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Autore: NPC_Stories    15/11/2020    4 recensioni
Storia ambientata nei pochi mesi che Daren e Johel hanno passato nella foresta di Mir, prima che le loro strade si separassero in Ricostruire un ponte. Johel è felice di essersi riunito alla sua famiglia dopo molto tempo, e non si accorge che il suo amico ha cominciato a frequentare una ragazza.
Mi hanno chiesto in molti se Daren abbia mai avuto una relazione amorosa. Forse questa storia è più esaustiva di un semplice "no".
Genere: Fantasy, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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1361 DR: Un elfo decente


Saeron attraversò la città in silenzio, perso nei suoi pensieri. Non si curò nemmeno di rispondere ai cenni di saluto della gente, ma per una volta, non per scortesia. Non li vedeva davvero, troppo impaludato nelle sue ansie.
Era un elfo dei boschi con una sua dignità. Ci teneva a sottolinearlo spesso, non a parole perché sarebbe stato degradante, ma attraverso gli atteggiamenti, le pose, il tono della voce, le sue scelte. Nella sua miopia aveva sempre scambiato la dignità con l’alterigia e il suo concetto di fierezza era tenere gli altri a distanza, non rinunciando alle interazioni sociali (figuriamoci, un bardo!, sarebbe stato un suicidio professionale) ma rifiutando un confronto vero e paritario.
In poche parole, Saeron non aveva mai coltivato amicizie profonde. Aveva degli ammiratori, ovviamente delle ammiratrici, aveva un fratello, e poi aveva… un rapporto indefinibile con Belegron, che era un amico di Vialaer ma aveva questa curiosa mentalità ‘sei il fratello del mio amico, quindi sei mio amico anche tu’. Era letteralmente così che si era presentato, molti decenni prima. E Saeron aveva sentito una rispostaccia salirgli alla punta della lingua, ma non l’aveva mai espressa perché… perché Belegron era…
L’elfo dei boschi abbassò lo sguardo a terra mentre un leggero rossore gli accendeva le guance. Lui che aveva un incarnato più pallido della media degli elfi dei boschi purtroppo diventava del tutto trasparente quando era imbarazzato o turbato. Affrettò il passo verso la casa arborea che condivideva con suo fratello, con il loro amico e con un’altra famiglia di elfi del loro villaggio.
Belegron era stato per decenni l’unica persona oltre a suo fratello con cui Saeron avesse un rapporto un minimo profondo. Era facile, perché l’elfo gioviale e farfallone appariva come una persona semplice. Non che difettasse di quella sensibilità che era tipica degli elfi, ma aveva un modo tutto suo per alleggerire le situazioni e lasciare alle persone i loro spazi. Con il tempo, il bardo aveva capito che il suo amico non era affatto uno sciocco ma manifestava la sua intuizione in modo diverso dalla norma. Scoprire che fosse una persona stratificata, più complessa di come appariva al primo sguardo, aveva solo aumentato il fascino di Belegron ai suoi occhi, e per anni lo aveva anche un po’ invidiato, lo aveva preso di punta, leggendolo come un possibile rivale per il ruolo di elfo più affascinante del villaggio. Ma era un titolo che il carpentiere non voleva, richiedeva di avere un’immagine troppo strutturata, costruita in modo fittizio. Era, decisamente, il ruolo di chi ama più il proprio riflesso nello specchio che la compagnia altrui, e quindi era tagliato su misura per Saeron. A Belegron bastava riuscire a conquistare le attenzioni femminili ogni volta che ne sentiva il capriccio.
E questa era un’altra cosa che a Saeron non era mai andata giù del tutto. Perché apparentemente non importava quanto potesse affinare la sua arte, rendersi seducente, curare il suo aspetto, farsi cucire abiti su misura dal fratello, spazzolare i suoi capelli fino a renderli lucidi come una cascata di seta, o rifinire le sue maniere fino a diventare apparentemente educato come un lord: c’era una persona, nel suo entourage, che continuava a sembrare immune alla sua immagine ammaliante, e questo lo indispettiva da sempre. Saeron ci aveva messo davvero molti anni a capire che il sentimento ambivalente che provava per Belegron non era invidia, ma desiderio. E non semplice desiderio sessuale; era prima di tutto desiderio di avere con l’altro un rapporto diverso, di avere la certezza che Belegron potesse comprenderlo, o anche solo notarlo.
