra le piante dell’aloe, ho l’impressione che la spiaggia dietro alla casa della Momoko-san si popoli di piccole figure accovacciate, intente a costruire castelli neri di sabbia. 
 
******
 
Armato di attaccatutto e di giornali stesi sopra al bancone, il signor Be è assorto nell’operazione di rimettere insieme i pezzi di Jizo. I risultati non sono propriamente soddisfacenti, perché non appena riesce a saldare una parte ne salta via un’altra.
“Sta’ attento,” gesticolo io, che non so fare niente e quindi supervisiono.
Sto ancora rimuginando sulla storia da presentare alla Natsukashii entro i fatidici cinque giorni. Avrò pure qualche rimanenza da qualche parte, da spacciare per novità.
Forse potrei proporre Melodia nella notte. Una bambina sogna di diventare ballerina e per questo si esercita fino alle ore piccole. Dal palazzo di fronte l’accompagna un misterioso pianoforte, suonato da un altrettanto fantomatico musicista, un’ombra che s’intravede dietro alle tende di una finestra.
Dopo una lunga preparazione la ragazzina riesce a entrare all’accademia di danza, e da quel momento in poi il pianoforte tace. In seguito, si scopre che in quell’edificio era vissuta una giovane musicista, defunta dopo una lunga malattia. Il suo unico cruccio nel lasciare questo mondo era di non poter più suonare.
Anche stavolta si parla di Fumi e di spettri, però i disegni non sono macabri e naturalmente non c’è traccia del famigerato linguaggio da scaricatore di porto.
Direi che può funzionare.
Penso alla storia e mi torna in mente quella sera trascorsa sulla terrazza della Bio Nihon, in compagnia di Hirano Ryumei e della famosa zuppa Muso Production. Anche allora, come sorta dal nulla, d’un tratto si era materializzata la musica. 
Mi rivedo appoggiato al parapetto e alla spalla di lui, eppure c’è qualcosa in quel fotogramma, qualcosa che sul momento non ho registrato ma che ora mi suscita un senso di smarrimento.
Una sensazione di freddo.
In luogo del tepore che si avverte al contatto con un corpo umano, un refolo di polvere come di vecchia cantina. Anche il volto di lui spiccava nella notte come il barlume di un fuoco fatuo. Quell’effetto straniante era forse dovuto ai neon delle insegne, alla notte punteggiata di luci della città. O, più probabilmente, Hirano Ryumei moriva ogni volta che pensava a suo figlio.
Lavoro terminato, gesticola Be dopo un po’. Mi mostra la statuetta incollata alla bell’e meglio: malgrado tutti gli sforzi, le crepe sono la prima cosa che si nota e con tutto il rispetto Jizo sembra un rottame.  
“Sarà meglio comprarne un altro,” dico, e già mi vedo a caccia di monaci nei megastore aperti ventiquattr’ore su ventiquattro.
Come al solito, Be riesce a leggermi nel pensiero.
Dubito che tu possa trovarlo nei grandi magazzini, annota sulla carta spiegata sul bancone. E anche se riuscissi a comprarne uno uguale, non sarebbe la stessa cosa.
Al di là di ogni logica, so che Be ha ragione.
Dove ho sentito dire che ciò che si spezza può non solo essere aggiustato, magari un po’ meglio di come ha fatto Be, ma addirittura rivivere?
Continuo a rifletterci mentre torno al paese con l’ultimo autobus. Penso a questo e naturalmente a Hirano Ryumei, che dopo la pace siglata grazie alla zuppa Muso Production ha ripreso a frequentare il locale, a inondare il tavolo migliore del padiglione con i suoi fiumi di carte, a ordinare il solito ramen e a ripetere sempre gli stessi gesti. È come rivedere ogni volta lo stesso film.
Ogni sera mi chiede di sedere al suo tavolo. In compenso ha smesso di fare domande e si limita a guardarmi con una fissità sempre più impressionante, a esibire il suo incarnato sempre più trasparente. Lo sguardo di Fumi crepita nel fondo dei suoi occhi, come se provenisse direttamente dall’aldilà.
Più di una volta mi è capitato di voltarmi verso il bancone per controllare se anche Be vede quello che vedo io, ma il mio collega è discreto e di rado solleva il naso dal suo vocabolario di cinese. È ancora convinto che prima o poi riuscirà a spuntarla con il padre di Shu.
L’intera faccenda comincia a sembrarmi sempre più strana. In ogni caso, stasera mi guardo bene dall’andare a passeggio sulla spiaggia, sia mai che possa imbattermi in strane presenze in attesa del traghetto per l’oltretomba.
Rimango nella mia stanza e frugo qua e là tra gli album, in cerca del fumetto da consegnare all’editore. È così che ritrovo l’opuscolo che in una mattina ormai lontanissima mi era stato donato dal vecchietto del kintsugi.
Domani è giorno di mercato, fin dal mattino ci sarà una coroncina di bancarelle sulla piazzetta.
Forse vale la pena di andare a dare un’occhiata.
 
