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Autore: NeveDelicata    12/11/2020    6 recensioni
Questi personaggi non mi appartengono, sono di proprietà di Mann Yzawa. Questa storia è stata scritta senza fini di lucro.
La voce concitata che lo chiamava, era quella di suo fratello. Il suo amato fratello.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Abel Butman, Arthur Butman
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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“Dobbiamo proseguire a piedi” avvertì suo fratello Abel: parole stringate e urgenti. Un tono che chiedeva pronta ubbidienza.
Abel indirizzò verso di lui la mano destra per aiutarlo a scendere, quasi a spicciarlo perché facesse in fretta; esortandolo tuttavia con affetto e accogliendo i suoi dubbi con una voce comprensiva, “Forza”: una voce capace di sostenere.
Arthur eseguì, impacciato per via del lungo cappotto, non adatto a cavalcare ma obbligatorio nel presentarsi davanti ad altezzosi aristocratici, come aveva imparato nel breve periodo in cui era stato obbligato a fingersi tale.
Arthur si guardò attorno confuso: erano ai margini di quello che sembrava un mercato, in cui venivano accolti da rare bancarelle che via via, in lontananza, si facevano più fitte.
“Ottimo lavoro, bello!” si congratulò sorridente suo fratello al cavallo, dandogli una carezza che scompigliò la nera criniera. Lasciarono quel cavallo in un vicolo. Suo fratello non si voltò più indietro, procedendo con aria sicura, conducendo Arthur con sé: tenendogli la mano, con la stessa cura di un genitore con un figlio piccolo.
La camminata di suo fratello era veloce. Abel procedeva sicuro tra le persone del mercato, come se avesse una meta prefissata da raggiungere nel più breve tempo possibile; comprensibile dopo la loro fuga.
Arthur veniva quasi trascinato da Abel a seguirlo, ma come dargli torto. Abel doveva aver capito fosse disorientato da quel continuo svicolare, che non  dava loro neppure il tempo di sbirciare i banchi, immersi tra una moltitudine di visi e parlate. La Londra con cui Arthur sfortunatamente non aveva mai potuto scontrarsi o fortunatamente visto i tanti indigenti che si paravano davanti e ai lati di suo fratello, per chiedere loro elemosina. Arthur notò che Abel fosse cresciuto ancora: il fisico divenuto più solido, i lineamenti fattisi più decisi nella maturità acquisita. L’aspetto distinto e curato, era accentuato dal mantello di una stoffa pregevole. Abel non doveva essere benestante ma sicuramente il suo tenore di vita doveva essere di gran lunga sopra la media dei presenti.
Decisamente Abel se la sapeva cavare in ogni contesto, rifletté Arthur, che l’aveva sempre creduto.
Come un bimbo spaesato strinse la mano di Abel: non era più abituato alla confusione. Ogni sguardo lo spaventava, pure quello delle anziane donne che sembravano sbirciarli di traverso, mentre tagliavano i gambi delle verdure, contenendole nei grembiuli. Sperava di non scorgerne uno in particolare…
Tutti sembravano gridare qualcosa e magnificare qualcosa “Cipolle”, “Guanti”, “Fiammiferi”.
Il fiato di Arthur s’era accorciato. Per lui erano finite le sorridenti corse a per di fiato.  Iniziò a faticare a mantenere il passo del fratello, ma non appena la sua mano allentò la stretta, Abel con vigore la rinfrancò “Manca poco”, quasi anticipando un’infantile domanda.
Non ci fu per Arthur il tempo di scusarsi di rallentarlo, del resto Abel aveva agito per salvarlo. Continuarono mentre i resoconti della gara campestre dei cavalli si facevano più incalzanti tra i banchi. Dovevano essere passate più di due ore, ma non sembravano esserci stati strascichi imprevisti alla loro fuga: nessuno sembrava averli seguiti, nessuno sembrava precederli per ostacolarli. Che il duca Dangering potesse affidarsi unicamente ai suoi scagnozzi? Di certo non poteva sporgere denuncia alla polizia per rapimento, a meno che non ce ne fosse di corrotta. Arthur sudò freddo perché probabilmente ce n’era: non voleva farsi illusioni.
Nel mentre dei suoi pensieri, Arthur si sorprese all’arrivo davanti un edificio che dava sul mare: una costruzione in calce bianca. Pochi gradini salivano verso quelli che sembravano più uffici che appartamenti. La struttura era ben tenuta, l’uscio e il marciapiede perfettamente puliti. Una scritta “Ufficio di ingegneria navale Allen”.
“Siamo arrivati” aprì la porta suo fratello, entrando e chiudendo la porta dietro di loro. Salirono al piano superiore. Una camera accogliente apparve davanti agli occhi di Arthur.
Era curata, pulita, ordinata. Rispecchiava proprio il carattere metodico di suo fratello e soprattutto le sue passioni: su di un ampio scrittoio carte nautiche e disegni di navi saltarono subito agli occhi di Arthur. Un pappagallo intento a sgranocchiare biscotti da sopra una gruccia li degnò di un solo sguardo, sembrando offeso dell’intrusione nel suo regno.
“Abiteremo qui” avvertì Abel cordiale, per metterlo al corrente della nuova situazione e per metterlo soprattutto a suo agio “E’ casa tua, non farti scrupolo di chiedere qualsiasi cosa”.
“Cosaaaa” borbottò il pappagallo guardando Abel in modo truce che a sua volta lo sgridò “Non parlavo con te Deegery-doo. Cerca di non essere villano” scherzò poi con il pennuto che si girò nuovamente al proprio biscotto.