Come quasi tutte le creature senzienti, gli elfi erano capaci di sentimenti complessi; ma a differenza di altre razze come gli umani o gli gnomi, di solito gli elfi erano in grado di identificare molto bene la linea di demarcazione fra sentimenti positivi e negativi. Gli capitava molto raramente di provare ostilità e affetto per la stessa persona, era una situazione confusa, indegna del controllo e della profonda consapevolezza che la loro razza aveva sviluppato nei secoli e che tramandava alle nuove generazioni attraverso l’educazione. Saeron aveva capito di non saper tracciare la linea fra sentimenti positivi e negativi, e questo lo preoccupava, ma era una preoccupazione che faticava ad ammettere perfino con se stesso; si era chiesto più di una volta, nell’intimità della sua stanza, ‘Che cosa c’è che non va in me?’, ma poi aveva sempre scosso la testa rimproverandosi di essere troppo melodrammatico. Non riusciva a tollerare l’idea che ci fosse qualcosa che non andava, in lui. Preferiva interpretare quei dubbi come una tendenza eccessiva all’autocritica, trasformando così un momento di riflessione in uno di auto-assoluzione, lui che di autocritica in realtà era incapace.
La verità era che il bardo era soggetto a provare sentimenti confusi per gli altri perché provava sentimenti confusi prima di tutto verso se stesso, ma non ne era assolutamente consapevole. Suo fratello in qualche modo l'aveva intuito, per questo si era sempre rifiutato di lasciarlo solo, anche se ormai erano adulti.
Alla fine le sue gambe lo portarono ai piedi dell’albero dove sorgeva la sua casa, meccanicamente, senza quasi che si accorgesse del percorso fatto o del tempo che era passato.
“Saeron” la voce di Belegron lo richiamò all’ordine. L’elfo si guardò intorno, poi realizzò che la voce veniva dall’alto. Il carpentiere era affacciato da una passerella che collegava alcuni rami alla piattaforma più alta della casa. “Aspettami, scendo.”
Il bardo si concesse un sorrisino timido, una cosa insolita, per lui. “Ma no, incontriamoci a metà strada” propose, iniziando ad arrampicarsi sul tronco mentre Belegron scendeva. Era solo all’apparenza una concessione gentile; in realtà Saeron sapeva che avrebbe dovuto riferire di aver fallito la sua missione, e sperava - anche se era una speranza debole - che se fosse riuscito a mettere piede in casa, Belegron non l’avrebbe ricacciato giù per costringerlo a tornare da Amaryll.
Era così facile fallire in una missione che non voleva compiere…
“Allora?” Belegron lo accolse con un sorriso incoraggiante “sei riuscito a parlare con tua cugina? Le hai porto le tue scuse?”
L’elfo pallido arrossì ancora di più.
“Io… non… ecco, lei...” il suo balbettio incerto riuscì a spegnere perfino le speranze di Belegron. “Non c’è stata l’occasione!” Buttò fuori, cercando di giustificarsi.
“Ah, certo, non c’è stata occasione” l’amico storse la bocca in una smorfia. “Immagino che tu non ti sia sforzato molto per crearla, l’occasione.”
“Stava per mettersi a lavorare, presto sarebbe arrivata gente, non mi andava di affrontare l’argomento… in un momento in cui lei aveva altro da fare e qualcuno…”
“E qualcuno avrebbe potuto sentirvi, intaccando la facciata di infallibilità che hai costruito” concluse per lui Belegron. “Non è questo che avevamo deciso, Saeron. Ti ho detto che vorrei che diventassi un po’ più sincero.”
Sono sincero!” Sbottò il bardo, e forse lo credeva anche. “Ma vuoi che sia ancora più sincero? Benissimo! Non capisco cosa ho fatto di così sbagliato da giustificare il rischio di un’umiliazione pubblica.”
“Non ti ho mai chiesto di subire un’umiliazione pubblica, sei tu che hai nicchiato e rimandato solo per poter arrivare al pub quando lei stava per mettersi a lavorare, e avere così una scusa per venirtene via senza parlarle! Pensi davvero che non conosca i tuoi giochetti, dopo tutti questi anni?”