******
 
Il mattino seguente parto in perlustrazione. All’appello sulla piazzetta sono presenti quasi tutti: c’è il ragazzino immerso nella lettura dei manga, che non alza la testa neanche di fronte ai suoi acquirenti e si limita ad allungare il porcellino salvadanaio. C’è l’anziana che cuoce il tempura, butta il sale a manciate e scuote il polso ossuto, che sembra un prolungamento della padella.
Poco più in là, al posto del kintsugi c’è un’adolescente con i codini e la faccia dipinta di bianco e nero, un musetto da scheletro e un banchetto dedicato a vecchi demo e fanzine di musica metal.
Quell’angolo dev’essere un crocevia di correnti gelide, perché Scheletrino trema come una foglia e insieme a lei rabbrividiscono i codini puntati in cima alla testa, di un bianco cinereo. Siccome occupa proprio quel posto, le domando se sa qualcosa del vecchio delle ceramiche, ma la ragazza si limita a scuotere il capo. Non capisco se sta morendo di freddo, non parla inglese o sta semplicemente rispondendo di no.
Mi resta solo l’opuscolo, che riporta ben quattro recapiti telefonici. A un’altra bancarella compero due lattine di macha bollente. Ne offro una a Scheletrino, che all’improvviso resuscita dal suo stato assiderato e ce la mette tutta per assicurarmi che il nonnetto del kintsugi sarà qui con le sue mercanzie il prossimo giovedì.
Decido che una settimana è un tempo troppo lungo e che Jizo non può aspettare. Dieci minuti, invece, sono più che sufficienti per consumare quel tè a temperatura da ustione, contattare i recapiti stampati sull’opuscolo, attendere mentre il cellulare squilla a vuoto perché a quei quattro numeri non risponde nessuno, scoprire che in calce all’opuscolo c’è anche un indirizzo.
“Komorebi,” annuisce Scheletrino, allungando le orbite dipinte di nero sulla stampa in ideogrammi. A quanto pare, il mondo è piccolo anche in Giappone, perché subito aggiunge: “Anch’io vengo da là,” e lo fa gesticolando come se fosse la sorellina minore del signor Be.
Scheletrino ha il visetto pitturato da teschio, i guanti con disegnate le ossa della mano, però è anche cortese come ogni studentessa giapponese che si rispetti. Non ci pensa due volte prima di abbandonare il suo banchetto dedicato all’archeologia metal, accompagnarmi alla giusta fermata del pullman e raccomandarmi addirittura al conducente, perché si tratta di scendere non a Komorebi paese ma a Komorebi mori, ovvero foresta.
Io mi limito a seguire la sua gonnellina a pieghe, la divisa scolastica che spunta sotto al giaccone con la scritta Death sulla schiena, il cavo delle ginocchia marmorizzato dal freddo. Anche le pupille di Scheletrino sono bianche, per via di qualche diavoleria di lenti a contatto. Il suo sorriso però esibisce un apparecchio per i denti, il che rende il tutto molto meno inquietante.
Non è la prima volta che vado a Komorebi, eppure un posto del genere non l’avevo mai visto. Dopo un viaggio di mezz’ora mi ritrovo ai piedi della montagna, davanti a una pompa che un tempo forniva benzina, mentre ora raccoglie solo vento e aghi di pino.
Sotto alla tettoia, riposa in pace un distributore di cibo e bevande. Pacchi di patatine, barrette al cioccolato, addirittura zuppe liofilizzate occupano i rispettivi loculi e hanno l’aria di essere defunti da anni. Mi riparo là sotto perché incomincia a piovere.
L’aria è impregnata di un forte odore di ozono, di tutto ciò che si disfa nel sottobosco: l’odore della pelle di Hirano Ryumei, che sa di terra profonda.  
Dall’altra parte della strada iniziano un bosco di pini e un viottolo.
La pineta arriva fin sulla carreggiata, mentre all’inizio del sentiero c’è un cartello, ceramiche per di qua. Come entro nel bosco mi avvolge una penombra verde brillante, completamente priva di voci e di rumori. L’intreccio dei rami impedisce il passaggio della luce e delle correnti sicché l’aria è ferma, come quando si entra in una stanza chiusa. Bastano pochi passi e il mondo come l’ho conosciuto fino ad ora svanisce in quel pulviscolo immobile.
Il viottolo procede interrompendosi e ricominciando dietro a un masso, a un cespuglio, a radici affioranti, finché si smarrisce in mezzo a un canneto. Più oltre c’è uno stagno ricoperto di muco e da fiori di loto di un candore spettrale. La pelle liscia sul dorso di Hirano Ryumei dev’essere così, mi ritrovo a pensare. Di nuovo ho l’impressione di stare camminando sul suo corpo riverso, e quest’idea è accentuata dalla morbidezza del passo. Il suolo è soffice e i piedi affondano negli umori. 
Proprio al centro dello stagno c’è un paletto infilzato, di nuovo un cartello con un dito di legno che indica per di qua. A quanto pare, il vecchio del kintsugi abita veramente da queste parti, possiede un laboratorio in questo luogo dell’altro mondo.
Giro attorno a quell’acqua immobile e membranosa, occhieggio i petali bianchi che sembrano volti issati su lunghi colli. Sarà semplice suggestione, ma arrivo alla capanna in fondo alla radura praticamente di corsa e busso come se mi inseguissero tutti gli spettri del mondo. All’inizio, la porta sembra spalancarsi da sola come nei film horror, perché l’omino che mi apre è persino più piccolo di quel che ricordavo, un metro e qualcosa che alla bancarella ci arrivava appena e ora, nella penombra, praticamente scompare.
“Lei è l’americano che non capisce né il giapponese, né l’inglese,” sorride l’artigiano, che mi riconosce al volo. “Come è riuscito ad arrivare fin qui?”
“In pullman,” rispondo io, e cavo fuori l’involto in cui ho raccolto i cocci del monaco Jizo.
“Jizo Bosatsu.” Il vecchio allunga il naso fin dentro al cartoccio. “Non mi dica che è venuto per una riparazione.”
“Scherza? Mi trovo da queste parti in gita turistica.”
“In gita?” riflette l’omino, il cui senso dell’humor dev’essere proporzionato all’altezza. “Strano, nella foresta non capita mai nessuno. Qui si lavora in assoluta tranquillità.” 
“Immagino. Al massimo, ci saranno i fantasmi.”
“Quelli disturbano molto meno dei vivi,” osserva il vecchietto, già concentrato nell’operazione di far combaciare i pezzi del piccolo Jizo. “Sarà un lavoro lungo,” annuncia alla fine.
“Roba di qualche giorno?”
“Minimo un mese. L’arte di riparare richiede tempo.”
D’un tratto mi ricordo che Hirano Ryumei partirà per san Diego subito dopo Natale, e che nelle vetrine dei centri commerciali stanno già comparendo le prime luminarie.
“Un mese per rimettere insieme quattro pezzi?” replico, impaziente.
“La fretta è sempre una mancanza di rispetto,” osserva l’artigiano. Mentre mi precede nel suo laboratorio, è ancora intento a spolverare quei cocci con la delicatezza che si riserva a una rarità.
 
