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Autore: The Custodian ofthe Doors    19/11/2020    4 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo XII- Way.





La corriera si fermò con un sussulto. Gio sapeva perfettamente che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che era solo il vecchio motore che si faceva sentire, benedizione divina o meno.
Certo, se la vecchia cara Era, il nome ufficiale della sua corriera – sì, Era la corriera, eh-eh – si fosse fermata così vicinia eppure così lontana da Bologna ci sarebbe rimasto parecchio male. Per prima cosa avrebbe dovuto bruciare una delle sue razioni per richiamare l’attenzione di Pluto, o gli avrebbe dovuto tirar dietro un paio di insulti belli pesanti per cui forse poi non sarebbe stato perdonato. Secondo, il tasto più dolente, avrebbe dovuto ammettere che le sue doti da meccanico non erano poi così buone.
E avrebbe preferito insultare il suo amico piuttosto che ammettere che forse avrebbe dovuto lasciare la riparazione di quella vecchia ferraglia ad un miracolo divino. Letteralmente.
Ma insomma, Ade era il dio dei morti, mica dei carburatori, che ne sapeva di una correria del dopoguerra lui? Nulla. Al massimo sapeva qualcosa di bighe, e di cavalli, e cani, erano i mastini o i cavalli infernali che andavano a fuoco? Non se lo ricordava mai, ma se avesse dovuto decidere forse avrebbe puntato sui cavalli, nell’Apocalisse doveva esserci qualche riferimento ad uno dei Quattro Cavalieri che cavalcava un cavallo in fiamme.
Povero cavallo.
Con la faccia crucciata e la mente impegnata ad immaginarsi un cavallo fatto di fuoco, o che andasse a fuoco, o che sputasse fuoco, una delle tre o tutte insieme, ma che ne sapeva lui? Con quell’idea martellante Giordano tirò con forza la leva di fianco al sedile del guidatore e aprì lo sportello cigolante.
Sorrise a quel rumore, gli ricordava quasi quello del cancello del vecchio hotel. Chissà dov’era finita quella bettola cadente.
Sgranchendosi le braccia scese con un saltello dall’ultimo gradino, senza curarsi di lasciar la portiera aperta.
Si trovava in una zona abbastanza isolata, lontana dalle strade principali esattamente come aveva detto ad Ade, per evitare che qualche guardia lo trovasse, lo riempisse di botte, per buona misura, e gli rubasse moto e corriera. Aveva visto però delle case un’oretta prima ed era sicuro che con una buona mezz’ora di camminata avrebbe raggiunto un altro paesino, disperso per quella terra che non conosceva.
A ben pensarci lui il nord Italia non l’aveva mai visitato. Quando avevano deciso di tornare a Roma erano ridiscesi verso la Grecia e lì, a confine, avevano preso una nave che li aveva portati sulla vecchia penisola. Erano arrivati in Puglia, per poi tagliare per l’Umbria e arrivare nel Lazio. Avrebbero potuto prendere una scorciatoia, a ben pensarci, magari usare una delle tante porte dell’hotel o uno di quei passaggi sotterranei che portavano ovunque e che Clara conosceva tanto bene. L’avevano lasciato di nuovo nel Convento, con Suor Patrizia già pronta ad accoglierlo e a strapparlo dalle gambe di Al.
Quindi, a conti fatti, non aveva ben visto neanche il sud d’Italia, avrebbe dovuto rimediare prima o poi, magari quando avrebbe ritrovato i suoi genitori, dispersi oltre il confine franco. Magari anche con tutti i ragazzi, Raja avrebbe adorato l’acqua fredda della Puglia, era la stessa del suo mare, dopotutto.
Si guardò attorno senza vero interesse, lo spiazzo sterrato in cui si era fermato era a ridosso di un boschetto dai rami radi, nulla che avrebbe potuto proteggerlo o nasconderlo, ma di certo un posto comodo dove rimediare legni e accendere un fuoco. Così fece.
In quel periodo dell’anno si riuscivano ancora a trovare rametti secchi e asciutti, ideali per accendere un focherello per scaldare sé stessi e qualcosa da mangiare.
Saltellò verso i primi alberi, accucciandosi per cercare tra la sterpaglia, quando un fruscio lo costrinse ad alzare la testa. La mano sinistra scattò in automatico verso la sua cinta, lì dove era attaccato il pugnale dorato che gli aveva regalato sua madre, per proteggersi, per esser sempre al sicuro anche quando nessuno vegliava su di lui.
Giordano si accucciò ancora di più, la lama già per metà fuori dal suo fodero, gli occhi ben aperti, le orecchie recettive ad ogni minimo movimento.
C’era qualcuno che camminava, ma non riusciva a capire se venisse dal folto del boschetto o dalla strada, che fosse qualche paesano dei dintorni? Aveva avuto davvero la sfortuna di beccare l’unico cristiano che si avventurava per le vecchie vie a quelle che, ad occhio e croce, dovevano essere le sei di pomeriggio?
Con un grugnito si avvicinò ad un albero, meditando se fare uno scatto e correre verso la corriera o se attendere che quella persona passasse.
Mentre i passi si facevano sempre più vicini mille pensieri affollarono la sua mente, mille scuse, tutti i piani che s’era fatto per scappare ad ogni pericolo e poi, silenziosa e viscida, la paura. Non era la prima volta che si trovava in pericolo, ma sarebbe stata la prima volta in cui l’avrebbe affrontato da solo. Quando era a Roma, anche se la città era grande e dispersiva, c’era sempre qualcuno che lo conosceva. Giordano bazzicava per Roma sud, est, arrivava dentro le mura, girava tra i vecchi monumenti ma non si spingeva troppo ad ovest e nord perché non erano il suo luogo, non erano casa sua. Dov’era di casa c’era sempre qualcuno che l’aveva visto un paio di volte, che sapeva che era uno degli orfani del convento, che l’aveva visto a lavorare con il calzolaio o a portare il giornale. Era solo, se la doveva cavare con le sue sole forze ma non era mai stato davvero solo.
Come avrebbe fatto? Come doveva comportarsi? Se fosse stata una guardia non avrebbe potuto dirle di andare a chiedere a Nino Breccia se poteva garantire lui che non era uno zingaro, che non era un ladro.
Dio, il suo piano perfetto non sembrava più così perfetto, c’erano buchi ovunque e lui era solo un ragazzino di quattrodici anni che non avrebbe dovuto guidare una dannata corriera da Roma fino a Bologna.
Chiuse gli occhi, li serrò fortissimo e pregò Dio, quello dei cristiani, di aver pietà di lui e della sua stupidità. Non osò neanche lontanamente far una preghierina ad Ade o il dio sarebbe stato capace d’apparire incazzato nero e pronto a portarlo di peso ovunque volesse come un dannato moccioso.
Preso dal suo poco onorevole panico non si rese conto che quei passi s’erano interrotti e continuò ad ignorarlo finché, dopo un respiro profondo, si disse che era scappato per le vie della Jugoslavia in piena invasione di mostri e bestie strane, poteva sopravvivere perfettamente ad un mortale come un altro. A quel punto aprì gli occhi ed il sangue nelle vene gli si congelò.
Per poi scongelarsi tutto assieme e mandarlo letteralmente a fuoco.
Davanti a lui si era fermata una ragazzetta che, ad occhio e croce, poteva aver un paio d’anni in più di lui.
Era piccola e minuta, gli arti fini, le scarpette di cuoio marrone avevano un ché d’infantile e la facevano sembrare ancora più tenera di quanto non facesse il suo viso rotondo.
Aveva la pelle rosea come un bocciolo, morbidi boccoli castani dai riflessi miele, erano acconciato con un piccolo fiocchetto azzurro dietro la testa, tenendole il volto giovane sgombro da ciocche ribelli. Il naso piccolo pareva disegnato, così come le lentiggini che le adornavano le guance piene e gli zigomi alti. La bocca sembrava rilucere come la resina fresca, come se uno strato di zucchero sciolto la coprisse. Era piccola, a forma di cuore e sorrideva in un modo che gli fece attorcigliare le budella nello stomaco.
Giordano deglutì, gli occhi grandi, da cerbiatta, lo fissavano con qualcosa di simile al pudore da sotto le lunghe ciglia scure. Erano del color ambra più bello, vivido e luminoso che il ragazzino avesse mai visto, parevano aver vita propria, sembrava che vi splendesse il sole dietro e quello stesso calore lo invase da capo a piedi, accelerando la corsa del sangue nelle vene, facendogli sentire la necessità di respirare a pieni polmoni.
Era bellissima, era la ragazza più bella che avesse mai visto, anche più della giovane che aveva incontrato prima di lasciare casa.
Aprendo e chiudendo la bocca come un pesce fuor d’acqua, Gio abbassò lo sguardo imbarazzato, cercando di non fissarla seppur invano. I suoi occhi parevano calamitati dalla sua figura, da quel viso delicato e fanciullesco e da quel corpo-
Chiuse gli occhi con forza quando si rese conto d’esser rimasto a fissar lo scollo della sua camicetta per un paio di minuti buoni. L’indumento aveva solo un paio di bottoni slacciati, forse per il caldo, forse per l’affanno della camminata, ma Gio era ugualmente rimasto ad ammirare la pelle candida e morbida dei seni alti. Dio, che vergogna, non gli era mai capitata una cosa del genere. Così come non gli era mai capitato di osservare con tanto interesse la vita fine di una donna, i fianchi avvolti dalla gonna lunga sino alle caviglie.
C’era qualcosa di strano ed ammaliante in quella giovane, a prima vista pareva così piccola, così innocente con la sua camicetta bianca e la gonna azzurra come il suo fiocco, con le scarpette basse e le calze merlettate, il viso tondo, i boccoli dolci… eppure il suo corpo era quello di una donna, armonioso, morbido, invitante, attraente-
 
«Ti senti bene?»

Oh, era la sua voce quella? Pareva il suono dei tasti più delicati del pianoforte, delle corde più alte di una chitarra, dei soffi più docili di un flauto. La sua voce era miele come lo era ogni cosa di lei. Miele e fragole, dolce viscoso, colore caldo, frizzante come i frutti di bosco, rosso come il loro succo.
Gio aprì gli occhi, tenendoli però bassi, l’imbarazzo palese sulle sue guance paonazze.
«Sì. Starei meglio se la gente non arrivasse di soppiatto.» disse brusco.
La ragazza sorrise con gentilezza ed il mondo si piegò a quel gesto. Avrebbe voluto essere lui l’eterno fautore di quell’espressione così deliziosa.
«Ti chiedo scusa, credevo d’esser stata anche fin troppo rumorosa.» gli rispose.
Gio deglutì ancora. «Stavo a fa’ legna, non me ne so accorto, tutto qui. Ero concentrato.» s’azzardò ad alzare un poco lo sguardo e poi lo distolse di nuovo alla svelta. «Che ci fai qui da sola? Tuo padre ti fa andare in giro, così? Senza un ‘omo, pe le fratte?» continuò con tono brusco.
Lei rise ed il ragazzino si domandò perché gli pareva che tutto il suo sangue stesse defluendo in posti sconosciuti, facendogli formicolare le mani ed i piedi, quasi come se la circolazione lì si fosse interrotta.
«Mio padre è un omaccione, se ho bisogno corre subito da me, ma sa che posso difendermi anche da sola.»
Con un verso sprezzante l’altro la guardò scettico. «Tu? Ma sei ‘na femmina, che je fai a n’artro omo?» la provocò. Se ci fosse stata Suor Patrizia l’avrebbe preso a schiaffi per la sua maleducazione, ma l’imbarazzo che provava in quel momento era così grande che l’unico modo per tenerlo a bada sembrava quello di risponder male a quella bellissima e affascinante ragazza. Doveva tenere le distanze, non doveva farla sorridere ancora perché se no avrebbe fatto qualunque cosa gli avrebbe chiesto.
Questo pensiero lo svegliò d’improvviso: era come la ragazza di Roma, era troppo bella per essere vera, per essere da sola a zonzo per quelle zone. La guardò con rinnovato interesse, senza prestar attenzione alle farfalle che gli svolazzavano nello stomaco ogni qual volta quella battesse le ciglia. Era davvero troppo perfetta per essere vera ma- ma al contempo era così umana, così reale. Non aveva nulla del risveglio della primavera che aveva l’altra, ma era comunque magnetica, magica.
 
Irresistibile come il canto delle sirene.
 