“Non è vero, non ho nicchiato… non guardarmi in quel modo!” Sibilò, puntando il dito contro Belegron. “È solo che non capisco per quale ragione debba scusarmi.”
L’elfo più alto e muscoloso non aveva un viso altrettanto espressivo, non si era allenato davanti allo specchio per anni come Saeron, ma quando sollevò entrambe le sopracciglia il suo stupore fu chiaramente palpabile.
“Ma come, ne abbiamo parlato ieri sera, sul serio non hai capito dove hai sbagliato?”
Il bardo cercò di ricomporsi. “Hmpf. Sì, ho capito dove… avrei potuto esprimermi meglio. Però non capisco perché scusarmi. Sono stato spocchioso, e allora? Mia cugina non si aspetta niente di diverso da me. Perché rettificare?”
“Perché è questo il comportamento corretto per un elfo!”
“Tu dici? Mi risulta che noi elfi abbiamo la nomea di essere orgogliosi, elitari, perfino spocchiosi” gli fece notare Saeron.
Belegron aggrottò la fronte, cercando di capire come mai all’improvviso l’amico si stesse rifugiando dietro a preconcetti negativi sulla loro razza. “Solo un N’tel’quess ci chiamerebbe così. Loro non ci conoscono bene, ma è vero che a volte siamo altezzosi verso i non-elfi. Però non siamo mai spocchiosi fra di noi! Che ti prende, Saeron?”
“Forse abbiamo le nostre ragioni per guardare dall’alto in basso le razze meno evolute, non ti pare? E che mi dici di Amaryll? Lei si accompagna sempre con creature inferiori, ti sembra strano che questo la renda meno elfa ai miei occhi? Perché dovrei abbassarmi al livello di una…”
“Ah! Non hai appena millantato di essere una persona sincera?” Belegron quasi gli rise in faccia. “Se non ti conoscessi bene, ti chiederei conto di questa tua deriva razzista. Ma ti conosco, e so che non c’è nessuna deriva razzista, questo non è il tuo vero pensiero.”
“Lo è eccome!”
“Baggianate! Quanto devi essere disperato per voler prendere una posizione, anche una così odiosa, pur di avere qualcosa da dire?” Belegron lo affrontò a muso duro, per la prima volta in decenni. “Tu non hai ideali razzisti, Saeron, perché non hai ideali e basta. Non hai un pensiero che sia tuo! Sei un pusillanime, un guscio vuoto, abbracceresti qualsiasi filosofia che ti permetta di continuare a essere uno stronzo algido che non si piega davanti a nulla. Questa idiozia delle razze inferiori te la stai inventando per giustificare il fatto che non vuoi scusarti con Amaryll.”
Saeron, che fino a poco prima era paonazzo, sbiancò improvvisamente e sentì un capogiro. Non si aspettava che Belegron potesse strappare via la sua maschera con tanta facilità. Non credeva che qualcuno, chiunque, si sarebbe mai accorto che… be’, che era una maschera. Ormai nemmeno lui stesso sapeva più dove finisse la finzione e iniziasse la realtà, quindi come poteva saperlo Belegron?
“Ma non capisci perché volevo che ti scusassi?” Infierì. “Per anni ho cercato di capirti, giuro. Ho aspettato, osservato, sperando che di quando in quando emergesse uno sprazzo della tua vera personalità, e invece niente! Allora ho capito. La maggior parte delle persone esprime ciò che ha dentro attraverso il comportamento, le scelte, lo stile. Esprimono l’idea che hanno di loro stessi. Tu fai il contrario: ti costruisci un bozzolo, un’identità fasulla, qualcosa che forse vorresti essere, e poi cominci a crederci. Forse, quindi, se tu ti scusassi… se tu cominciassi a comportarti come un elfo decente, a pensare a te stesso come a una persona gentile, forse un giorno arriveresti a esserlo anche in cuor tuo.”
Calò un lungo silenzio carico di tensione.
“Dunque è questo che pensi di me. Secondo te merito questo genere di insulti” riepilogò Saeron, in tono molto amareggiato. “Perché ti prendi la briga di farti chiamare mio amico?”