******
 
L’arte del kintsugi non ha nulla a che vedere con l’attaccatutto del signor Be, con le gocce di colla e i grumi che traboccano, con Jizo che alla fine barcolla e sembra zoppo. Per di più l’intero procedimento richiede davvero tempo. Occorre preparare la lacca apposita, a partire da una resina che il maestro estrae personalmente nella foresta, e mescola alla farina per renderla più consistente. Il risultato è un mastice robusto e brillante, sopra al quale si stende la polvere d’oro.
Ognuno di questi passaggi richiede un periodo di convalescenza in un essiccatoio, ovvero in una scatola denominata muro. Sicché la risposta dell’anziano artigiano a tutte le mie visite – nel bosco il cellulare non prende e i numeri di telefono sono praticamente inutili – è che Jizo è nel muro.
Intanto il tempo passa, gli alberi di Natale si accendono nelle strade, nei grandi magazzini cade una finta neve e persino il grosso gatto portafortuna davanti al locale di Muso esibisce una barba candida e un berretto da Santa Claus col pompon.
Alla Bio Nihon cerco di estorcere qualche notizia in più riguardo alla partenza di Hirano Ryumei, ma Namino è più impenetrabile del solito. Insiste col dire che l’azienda non ha contatti con Los Angeles e che l’unico fornitore di materie prime statunitense è una comunità Amish che invia pannocchie biologiche dalla Pennsylvania. Giungo alla conclusione che la missione di Hirano Ryumei alla conquista del Nuovo Mondo è evidentemente top secret. A quel punto, dirotto la mia insistenza sul vecchietto del kintsugi, ossia il maestro Hitodama.
Purtroppo per me, Hitodama è persino più inflessibile di Namino. La sua forza è nella dedizione totale alla sua arte, unita all’idea che un occidentale – specie un americano – non sia in grado di comprenderla per una mera questione genetica.
“Voi andate sempre di corsa,” osserva il Maestro, alla terza o quarta volta che mi presento per avere notizie di Jizo. “Invece, occorre tempo per sentire l’oggetto.”
“E che c’è da sentire?” replico a un certo punto, seccato. “È solo una statuetta.”
“Fare kintsugi non è solo incollare dei pezzi,” insiste Hitodama. “Si tratta di creare una cosa nuova, sicché bisogna entrare in sintonia con la ceramica e con le sue rotture, con urushi, la lacca, e infine con l’oro. Ogni cosa è composta della stessa sostanza di cui siamo fatti noi, e dello stesso spirito. Tutto ciò che appartiene a questo mondo lo è. Persino gli yurei che vagano nel bosco.”
“Cos’è che vaga nel bosco?” domando io, che già fatico a credere che un coccio di ceramica possa aver dello spirito.
“Gli yurei sono gli spettri dei morti inquieti,” spiega Hitodama come se parlasse del tempo. “Possiedono sofferenze da cui non riescono a liberarsi, e per questo continuano a vagabondare in questo mondo. Se segui il sentiero, da qui arrivi al cimitero di Komorebi paese. Molti di loro, immagino, vengono da là. Amano vagabondare, probabilmente ne ricavano un certo sollievo.”
“Fare due passi dev’essere rilassante anche per dei fantasmi,” ammetto.
In occasione delle mie visite a Jizo ho preso l’abitudine di avventurarmi nella foresta, in cerca di ispirazione o anche solo per ripulirmi dal chiasso che mi porto puntualmente dietro dalla città.
Ogni tanto mi fermo su uno sperone di roccia, su un cuscino di muschio per disegnare. In quei momenti, la suggestione del luogo raggiunge il suo apice. I pini formano una cupola, una cattedrale di umidità e lame di luce che piovono dall’alto, simili a colonne di pietra candida. Va da sé che durante le mie peregrinazioni non ho mai incontrato nessuno. È anche vero, però, che una simile qualità del silenzio è qualcosa a cui si è poco abituati. Sicché può capitare che la mente s’inventi dei rumori, o addirittura scorga strane ombre nel folto.
Il maestro Hitodama non lo sa, ma qualche volta mi è sembrato d’intravedere la sagoma di Hirano Ryumei, il suo profilo da stagista ragazzino sbucare dalle cortine di pulviscolo, nei punti in cui il tetto di fronde si apre un poco. 
Forse Hirano Ryumei va spesso al cimitero di Komorebi paese a trovare suo figlio.
Forse si tratta solo di una mia impressione.
 