«Vuoi dirmi che non hai mai conosciuto una donna che saprebbe batter un uomo?» gli chiese curiosa, con fare innocente.
E sì, Giordano ne aveva conosciute a decine di donne in grado di sbatter per terra un uomo e fargli rimpiangere d’esser nato, ma lei non gli pareva proprio il tipo. Lei, gli uomini, li avrebbe avuti ai suoi piedi con molta meno violenza e con molta meno fatica rispetto a Clara, a Raja o Tali.
«Certo che l’ho conosciute. Ma tu non me sembri come loro.» le disse senza vergogna.
«Non so come sembrino le tue conoscenti, ma posso assicurarti che una donna ha tante armi per difendersi. Solo che molto spesso non ci vengono insegnate, ci viene detto di tenerle nascoste, che è peccato.» soffiò con voce melodica. «Come mai sei fermo qui?» domandò poi arricciando le labbra in un sorriso curioso.
Per l’ennesima volta Gio si ritrovò a deglutire a vuoto. «Vado al nord, me so fermato solo pe riposà un attimo.» rispose in fretta, mangiandosi le parole.
La giovane ridacchiò portandosi la mano piccola e delicata davanti alla bocca. Tenendo gli occhi da cerbiatta fissi nei suoi gli si avvicinò con passi leggeri, senza alzare neanche un minimo di polvere.
Giordano non riuscì a sostenere lo sguardo ed inevitabilmente si ritrovò di nuovo a fissare lo scollo improvvisamente più ampio di quella camicia. La pelle sembrava così liscia, la carne così morbida, doveva esser soffice come la guancia di un bambino.
Una carezza gentile gli sfiorò la mascella, il collo, sino a fermarsi sul suo cuore che batteva a mille, che pompava sangue impazzito, neanche avesse corso per scappare da qualche ragazzaccio che voleva picchiarlo. Con il fiato corto alzò lo sguardo tremante verso la ragazza e di nuovo quella morsa allo stomaco gli piegò le gambe. Si sentiva affamato, assetato, la bocca secca, la lingua pesante. Se era una malia era la più bella in cui fosse mai caduto.
«A nord dove?» gli chiese piano.
«Alla Serenissima.»
«È una città bellissima, piena di fascino, di storia, d’arte, d’amore…»
«Così dicono, ma non saprei se fosse vero, non l’ho mai veduta.» balbettò, il suo marcato accento romano scomparso in favore di quel perfetto italiano che poche volte sfoggiava.
Lei parve apprezzarlo. «La corriera è tua? Sei solo vero?»
«Sì…»
«Viaggiare è più bello, quando lo si fa in compagnia. Ti piacerebbe aver compagnia…» lasciò la frase in sospeso e Gio si riscosse, battendo furiosamente le palpebre per riprendere contatto con la realtà.
«Giordano. Il mio nome è Giordano.» rispose in fretta.
La ragazza gli sorrise e se Gio avesse dovuto credere alle storie che le suore raccontavano loro, non si sarebbe sorpreso nel vedere due corna spuntare tra i boccoli castani.
 
Diavolo tentatore dei cristiani.
 
«Giordano.» pronunciato da lei sembrava il segreto più intimo e prezioso del mondo. «Ha un bel suono.» lo lodò carezzandogli la guancia con l’altra mano.
«E voi?» chiese lui senza rendersi conto di averle dato del lei.
Il viso angelico, in contrasto con quel corpo così attraente, gli parve brillare di vita propria.
 
Come i volti degli angeli.
 
«Il mio nome è un po’ antico-» sorrise con quello che parve quasi imbarazzo, «ma tu, Giordano, puoi chiamarmi Amore.»
 
 
 
E dopotutto, non era un angelo anche Eros?
                                      


 
                                       *                                      




 
L’ambiente era nero, denso, come l’inchiostro. Sembrava in continua espansione malgrado nulla si muovesse. Era come osservare l’orizzonte, consci che esso continui al di là delle nostre possibilità di vista, al di là della nostra concezione.
Jonas strinse le mani attorno ai polsi di Eliza, terrorizzato dai suoni fantasma che gli rimbombavano nelle orecchie.
C’erano spari, così tanti da sembra pioggia. Erano centinaia di gocce di ferro che s’abbattevano sulla terra brulla, sui corpi esanimi e su quelli ancora vivi, che lottavano inutilmente per scappare, per proteggersi dall’attacco dei Sudisti. Lo sapeva per certo, con la consapevolezza dei sogni, quella innata e sorprendente, sapeva che gli uomini che stavano combattendo contro di lui erano suoi fratelli ma anche suoi nemici. Ed era una realtà così concreta, un pensiero così vicino, una vita così simile alla sua che Jonas non se ne stupì. Era ovvio che figli di una stessa madre, di una stessa patria, di uno stesso sogno si stessero uccidendo a vicenda solo per aver ragione di potere, di guadano. Solo per poter ancora e ancora aver la meglio su qualcuno, su un popolo, su più popoli, che non sentivano più loro.
Ad un certo punto non seppe più dove finiva il ricordo di Eliza e dove iniziavano le sue personali elucubrazioni, perché alla fine, della Guerra di Secessione, lui non ne sapeva così tanto, non gli era stata insegnata a menadito come lo erano stati i passati fasti di un regno a cui i suoi professori gli dicevano d’esser tutti appartenuti, ora sfumati assieme alla gloria e all’ingordigia degli uomini.
La sensazione che aveva era particolare, provava sentimenti così lontani dai suoi da sembrare quasi fittizi. Ma erano veri, erano così maledettamente veri. Solo partoriti da una mente diversa dalla sua.
C’era l’ideale di un sogno comune, di una terra promessa così diversa da quella citata dai testi sacri. Era la sensazione di fratellanza di qualcuno arrivato anni addietro da mondi diversi, da culture diverse, che con il tempo si erano fuse sino a diventare una nuova, unica e grande identità. Gli uomini che si stavano dando battaglia, ovunque si trovassero in quel momento, erano semi di frutti diversi, strappati al loro orticello e piantati tutti assieme in un nuovo terreno.
La sentiva, sentiva l’idea di diversità che c’era stata un tempo, spazzata via da anni di lotte, espansioni, costruzioni, accordi, fiducia. Quei semi erano germogliati e malgrado duecento anni prima parlassero tutti lingue diverse ora ne parlavano una sola: la loro.
Eppure la terra si era crepata e ora, quello che filtrava dalle zolle secche, era rancore, era paura, era ingordigia e avidità. Quel bel giardino si era spaccato in due, diviso tra chi voleva restare ancorato al passato e chi sognava il futuro. Sognava l’indipendenza. Sognava l’America.
Jonas spalancò gli occhi, le pupille dilatate al massimo ma senza alcun risultato. Quel ricordo era strano, era confuso, era accartocciato su sé stesso, bagnato in acqua e poi sotterrato.
Perché non ci capiva nulla? Perché non era chiaro e nitido come il suo?
La sensazione viscida della febbre, del sudore, dei brividi incessanti gli calò sul corpo inesistente. Se avesse dovuto descrivere a parole quello che stava provando avrebbe saputo dire solo che, quel miasma nero di suoni e voci, gli pareva irreale e solido come un delirio.
 
I nomi dei suoi compagni gli si affollarono in testa tutti assieme, corredati di volti stanchi, sporchi, sfregiati, morti.
Poteva sentire la consistenza del campo sotto i suoi piedi, della terra battuta. Sentiva il peso dei corpi dei caduti contro cui sbatteva avanzando verso la breccia.
Dio, aveva pensato, sono troppi, ci sono troppi soldati e troppi mostri. Non ne usciremo mai vivi.
E subito dopo il ruggito potente del suo orgoglio, della sua sete di vittoria, l’urlo di battaglia di sua madre che riecheggiava per ogni dove.
Non poteva vederlo, quel ricordo non aveva immagini perché queste erano ancora al sicuro nella sua testa, ma a poco a poco i suoni tornavano a sommarsi alle persone, agli oggetti, ed Eliza si rivide alzare la testa, gli occhi spalancati per l’adrenalina e la paura, per la rabbia cocente per i suoi compagni caduti. Rivide le mura distrutte a cannonate, i corpi dei soltati, i lampi dei moschetti. Rivide il cielo grigio di fumo ed il fango rosso e dorato, misto di sangue umano ed icore. Vide ogni singolo uomo combattere per la propria vita e per il proprio ideale ma nessuno, nessuno, si fermò come aveva fatto lei quando la voce di sua madre aveva invaso il campo di battagli.
Allora aveva capito, allora aveva avuto la certezza che avrebbero vinto, che ce l’avrebbero fatta. Forse quella non sarebbe stata l’ultima battaglia, ancora altri sarebbero dovuti cadere per assicurare un futuro all’America, allo Stato della Libertà; forse lei non avrebbe mai visto quel giorno così come non avrebbero fatto molti dei suoi compagni, come non aveva potuto fare suo padre, ma quel giorno, in quel momento, lei avrebbe fatto di tutto per permettere ai suoi fratelli d’arrivare un po’ più vicino al loro sogno. Anche morire.
L’urlo di sua madre le vibrò nel torace, la forza disumana del suo sangue le accecò gli occhi come avevano fatto sangue e sudore. Con un colpo secco si staccò la collana dal collo, le ali della Vittoria s’aprirono con un baluginio, tanto simile ai colpi di moschetto eppure così diverso, e due lunghe spade scintillarono sotto quei vacui raggi solari che riuscivano a superare le nubi.
Non sentì le voci dei suoi compagni, non lì sentì chiamarla a gran voce, non sentì gli spari ed i ruggiti dei mostri, i colpi di cannone, le pietre che cadevano, le vite che si spezzavano.
Con la follia dei combattenti Elizabeth si era buttata nella mischia, a testa alta, pronta a vendere l’anima su quel fazzoletto di terra.
Quella scelta fu l’ultima che prese.
 
 
Nathan rimase fermo a fissare i due stessi a terra, gli occhi vacui, sbiaditi come quelli dei ciechi. Non per la prima volta da quando era iniziata quella stupida gara, il figlio di Ares non seppe cosa fare, se muoversi, se toccarli.
Avanzò di qualche passo, le mani ancora sporche di terra e polvere luccicante. Dietro di lui Úranus lo seguiva guardingo, timoroso di arrecar danno con la sua sola presenza. 
 
«So che è una domanda sciocca, ma riesci a vedere se respirano?» domandò Úranus rivolto al soldato.
Nathan deglutì, nel suo corpo s’agitavano sentimenti e sensazioni che credeva di aver dimenticato, che non pensava d’aver mai provato in vita sua. Annuì piano, capendo perfettamente cosa intendesse l’altro.
«Credo di sì.» disse piano, azzardando un altro passo.
Dietro di loro Lea teneva ancora Jane stretta a sé, cercando di darle conforto e, inconsciamente, cercando di riceverne un poco indietro serrando ancora di più la presa.
Persino la ragazza delle Praterie provò ad alzare il capo, lo sguardo perso acceso d’una scintilla di preoccupazione: se c’era qualcuno in quello strambo gruppo che poteva starle vagamente più a cuore degli altri era Eliza e, ora come ora, dalla sua posizione, non riusciva neanche a scorgerne il corpo.
Nathan fece un altro passo, poi un altro ancora.
«Eliza?» chiamò piano con voce incerta. Gli veniva da vomitare, gli pareva quasi che qualcuno l’avesse infilato in una lavatrice per poi aspirargli via tutta la vita. Era ironica come idee, stupido come paragone, ma il soldato si sentiva svuotato di tutto, più di quanto non lo fosse mai stato sino a quel momento, sin da quando era morto.
Era stato Jonas, era ovviamente stato Jonas a fargli questo. Lui a mutare i suoi occhi in quelli della sua Lucy, lui a fargli vedere sprazzi di una vita passata, di una vita lontana, della sua, la loro, vita.
Che diamine di potere aveva quel ragazzino? Di chi cazzo era figlio e perché, perché faceva così male? Perché proprio Lucy e non, che ne sapeva, sua madre? Certo, alla morte della donna lui non aveva assistito, Nathan era felice di poter dire d’aver dovuto aspettare davvero parecchio per poter incontrare sua madre oltre le porte delle Bianche Mura, eppure… perché si sentiva così stanco, così debole dentro?
«Eliza?» chiamò ancora.
Più avanti, ancora stesi a terra, la figlia di Nike teneva il compagno stretto a sé, le braccia serrate attorno alla sua vita, il corpo curvato verso quello del più piccolo come se potesse proteggerlo da qualcosa. Elizabeth era un soldato, era una combattente, era forte, orgogliosa, coraggiosa e onesta, era ovvio che anche in uno stupido ricordo si sarebbe posta a difesa dei suoi compagni, dei più deboli, dei più piccoli.
Jonas respirava affannosamente invece, la schiena premuta contro il torace dell’altra, cercando riparo forse, cercando di scappare da ciò che stava vedendo.
 
La guerra di Secessione.
 