“Non lo so” ammise Belegron, dopo qualche secondo. “La versione ufficiale è che ti sto vicino perché sono amico di tuo fratello, e se devo dirla tutta, Vialaer mi ha chiesto di esserci per entrambi voi, perché non crede di poterti gestire da solo.”
“Se tu o mio fratello pensate che un ricattuccio morale poss…”
“Ma la verità” Belegron lo interruppe, con prepotenza. “È che sono uno stupido e un superficiale, immagino. Per anni… no, per decenni, ti ho gironzolato intorno con la scusa dell’amicizia perché sono attratto da te. In questo riesci così bene, curi il tuo aspetto fisico con tanta maniacale attenzione” gli rinfacciò, come se fosse una colpa.
Saeron aveva già una rispostaccia sulla punta della lingua, ma gli andò di traverso. L’amico aveva appena detto che… lui gli piaceva?
Era così sconcertato - Belegron non l’aveva mai lasciato intendere! - che perse l’occasione per controbattere.
“Ti sono rimasto accanto perché chissà, forse speravo che tu prima o poi tirassi fuori qualcosa, qualche lato nascosto della tua personalità che potesse giustificare un’attrazione a tutto tondo, non solo estetica. Ma come ti ho già detto, ormai sono giunto alla conclusione che tu non abbia nessuna personalità, e anziché imitare il comportamento altrui per poter almeno passare per un elfo decente, ti sei costruito questo piedistallo su cui ti piace tanto vivere.”
“Facile per te!” Sbottò Saeron, così punto nel vivo da lasciar passare in secondo piano anche l’estemporanea confessione del carpentiere. “Mi giudichi dalla tua posizione di persona semplice, sempre che sia vero, ma è questo che tutti pensano di te, no? Che Belegron è un elfo semplice, alla mano, simpatico, un po’ farfallone, uno a cui non si può rifiutare un sorriso. Ti riesce facile piacere agli altri! Come credi che sia, essere l’esatto opposto? Cercare la propria identità e non trovare nulla, avere la mente piena di interrogativi, e chiedersi cosa accadrà se - quando! - gli altri se ne accorgeranno. Mi piace avere intorno un alone di mistero, tenere la gente a distanza con fredda grazia, cercare ideologie che possano dare un senso al mio comportamento. Tu dici di essere un elfo semplice, benissimo, se perfino un elfo semplice è arrivato ad accusarmi di essere vuoto, cosa potrebbe dire qualcuno con un minimo di cervello più di te?”
“Niente! Nessuno direbbe niente! Maledizione, Saeron, la gente non passa la vita a giudicare gli altri” sbottò l’elfo più alto, cercando di tenere basso il tono della voce anche se avrebbe voluto gridare. “Tu pensi che tutti ti guardino e ti valutino tutto il tempo? Be’, forse è perché tu ti sei messo su un palcoscenico. E ti svelo un segreto, la gente non ha motivo di giudicare con malizia una persona simpatica, se tu tenessi un maledetto profilo basso nessuno cercherebbe di analizzarti! Ma no, questo è troppo poco, il signorino deve brillare, deve avere l’attenzione di tutti ma guai a scendere al loro livello, questo non lo vuoi fare, vuoi essere guardato da lontano e mai giudicato, come se fossi un dio!”
“Ora mi attribuisci delle ambizioni superiori al vero” Saeron si mise sulla difensiva. “Non voglio essere considerato un dio, voglio solo essere considerato. Voglio essere speciale, voglio che la gente sappia il mio nome. È un crimine? Dovrei rinunciare al mio sogno solo perché non ho… non ho…” si fermò, come se non riuscisse a mettere bene in luce che cosa gli mancasse.
“Non hai umiltà, non hai personalità, non hai considerazione per il prossimo” elencò Belegron, zelante. “Dimmi, hai almeno dei sentimenti?”
“Ce li ho!” Ringhiò il bardo. “E sono piuttosto feriti in questo momento!”
“Bene, è meglio di niente! E visto che ora sai cosa si prova, ti sembra divertente far patire la stessa cosa agli altri?”