******
 
Nel frattempo, Hirano Ryumei continua a venire da Muso a orari balzani e sembra sempre più un’ombra. Della trasferta californiana non ho saputo più nulla, né dal diretto interessato né allungando l’orecchio a quel brusio che aleggia sulle spalle degli impiegati chini nei loro loculi e sui piatti di tempura e ramen di Muso. Probabilmente c’è stato un cambio di programma per motivi che a me, umile addetto al mocio, resteranno per sempre sconosciuti e insondabili.
Da Be, che sfoggia la sua dentiera nuova di zecca e ha messo su certe guanciotte da criceto, imparo che Hitodama significa fuoco fatuo. Da queste parti, quelle fiammelle erranti che mia nonna chiamava le lucciole dei morti sono considerate anime disincarnate, o in procinto di staccarsi dal corpo. Su una delle solite striscioline di contrabbando, Be abbozza il disegno di una sfera minuscola e bonacciona, che galleggia nell’aria munita di una lunga coda da spermatozoo. Non ho mai visto niente del genere attorno al letto di Fumi, né voglio mancare di rispetto al signor Be facendogli notare la strana rassomiglianza.
D’altra parte il vecchio Hitodama, pur mancando di forma sferica ed essendo, al contrario, secco come un rametto, ha l’aria di saperla parecchio lunga su come vanno le cose nell’altro mondo. Sarà per via dell’età, a colpo d’occhio stimabile tra i settanta e i centomila anni, oppure perché il suo lavoro consiste nel resuscitare le cose, nel recuperare pezzi altrimenti destinati al disfacimento: il che è pur sempre qualcosa che ha a che fare con la vita e la morte.  
“Una volta che una cosa è rotta, per quanto si cerchi di far combaciare i pezzi, la frattura rimane. È quel che si dice l’irreparabile, che significa che tornare indietro non è possibile. Si può però sempre fare qualcosa di nuovo. Kintsugi ci insegna che le cose non muoiono, ma si trasformano. E così accade per tutto ciò che vive. Non c’è davvero nulla che muoia per davvero e una volta per tutte.”
Le prime volte, mi limito a incassare queste perle di saggezza e ad andarmene poco convinto. Le parole del maestro mi sembrano frasi fatte per prendere tempo, perché nel frattempo Jizo è sempre nel muro e la faccenda inizia a farsi davvero lunga.
Finché un giorno arrivo al laboratorio e trovo il vecchio artigiano armato di una pezza di seta grezza e intento a levigare un oggetto che lì per lì non riesco a identificare. Sulla foresta cade quella pioggerella impalpabile che è poco più di un fruscio e che i giapponesi chiamano nenonke ame, perché la sua levità rammenta il pelo del gatto. La brezza la conduce qua e là disegnando un tratteggio leggero. Di tanto in tanto, quel soffio s’insinua sulla veranda e tira la coda a una fila di furin appesi alla grondaia.
D’un tratto ho l’impressione che Fumi sia accanto a me e mi prenda per mano. Avverto la leggera umidità delle sue dita nel palmo, come se fossero fatte di pioggia.
Dentro al laboratorio, il tempo nuvoloso diventa penombra. Il maestro è di spalle e continua a strofinare con lena. L’oggetto che esce fuori dal panno di seta si accende di bagliori come se a forza di sfregare si fosse accesa una fiamma: si tratta di Jizo, di nuovo integro e impreziosito da lamine d’oro. La lacca sottostante, di un colore rosso vermiglio, dona una sfumatura di intenso calore.
Urushi non voleva saperne di attecchire su una frattura così profonda,” spiega il maestro che, come al solito, parla della lacca come se si trattasse di un personaggio reale. “C’è voluto un bel po’ per convincerla a collaborare.”
“È un ottimo lavoro,” commento io rigirandomi tra le dita il piccolo Jizo, e la soggezione è tale che le parole mi escono in un sussurro. Mi capita sempre così davanti alla bellezza, quando qualcosa è bello all’eccesso. Grazie a quella nuova trama che lo attraversa, Jizo sembra avere acquisito persino autorevolezza: una personalità di tutto rispetto, perché ha vissuto l’esperienza della rottura e ne è uscito arricchito. Finalmente comincio a capire qualcosa del kintsugi, il suo significato così profondamente simbolico. Chissà se anch’io, nascoste da qualche parte, porto dentro di me delle trame dorate. O se quei fili di luce li sto ancora tessendo, impercettibilmente.
“Sarà difficile per me separarmene,” osserva Hitodama, stirandosi soprappensiero la barbetta. “Vede, quando un artigiano si appresta a lavorare su un restauro kintsugi, sviluppa una specie di innamoramento per l’oggetto che si ritrova tra le mani. È un lavoro straordinariamente meditativo. Tra l’altro, questo è Jizo, il protettore dei piccoli. Non so se lei conosce la storia di Jizo.”
“Qualcosa mi è stato detto. Appartiene a un amico,” dico io, che in realtà non so neppure come definire il rapporto che mi lega a Hirano Ryumei.
“Jizo protegge i bambini che sono morti prima dei loro genitori. Rappresenta il legame con i genitori, è il monaco sorridente che si occupa dei piccoli al posto loro. È un po’ come la mano del padre e della madre che si allunga nell’aldilà. Lei onora il suo amico riparando il suo Jizo.”
Forse perché col tempo si è davvero affezionato alla statuetta, Hitodama mi accompagna nel percorso a ritroso attraverso la foresta, fino alla piazzetta di sosta del pullman. La pompa di benzina e i distributori di barrette e di zuppe sono sempre là, i cavi collegati a mucchi di foglie secche. Sigillate nei rispettivi alloggiamenti, le confezioni hanno smarrito le loro tinte vivaci e sono gonfie di umidità. Probabilmente, al posto delle patatine c’è polvere.
Sotto all’ombrello che lo ripara da quella pioggerella felpata, il maestro Hitodama assume un tono ispirato. “Faccia attenzione, giovanotto. Lo dica al suo amico. Gli ricordi che un lutto che dura troppo a lungo nutre spiriti inquieti. A volte, addirittura, rischia di prender vita.”
Mentre salgo sul pullman, non sono più sicuro se le dita che sento stringersi attorno alle mie appartengono a Fumi o a Hirano Ryumei. 
 
******
 
Mentre sobbalzo all’unisono con il pullman e l’intrico della foresta è ormai alle spalle, telefona mio fratello dall’Italia. Disgraziatamente, siamo ormai fuori dall’area in cui il cellulare non prende.
“Potevi farti vivo almeno a Natale,” esordisce Giulio, che avrebbe potuto benissimo farsi sentire lui. “Allora, come procede?”
“Sto pubblicando con un editore di qui.” Stento a crederci io per primo, quindi figuriamoci se può crederci lui. Avverto la perplessità sbocciare nella testa di mio fratello a mo’ di fuoco d’artificio e percorrere l’intero tragitto Italia – Giappone senza smarrire neppure un grammo delle sue vibrazioni.
 “È un piccolo editore,” aggiungo, per ridimensionare quell’effetto pirotecnico.
“Enzino Morini, invece, l’amico di Stefania, lavora per una casa importante. E per di più saresti a casa tua. Io proprio non ti capisco.”
Difficile spiegare che per me il Giappone è una sorta di limbo. Vista da questa parte del mondo, è l’Italia a sembrarmi complicata e difficile, con i nodi dei suoi rapporti, la lingua che non posso far finta di non capire. Con i suoi milioni di abitanti che si sfiorano silenziosi agli incroci, a margine delle insegne accese giorno e notte, Tōkyō mi garantisce la più assoluta solitudine. Qui ogni volto mi ricorda Fumi e persino la natura armoniosa dei luoghi conserva qualcosa del suo modo di muoversi. Avverto la sua presenza nel ramo del ciliegio che s’inchina al passaggio del vento, nel traboccare dell’edera sul muretto di un vicolo, nella curva di un ponticello a Komorebi. E, ovviamente, nel fascino suggestivo di Hirano Ryumei.
La conversazione con mio fratello si trascina per un po’. Si parla dei suoi figli, del Natale in montagna e di Enzino Morini che aspetta sempre che io lo contatti e per quel che mi riguarda può aspettare per sempre. Finché il pullman arriva al paese e in prossimità della piazzetta del mercato, dove c’è ancora Scheletrino col suo banchetto, la linea si confonde con la brezza che viene dal mare e finalmente si perde.
 