Eliza non era morta in una bella epoca, in un bel luogo o in un bel modo, questo era ovvio agli occhi di tutti, specie dai suoi racconti, quindi Nathan non dubitava che il ragazzino potesse esser spaventato da quelle scene così tanto da cercar rifugio tra le braccia di una donna. E forse era un po’ sessista il suo pensiero, forse persino ingiusto nei confronti di Jonas, ma restava il fatto che un giovane della sua età non si sarebbe mai andato a nascondere consciamente tra le braccia di una ragazza o una donna a meno che questa non fosse stata sua madre. Aveva sedici anni, lui a quell’età non si andava più a nascondere dietro le gambe della sua di madre, lui- quante volte Lucy l’aveva rimproverato per questo? Perché non chiedeva aiuto? Aveva chiesto aiuto troppo tardi, lui aveva- una scosse gli pungolò il cervello, il ricordo improvviso di sua madre che sollevava la parete crollata della sua casa sull’albero, poi quello di una sua sorella che l’afferrava per la maglia e lo lanciava letteralmente oltre il fiume, verso la bandiera. Un carck nella sua testa e l’immagine di una figlia di Ermes che accoglieva tra le braccia un fratello molto più grande di lei solo per sussurrargli che non era stata colpa sua, che la missione era impossibile. Perché stava ricordando quelle cose? Che c’entravano ora?
Barcollando Nathan si fermò, portandosi una mano alla testa e aprendo e chiudendo gli occhi nel vano tentativo di schiarirsi le idee.
Non sentì Úranus chiamarlo finché l’altro non gli poggiò una mano sulla spalla.
La reazione di Nathan fu immediata e violenta: afferrò il polso del compagno e lo torse, pronto a colpirlo per mandarlo a gambe all’aria, ma il suo piede si scontrò contro qualcosa di solido e quasi statuario.
Il figlio di Ares alzò lo sguardo sfocato ritrovandosi a fissare gli occhi di ghiaccio di Úranus, la presa sul suo polso era ferrea ma in quel momento si rese conto che il braccio dell’altro non era davvero torto e che ciò su cui aveva “sbattuto” non era altro che la gambe dell’Islandese.
 
«Sono io, Nathan. Sono Úranus. Calmati, quello che vedi e che provi non è altro che la scia del potere di Jonas.» lo disse con voce ferma, senza dar segno di soffrire la sua stretta o d’esser stato preso di sorpresa, d’esser spaventato o infastidito della sua reazione.
Il soldato annuì, o almeno ci provò, senza però mollare la presa sul braccio del compagno e usandolo invece quasi come sostegno. Úranus non diede segno d’essersene accorto, ma attese con pazienza che l’altro riprendesse un minimo il controllo, alternando lo sguardo tra lui e i due ancora stesi a terra.
Facendo forza sull’arto dell’Islandese Nathan drizzò la schiena e si schiarì la gola, dando un’ultima, leggera stretta come a volerlo ringraziare per non aver detto nulla, per non aver fatto una piega o rinfacciatogli che non solo l’aveva attaccato senza motivo, preso del tutto alla sprovvista, ma anche che lui, che doveva essere il più forte del gruppo, il soldato, il figlio di Ares, della Guerra, quello che più di tutti sarebbe dovuto esser bravo nei combattimenti, imbattibile, non era riuscito neanche a girargli un polso.
Che umiliazione, pensò d’improvviso, che schifo di sensazione viscida e bollente, un misto d’imbarazzo e rabbia, vergogna pura.
Lui doveva essere il più forte, il leader. Lui era un leader nato e invece- invece cos’aveva fatto fino ad ora? Si era fatto salvare il culo da Eliza nel Labirinto, dalla pazza psicopatica poi, se l’era fatto salvare dalla rompi palle, si era fatto riprendere al volo da lei, cazzo! Si era fatto salvare il culo da quel pezzo di merda di roscio malpelo e poi da forze sconosciute lì nelle fottute Praterie. Era una vera vergogna per suo padre e per i suoi fratelli, per la sua stirpe. E pensare- e pensare-
 
«Jonas? Ti senti bene, ragazzo? Riesci ad alzarti?» Úranus lo superò velocemente ma con una certa insicurezza, piegandosi in avanti con la palese intenzione di voler aiutare il ragazzino ma anche paura di peggiorare, per l’ennesima volta, le cose.
Nathan volse la testa per vedere il più piccolo di quello strambo gruppo battere le palpebre allucinato, gli occhi azzurri spalancati al massimo e poi stretti con forza. Pareva non riuscire a capire dove si trovasse, se fosse uscito da quel dannato ricordo o fosse ancora immerso nell’America di un paio di secoli prima.
Avrebbe dovuto fare qualcosa, Nathan se lo disse con fermezza ma non riuscì a muovere un solo passo, non riuscì neanche a girarsi con tutto il corpo, pietrificato in quella scomoda posizione che già iniziava a fargli dolere il collo. Era tensione, era pura tensione muscolare data da stress, da ansia, da panico.
Lui era il più forte, era il leader, doveva far qualcosa, doveva-
 
«Eliza?» domandò un’altra voce.
Lea si era avvicinata agli altri, teneva Jane stretta per la vita, quasi trascinandosela dietro.
Nathan la guardò aiutare la ragazza delle Praterie a mettersi seduta a terra, proprio vicino a lui, per poi correre verso Úranus e poggiargli una mano sul braccio, un sorriso gentile e sicuro a tirarle le labbra.
«Va tutto bene, sai che se riesci a calmarti andrà tutto bene. Fai solo respiri profondi e concentrati su quello. Dev’essere stato un ricordo bello forte, ma non sembrano feriti, nessuno dei due.» rassicurò il compagno. E le sue parole funzionarono, funzionarono alla perfezione perché Úranus prese un respiro profondo, chiuse per un attimo gli occhi e poi li riaprì puntandoli con fermezza su Jonas.
«Aiuterò Jonas, puoi occuparti tu di Elizabeth?» chiese cercando gli occhi dell’amica.
Lea gli sorrise con maggior entusiasmo. «Assolutamente, uno a me e uno a te, ai miei tempi avremmo detto “gioco di squadra”.»
Poi si misero all’opera.
Úranus aiutò Jonas ad alzarsi, ricevendo uno sguardo ancora confuso ma quanto meno grato dal ragazzino, che si girò subito dopo per controllare in che condizioni fosse Eliza.
Alla figlia di Nike bastò uno sfiorare di pelle da parte di quella di Apollo, Lea fece appena in tempo a metterle una mano in fronte che la mora spalancò gli occhi e, a differenza sua, di Nathan e di com’era sempre abituato a far lui, non provò neanche ad alzarsi nell’immediato.
Il soldato continuò a guardarli senza far nulla, la sua mente ancora preoccupata ad immagazzinare tutto, a trascrivere ogni singola sensazione, ogni ricordo, ogni frase, ogni brivido.
Lavoravano bene Lea e Úranus assieme, probabilmente lì in mezzo erano i due che più si avvicinavano all’immagine di “compagni”. Senza una reale ragione si ricordò che una volta, quando era al Campo, era compito suo dire agli altri componenti del gruppo cosa fare, come comportarsi. Una volta avrebbe gridato a Lea di soccorrere i feriti, ad Úranus di controllare che la zona fosse libera e avrebbe intimato a Jane di non rompere il cazzo e star ferma lì senza far danni.
Ora invece non stava facendo nulla, ora fissava i suoi compagni a corto di parole.
Non serviva. Lui era un leader nato e non serviva agli altri membri della squadra. Non conoscevano la gerarchia, non sapevano che avrebbero dovuto aspettare un comando, che un capo serve anche per valutare se le azioni da fare siano effettivamente fattibili o meno. Lea si sarebbe gettata verso Eliza e Jonas anche se fossero stati nel bel mezzo di uno scontro, anche se fossero caduti nelle sabbie mobili. Úranus l’avrebbe raggiunta in preda al panico, anche se questo sarebbe significato peggiorare le cose. E Jane…
Jane lo fissava con i suoi occhi vuoti e scuri, quei pozzi neri capaci d’inghiottirti e non lasciarti più andare. C’era il nulla in quelle iridi, il fottutissimo vuoto cosmico o qualunque altra cazzata sparassero quei pazzi complottisti che vedevano gli alieni anche nelle loro ombre.
Jane lo fissava e Nathan non poté far a meno di ricordare la frase di un qualche tipo famoso di cui chissà chi gli aveva parlato: Se guardi troppo dentro l’abisso, l’abisso guarderà dentro di te.
E l’abisso ora erano gli occhi della figlia di Ecate che, sinistra, gli sorrise senza gioia.
 
«Fa male, vero?» domandò con voce rauca e gracchiante.
Nathan non le rispose, congelato nel corpo come ora l’era nello sguardo fisso in quello dell’altra.
«Fa male quando ti rendi conto che nessuno ha più bisogno di te.» non era una domanda, non gli stava chiedendo se avesse visto giusto, se stesse rimpiangendo il suo passato, il suo vecchio ruolo. Glielo stava dicendo lei, che l’aveva vissuto sulla sua stessa pelle.
Il soldato si schiarì la gola, costringendosi a rispondere qualcosa, qualunque cosa. Inutilmente.
«Cosa c’è? Ti aspettavi che ti guardassero in cerca di aiuto? Che ti chiedessero cosa fare?» lo apostrofò con uno strano, nuovo scintillio nello sguardo. «Lei si è gettata in strada per salvare uno sconosciuto, nel bel mezzo di una rivolta. Lui si è fatto ammazzare per dar anche solo l’illusione della salvezza alla sua stessa madre.» con fatica Jane si tirò in piedi, barcollando malferma sulle gambe deboli. Lo guardò da basso, ma con un portamento fiero che mai le aveva visto in volto.
«Nella mia vita passata ho scoperto troppo tardi qualcosa di davvero importante: chiunque può dirci come comportarci, come vivere la nostra vita, il parroco della mia chiesa ripeteva sempre come Dio ci avesse lasciato tutte le leggi giuste per farlo.»
«I preti non hanno sempre ragione. Non ne hanno quasi mai.» sputò a forza.
Jane ghignò. «Non è questo ciò che ho scoperto. Quando i mei genitori sono morti, quando il mio mondo è crollato e nessuna buona e santa legge divina o terrena ha fatto giustizia per me, ho dovuto agire secondo la mia volontà. Ho aspettato che qualcuno facesse qualcosa, che mi venisse detto cosa fare, ma nessuno lo fa mai davvero, sai? Aspettare, ti fa solo morire più lentamente.» volse lo sguardo verso gli altri, a Jonas che ora era di nuovo seduto a terra, vicino ad Eliza che era riuscita a tirarsi su, a Lea inginocchiata lì vicino, controllando le loro condizioni; ad Úranus che li osservava benevolo e sollevato dall’altro. Poi si rivolse a Nathan. «Non sei speciale, nessuno di noi lo è. Solo perché sei stato addestrato a combattere, perché hai avuto la fortuna di nascere e vivere in un epoca in cui quelli come noi avevano un posto dove riunirsi ed esser salvi, questo non fa di te il nostro capo. Prendilo come il primo e anche l’ultimo buon monito che ti darò, figlio di Ares: è inutile caricarsi il peso del mondo sulle spalle, quegli sciocchi lì non te ne hanno mai lasciato sopportare l’interezza. Hai avuto la fortuna sfacciata di incontrare qualcuno che non si aspetta nulla da te se non ciò per cui ci siamo accordati.» ghignò ancora. «Non fasciarti la testa, bambino
Con un ultimo cenno si allontanò barcollante, inciampando quasi negli ultimi passi per esser sostenuta subito da Lea ed Eliza, persino Jonas ed Úranus si sporsero in avanti pronti ad aiutarla.
Nathan non sentì cosa si stessero dicendo, non provò neanche a farlo. Continuò invece a fissare il vuoto senza sapere davvero cosa fare.
Non aver tutto il peso sulle proprie spalle. Non aver nessuno che si aspetta che lui faccia il capo, che sia inscalfibile, imbattibile. Non aspettarsi nulla se non ciò che avevano concordato all’inizio: arrivare ad essere solo loro sette e poi combattersi a vicenda per raggiungere la cima, il fuori, la vita.
Da lontano Eliza alzò la testa cercandolo con lo sguardo. Quando lo trovò parve quasi tirare un sospiro di sollievo, come se avesse temuto d’aver perso anche lui.
Nathan non era abituato a non essere il capo, ma a quello, a quello sguardo sollevato, alla prontezza nel soccorrere un ferito, nel difendere qualcuno più debole, alla testardaggine, all’orgoglio, a quello sì che era pronto.
 
Compagni.
 
Forse, anche nella morte, Nathan ne aveva trovati altri.
Forse – di certo – anche nella morte, Nathan sarebbe stato pronto a combattere con loro fino alla fine.
 
Semper Fidelis.
 
«Nathan? Tutto bene?» chiese ad alta voce Eliza.
Lea gli lanciò un’acuta occhiata valutativa. «Cosa c’è? Devo venire a riprenderti al volo un’altra volta?»
«Credo stia bene, è solo un poco affaticato dalle visione avute.» disse Úranus con calma, pur non perdendolo di vista.
«Cazzo! Sono stato io? È colpa mia?» si preoccupò Jonas tirandosi su in ginocchia.
Jane, in fine, fece a mala pena una smorfia, senza neanche voltarsi, ma Nathan poté giurare che stesse ghignando ancora, la stronza.
Ascoltando il chiacchiericcio preoccupato dei suoi compagni, Nathan abbassò la testa e la scosse leggermente, scompigliandosi i capelli.


Era così allora?


«Allora? Devo seriamente venirti a prendere?»
 
Sorrise.

«Non rompere il cazzo, arrivo!» urlò di rimando quasi ringhiando.
Sperò che a quella distanza però, nessuno riuscisse a vedere come le sue labbra si fossero tese.
 