“Altri? Altri! Ti definisci mio amico e anteponi i sentimenti degli altri ai miei. Bene, prendo atto! Ma dimmi, chi sono questi altri che avrei ferito? Posso essere spocchioso e snob, ma quando mai ho ferito qualcuno?
“Amaryll…”
“Amaryll se ne frega delle cose che dico! È il gioco delle parti, io dico quello che devo dire e lei dà poco peso alle mie affermazioni. Non starò a pesare le parole e a forzarmi di essere cortese con persone che tanto non mi ascoltano.”
“Dici sempre cose sgradevoli, non stupirti se nessuno prenderà a cuore le tue parole.”
“Non hai ancora capito? Non voglio che lo facciano” sibilò il bardo. “Voglio che le persone se ne stiano al loro posto. Non cerco un legame. Voglio poter costruire l’immagine che preferisco e non avere il potere di ferire nessuno mentre lo faccio.”
Belegron annuì, non perché accettava le sue parole ma perché era l’affermazione più sincera che gli avesse mai sentito fare, e approvava quel passettino in avanti.
“Ma così facendo, ferisci tuo fratello e anche me. Siamo gli unici due elfi che in qualche modo ti vogliono bene, come pensi che ci sentiamo vedendoti riproporre sempre gli stessi modelli sbagliati, giorno dopo giorno?”
“E siamo tornati al ricatto morale” Saeron alzò il mento con arroganza, con il tono definitivo di chi sta chiudendo un cerchio. “Se non hai altro da dirmi, gradirei interrompere questa noiosa e infruttuosa conversazione.”
Rimase in silenzio, come in attesa, per qualche secondo. L’amico rispose solo con un triste cenno di diniego. Saeron gli voltò le spalle e uscì dalla casa sull’albero, camminando tutto impettito.

Quello stesso giorno, nel pomeriggio, una dama elfa si sedette allo scrittoio della sua bella casa sull’albero e riprese in mano la lettera che aveva iniziato a scrivere. Hinistel aveva ricevuto da Fisdril le indicazioni su come redigere la prima parte del messaggio, quella che doveva contenere un messaggio segreto per Tazandil, e l’aveva anche istruita su cosa non scrivere nella lettera, per non rischiare che informazioni su Myth Dyraalis cadessero nelle mani sbagliate.
Era un po’ offensivo che lui avesse ritenuto necessario spiegarglielo, ma la saggia donna non se l’era presa. Non molto.
“Maestro. Mastro. Astro. Asta. Basta. Bastare… Ss-tare” borbottò Jaylah, ripetendo quella serie di parole mentre gironzolava per la stanza. Aveva imparato a dire Maestro senza inciampare nel suo solito errore di pronuncia, e grazie alla guida del saggio Noraemir aveva fatto degli esercizi vocali per estendere quella nuova competenza anche ad altre parole. Aveva padroneggiato l’arte dell’attaccare la s ad altre consonanti, ma solo quando c’erano delle altre vocali intorno. Non riusciva a pronunciare bene delle parole che cominciassero con st, sc, sp. Era come cercare di saltare senza rincorsa.
Hinistel ascoltava con mezzo orecchio i suoi progressi, sorridendo teneramente. D’un tratto, Jaylah si accorse di quello che stava facendo la dama, che aveva ancora la penna in mano.
“Nonna? Quella è la lettera pe’l nonno?” Domandò Jaylah, sbirciando curiosa lo scrittoio di Hinistel.
“Sì amore, lo zio Fisdril ha scritto la maggior parte della lettera, ma io posso aggiungere una nota personale. Pensavo di far scrivere qualcosa anche a te, ma… rispondere è piuttosto urgente, e Mastro Noraemir non ti ha ancora insegnato a riconoscere le lettere, giusto?”
“Uh-uh” la bambina scosse la testa. “No’ so ancora… ss-crivere.”
“Imparerai, col tempo” la rassicurò la nonna, con un sorriso divertito. “Magari posso scrivere io un messaggio per tuo conto. Tu mi dici cosa vuoi scrivere al nonno, e io lo aggiungo in fondo alla lettera, che ne dici?”