******
 
Pochi minuti dopo, mentre l’aria comincia a diventare così umida che pare acqua – segno che la nenonke ame, la pioggerella a pelo di gatto, sta arrivando anche qui – sono in attesa di un altro pullman, quello che dal paese deve condurmi a Tōkyō e alla sede della Bio Nihon.
Con me, in quel tardo pomeriggio colmo di ombre, c’è solo il monaco Jizo, debitamente impacchettato perché non abbia a rimediare altri urti e anche perché si tratta di un dono da scartare. Per questo, il maestro Hitodama l’ha avvolto in un furoshiki con infiniti nodi e un motivo di coralli, che ricorda le trame del kintsugi. Pesci soprappensiero si aggirano in quei boschetti di rami rossi. Qua e là spuntano cavallucci marini dai lunghi musi perplessi. Sembrano punti interrogativi e non hanno tutti i torti: anch’io mi domando cosa potrà succedere nel momento in cui consegnerò il dono a Hirano Ryumei.
Magari lui neppure si ricorda di Jizo, oppure avrà già comprato un’altra statuetta, da lasciare al cimitero di Komorebi. Forse Jizo appartiene a quel genere di argomenti di cui non è educato parlare, per quanto sono intimi e personali. Se questo è vero, recuperare i cocci dal cestino della carta non è stata per niente un’idea geniale.  
Ma soprattutto, arrivo finalmente a chiedermi che cosa mi aspetto da Hirano Ryumei, cosa mi attrae in quell’uomo che non è Fumi ovviamente né potrà esserlo mai, e chissà perché me la ricorda così tanto.
Il tempo del viaggio non è sufficiente per mettere ordine nella mia testa, fatto sta che quando il pullman approda alla solita fermata, a due passi dalla Bio Nihon, non sono ancora riuscito a darmi una risposta. Guardo i pesci che s’inabissano nei fondali del furoshiki, con lenti colpi di coda. Anche la città intorno a me, sfumata come un disegno a matita dalla pioggia, è avvolta dal silenzio come se fosse sott’acqua. 
Non appena l’ascensore si apre sugli atri della Bio Nihon – senza intoppi, stavolta – vengo prontamente intercettato dalla signora Namino, arroccata come al solito nella sua postazione senza ciondoli di Hello Kitty, matite coi pompon e gomme da cancellare a forma di fragola.
“Ho una consegna per il direttore del personale.” Senza aggiungere altro, oltrepasso lo scoglio della sua scrivania a passi ben distesi, diretto verso l’ufficio di Hirano Ryumei. Con la coda dell’occhio, le punta delle orecchie, la nuca e tutto ciò che ho dietro la schiena, intercetto la reazione di Namino, che più che in contropiede sembra presa alla sprovvista. La cautela con cui si muove sulla poltroncina ergonomica, il suo sguardo esitante mentre imbocco il corridoio, non fanno risuonare nessun campanello d’allarme.  
Arrivo all’ultima stanza in fondo, la porta è ovviamente chiusa e dall’interno non proviene nessun rumore: né di voci al telefono, colloqui sussurrati, fruscii di fogli sul tavolo.
Busso a lungo senza provocare nessun mutamento in quella coltre quasi palpabile di quiete.
Quando mi decido finalmente ad aprire, mi accorgo che all’interno non c’è anima viva: di più, la stanza appare insolitamente vuota e fredda, come se fosse disabitata da tempo.
Sono più che sicuro che questo sia l’ufficio di Hirano Ryumei. Riconosco la scrivania in legno scuro, le tende sciolte sulle finestre, gli origami colorati con i pennarelli.
Fuori la pioggia non è più a pelo di gatto ma si sta trasformando decisamente in un acquazzone.
Attraverso lo spessore delle tende, che a un tratto mi ricordano i lenzuoli sui mobili delle case abbandonate, filtra un’eco scrosciante.
La mancanza assoluta di carte sul tavolo, che fino a ieri mi pareva un segno evidente del rigore mentale del suo proprietario, ora mi fa pensare solamente all’assenza.
Osservo gli origami sullo scaffale e li scopro sgualciti dal tempo trascorso lì, un tempo che d’un tratto mi sembra eterno. Dentro al cassetto, c’è ancora la foto con la cornice d’argento. La sagoma della donna, l’espressione paffuta e seria del bambino al suo fianco hanno smarrito i loro contorni. Emergono dal bianco della carta fotografica come un paesaggio che la neve cancellerà tra breve.
C’è polvere persino dentro alla cornice, una sorta di sabbia venuta da chissà dove e i resti di un insetto dalle zampette grinze, che chissà come ha fatto a finire lì dentro.
“Guardi che in questo ufficio non c’è nessuno.” Una voce esitante alle mie spalle. “Lei si occupa dei servizi e dovrebbe saperlo,” aggiunge Namino, questa volta con maggior decisione. “La direzione risorse umane è all’inizio del corridoio, prima stanza a sinistra. Ma guardi che il signor direttore è occupato.”
“Intende dire mister Hirano Ryumei?” domando, e continuo a guardarmi attorno perché in effetti tutto, in questo stanzone, parla di un abbandono che a colpo d’occhio risale a molti anni fa, anche se io lo noto soltanto ora. L’immagine di Hirano Ryumei intento a riscaldare la zuppa Muso Production assume i contorni irreali di un sogno.
“Guardi un po’,” si riscuote Namino, con quell’entusiasmo limpido che talvolta le sfugge, riportandola ai tempi di una gioventù meno rigida. “Il signor direttore sta uscendo proprio adesso. Se desidera conferire…”
Volto l’occhio nella direzione indicata e dalla prima stanza a sinistra vedo uscire un tizio che ho intravisto altre volte: tondo come il Buddha che ride, con l’unica differenza che questo non ride mai ed è perennemente smanioso e trasudante, con le ascelle chiazzate e il fiato corto. Più o meno la versione in colletto bianco di Muso.