Oorah.
 

 
*
 


La stanza era silenziosa come al solito, non vi erano rumori particolari che risuonassero nell’ambiente arredato con semplicità. Davanti alla sua vecchia scrivania la poltrona sgualcita conservava ancora l’impronta di un corpo che, un tempo, soleva sedersi lì sopra raggomitolato su sé stesso come un gatto, un libro in mano e l’espressione distratta di chi era stato trascinato fuori da un altro mondo solo per rispondere a qualche banale domanda.
Giordano sorrise senza gioia, distogliendo lo sguardo dalla poltrona per poi abbassarlo sulle carte sparse sul piano.
Non era compito suo occuparsi di queste cose, non sarebbe dovuto esser lui il responsabile della burocrazia, ma Ade aveva rotto talmente tanto le palle con quella storia del “tua l’idea tue le grane” che, alla fine, aveva dovuto accettare di far qualcosa di poco divertente anche lui.
Il suo sorriso non si spense ma si tirò leggermente quando scorse una lastra di vetro sotto tutti quei fogli. La tirò fuori con gentilezza, osservando i colori traslucidi che brillavano fiochi sulla superfice. Dentro di essa, come imprigionata nello spessore del vetro, la mappa dell’Ade vibrava piano come lo sfarfallare pigro di un vecchio lampione.
C’era un’infinità di piccole luci che cospargevano le zone nere contornate da leggere linee rosse, lì dove le varie zone degli Asfodeli si dividevano per particolarità e utilizzo.
Poteva vedere chiaramente l’Area Cani, dove tutti i Mastini Infernali tornavano alla fine della loro giornata, quando qualcuno non si dimenticava di chiudere i dannati cancelli lasciandoli così liberi di scorrazzare ovunque.
Rise in silenzio, Giordano, ricordando quando era stato compito suo, una sua missione, aggiustare quella mastodontica rete e poi riportarci dentro tutti i mastini, uno per uno. Il caro Buio ancora tornava da lui ogni qual volta si riformasse negli Inferi. Gli mancava quel cane, forse avrebbe potuto chiedere ad Ade di lasciarglielo per un po’, per fargli compagnia.
Un tempo non avrebbe mai creduto di volerne, di averne bisogno. Un tempo non avrebbe mai creduto che, a poco a poco, tutti coloro che amava l’avrebbero lasciato.
 
La maledizione dell’ultimo.
 
Aveva accettato il suo destino da tempo, ne aveva accettato l’idea, certo, ma non in modo definitivo.
C’è sempre una scappatoia, c’è sempre un modo per riuscire lì dove nessuno crederebbe esserci possibilità.
Dio, sembrava Bas quando faceva quel genere di ragionamenti.
Giordano inclinò leggermente la tavola di vetro e la mappa scivolò di lato, spostandosi verso il confine Nord, sino alla Casa di Ade, lì dove aveva alloggiato per anni quando tutto gli era crollato addosso.  Un altro movimento del polso e la mappa scivolò di nuovo, tornando nell’infinito delle Praterie, lì dove una moltitudine di punti luminosi e colorati si affollavano in piccoli gruppi.
 
Semidei.
 
La salvezza e la condanna dei mondi, ecco cos’erano i figli degli Dei. Null’altro che scintillanti pedine nelle mani dei loro divini genitori, troppo annoiati dal loro stesso potere e sempre bramosi di ottenerne di più, troppo presi dal loro stupido ego per rendersi conto che quelle pedine non erano marmo o legno, non erano pietra o creta, ma esseri viventi, con sentimenti, paure, sogni.
Sogni… ne aveva tanti anche lui un tempo.
L’uomo posò delicatamente la lastra a terra e alzò la testa verso la stanza davanti a sé, senza prestare troppa attenzione al divano liso e alla coperta che vi era poggiata sopra, sorvolando sulle librerie e sul paravento di legno e stoffa che nascondeva il corridoio di sinistra. Gio tenne gli occhi fissi sulla porta a vetri aperta, quella che dava sul disimpegno da cui si accedeva al salotto, alle scale e ad un altro corridoio, scuro d’ombra e privo di luci.
Nel silenzio denso della sua stanza, dello studio, non gli fu difficile cogliere il rumore ritmico seppur leggero di passi, un qualcosa di soffice, come se il proprietario fosse a piedi nudi e camminasse solo in mezza punta. E Giordano sapeva perfettamente a chi potevano appartenere.
 
«Di solito, prima di entrare a casa di qualcuno, come minimo si bussa.» disse a bassa voce, sicuro che l’altro l’avrebbe sentito.
La larga falda del cappello apparve nell’anticamera prima ancora del bordo della lunga cappa. Ipno si tolse il copricapo e si strofinò i capelli già arruffati, gli occhi grandi e rotondi che lo fissavano con quella solita luce pallida che solo la luna poteva avere.
Gio aveva sempre trovato bellissimi quegli occhi: l’iride nera, scura come la notte senza stelle e la pupilla d’argento, un contrasto così forte da esser quasi fastidioso ma che, a lui, trasmettevano solo la magia di cui era intriso quel curioso figuro.
Ipno sorrise smagliante, facendo un buffo inchino e lanciando il suo cappello dritto sulla maniglia di una delle porte a vetro. Camminò sul pavimento freddo in punta di piedi, se non avesse saputo da prima di quella piccola particolarità, Gio avrebbe riso di gusto nello scorgere le unghie dipinte di nero.
«Mi avresti fatto entrare comunque, no? Ti ho risparmiato la fatica di venirmi ad aprire.» rispose con semplicità, avanzando nella stanza sino a lasciarsi cadere sul divano.
Afferrò la vecchia coperta e se l’avvolse attorno alle spalle, tirandosela sulla testa.
«Mi piace, me la regalerai mai un giorno?» domandò speranzoso.
Gio ghignò. «Certo, quando morirò.»
Il dio sbuffò lagnoso, stringendosi ancor di più nella coperta e lasciandosi cadere di lato. «Sei crudele! Lo sai che potrei chiamare Tan e chiedergli di venir subito a farti visita? Cosa ne diresti?» lo minacciò gonfiando le guance come un moccioso.
Giordano sorrise ancora, d’improvviso il lampo di una fila di zanne brillò sul suo viso, poi scomparve per lasciar posto la solito sorrisetto strafottente che gli era tanto caro da bambino.
«Ti direi che c’ha già provato. Parecchie volte. Sappiamo entrambi com’è andata a finire.»
Il silenzio li avvolse di nuovo, Ipno si sistemò meglio sul divano, lo sguardo puntato verso l’altro.
Oh, eccome se non lo sapeva, com’era finita. La prima volta, dopotutto, c’era anche lui.


«Credo di aver capito, sai?» mormorò il dio.
Giordano aveva riportato lo sguardo sulla sua lastra di vetro. «Come farmi fuori una volta per tutte? Credo che là su in sala se lo stiano chiedendo tutti da un po’.» rispose senza particolar inflessioni nella voce.
«Atena ne sarebbe felice. Forse anche Poseidone… ad Apollo e Afrodite dispiacerebbe un po’, forse anche ad Ermes. Era sarebbe quella che ci rimarrebbe peggio e Ares, beh, dispiacerebbe anche a lui credo.» annuì concorde ai suoi stessi pensieri. «Non so cosa ne direbbero Artemide, Demetra e Zeus, sinceramente. Efesto, dopo questo bel tiro mancino della gara, verrebbe a ballare sulla tua tomba.»
«E dove sarebbe?»
«Mh?» il dio volse il capo, sforzandosi di scorgere il volto dell’uomo dalla sua posizione. «Cosa?»
«Sai per caso dove sarebbe il luogo della mia sepoltura?»
La domanda rimase sospesa nell’aria, Ipno non aveva la più pallida idea di come rispondere. Si accorse solo in quel momento che, di fatto, non c’aveva mai pensato.
 
Ma è così assurda l’idea che Giordano muoia. È così assurda l’idea di un mondo senza di lui, seppur sia così breve il tempo trascorso con lui.
 
«Non lo so. A te dove piacerebbe?» si risolse a chiedere.
Gio ghignò. «Al Verano. Dici che lo trovate un posto per me?»
«Al cimitero monumentale? Non ti facevo così megalomane.» rise piano.
Lui scosse il capo. «Ci sono i miei nonni. Almeno sarei vicino a qualcuno della mia famiglia. Per una volta.»
A quelle parole Ipno si voltò a pancia in sotto, sostenendosi il capo con le mani, i gomiti puntati nell’imbottitura ormai non più così morbida del sofà.
«C’è sempre San Michele, non ti piacerebbe riposare per sempre sulla laguna?»
«E chi ci sarebbe ad aspettarmi lì? Non ho nessun.»
«Ma tua so-»
«Non è lì. Lo so io. Lo sai tu. Lo sanno tutti. Riposa nell’Ade.» fu l’ultima parola su quel discorso.
Gio si stiracchiò, allungando le braccia verso l’alto e poggiandosi poi allo schienale della sua poltrona girevole.


«Quindi: cosa hai capito? Devo far testamento o posso sperare di godermi ancora un paio d’anni di vita?»
 
Se così la si può chiamare.
 