“Sì, va bene” ponderò Jaylah. “Però la prossima volta lo faccio io! Allora, nonna, ecco cosa devo dire al nonno” la bimba si schiarì la voce, poi annunciò con grande serietà: “Caro nonno, sono Jaylah. Ti mando un abbraccio grande… oh, e anche a Lacis” aggiunse, ricordando il suo orsacchiotto che aveva prestato a Tazandil come portafortuna. "Ss-to facendo lezioni di come essere una brava elfa con il Maestro No-raa-mir, nonna metti il nome giusto che no' so bene come si dice… e lui dice che ho molte potenze” annunciò tutta fiera.
“Dice che hai molte potenzialità, tesoro” la corresse Hinistel, lasciandosi sfuggire un risolino.
“Sì quello! Da grande diventerò super potentissima” confermò la nipotina con un sorriso. Non aveva capito molto bene che cosa volesse dire 'potenzialità'. “Nonna scrivi anche: ho deciso che da grande sarò una dudula, ma per ora nessuno vuole insenniarmi. Ci sono tante altre cose che devo imparare prima, e oggi ho imparato una cosa importante.” Jaylah si sforzò di riportare a mente la frase che si era preparata. “Nonno, ora conosco i miei diritti. Sono tua nipote e devo essere una brava elfa ma anche tu devi essere un bravo elfo e un bravo nonno. D'ora in avanti mi devi chiamare 'tesoro' come fa la nonna, oppure con altre parole carine. Se non lo fai io lo dico al capo del clan e poi non ti parlo più."
Hinistel, che fino a poco prima stava trascrivendo con cura le parole che Jaylah le dettava, sollevò la penna dal foglio e guardò la nipote con totale sbalordimento.
“Tu vuoi che scriva a Tazandil ‘conosco i miei diritti’? Oh, cielo…” si mise una mano davanti agli occhi e cominciò a ridere in silenzio, le spalle squassate da singulti. “Dove hai imparato tutte queste parole difficili?”
“Dal Maestro. Dice che tutti i bambini hanno i diritti di essere amati. Forse nessuno gliel’ha detto al nonno, allora glielo dico io.”
“Be’... quello che dice Mastro Noraemir è molto giusto ma… non tutti i bambini hanno la fortuna di essere amati. E quelli che non lo sono, a volte da grandi non sanno come esprimere i loro sentimenti.”
Jaylah la guardò con aria vacua, senza capire mezza parola di quel discorso.
“Ma non è difficile! Basta dire ‘ti vollio bene’. Il nonno può imparare da te, nonna.”
“Ah, fosse facile. Sono secoli che aspetto e spero che impari per imitazione” l’elfa dei boschi sorrise, un po’ rassegnata. “Alla fine sono io che ho dovuto imparare il modo in cui lui comunica. Forse non ti chiamerà mai tesoro, però ti vuole bene.”
“Hm. Allora, vollio ss-crivere anche questo: nonno, ss-tai attento alla guerra e metti la pomata sul… come si dice in elfico, bercoccolo?
“Ber… che cosa?”
“Bercoccolo! Quando hai un male alla testa e ti viene una collinetta… qui…” puntò un dito contro la fronte mentre cercava di esprimersi nel suo elfico ancora imperfetto.
“Ah, un bernoccolo” ipotizzò, esprimendo la parola in lingua umana.
“No, no, si dice bercoccolo. Perché quando vado a ss-battere, e mi viene male alla testa, mamma mi mette la pomata e… e poi mi fa le coccole.” Spiegò, enfatizzando l’assonanza fra le due parole.
Hinistel sussurrò un “Aaaaw” intenerito, mentre quel piccolo aneddoto le faceva tornare alla mente la conversazione che aveva avuto con Noraemir: a quanto pare, Jaylah amava cercare un senso nelle parole, non si accontentava di impararle a memoria. Che fosse davvero più intelligente di quanto il suo sviluppo lento lasciasse intendere?
Il racconto di quel piccolo spaccato di vita famigliare le pungolò anche un altro nervo ancora scoperto: la madre di Jaylah. Sembrava una persona per bene, che aveva a cuore sua figlia. Hinistel non aveva dimenticato la sua decisione di indagare i sogni della bambina, di capire se davvero la strega venisse a trovarla nel mondo onirico.