Per la seconda volta in tutta questa vicenda, mi trovo a formulare la stessa domanda:
Quello è Hirano Ryumei?”
La signora Namino s’inchina compiacente, non so se a me o al suo diretto superiore. Sospetto un malinteso dovuto alla mia incapacità di esprimermi in un giapponese corretto. “Dev’esserci un equivoco,” provo a insinuare.
“Niente affatto, signore. Quello è il dottor Nishimura, direttore del personale,” ribadisce la mia interlocutrice, e di nuovo s’inchina. Malgrado la distanza dal Buddha che non ride sia di alcuni metri, riesco a percepire tutta la soggezione che Namino prova nei suoi confronti.
Incredulo, torno nell’ufficio dove con i miei occhi ho visto Hirano Ryumei entrare, strapparmi dalla mano la foto dei suoi, accendere il computer e iniziare a lavorare. Fino a ieri il cestino in cui ho trovato i pezzi del monaco Jizo era pieno di vecchi fax e cartacce, mentre ora è vuoto e sul fondo si annida uno strato di polvere. D’un tratto mi domando a quanti anni addietro risalivano quei fax, ammesso di averli visti e svuotati sul serio.
Eppure sulla porta c’è una vecchia targhetta che Namino conferma: c’è scritto proprio direttore del personale. “Ma era quello di prima. Non è più con noi da molto tempo.”
Namino mi fa cenno, mi accompagna in un angolo così in ombra che fino ad ora non vi avevo mai fatto caso. Appesa al muro, una fototessera naviga in una cornice troppo grande. “Il direttore generale desidera conservarla in ricordo del suo dipendente. O forse per timore di lui,” si lascia sfuggire Namino.
Contemplo stupefatto il profilo limato, il pallore accentuato dallo scatto in bianco e nero, quello sguardo distante che mi è così familiare. 
“È stato il nostro primo direttore del personale,” osserva Namino, e mi accorgo che sta misurando le parole come se qualcun altro, oltre a me, fosse in ascolto. “Era molto giovane, molto dotato,” aggiunge alzando leggermente la voce, per farsi meglio udire da quel qualcuno. “L’azienda ha perduto molto, a causa della sua scomparsa.”
La piccola foto è incastrata un po’ storta nel supporto di sughero della cornice.
Almeno un dito di patina rende i lineamenti di Hirano Ryumei ancora più evanescenti. Sotto alla cornice, un crisantemo bianco è affisso con una semplice puntina da disegno.
Dopo avere richiuso la stanza con cautela, Namino mi rivela qualche cosa di più. Prima si volta indietro un paio di volte, come per il timore di essere inseguita da orecchi indiscreti: “È un fatto che risale a parecchi anni fa. A quel tempo ero appena arrivata in azienda e l’ho sentito raccontare dai colleghi più anziani. Pare che abbia perso l’unico figlio in un incidente. Il giovane Ryumei-san, intendo. C’era lui, alla guida dell’auto. La moglie ce la fece appena a salvarsi, dopo di che chiese il divorzio. Fu allora che il direttore generale propose a Hirano Ryumei di aprire una filiale in California. Per aiutarlo a rimettersi in carreggiata, immagino.”
 Namino si passa una mano tra i capelli, li avvolge una volta di più attorno a una matita che regge quella matassa lustra come una conocchia. “La sera stessa, Ryumei-san si è gettato dalla terrazza dell’ultimo piano.”
D’un tratto ho di fronte a me una visione: io e un uomo dal volto che mi ricorda Fumi, assorti a contemplare l’orizzonte di Tōkyō con in mano un bicchiere di minestra coi funghi e un sottofondo di note suonate al pianoforte.
“Molti dicono che la sofferenza di Ryumei-san abita ancora in quella stanza, e la riempie così tanto che se uno attraversa il corridoio e ha già cattivi pensieri per conto suo, può arrivare a sentirla. Naturalmente, queste sono solo impressioni,” aggiunge Namino, con un sorriso che vorrebbe essere rassicurante e invece è contraddetto dalle sue stesse parole. “All’epoca, l’azienda riuscì a gestire l’intera faccenda con il massimo riserbo, al punto che i più giovani non ne hanno mai sentito parlare. Da lì è nato un detto, non fare troppo rumore per non svegliare il morto. La maggior parte dei nuovi pensa che si tratti di una battuta inventata per convincerli a lavorare senza perdersi in chiacchiere. Gli anziani, invece, sanno che c’è del vero. Il giovane Ryumei-san era una persona molto nervosa, non tollerava il chiacchiericcio e i rumori. Neppure il suono dei campanellini che a quel tempo andavano di moda tra le ragazze.”
D’un tratto mi torna in mente la lettera di richiamo scritta per impedirmi di far suonare il furin durante le pulizie del mattino: in un orario in cui gli impiegati ancora non ci sono ma, a quanto pare, ci sono comunque i fantasmi.
Il grosso dottor Nishimura non credo mi abbia mai né visto né sentito, probabilmente non sa neppure che esisto, eppure quella lettera può averla scritta soltanto lui: accogliendo le lamentele di altri o mettendo per iscritto le proprie.
Oppure il signor Be ha voluto farmi uno scherzo, al momento di tradurre e anche quando il nostro misterioso avventore ha cominciato a frequentare il locale. Magari Be era convinto che fossi a conoscenza di questa leggenda urbana aziendale. L’altra alternativa, più folle, è che il richiamo provenga direttamente dall’altro mondo e dallo spirito insonne di Hirano Ryumei.
Non mi resta che percorrere quel breve tratto di pioggia che separa la Bio Nihon dal grumo di luce calda che è il locale di Muso, e acchiappare Be per la collottola per venire a sapere qualche cosa di più.
 