Non lo disse nessuno dei due, ma entrambi lo pensarono.
Ipno spostò tutto il peso del suo capo su di una mano, schiacciando la guancia in modo comico ed infantile.
«Nah, hai ancora tempo.»
«Allora cosa?»
«Cosa cosa?»
«Cosa hai capito.»
«Oh! Credo di aver capito. Ho fatto una passeggiata nella Dimensione Onirica.»
Gio imprecò. «Cazzo, Ipno! Guarda che se rimani un’altra volta incastrato da quelle parti non ci vengo più a salvarti quel culo secco che ti ritrovi!»
Il dio scoppiò a ridere e si rigirò ancora sul divano, nascondendo il volto nel bavero del mantello e poi anche nella coperta in cui si era avvolto. Era morbidissima ed aveva dei colori fantastici.
«A me Aracne non ha mai fatto una coperta così bella.»
«A te Atena non sta sul cazzo tanto quanto sta a me.» gli fece notare l’altro ammiccando.
«Uh. Un punto per te figlio Delle Vie.»
Giordano sospirò. «Cosa ci facevi nella grande DO?» domandò ancora.
«Sembra che stiamo parlando di una qualche associazione segreta.»
«Se pensi che neanche voi dovreste metterci piede e che i vostri poteri lì dentro sono praticamente nulli, direi che ci sta come paragone.»
«Ma tu ci sei entrato e ci entri ancora parecchie volte. Lo hai detto tu stesso, sei venuto a recuperarmi un paio di volte ed io ero già molto esperto allora.» gli fece notare il dio.
L’uomo annuì. «Io ho amici che tu non hai. O meglio, posso esser più amico di quanto non potrai mai esserlo tu. Abbiamo storie simili, conosciamo le stesse emozioni, gli stessi dolori. Sono millenni che le Stelle non vedono più di buon occhio gli Dei. Di qualunque tipo oserei dire.»
«Già… ed è un peccato, sono esseri così antichi, così mistici. Potrebbero raccontarci cose che neanche i più vecchi di noi conoscono.»
«Ma non penso che tu abbia visto loro, giusto? Quindi, per cosa hai rischiato le tue belle chiappe bianche?» lo provocò scherzosamente.
Ipno si tirò su a sedere, ancora avvolto nel doppio strato del suo mantello e della coperta tessuta dalla giovane maledetta.
«Ho visto una vecchia stanza, una biblioteca di fortuna. Era in un vecchio edificio dal cancello cigolante, in un vecchio paese che ora non esiste più. C’erano tanti libri mal messi, quasi nessuno integro, nessuno nuovo. E c’era un bambino, con una grande camicia da uomo e gli occhi più belli che io abbia mai visto.» si fermò per un attimo, fissando il suo sguardo in quello di Giordano. L’uomo non accennò a distoglierlo ma Ipno era un dio e non gli fu difficile vedere altro oltre il velo lucido dell’iride.
«C’era il fuoco nei suoi occhi, vedeva cosa che nessun mortale avrebbe mai dovuto vedere e a mostrargliele era una donna velata.» concluse piano.
Il volto impassibile di Gio si piegò in un sorriso di scherno. «Non vorrei sembrare blasfemo, ma giuro di non averla mai incontrata la Madonna. Neanche in sogno in effetti. Tantissimi quadri, per carità, ma nessuna apparizione divina in cui la Vergine mi rivelava le verità della vita.»
Ipno sbuffò. «Era una Moira.»
«Spero non Atropo, è una stronza patentata quella.»
«Non penso, il suo volto era nascosto, ma sono sicuro mutasse.»
«Gira gira hai beccato Ecate?» domandò l’altro.
«So riconoscere mia cugina quando la vedo.» scosse il capo, «Ma non è questo l’importante. Non mi interessa sapere perché parlavi con una delle filatrici, quella scena… credo di aver capito cosa vuoi fare, piccolo Gio, ma temo anche che non ci riuscirai. È un potere più grande degli Dei stessi.» lo guardò con apprensione, quasi con paura. Ipno temeva per la sua vita, per la sua anima, per la sua esistenza.
Giordano però sorrise in modo quasi dolce e per un attimo Ipno rivide il ragazzino di quattordici anni, seduto sul bovindo della finestra, avvolto in una vecchia coperta utile solo a coprirlo dal vento e non dall’umidità devastante della laguna. Lo rivide con lo sguardo perso nel buio dell’acqua senza riflessi, mentre gli raccontava della sua famiglia, di quella che aveva lasciato oltre confine e che sperava, pregava, desiderava con tutto sé stesso ritrovare. C’era affetto, amore nelle sue parole, nella piega morbida delle labbra, nella rilassatezza dei suoi muscoli. C’era tutto ciò che da troppo tempo era sparito.
«Solo perché una cosa non è fattibile per voi Dei non vuol dire che non può esserlo per altri. Ricorda che c’è stato qualcuno prima di voi, ricorda che non siete gli unici, che non siete i soli. Anche la Dimensione Onirica esula dai vostri poteri.» gli fece notare con gentilezza.
Il dio continuò a guardarlo preoccupato, decidendosi in fine di alzarsi e raggiungere l’uomo in punta di piedi.
Non servirono parole, Gio spinse leggermente la sua sedia allontanandosi dalla scrivania e Ipno, leggero come le piume di suo fratello, come i petali dei suoi amati papaveri, salì sulle sue gambe come sarebbe salito su una qualsiasi seduta, rimanendo in equilibrio sui piedi finché Giordano non gli passò un braccio attorno alla schiena e lo accompagnò a poggiare la spalla contro il suo petto.
Rimasero fermi così, abbracciati, senza dir nulla.
«Una volta ero io a tener in braccio te. Eri così piccolo.» mormorò piano.
Gio poggiò la testa contro la sua spalla. «Mi hai regalato i sonni migliori, non credo di averti mai ringraziato.»
«Era l’unica cosa che potessi fare, dopo tutto ciò che l’Olimpo ti ha fatto. Vi ha fatto.» sospirò. «È un gioco pericoloso, Gio, ho paura che tu possa uscirne peggio di come ci sei entrato.» ammise.
«Ti preoccupi così tanto per me? Ne sono onorato!» rise bonario.
Ipno gli rifilò un pugno sulla gamba. «Sei il nostro umano preferito, ti abbiamo visto nascere, crescere, maturare. Siamo i colpevoli della tua vita.»
«Oh, non credo sia corretto, anzi, siete i fautori del ritardo della mia nascita. Ma ciò che ho fatto in vita, vorrei arrogarmi la superbia di dire che è stato tutto frutto delle mie scelte.» disse sicuro.
«Le rimpiangi?»
«Rimpiango tantissime cose. Ho rimorso di tantissime altre, ma so che anche per voi divinità è così. Da entrambe le parti.»
«E ne vale la pena?» domandò tirandosi su. «Gio, ascoltami seriamente, non sto scherzando. Quello che cerchi, se è davvero ciò che penso, non lo puoi domare, ti distruggerà, lo farà dall’interno e neanche Asclepio potrà salvarti. Per metter le catene ad un potere del genere non ti bastano due mesi di preparazione e qualche settimana di gioco, ci vuole tempo.» affermò puntando gli occhi in quelli brillanti dell’uomo.
E dentro vi vide le fiamme, le luci accecanti della galassia che gli apparteneva, del pulviscolo iridescente che era la sua esistenza all’interno della Dimensione Onirica, dove tutto c’era e nulla esisteva. Vi vide la vita vibrante di un essere che non era divino ma neanche mortale, vi vide la forza vitale che avrebbe potuto piegare mondi, distruggere dinastie antiche e potenti come quella della montagna di marmo e dell’antico albero, della Notte e dei Cieli.
Vi vide il filo della sua vita e si rese conto, forse per la prima volta, che in nessun caso, in nessuna linea temporale, il piano degli Dei si sarebbe potuto realizzare.
L’inizio e la fine erano filate assieme in un'unica, spessa, fragile corda. Giordano Delle Vie vi era completamente avvolto.
 
«Dove credi che sia stato io fino ad ora?» domandò a quel punto l’essere, stringendo affettuosamente la mano sul braccio di quello che era uno degli Dei a lui più vicino.
«Ma soprattutto, mio caro e fedele amico, quant’è secondo te, questo “tempo”? Perché è bene, per l’ennesima ed ultima volta, che voi Dei ricordiate che il “tempo” è l’ultima cosa che potrebbe mancarmi.»


 
*
 


Riavere il proprio ricordo era come mettersi in spalla uno zaino particolarmente pesante dopo averlo abbandonato per monto tempo. Eliza non era proprio sicura che il paragone calzasse, perché nel suo petto ora c’era un senso di pienezza, di completezza, che non ricordava d’aver mai avuto, ma finché rimaneva nella sua testa tanto bastava che lei stessa capisse i suoi stessi pensieri. Anche perché, forse, era una delle poche che riusciva a farlo in quel momento.
Di fianco a lei Nathan era silenzioso e mortalmente serio. Eliza non dubitava che ancora rimuginasse su ciò che il potere di Jonas gli avesse mostrato, sperava solo che non gli offuscasse troppo la mente. Era strano vederlo così… così… abbattuto. Guardando di sfuggita gli altri, che camminavano silenziosi dietro di loro, la donna si decise ad avvicinarsi al compagno. Con il capo eretto e lo sguardo puntato verso l’orizzonte, Eliza diede un leggero colpo di gomito all’altro soldato, attirando la sua attenzione con discrezione.
Con un grugnito indecifrabile Nathan alzò lo sguardo verso di lei.
 
«Ti senti bene?» domandò senza guardarlo.
Nathan grugnì di nuovo. «Non sono io quello che si è rotolato a terra per riprendere un moccioso apparentemente in fuga per poi beccarsi il proprio ricordo in pieno petto.» le fece notare alzando un sopracciglio.
«Vero. Così come non sono io quella che ha apparentemente avuto la visione della sua vita passata e di una donna amata. In effetti, io non ne ho di donne amate nel mio passato, ho visto mia madre solo due volte.» confessò senza vergogna.
Il terzo grugnito somigliava più ad un sospiro di sconforto. «Stai per dirmi che dovrei parlarne? Liberarmi di questo peso e andare avanti?» domandò come se fosse qualcosa che aveva già vissuto.
Eliza si strinse nelle spalle. «Solo se ti aiuterà ad essere più concentrato e non farti ammazzare prima del dovuto. Senza offesa verso gli altri, ma voglio essere io a prenderti a calci in culo alla fine di questa storia.» disse guardandolo con la coda dell’occhio e ghignando.
Anche l’altro si sforzò di farlo. «Ti piacerebbe, soldato
«Mi piacerà, soldato.» lo corresse lei.
Rimasero per un attimo in silenzio, la bussola divina di Nathan che li avrebbe dovuti aiutare a ritrovare la via verso la zona più popolosa del campo d’azione della prova, vibrava in continuazione, virando decisa verso le loro spalle, poi davanti a loro, fermandosi lì per un po’ prima di rimuoversi nello stesso giro.
«Era mia moglie.» disse poi d’improvviso Nathan.
Eliza annuì.
«L’ho trovata io. Nel senso, ce l’ho portata io al Campo. Era una figlia di Demetra. La rompi palle lì dietro l’ha conosciuta.» continuò indicando Lea con un gesto vago della mano.
 
«Che vuoi?!» gli chiese quella ad alta voce.
«Che ti fai i cazzi tuoi per una volta nella vita!» le rispose a tono.
 
Eliza gli rifilò un pugno sulla spalla per richiamarlo all’ordine ed Úranus cercò subito di distrarre l’altra.
«Che c’è? Se lo meritava.»
«Non fare il ragazzino.» l’ammonì solo.
Nathan sbuffò. «Jonas pure l’ha vista, apparentemente.» borbottò a bassa voce, nuovamente serio.
Ancora una volta, la mora annuì. «Sembrava piuttosto scosso da ciò che ha visto.»
La smorfia sul suo volto parlò per lui. «È morta prima di me.» deglutì. «Avrei potuto impedirlo.»
«Possiamo sempre impedire tutto. Tranne le catastrofi di Madre Natura.» mormorò con gentilezza Eliza.
Lo sguardo di Nathan era però di nuovo perso, lontano dalle Praterie, dalla Gara, dalla morte. Non voleva chiedergli altro, non voleva costringerlo a rivivere cose che sicuramente l’avevano ferito e lo ferivano tutt’ora, anche nella morte.
«Comunque,» proseguì d’improvviso l’altro. «ci siamo sposati molto giovani, non è che abbiamo passato poco tempo assieme. Solo che non è stato comunque abbastanza.»
«Lo è mai? Il tempo che ci è concesso assieme alle persone che amavamo, intendo.» domandò lei retorica. «Anche io avrei voluto passarne di più con mio padre, ma lui era un colonnello dell’esercito americano e non ha mai avuto la possibilità di vivere per molto tempo con me. Sono cresciuta senza di lui, la sua morte mi ha spinto ad arruolarmi.» raccontò ad agio, cercando un modo per far sapere a Nathan che lo capiva, sapeva cosa significava perdere la persona più importante della propria vita, perdere la propria famiglia.
Ma quelle parole sembrarono quasi sortire l’effetto opposto a quello sperato: Nathan deglutì a vuoto un groppo pesante come ferro e amaro come file. Non la guardò in faccia, non cercò il suo sguardo come faceva sempre con tutti coloro con cui parlava. Nathan aveva sempre guardato tutti negli occhi, senza mai abbassare la testa, senza mai vergogna o paura, ma in quel momento, se solo fosse stato possibile, Eliza avrebbe giurato di veder dolore e sensi di colpa nelle iridi azzurre.
«Anche tu eri in guerra, se non erro, così come mio padre. Eri a servire il tuo paese quando tua moglie è morta ed eri a servirlo anche alla tua di morte, non hai nulla da rimproverarti, nulla da rinnegare. Hai fatto il tuo dovere e sono sicura che lei l’abbia sempre saputo.» disse con serietà.
Nathan annuì vago. Rimase per un attimo in silenzio, camminando tra l’erba che via via sembrava diventar più bassa e rada. Prese un respiro profondo e si decise a rialzare il capo verso l’orizzonte.
«Com’è stato? Nel senso, come hai vissuto senza di lui? Avevi degli altri parenti, dei nonni magari?» domandò casualmente.
Eliza gli lanciò un’occhiata veloce e si strinse nelle spalle. «No, ero sola. Quando partiva per la guerra mi lasciava alla cura di una nutrice che veniva a controllarmi alla mattina e alla sera, che mi preparava da mangiare o mi accudiva se ero malata. Quando ero un’infante credo sia rimasto con me, i primi anni, ho vaghi ricordi di alcune donne della città che venivano a svolger le faccende, ad occuparsi di casa. Ma una volta cresciuta ero sola con me stessa. Altrimenti non sarei mai riuscita ad allenarmi, ai miei tempi era impensabile che una donna imbracciasse un’arma.» sorrise con nostalgia.
Nathan si girò definitivamente, l’espressione attonita. «Che cazzo vuol dire che eri sola?»
«Quello che ho detto. Nessuno si occupò di me quando mio padre morì, ero già in età da marito, alcune delle mie conoscenze erano già sposate e aspettavano il secondo o terzo figlio. Prima di allora, malgrado le visite della nutrice, ero comunque sola, non è stato un grande cambiamento per me, mio padre non c’era praticamente mai.» continuò tranquilla.
Nathan tentennò. «Ma- ma gli vuoi comunque bene. Gliene volevi comunque?» chiese come se non riuscisse a capire, se quello fosse un punto particolarmente ostico della conversazione.
«Certo che sì. Forse la mia era un’epoca troppo lontana dalla tua, ma non avevo molta possibilità di scelta. Mio padre era l’unico membro della mia famiglia, non avevo nessun altro, non avevo che lui da amare e anche se da bambina soffrii per i suoi lunghi viaggi, la sua lontananza, capii che non poteva farne a meno, che stava combattendo anche, se non soprattutto, per me. È per lui che sono diventata un soldato, è grazie a lui che ho imparato cos’è giusto e cos’è sbagliato, a combattere ed ergermi per la giustizia e la libertà.»
Il figlio di Ares distolse lo sguardo, quel trambusto di sentimenti che s’agitavano dentro di lui ancora non si era placato ed Eliza si chiese se continuare a parlare di guerra e di passato, di persone amate e perse, non avrebbe solo peggiorato la situazione.
Con un moto di decisione drizzò le spalle e guardò davanti a sé: l’erba si stava davvero diradando e ben presto, spingendo lo sguardo un po’ più in là, sarebbero arrivati a quello che sembrava un sentiero.
Dovevano tornare nella zona principale della quarta prova, lì dove avevano trovato quella moltitudine di sfere dei ricordi, comprese quelle di Lea e Nathan stesso. Sperò solo di trovar al più presto quella di Úranus e poi, se gli Dei avessero voluto, ritrovare anche Cade.
Senza rendersene conto portò una mano alla bisaccia legata al suo cinturone, lì dove la sfera completamente nera di Cade – che profumava di pioggia, metallo e mattoni bagnati, erba fresca e sangue – riposava al sicuro.
Dovevano riuscirci, dovevano ritrovarlo. Eliza aveva dovuto lasciare troppi compagni indietro durante la guerra, non avrebbe accettato di farlo di nuovo, non quando aveva la possibilità di portarli tutti con sé fino alla fine, indipendentemente dai dubbi che l’avevano assalita in precedenza.
Rallentò un poco, voltandosi verso gli altri del gruppo e attirando l’attenzione con un cenno del capo.