Suo fratello si tolse il mantello appendendolo ai lati della porta. Arthur rimase fermo, seguendolo con lo sguardo. Una finestra era aperta e la tenda accostata al lato. Abel liberò la tenda dal cordino di fermo per mascherare l’interno della stanza alla strada “Meglio essere prudenti” disse soltanto, provocando in Arthur non poco turbamento.
Vedendolo smarrito, per metterlo a proprio agio, Abel gli impartì cosa fare “Togli il mantello”.
Arthur annuì. Lo fece lentamente. Non realizzava ancora di essere fuggito dall’incubo in cui s’era ritrovato.
Il pappagallo si strofinò le ali e, Arthur restò incantato ad osservarlo nel suo biancore, finché suo fratello non si avvicinò e l’abbracciò cauto: in quel momento si sciolse ogni paura che albergava nel cuore di Arthur.
Abel lo strinse forte “Sei al sicuro: Ti proteggerò io!”: un calore che avvolgeva il minore in un’ala protettiva. Un abbraccio caldo e accogliente che lo fece cedere alle lacrime. Lacrime di cui non si vergognava, lacrime che volevano lavarlo, purificandolo di tutta la sporcizia che si sentiva addosso. Iniziò a singhiozzare forte, confortato da quel “E’ tutto finito” di suo fratello, che lo accarezzava amorevole come mamma Mary.
“Tu non sai…” si sfogò Arthur prima che arrivasse un groppo in gola che gli troncò la voce. Una voce che non voleva confessare ciò che era inconfessabile. Sperò che suo fratello non avesse udito quelle parole: si vergognava troppo. Forse non lo erano state, nella voce troppo rotta dai singhiozzi: quella la speranza di Arthur.
Lui piangeva e singhiozzava forte e, Abel là a sorreggerlo apparentemente senza lacrime mentre prometteva che non gli sarebbe più successo nulla e si scusava con amarezza per essersi imbarcato su due piedi, senza riflettere, preda di un egoismo che ora il fratello maggiore disprezzava. Per Arthur ora non avevano più importanza quei discorsi.
A chi importava quello che era scaturito da quell’evento?
A lui.
Un gemito convulso gli segnalò che il suo malessere interiore voleva subdolamente uscire dando spiegazioni: lui lo ricacciò nell’intimo.
Abel lo accompagnò a sedere sul letto, anzi lo invitò a stendersi “Dovresti riposare ora”.
Arthur negò col capo “No!”, scuotendo la testa da un lato all’altro a precisare che non voleva “Se è un sogno non voglio dormire. Al mio risveglio potrebbe...”. Seguì l’eco del pappagallo che gracchiava “No! No!” e sbatteva le ali nervoso, pur non sollevandosi in aria.
Abel pur sorpreso dalla sua reazione, corrucciò la fronte ma non osteggiò le sue mani che tentavano di tenerlo a distanza. Cautamente il maggiore ammise “Come vuoi. Faremo come vuoi” e, con le mani lo invitò a sedersi su un piccolo divano, accompagnando quel consiglio ad una voce mite “Prendi posto e rilassati. Non insisto ma per lo meno siedi”. La voce di Abel era così calda che Arthur si rilassò e ubbidì.
“Forse…”, aveva ragione Abel ma lui non l’avrebbe ammesso; la sua era stata una continua ribellione a ordini e prepotenze in quei mesi ed ora sentiva di non riuscire a fare altro che ribellarsi. La sua testa scoppiava nel pensare a ciò che aveva vissuto.
“Faccio un tè ” disse cordiale suo fratello, stupendosi dell’essere aggredito da un nuovo ferreo e quasi collerico “No. Non lo voglio”.
Arthur sentì il cuore pompare in petto, così accelerato da togliergli il fiato. Gli faceva male il volto di suo fratello che non capiva il suo stato e il suo rifiuto di una premura che sembrava ordinaria. Abel era spiazzato dalle sue reazioni. Tutto sembrava un’esagerazione per Arthur e suo fratello non se ne capacitava. Pure il pappagallo sembrava più equilibrato di lui, rifletté con se stesso Arthur.
Abel andò a sedersi sul letto, tenendosi a distanza, lasciandogli spazio fisico; Arthur del resto quando lo vide seduto si fiondò all’angolo opposto della stanza, prima rasentando il muro per coprire le spalle, scendendo poi a sedersi, rannicchiato a terra, stringendo con le mani le ginocchia: solo poche parole  “Lasciami qui”. Poggiò la guancia sulle ginocchia, il volto obliquo che con occhi guardinghi fissava il volto di Abel, cercando di anticiparne una reazione.
A suo fratello Abel sfuggì un sospiro, distolse lo sguardo da lui girandolo alla finestra. Abel non disse nulla e lui chiuse gli occhi. Li chiuse perché era stanco. Sentiva la tensione alle spalle sciogliersi; gli occhi volevano restare chiusi. Riprese veloce coscienza, disprezzandosi di essere rimasto vulnerabile. Un rumore di metallo infastidì le sue orecchie: un tintinnio, un cozzare di qualcosa di metallico su altro metallo.
Arthur si destò di scatto, alzando il capo, ma una calda coperta lo avvolgeva morbida e quel rumore apparve per quello che realmente era: inoffensivo.
“Spero di non farti rimpiangere lo stufato della mamma” ammise suo fratello che davanti alla piccola stufa armeggiava su una pentola borbottante.
Gli occhi di Arthur si fecero immensi: non aveva sognato! “Ma allora è tutto vero! Abel sei tu!”. Si alzò energico raggiungendolo, con la mano lo strinse al braccio come per sincerarsi fosse reale e non una beffarda illusione.
   
 
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