******
 
Al ristorante, Be cade dalle nuvole e la dentiera quasi gli sfugge dalla bocca mentre si affanna a frugare nelle tasche, in cerca di una strisciolina di pronto intervento. Gli mostro l’immagine, sgranata dall’eccessiva penombra, che ho scattato al ritratto di un Hirano Ryumei a dire il vero più giovane e meno spigoloso. Probabilmente la fototessera proviene da qualche annuario dei dipendenti. Il crisantemo sotto sembra una macchia sul muro, una sorta di ectoplasma: Ryumei-san che esce sotto forma di suffumigio dalla foto, come in certi trucchi di medium dell’Ottocento.  
Be alza le mani, invocando le innumerevoli divinità del Giappone a testimoni della sua assoluta innocenza. “Hirano Ryumei, direttore del personale”, conferma, scrivendo affannosamente sulla sua strisciolina. “Tu ancora non lavoravi qui, ma lui veniva spesso e portava con sé le carte e il portatile. Ricordo che ordinava e poi non mangiava niente, più o meno come adesso. Da un certo momento in poi non l’ho più visto e ho pensato che fosse stato trasferito. Quando ha cominciato a tornare, non ho notato proprio nulla di strano.”
“Neanch’io,” mi tocca ammettere. Quel senso di gelo che sembrava emanare dalla sua vicinanza era un fatto recente, una novità degli ultimi giorni. Come se Hirano Ryumei cominciasse a disfarsi per la seconda volta dopo la morte.   
“Di un suicidio alla Bio Nihon ho sentito parlare, ma non mi è sembrato il caso di domandare ai clienti,” aggiunge Be, pensieroso. Quanto al resto, il mio amico condivide lo stato d’animo dei vecchi impiegati, a metà tra l’ossequio e il timore dell’invisibile: “Da noi si dice che gli spiriti di coloro che sono trapassati in maniera violenta possono essere trattenuti su questa terra. A volte perché hanno ancora qualcosa da fare, terminare un lavoro, pagare un conto in sospeso, restituire un libro preso a prestito. Cose del genere. Ma più spesso è un dolore a impedirgli di lasciare questo mondo. Un dolore così forte che non può essere cancellato neppure dalla morte.”
Forse Hirano Ryumei è così attaccato ai suoi doveri da voler ritornare ogni giorno alla Bio Nihon, viaggiando dall’aldilà su qualche metropolitana di spettri. Se cercavo uno spunto per una nuova storia – quella famosa storia del crisantemo bianco – direi che sono a posto. Immagino che dopo l’ufficio e la cena da Muso, la buonanima di Ryumei-san si ritrovi a vagare fino al mattino sulle rive del grande fiume dei morti, lungo la spiaggia dove suo figlio costruisce interminabili castelli di sabbia.
D’un tratto mi torna in mente Jizo, la statuetta riparata di fresco, che ho qui con me ancora avvolta nella barriera corallina del furoshiki. Che ci faccio con Jizo? Mentre dico a me stesso che non è certo il caso di credere ai fantasmi, questa è l’unica cosa su cui non ho dubbi: che Hirano Ryumei sia di questo mondo o dell’altro, devo restituire il piccolo monaco al cimitero dei bambini di Komorebi.
 