«Avete idee su come potremmo trovare Cade o la sfera di Úranus?» domandò afferrando anche il braccio di Nathan per farsi raggiungere dagli altri semidei.
Lea si accigliò. «Sinceramente non ho mai provato a cercare qualcuno e non so se i poteri di mio padre mi permetterebbero di farlo.» disse guardando Úranus come se lui sapesse qualcosa che loro altri ignoravano.
Il gigante annuì. «Il divino Apollo ne è senza dubbio alcuno capace, ma dubito questo sia un retaggio che gli dei passano ai loro figli, a meno che non sia il loro principale dominio.»
«Intendi dire che c’è un dio per le cose e le persone scomparse?» chiese Jonas scettico.
Nathan grugnì. «C’è un cazzo di dio per ogni cazzo di cosa.»
«Ancora mi stupisco della tua finezza.» lo riprese Lea. «Úranus, tu pensi di poter trovare uno dei due?»
«Forse il mio ricordo. Non so dirvi cosa manchi dalle mie memorie, ma se è un ricordo legato alla mia morte-»
«Se è legato alla tua morte allora dev’essere qualcosa di doloroso e penoso, perciò sì, penso proprio che potrai trovarlo. Sempre che tu non lo faccia esplodere.» freccio Jane.
Lea alzò gli occhi al cielo. «Non ricominceremo questa discussione.»
«Scusa ma, tua madre non è la dea della magia? Non dovresti sapere cose tipo, incantesimi o che so io, che ti permettono di fare di tutto?» s’intromise Jonas avanzando tra Eliza ed Úranus e guardando curioso la figlia di Ecate.
Quella fece per rispondere ma Eliza fu più veloce. «E non riprenderemo neanche questa di discussione.» stroncò sul nascere sia la ragazza che il soldato, già ghignante e pronto a replicare.
Jonas batté le palpebre perplesso. «Va bene, non chiederò nulla. Ma non vi aspettate che riprovi io.» mise subito le cose in chiaro, sfidando quasi gli altri a contraddirlo.
Jane sbuffò. «Per carità divina, nessuno di noi vuole farsi avvelenare la mente di nuovo.»
«Non vi ho avvelenato la mente!»
«Allora nessuno vuole farti entrare nella sua mente di nuovo.» replicò con una smorfia.
«E non entro nella mente di nessuno!»
«Okay! Okay! Jonas non legge la mente a nessuno e Jane non fa nessun incantesimo! Abbiamo capito, non mettetevi a litigare ora!» sbottò Lea. «Nathan? La tua bussola magica – O QUEL CHE DIAMINE È! Può trovare quanto meno Cade?»
Il biondo, che era stato pronto a ricordarle che la sua non era una fottutissima bussola magica, arricciò il naso in una smorfia del tutto infantile e poi scosse la testa. «Troppe fonti magiche.» borbottò.
«MAGNIFICO!» quasi gridò la figlia di Apollo alzando le mani al cielo. «Allora a quanto pare siamo da capo a zero!»
«Cosa facciamo con il capo?» domandò Úranus confuso.
«Un cazzo.» masticò a mezza bocca Jonas, le braccia incrociate al petto e la testa incassata tra le spalle.
Nathan annuì. «Giusto quello.»
 
Elizabeth guardò i suoi compagni con quello che, in vita, sarebbe stato sicuramente un principio d’emicrania. Ancora non poteva credere alla velocità con cui riuscissero a cambiare discorso, tono del discorso o sentimenti in così poco tempo. Ora erano tutti imbronciati come dei bambini e pronti a farsi battaglia se solo uno avesse detto qualcosa di sbagliato.
Sospirò. «Dobbiamo comunque provare qualcosa.» disse attirando l’attenzione su di sé. «Úranus potrebbe provare a rintracciare la sua sfera e- ancora non riesci a percepire Cade?»
Il rosso scosse la testa. «Mi spiace, ma non c’è traccia di lui, come se fosse sparito nel nulla.» La sua frase parve a tutti incompleta e se Jonas si morse la lingua per non chiedere altro, per non terminare la frase, Jane non si pose il problema.
«Come se fosse morto? Magnifico, quindi l’abbiamo perso!»
Con grande sorpresa di tutti le sue parole non suonarono minimamente ironiche quanto più scocciate.
Nathan la guardò quasi allucinato quando si rese conto che sembrava davvero un’affermazione carica di disappunto, quasi gli dispiacesse o-
 
Quasi come se desse per scontato che tutti noi facessimo parte di un gruppo e che perdere uno dei membri equivalga ad una cosa negativa.
 
Sogghignò. «Non dirmi che ti dispiace per lui.» la provocò divertito.
Jane lo guardò male. «Non mi dispiace per lui, ma se permetti, tra tutti quelli che potevano scomparire, è scomparso proprio l’unico che fino ad ora ha sempre dimostrato delle doti particolari. Ti sei già dimenticato quella strana pressione nel recinto dei cani? L’ha mandata via lui, è inutile negarlo o ignorarlo.» precisò con astio.
Ci fu un momento di silenzio generale, nessuno osò parlare, troppo presi a rimuginare su ciò che era successo nell’Area Cani.
Jonas deglutì a disagio. «Cos’era?» domandò e gli parve quasi d’aver posto quella stessa domanda anni e anni prima.
Inevitabilmente tutti alzarono lo sguardo verso Nathan, aspettandosi una spiegazione sensata, ma il giovane scosse la testa.
«Non so dirtelo con certezza. Ho svolto tantissime missione, di tutti i tipi, con ogni cazzo di mostro e in quasi tutti gli anfratti più schifosi di questo pianeta, ma non ho mai incontrato nulla del genere. La cosa più ovvia che mi viene in mente è che sia stato il potere di una divinità. Ma, di nuovo, non ho mai avuto il piacere di combattere contro un dio, quindi ‘cazzo ne so?»
Con uno sguardo di biasimo Jane fece schioccare la lingua e si voltò verso Úranus.
«E tu? Che hai da dire?»
L’uomo annuì. «Sicuramente era l’influsso di dio, ma non saprei proprio dire di chi. L’unica cosa che mi torna alla mente è un evento del mio passato, mio padre che giunge in mio soccorso durante una caccia particolarmente sfortunata in cui dei mostri avevano fiutato il mio odore. L’aura di mio padre, quando è apparso nella radura… in qualche modo quello strano vento, quell’incredibile pressione me l’ha ricordato. Ma ugualmente, esso era diverso da quel potere. Mi domando solo…»  si bloccò e guardò Nathan preoccupato, ricevendo di rimando solo un alzata di sopracciglio ed un gesto che, probabilmente, voleva invogliarlo a parlare. «Nathan, sapresti indicarmi la direzione in cui la tua bussola avverte la fonte divina più potente?» chiese gentile.
Il soldato continuò a guardarlo palesemente confuso da quella richiesta, ma eseguì. Lanciò uno sguardo alla sua bussola impazzita, che puntava in continuazione in posizioni diverse, forse per colpa di sfere di ricordi che ancora venivano trovate o distrutte. Durante quelle interferenze però, l’ago virava fortemente alla sua sinistra, verso la direzione da cui arrivavano, per poi puntare a destra, dove si stavano effettivamente dirigendo, ed in fine in una qualche direzione intermedia tra sinistra e le loro spalle. Glielo disse.
Úranus annuì. «Punta a sinistra perché è dove si trovano i Mastini Infernali.»
«Se sono tutti riuniti lì faranno un bel polverone magico presumo.» disse Lea sporgendosi per sbirciare nel quadrante della bussola. Nathan si tirò indietro velocemente, portando l’oggetto al petto come un bambino che non vuole condividere il suo giocattolo con un amico.
«In linea d’aria dovrebbe esserci anche la Casa di Ade, venivamo da quella direzione e non mi pare ci fossero grandi curve o deviazioni.» s’intromise Eliza, alzandosi in punta di piedi quasi potesse scorgere il lugubre ed enorme edificio che era la dimora primaria del dio dell’oltretomba.
«E a destra? Dove stiamo andato cosa c’è?» domandò Jonas.
A quelle parole seguì un attimo d’imbarazzo generale, Jane scrutò i volti dei suoi compagni e poi, con un verso quasi divertito sorrise al ragazzino.
«Se dovessi indovinare dalle loro facce, direi che da quella parte ci sono i Campi Elisi. È normale che nessuno di noi due lo sapesse. Mi sorprendo invece che questo gentiluomo qui si sia fatto scrupoli a dircelo.» ghignò in direzione di Nathan.
Il biondo, per buona misura, gli fece il dito medio.
«E che dovrebbe significarmi?» domandò Jane per nulla colpita.
Nathan imprecò. «Nessuno ti ha mai mandato a ‘fanculo? Seria? Ahi!» si voltò poi verso Eliza ma quella indicò con un gesto vago Lea che lo fissava malissimo.
«Non osare più far certe velleità a nessuno e soprattutto non davanti a Jonas!» lo sgridò indignata.
Il ragazzino s’accigliò. «Ehi, perché non davanti a Jonas? Lo so cosa vuol dire! Non sono un moccioso delle scuole elementari!» Protestò altrettanto indignato.
«Oh, sei ancora troppo piccolo per queste cose.» insistette la ragazza scuotendo il capo.
«Ho sedici anni!» quasi gridò, la voce acuta e petulante proprio come quella del bambino che giurava di non essere.
«Ma sì, chissà che ha visto in vita! I giornaletti erotici c’erano già ai tuoi tempi?» domandò poi improvvisamente preso dall’argomento.
Se Jonas avesse ancora avuto sangue in corpo sarebbe arrossito in maniera così repentina e violenta da farsi prendere dai giramenti e rischiare di finire con il sedere a terra.
E forse non aveva più tutto il suo sangue, ma il calore che avvertì di punto in bianco sulle guance era qualcosa che non credeva più di ricordare, era qualcosa di assolutamente sbagliato e sconcertante. E lo era per tutti loro: Nathan lo fissava come se gli fossero appena uscite un paio di corna, gli occhi sgranati e la bocca socchiusa. Jane invece fece un salto indietro, muovendosi rapida come Eliza che però, a differenza sua, il balzo lo fece avanti, allungando una mano in direzione del ragazzo, indecisa se toccarlo o meno malgrado gli si fosse gettata contro senza neanche pensarci un attimo prima. Úranus sembrava invece esser stato strappato dal profondo dei suoi pensieri, colpito da uno schiaffo in pieno viso, il volto attonito e gli occhi che non smettevano un secondo di spostarsi dalle guance al naso, dal collo alla fronte, dagli occhi ugualmente sgranati di Jonas alle labbra tremule e spalancate per la sorpresa. Lea ridacchiò imbarazzata, fallendo completamente nel comprendere lo stato di shock degli altri.
«Non sono domande da fare, Nathan. Non vedi come l’hai messo a disagio? Non preoccuparti caro, non devi rispondere a questo zotic-»
«Ti pare il caso?!» gridò Jane con voce acuta. «La sua faccia! La sua facci è-»
Elena alzò gli occhi al cielo. «Suvvia, è solo arrossito un po’! Sono cose che succedono quando ci si-»
«No che non succedono! È arrossito! ARROSSITO! Non possiamo arrossire! Serve il sangue, il fottutissimo sangue! Siamo morti cazzo!» abbaiò Nathan senza curarsi minimamente d’abbassar il tono, in quella landa dimenticata dagli Dei.
Lea a quel punto tacque, rigida e silenziosa come una statua di sale, come una di quelle delle famosa Medusa, trasformata in pietra nel momento di massimo turbamento. Un turbamento che, a ben vedere, differiva completamente da quello dei suoi compagni.
Eliza spostò con lentezza lo sguardo da Jonas, con le guance ed il collo ancora paonazzi, alla figlia di Apollo. Non sembrava minimamente toccata dal fatto che il ragazzino fosse effettivamente arrossito, quanto dal fatto che non si era resa conto dell’implicazione della cosa. No, non proprio questo.
 
Non si è resa conto della nostra reazione, non ha capito perché ci siamo scandalizzati così tanto.
 
Rimase a guardare la compagna, mentre gli altri continuavano a discutere freneticamente di come fosse possibile che Jonas fosse effettivamente arrossito in quel modo.
 