“Scriverò al nonno di riguardarsi, ma non credo che abbia della pomata a portata di mano.”
Jaylah commentò quella notizia con un’espressione di assoluto orrore. “Oh, no! E come fanno quelli elfi se si fanno male?”
“Be’... avranno un sacerdote.” La bimba la guardò con aria perplessa. “Insomma, un guaritore.”
“Ah” s’illuminò, perché finalmente Hinistel parlava di cose che anche lei, nella sua limitata esperienza del mondo, poteva capire. “Anche mia sorella Tine è una guaritora.”
“Una guaritrice” la corresse l’elfa.
“Una guaritrice. Ha anche un bellissimissimo inniconno.”
“Un… ehm… ma certo” Hinistel trattenne le sue domande sulla punta della lingua. Non poteva indagare ogni cosa strana che la bimba diceva, non se voleva finire di scrivere la sua lettera prima del tramonto.
Non si fece troppe domande sulla questione del bernoccolo: sicuramente Jaylah non conosceva altre forme di ferite o contusioni, quindi la sua mente infantile doveva immaginare che la guerra portasse tanti bernoccoli.

Nel tardo pomeriggio, un'oretta prima del calar del sole, un elfo solitario raggiunse una radura secondaria dopo aver passato gli ultimi minuti a camminare e riflettere. Il pub noto come Casa degli Scapoli era aperto, ma non ancora fervente di attività.
Saeron spinse la porta di legno, che si aprì con un lievissimo cigolio. Amaryll era al bancone, come sempre.
Si avvicinò in silenzio, e sempre in silenzio si sedette su uno degli alti sgabelli, proprio davanti a lei.
“Buon pomeriggio” la rossa lo accolse con un sorriso di rappresentanza, quello che rivolgeva a tutti i clienti. “Cosa ti servo?”
“Non sono qui in veste di cliente” rivelò l’altro, brusco e seccato come se fosse stato irritato da una domanda stupida. “Sono qui perché voglio scusarmi per ieri sera.”
Amyl rimase talmente stupefatta che smise di pulire le posate e fissò lo sguardo su di lui, a occhi sgranati.
“Ah… e perché pensi che dovrei accettare le tue scuse?”
Saeron parve preso in contropiede.
“Le scuse si devono accettare?
“Be’... ... quando desideri il perdono di qualcuno, gli porgi le tue scuse, e quella persona decide di accettare le tue scuse e perdonarti, oppure non accettarle e non perdonarti.”
Il bardo restò in silenzio per un momento, come se stesse processando un concetto del tutto nuovo.
“Ma a me non interessa particolarmente il tuo perdono” ammise.
“Ah. E allora perché mi stai chiedendo scusa?”
“Perché sento di essermi comportato in modo eccessivamente sgarbato, e volevo condividere le mie conclusioni. Ho esagerato. Ma non sono emotivamente legato a te fino al punto che m’interessi il tuo perdono.”
“Oh, mamma. Quindi sei qui per avere una sorta di assoluzione di tipo sociale? Vuoi che ti dica che il tuo comportamento tutto sommato era accettabile, o non era così grave?”
Il bardo si strinse nelle spalle.
“No, non credo. Non mi importa molto della tua opinione. Onestamente non lo so, è la prima volta che mi scuso con qualcuno in vita mia.”
Amyl, contro ogni sua previsione, sbottò in una risata cristallina.
“Oh, per tutti i Seldarine! Se è la tua prima volta, non stai facendo un brutto lavoro.” Si sporse e gli batté una mano sulla spalla, in amicizia. “Come ti senti, ora che ti sei scusato?”
“Uhm… non mi sento meglio, ma non mi sento nemmeno umiliato come immaginavo. Direi che non è cambiato molto, a parte la consapevolezza di aver fatto il mio dovere sociale.” Saeron ci pensò ancora per qualche minuto. “Ma tu non dire a Belegron che mi sono scusato. E nemmeno a Vialaer. Non voglio dargli la soddisfazione.”
“Agli ordini” scherzò Amyl, quanto mai divertita dalle strane relazioni sociali in quel gruppetto. “Sarà il nostro piccolo segreto.”

           

   
 
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