******
 
A lungo, dopo quel giorno, mi sono chiesto se quella con Hirano Ryumei è stata un’esperienza reale o solo un’invenzione della mia mente, un modo per far rivivere Fumi nelle parole e nei gesti di un individuo in carne e ossa. Per quale ragione poi l’individuo in questione dovrebbe essere un dirigente d’azienda, per giunta suicida, e non una delle tante ragazze che s’incontrano nei kombini o sul bus, resta uno dei grandi misteri del mio inconscio.  
Forse tutto questo fa parte di una grande memoria collettiva, in cui siamo immersi senza saperlo. E se attraversassi tutti gli immensi quartieri di Tōkyō, i villaggi di periferia con i loro vicoli stretti, le distese delle risaie nelle campagne, forse ritroverei qualche cosa di Fumi nei gesti di chiunque.
Il signor Be, ovviamente, la vede alla sua maniera. A sentir lui, la tristezza dovuta alla perdita di Fumi avrebbe richiamato quello spirito solitario fuori dal suo sacello in fondo al corridoio, dove tra vecchie carte e fax mai spediti vegliava sugli umori degli impiegati, rendendoli se possibile ancora più tetri. O forse, più che l’odore del lutto, a fare uscire Dracula dalla sua cassapanca era stato il tintinnio del furin appeso al mio carrello, tra il mocio e gli stracci per le pulizie.
A me quelli di Be paiono discorsi da fattucchiere, o quanto meno trame più adatte a un manga horror. A ogni buon conto, ho rimesso mano al ritratto di Hirano Ryumei con il crisantemo bianco e sto lavorando alle tavole di una nuova storia, che non a caso ho intitolato “Il padiglione d’oro”.
Nel frattempo, al locale, quella sala arredata con poltroncine imbottite, cuscini e primavere sul monte Fuji è stata chiusa da Muso in via definitiva. Né io né il signor Be l’abbiamo consultato in merito alla vicenda di Hirano Ryumei, ma forse Muso sa già tutto per conto suo e com’è comprensibile non desidera stranezze nel suo ristorante, né tanto meno farsi una clientela nell’aldilà. Oppure ha davvero intenzione di ristrutturare quell’antro dove i boss della Bio Nihon bagordano allegramente senza far caso all’odore di polvere vecchia delle tappezzerie. Sta di fatto che i lavori, descritti con dovizia di particolari dal nostro boss, per una ragione o per l’altra non iniziano mai.
Proprio quando non ho nessun finale sottomano, Hirano Ryumei decide di fare un’ultima visita al padiglione. La sera potrebbe essere una replica della sua prima venuta, perché l’ora è quella del crepuscolo come allora. Stavolta però la quiete che cancella ogni rumore dalla strada di fronte, oltrepassa la soglia e arriva fin dietro al bancone, è dovuta a una diversa forma d’incanto: non il tramonto autunnale ma la neve che cade, diffondendo ovunque un senso felpato d’intimità.
Di nuovo la neve, come durante gli ultimi giorni di Fumi.
Stasera però non si tratta di una tormenta. Sono fiocchi che rimangono a lungo sospesi, gracili come pulviscolo. Li sgrana un cielo giallo che pare immobile, per quanto è silenzioso.    
Il signor Be e Muso sono assorti nella preparazione dei dorayaki. Lavorano senza fretta come se si trovassero nella cucina di casa loro, e in un certo senso è proprio così. Muso impasta e inforna a intervalli, il profumo che fa lievitare i panetti e si sprigiona intorno rende i suoi gesti più morbidi e accurati del solito. Accanto a lui, Be taglia a metà i dorayaki, farcisce col ripieno e richiude il tutto con garbo, per non scombussolare il dolcetto nel suo lento cammino per venire al mondo.
Quando Muso non vede, s’inebria dell’aroma di pane caldo annusando la polpa.
Io mi aggiro tra i tavoli con uno strofinaccio, per gli ultimi ritocchi prima dell’apertura serale. Di tanto in tanto Muso e Be ridono, si scambiano qualche battuta che ovviamente non afferro, perché continuo a non sapere niente di giapponese. Mi godo però quel clima di familiarità di cui mi sento partecipe per una volta tanto. Sarà la neve fuori, che avvolge tutto in un’atmosfera sospesa.
Forse stasera ci saranno pochi clienti, mi dico, e nel momento stesso in cui lo penso qualche cosa mi attira, mi spinge a buttare un’occhiata nel padiglione. È un moto spontaneo, come per controllare che anche in quella sala tutto sia in ordine malgrado la chiusura e le sedie a gambe all’aria sui tavoli.
La prima cosa che noto è una composizione di crisantemi bianchi posati non su un tavolo a caso, ma su quello abitualmente frequentato da Hirano Ryumei. Si tratta di fiori freschi, che probabilmente Muso ha acquistato per decorare il locale, salvo dimenticarli in quell’angolo. Sia io che il signor Be conosciamo molto bene la durata degli impulsi creativi di Muso, spesso non più longevi di un battito di ciglia.
Mi volto in ogni caso per fare un cenno al bancone ed è a quel punto che, alzando lo sguardo, m’imbatto nella figura di Hirano Ryumei, che si materializza come se, fino a un attimo prima, fosse stato parte dell’ombra.
La sua sagoma è quasi sul punto di dissolversi, e forse proprio per questo nei tratti del suo volto si legge un certo sollievo. Non ha smarrito il suo rigore consueto, eppure dinanzi a me s’inchina con gentilezza. Coglie un fiore dalla composizione che a questo punto dubito sia stata portata qui da Muso, e me lo porge con un sorriso. Continuando a inchinarsi, si ritira in quel lembo di oscurità indefinita da cui era uscito solo un attimo prima.
Dopo di che il padiglione ritorna alla sua apparenza consueta e anche quel bagliore, come di fuoco fatuo, che scaturiva dal corpo di Hirano Ryumei svanisce, questa volta per sempre.
Mi precipito nell’angolo dove c’è il quadro elettrico, voglio accendere tutte le luci nella sala come ai tempi in cui Hirano Ryumei cenava qui, e chissà se ricreando lo stesso ambiente accogliente potrò ritrovarlo come per magia seduto al solito tavolo. Ovviamente, nella foga mi sbaglio sicché spengo i neon, le lampade, gli elettrodomestici e nel locale si fa il buio più completo. L’unica fonte di chiarore proviene dalla porta d’ingresso, dove la neve continua a scendere sempre più fitta e fosforescente. È là che mi dirigo mentre Muso protesta, la zucca del signor Be va a cozzare da qualche parte, un paio di sedie si ribaltano nel tentativo dei miei soci di raggiungere gli interruttori e tornare a vederci a più di un palmo dal naso.
Sulla soglia del ristorante, a parte il grosso gatto portafortuna con la zampetta alzata per richiamare i clienti e la buona fortuna, non c’è proprio nessuno. Solo la neve intenta a ricoprire le strade con pazienza, qualche ombrello a capo chino che attraversa un orizzonte senza rumore. 
È allora che ricordo che il crisantemo bianco, nella simbologia di qui, non rappresenta solo il dolore e la perdita, ma racchiude in sé anche il significato dell’amicizia. È il dono che si offre per celebrare un legame prezioso, capace di risanare le ferite più profonde come un’attenta opera di kintsugi. Inevitabilmente, mi torna alla mente Jizo, che nella solitudine del piccolo cimitero di Komorebi sfoggia ora una nuova mantellina di lana, per proteggere le crepe rinsaldate dall’oro ma anche – immagino io – per accogliere al caldo il figlio di Hirano Ryumei.
Deve fare molto freddo su quella spiaggia. Quasi come in quel fazzoletto di sabbia dietro alla casa della Momoko-san, dove continuo a recarmi nel tempo libero e dove ho completato anche le tavole di questa nuova storia.
Il giorno in cui mi sono arrampicato di nuovo su per la montagna, fino al fienile che ospita la Natsukashii edizioni, sono riuscito a ottenere dalla signorina Nakamura addirittura una confidenza. Il racconto di una stranezza, come l’ha definito lei. In pratica, il giorno in cui aveva ricevuto la chiamata di quel fantomatico sponsor che mi aveva proposto per la pubblicazione, le era sembrato di riconoscere la voce del vecchio direttore del personale della Bio Nihon, Hirano Ryumei-san. “Le confesso che nel risentire quel tono, la cadenza che mi era così familiare, ho provato una fortissima impressione. Ryumei-san era uno dei nostri maggiori sponsor per quanto riguardava le collane dedicate ai bambini e la distribuzione gratuita nei reparti di pediatria. Ammetto di non aver voluto indagare oltre. Dopo quell’episodio, l’ho subito contattata per onorare la memoria del nostro benefattore.”
In questa sera di neve, mentre alle mie spalle tornano ad accendersi le luci del ristorante, la quiete è così assoluta e perfetta che si potrebbe sentir cadere uno spillo. Eppure, a un certo punto, mi pare di udire un tintinnio in lontananza, qualcosa come la risata di un bambino condotto per mano da qualcuno che lo protegge e lo ama. Forse è il tasto di un pianoforte sfiorato da uno studente che deve imparare il Mononoke Hime, La principessa fantasma, per un esame. 
O forse si tratta solo del suono di un furin che canta nel vento.
  
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: yonoi