«Lea?» domandò Eliza con voce calma e neutra.
Quella sola parola ebbe il potere di zittire tutti gli altri, persino Jonas che, con le mani premute sulle guance, si ripeteva come un mantra quanto fosse imbarazzante che questo genere di cose gli dovessero succedere anche da morto, non erano forse bastate tutte le umiliazioni della vita? Ora arrossire come una donnicciola pudica proprio davanti ai suoi ipotetici compagni di viaggio.
La bionda guardò l’altra come persa.
«Non ti sembra strano.» continuò quella.
«Che cazzo di domanda è?»
«Non lo è.» sentenziò Eliza, «Non è una domanda. A Lea non è parso strano che Jonas potesse arrossire. Non le è parso strano che- abbia effettivamente del sangue in corpo.»
«Quale corpo? Non ho più un corpo. Sono un’anima, il mio corpo è rimasto sulla terra, sepolto al cimitero di Berlino presumo…» finì con un fil di voce.
«Cosa significa?» domandò cautamente Úranus guardando l’amica. «Lea?» domandò ancora.
La figlia di Apollo lì guardò uno ad uno, soffermandosi poi a fissare l’islandese. «No, non è strano. Non avevo pensato che fosse possibile in effetti, credo che sia solo un rimasuglio delle mie abitudini da viva ma…pensateci, possiamo svenire, possiamo bruciarci e curare le ferite. Abbiamo il fiatone se corriamo troppo ed è inutile ripeterci che non è possibile perché siamo morti, è solo un effetto placebo, la nostra mente accetta la spiegazione sul momento, crede davvero che sia solo un’impressione e-»
«Stai parlando a vuoto.» soffiò Jane assottigliando lo sguardo. «Parla chiaro, cosa stai dicendo?»
Lea sbuffò, le spalle basse. Poi prese un respiro profondo e si rivolse a Nathan ed Eliza.
«Quando vi siete iscritti, avete firmato un foglio con una penna a cui non serviva il calamaio.» disse.
Nathan imprecò.
«L’inchiostro era rosso, era il nostro sangue.» indovinò con facilità Eliza.
Lea annuì. «Non c’avevo pensato davvero, o almeno non fino all’uscita dall’Area Cani, quando-» si bloccò e si morse un labbro, palesemente indecisa se parlare o meno.
Nathan imprecò di nuovo. «Smettila di farti prendere da stupidi sensi di colpa! Sì! Dovevi dircelo decisamente prima. No! Non ti terremo il muso come dei fottuti mocciosi per questo.»
«Non è quello che mi preoccupa!» gli urlò contro la bionda. «Ma ho fatto una promessa e non so se voglio o posso infrangerla.» sbottò in fine.
«Una promessa? E a chi?» chiese Jonas sempre più confuso. Ma lo sguardo di Lea, colpevole e dispiaciuto, fisso nel suo, gli fece facilmente intuire la risposta.
«Cade lo sapeva?» chiese scioccato. «Sapeva che potevamo sanguinare e non ha detto nulla?» il ragazzino batté le palpebre a corto di parole. «Mi ha fatto combattere contro un tipo nel Labirinto. Diceva che dovevo imparare a fare a pugni davvero… lui- mi ha fatto combattere contro qualcuno sapendo che mi avrebbe potuto ferire?» mormorò più a sé che agli altri.
Ma Lea scosse la testa, avvicinandosi a Jonas e cercando di prendergli le mani. Quando quello si spostò come scottato l’infermiera non batté ciglio.
«No! No, assolutamente no! Non lo sapeva. Nel Labirinto ancora non lo sapeva. Da quel poco che mi ha detto l’ha scoperto dopo.» spiegò dolcemente.
«E quando cazzo sarebbe questo dopo?» incalzò Nathan sempre più incazzato.
Lea sospirò. «Fuori dal Labirinto. Ha detto che stava guardando chi c’era in giro e l’occhio gli è caduto su di un uomo particolare. Stava giocando con il suo coltellino, si è distratto guardando quell’uomo e la lama è scattata per errore. Si è ferito così. Usciti dall’Area Cani mi ha chiesto se sapessi mantenere un segreto e se potessi curargli la mano, ma a questo punto posso dire d’esser stata in grado di fare solo una cosa.» sbuffò avvilita.
Gli altri la guardarono senza proferir parola, finché Jonas, scosso, non mormorò piano.
«Non mi ha detto nulla… perché non mi ha detto nulla?»
«Perché è una testa di cazzo. Chissà dov’è finito quel figlio di puttana! Ora come ora potrebbe essere morto! Potrebbe star a morire dissanguato in questo preciso istante in qualche fottuto posto di merda!» gridò ancora Nathan calciando la terra e sollevando una nuvola luccicante.
Jane deglutì. «Quindi, quando siamo stanchi, quando ci sentiamo affaticati… lo siamo davvero?»
Lea scosse la testa. «Non è proprio così, io- so che può sembrare strana come cosa ma, ho come l’impressione che stia progredendo.»
«Cosa intendi?» domandò Úranus.
«Che più andiamo avanti più questa situazione s’intensifica. Quando scappavamo da quel pellerossa eravamo affaticati, ma non così tanto. Quando scappavamo dai Mastini…»
«Lo eravamo di più.» disse secca Eliza. «Più si va avanti nelle prove più si recupera una parte di sé.»
«Questo spiegherebbe perché Jonas sia svenuto.»
«Ehi, sei tu quello che è caduto a terra come una pera.» ringhiò il diretto interessato.
«E tu quello che si è fatto prendere da un attacco di panico, sbaglio?»
«E io sarò quella che vi prenderà entrambi a calci se non la smettete subito.» sbottò la soldatessa. «Perché Cade ti ha chiesto di non dircelo? Hai detto tu stessa che te l’ha chiesto, giusto?»
Prendendo un altro respiro Lea guardò i ragazzi con una strana nota di dolcezza e malinconia nello sguardo. «Non voleva che questo influisse sulle vostre azioni, sulle vostre speranze. Non voleva che arrivati davanti al precipizio vi fermaste per paura di ferirvi invece di saltare. Ha detto- forse vi sembrerà sciocco da principio ma poi, ripensandoci avrà molto più senso- mi disse che non voleva che smetteste di credere nella possibilità di tornare in vita. Mi ha fatto un discorso molto più ampio, parlando dei bambini che non hanno paure e- penso semplicemente che non volesse spaventarvi.» concluse sorridendo gentile.
«Ma a te l’ha detto.» insistette Jonas, come se fosse quello il punto focale della situazione e non il fatto che Cade avesse cercato di proteggerli tutti da una scomoda verità.
Lea gli sorrise ancora. «E sono sicura che presto l’avrebbe detto anche a te.»
«Cazzate.» sbottò il più giovane. «Non mi avrebbe mai detto niente finché non sarebbe stato impossibile nascondermelo! Perché ha questo stupido complesso del fratello maggiore che deve proteggere tutti e prendersi i rischi più grandi, aiutare gli altri, consolarli!» continuò con foga, amareggiato, arrabbiato e forse anche rattristato.

Perché la gente non mi dice mai nulla?
 
«E ti pare un motivo per farti venire il sangue acido?» gli domandò d’improvviso Jane, fredda e caustica, con gli occhi socchiusi dalla pesantezza di una rabbia ancora più grande della sua.
«Mi ha mentito!» replicò Jonas.
«L’ha fatto con tutti! Ma direi che da quando lo conosciamo è la cosa più gentile ed educata che abbia fatto nei confronti di tutti!»
Gli altri ragazzi guardarono sorpresi la figlia di Ecate, increduli che tra tutti fosse lei quella che stesse prendendo le difese di Cade. Non che Eliza o Nathan non si sentissero in qualche modo feriti  dalla decisione del rosso, o arrabbiati anche loro per buona ragione, ma era evidente che questa mancanza non li avesse colpiti nel profondo, nella fiducia, così come aveva fatto con Jonas.
Eliza guardò il ragazzino con apprensione, improvvisamente consapevole d’aver sottovalutato il legame che si era già formato tra il compagno scomparso ed il piccolo del gruppo.
«Cosa ne puoi capire tu?» ringhiò Jonas con lo stesso tono freddo.
«Oh, cosa ne posso capire io? Vuoi sapere cosa posso capirne di tradimenti? Di gente che non ti dice la verità? Bene, senti questa come ti suona: ho scoperto che i miei genitori non erano i miei genitori il giorno della morte di mio padre e lo stesso in cui è morta mia madre. Non è stato nessuno dei due a dirmelo e non ho potuto chiedere spiegazioni. Ringrazia Dio, gli Dei o chi ti pare che tu, almeno, hai la possibilità di rivedere lo stupido rosso e dargli un pugno in faccia per averti mentito! O quanto meno non hai passato la vita a credere a qualcosa di falso!» sputò con tutto l’astio che aveva in corpo, con tutta l’amarezza e quel dolore sordo e lontano che mia l’aveva abbandonata. 
I semidei la fissarono ammutoliti, improvvisamente più consapevoli di uno dei possibili motivi per cui Jane era ciò che era, schiva, chiusa, cinica, crudele a tratti.
Jonas dentro di sé sentiva solo una tristezza infinita ed un vuoto chiuso a forza nella cassa toracica. Era stanco di sentire storie tristi, di vedere il dolore negli occhi della gente. Era stanco di rimaner scottato dagli eventi, di scoppiare in uno dei suoi classici e tanto odiati sfoghi per poi esser riportato all’ordine a suon di storie vecchie di morti e abbandoni. Era stanco di sentirsi ogni volta come un moccioso che batte i piedi per una stupidaggine davanti a problemi più grandi quando per lui, il fatto che Cade non gli avesse detto una cosa del genere, era basilare. Aveva condiviso un segreto con Lea e non con lui, mente tutto il resto, tutte le altre storie di famiglia, di amici, di scorribande, le aveva raccontate solo e soltanto a Jonas.
Gli aveva mentito su una cosa, l’unica persona di cui si fidasse completamente lì in mezzo, gli aveva mentito sulla loro stessa essenza, sul loro stesso essere.
Quante altre volte avrebbe potuto farlo? Quanti segreti gli nascondeva?
 
 
“E tu, ragazzo? Tu cosa gli nascondi? Cos’è che taci? Qual è questo grande segreto? Non voler far soffrire una persona è un crimine maggiore del negare il proprio passato, le proprie scelte, il proprio essere?”
 
 
Jonas s’irrigidì, deglutendo a forza, conscio per la prima volta che il dolore alla gola poteva esser vero e non solo l’illusione di un ricordo passato. Volse piano il capo da una parte all’altra, cercò qualcosa, qualcuno, ma solo il nulla lo circondava.
I suoi compagni non lo guardavano, tutti troppo presi a ragionare su ciò che Jane aveva appena detto loro e Jonas non voleva sembrare estemporaneo, non voleva che gli altri pensassero che stesse cercando di cambiar discorso, di svicolare, ma voleva anche dir loro di quella voce, di ciò che gli aveva detto perché sì: ormai era chiaro che quella fosse una voce estranea e non i suoi sensi di colpa.
Ma proprio quando stava per aprir bocca, per dire anche solo una misera parola, Jane alzò gli occhi al cielo e grugnì esasperata.
 
«Non l’ho detto per farvi ammutolire tutti quanti, anche se, a saperlo prima l’avrei già fatto. Non guardatemi con quello sguardo pietoso o dispiaciuto o quel che diamine è. Non mi interessa la vostra pietà né le vostre parole di conforto.»
Nathan la guardò allibito. «Ma vaffanculo!»
«Ecco, questa è già una reazione più apprezzata.» ghignò con una smorfia quasi schifata.
«La pietà è un sentimento molto nobile, aver dispiacere per ciò che è accaduto a te e alla tua famiglia non è un gesto irrispettoso, te lo assicuro.» provò con più garbo Úranus.
«Oh, vuoi dire che ora ti dispiace di avermi fatto rivivere quei momenti?» lo sfidò lei.
Il rosso la guardò con più freddezza. «Chiedo perdono per la mia franchezza, ma te lo meritavi.»
Una risatina a mala pena trattenuta uscì a forza dalle labbra di Nathan. «Cazzo, non credevo mi potessi diventare così simpatico, Golia.»
«Per favore, possiamo tornare sul punto focale della faccenda?» domandò Eliza chiudendo gli occhi e respirando profondamente.
 
Respirare, ora forse saremo costretti a farlo.
 
«Più ci addentriamo nelle prove, più il nostro spirito si trasforma in corpo.» continuò seria.
Elena annuì, ma non propriamente convinta. «Credo che per il momento non si possa davvero parlare di corpo concreto.»
«Ma ci succede quello che succede alle persone vive: ci sentiamo male, abbiamo attacchi di panico, attacchi respiratori, sveniamo, la carne bruciata puzza di carne bruciata, i corpi possono essere feriti, sanguinano, abbiamo reazioni emotive visibili. Non avremmo ancora il nostro corpo ma abbiamo un bel po’ di grane del genere, non credete?» sbuffò Nathan alzando un sopracciglio. «Mi sono dimenticato nulla? Qualcuno ha mal di stomaco? Avete vomitato mai? Oltre a roscio malpelo a qualcun altro ha sanguinato qualcosa?»
«A me viene da vomitare fin troppo spesso in effetti…» borbottò Jonas.
«Ti senti pure male un po’ troppo spesso.»
«Almeno io non sono mai caduto a terra, costringendo una ragazza a riprendermi al volo.» gli rinfacciò ancora il più piccolo senza pietà.
«Possiamo gentilmente smetterla di dire “è una ragazza”, “come una ragazza”, “solo perché sei una ragazza”? Vorrei farvi notare che Eliza ha spedito giù lunghi entrambi voi omaccioni e che la ragazza che è stata “costretta” a riprenderti al volo sono proprio io.» li guardò minacciosa ed esasperata in egual misura.
Nathan sbuffo infastidito rivolgendosi poi verso Eliza. «Dovremmo aggiungere all’equazione il tipo che ti ha parlato nella testa?»
A quelle parole Jonas si diede del deficiente: anche Eliza aveva sentito la voce di un uomo nella sua mente e-
 
Anche Cade!
 
«L’ho sentita poco fa.» disse di getto, improvvisamente attivo, improvvisamente sovreccitato da quel pensiero, da quella scoperta. «Dopo che Jane ha smesso di parlare, mentre riflettevo su- su cose, ho sentito la voce di un uomo farmi una domanda! Sta succedendo a tutti! È successo anche a Cade! Prima, quando si è alzato il vento e poi lui mi ha raccontato della sua famiglia e diceva che erano le Praterie ma se non fosse così? Se fosse stato quell’uomo e-»
«Woooo! Frena il cavallo.» lo bloccò Nathan. «Hai appena sentito una voce nella testa? Perché dalle mie parti si chiama coscienza.» disse retorico.
«E a casa mia si dice che non puoi sapere cos’è successo se non l’hai vissuto. Non era la mia voce, grazie Nathan, sono morto giovane, non stupido. Era la voce di un uomo e io… io credo d’averla già sentita.» tutta la foga di quel momento si spense nel disperato tentativo di ricordare qualcosa, qualcosa che doveva essere importante, che non avrebbe mai dovuto dimenticare.
 
Dimenticare… ho scordato qualcosa nella gara in cui ci sono stati rubati dei ricordi…
 
Senza rendersene conto la mano destra salì lentamente a toccare il gioco di metallo che portava attorno al collo, lucido e splendente monito di ciò che era stata la sua pena in tutti quegli anni.
Eliza lo guardò preoccupata e cercò subito lo sguardo di Nathan ed Úranus per capire se loro sapessero qualcosa.
Il soldato scosse la testa. «Non è mai un buon segno quando senti una voce non tua nella testa. Non posso dire che non sia successo anche a me. Ora intendo, da morto.»
«Hai sentito una voce? Ti è parso d’avvertire qualche potere divino?» chiese Úranus ansioso.
Nathan scosse il capo. «L’ho sentita mentre aspettavamo nell’Area cani che Eliza e Cade riuscissero ad avvicinare un Mastino Infernale, prima d’incontrare voi.» si fermò a ragionare, «Cosa ti ha detto?» domandò poi serio a Jonas.
Il ragazzino fece una smorfia. «Mi ha chiesto perché fossi così colpito dal fatto che Cade mi avesse nascosto qualcosa, se- se fosse così terribile che qualcuno mentisse per non far soffrire gli altri.» concluse a testa bassa.
«E…?» lo incalzò Lea. Allo sguardo confuso del ragazzino gli sorrise, «Magari non eravamo fratelli di sangue, ma Giuseppe ed io siamo stati comunque una famiglia, per di più sono anche un’infermiera, so riconoscere quando qualcuno non dice tutto.»
«Mentire adesso non serve a nulla.» disse Eliza.
«Non ho mentito!»
«No, hai omesso.» concesse Lea, «Cosa ti ha colpito di più?»
Mandando giù un groppo fin troppo amaro Jonas si disse che sì, non aveva senso nascondergli quelle parole, tanto erano generali, non insinuavano nulla, non specificavano nulla… forse sarebbero addirittura risultate utili.
Prese un respiro profondo e alzò la testa, preda di una sicurezza e di una dignità che non credeva di poter avere in quel momento.
«Mi ha chiesto perché mi toccasse così tanto quando anche io gli avevo nascosto cose del mio passato.» disse sicuro.
Jane sorrise senza gioia. «Chi non ha peccato scagli la prima pietra.»
Elena la guardò come se quelle parole fossero profetiche e annuì, senza però parlare.
«A me ha chiesto se fossi così debole da aver già raggiunto il mio punto di rottura, se non era arrivato “il mio momento”, qualunque cosa volesse insinuare.» storse il naso. «Se mi fossi accorto solo ora che non sono “l’eroe di tutti”.» terminò con voce amara.
Eliza lo guardò con serietà. «A me invece se fosse giusto dar per disperso un soldato non appena è partito per la guerra. Ci ha colti tutti e tre in un momento di debolezza, nel momento in cui abbiamo smesso di credere in qualcosa o qualcuno.»
«O quando ne avevamo bisogno.» sussurrò Jane. «Credo che sia l’uomo che mi ha chiamata “coccinella”. Mi ci chiamava mio padre. Ho sentito anche io una voce dirmi qualcosa. È stato un attimo di debolezza, ho rimpianto un gesto che proprio mio padre faceva spesso e questa voce, quell’uomo, mi ha detto che il mio fastidio era gelosia. È lo stesso che mi ha dato il biglietto, ne sono sicura, così come sono sicura che sia lo stesso che hai visto tu e che ti ha fatto trovare il ricordo di Cade.» disse in fine rivolta ad Eliza.
Nathan, per buona misura, imprecò, si era quasi dimenticato del tipo che aveva dato il biglietto ad una ed il ricordo all’altra.
«Cazzo! Cazzo! Cazzo!» continuò pestando di nuovi i piedi a terra.
Úranus, intanto, annuiva cupo. «Dev’essere per forza una divinità, o come minimo un qualche essere divino. Un essere umano non potrebbe mai far una cosa del genere.» confermò le sue ipotesi precedenti.
«Presupponiamo che sia sempre la stessa persona, la stessa voce? Per tutti quanti?» domandò Eliza.
Jonas si strinse le braccia al petto, ansioso. L’unico essere divino con cui aveva parlato era stato Ipno, che aveva mutato il suo giogo in un monile e gli aveva regalato un papavero che si era stupidamente perso. Gli spiaceva per il fiore, non era una cosa essenziale ma gli aveva lasciato come un senso di tristezza. La voce che aveva appena sentito però non era quella del dio. Eppure, era sicuro, sicurissimo, d’averla udita da qualche altra parte. Ma dove?
«Bassa, calda, di un uomo fatto e finito, non di un ragazzino.» la descrisse Jane.
Gli altri annuirono, «Le caratteristiche paiono quelle.» convenne la figlia di Nike. «Ma cosa vuole da noi?»
«Siamo in una fottutissima gara e se ti fosse passato di mente, Eolo ha detto che gli Dei possono “votare”. Abbiamo già appurato che i semplici mortali stanno via via scomparendo in favore dei semidei, non la vedo una cosa così assurda che qualche altro dio abbia mandato un suo sgherro ad aiutare i suoi favoriti. Sicuramente avranno scommesso qualcosa quei dannati bastardi e non vorranno certo perdere.»
Lea guadò Nathan scioccata. «Credi che ci stiano aiutando per vincere? Quindi…potrebbero essere i nostri genitori?»
«Escludiamo la mia e quella di Eliza.» sbuffò Jane. «E non rimaniamo qui fermi come degli sciocchi! Muoviamoci, in una qualunque direzione, ma muoviamoci per l’amor del cielo!» alzò le mani al cielo e poi lasciò cadere pesantemente le braccia lungo i fianchi, afferrando la sommità della gonna logora e incamminandosi verso una direzione a caso.
Eliza si affrettò a riprenderla per un braccio ed indirizzarla verso la strada che stavano percorrendo prima.
«L’erba si abbassa, sembra che si formi un sentiero, andiamo di qui.» fece cenno a tutti di continuare a camminare e gli altri annuirono mesti, pensierosi e cupi.
Rimasero in silenzio, ognuno chiuso nei suoi pensieri, ognuno impegnato a soppesare ogni possibilità, ogni futuro e ogni passo fatto in passato.
Erano davvero solo pedine nelle mani degli Dei? C’era una vittoria che fosse solo loro o erano riusciti in ogni prova solo per grazia divina? Ma soprattutto: cosa ci guadagnavano gli Dei a far vincere l’una o l’altra anima?
Nathan si passò la mano sugli occhi, l’altra ancora stretta fermamente attorno alla bussola. Avrebbero dovuto parlarne con calma una volta ritrovati tutti e invece si erano persi in mille cazzate. Gli ci mancava solo fare il cane da corsa ora, con tanto di puntate e tifo incallito. Ma ora sapeva per certo che se durante la corsa fosse caduto avrebbe rischiato di non rialzarsi più. Tutti quei fastidiosi e sadici “tanto sei già morto” che Jane aveva ripetuto un po’ a tutti un po’ troppo spesso, persero improvvisamente ogni significato. Erano già morti una volta, ma apparentemente, potevano farlo ancora.
Strinse di più la presa sulla bussola e sospirando pesantemente si voltò verso Úranus.


«A che ti serviva sapere in che direzione puntava l’ago?» chiese interrompendo la conversazione dell’uomo con la figlia di Apollo.
Úranus lo guardò per un secondo senza capire, poi annuì con decisione. «Mi serviva da conferma. Stiamo tornando verso la zona principale, ma questa non si trova più nello stesso posto da cui siamo partiti.» spiegò accelerando il passo e costringendo anche tutti gli altri ad avvicinarsi di più a lui e Nathan.
«Ti è mai stato spiegato come funzionano le Praterie degli Asfodeli, come funziona l’Ade in generale?» domandò al soldato.
Nathan fece una smorfia. «Non si può quasi mai entrare nello stesso punto, tranne delle entrate fisse che sono la Casa di Ade, le porte dei Campi, il Tribunale e le foci dei fiumi.» disse a mo’ di spiegazione.
Úranus gli diede ragione. «Questo perché l’Ade è un essere vivo, continua a mutare assieme alle esigenze del suo padrone. Le Praterie degli Asfodeli non sono luoghi “fissi”, si spostano, si mescolano. È principalmente colpa della Foschia, essa illude i viandanti, facendo loro credere d’aver camminato per pochi minuti mentre invece marciano da ore, o fungendo da portali di passaggio.» precisò.
Jonas batté le palpebre incredulo, guardandosi attorno con fare sospetto. «Questo spiegherebbe perché io e Cade abbiamo perso di vista Lea malgrado non si fosse allontanata troppo.»
«E perché quando tu mi hai raggiunto abbiamo perso Cade.»
«Spiegherebbe anche perché malgrado la Casa di Ade si trovi al centro degli Inferi in questo momento siamo molto più distanti da lei e molto più vicini ai Campi Elisi.» disse Úranus.
«Veniamo da sinistra, dove, in teoria, dovrebbero trovarsi l’Area Cani, il Labirinto di Persefone e la Casa di Ade, ma anche i Campi Elisi. Non abbiamo mai preso svolte decisive, cambi di rotta drastici…» ragionò Eliza guardando Nathan in cerca di conferma delle sue parole.
Il biondo masticò un’imprecazione. «Ma siamo comunque più vicini ai Campi rispetto a quanto non lo fossimo quando siamo arrivati al via. Cazzo.»
«Si muove… è vivo come lo era il Labirinto?» domandò piano Jane. Le pareva di sentire di nuovo le foglie strusciare sulla pelle, i rami infilarsi tra le sue vesti, stringerle le carni fino a segnarle, fino a inciderle e stritolarle. Deglutì. Non aveva la minima intenzione di tornare in un labirinto, mai più, fosse anche l’unico modo per tornare in vita. Piuttosto si sarebbe ritirata e avrebbe trovato un altro modo per vendicarsi di quei due.
«Quanto alla terza direzione-» provò a dire Úranus, venendo interrotto bruscamente.
«Questo significa che Cade potrebbe essere ovunque e da nessuna parte?»
Jonas si fermò sul posto, le braccia ancora avvolte alla vita, l’espressione dura. «Potrebbe trovarsi dalla parte opposta? O già al prossimo traguardo?»
«Non credo al traguardo, ragazzino, abbiamo noi la sua sfera, ricordi?»
«Ed Úranus non ha ancora la sua.» mormorò Lea.
Eliza annuì a tutte quelle parole, a tutti quei dubbi e quelle realtà. Dovevano trovare una soluzione e farlo in fretta.
«Torniamo ai prati principali.» disse decisa, prendendo in mano la situazione. «Una volta lì Úranus cercherà di rintracciare il suo ricordo, se dovessero esserci problemi cercherò di aiutarlo io con un po’ del potere di mia madre. Non sono mai riuscita volontariamente a concedere una vittoria a qualcuno, ma so di poter influenzare chi mi è attorno, ci proverò per lo meno. Dopo di che cercheremo Cade e ci dirigeremo alla prossima sfida.»
«E se non lo trovassimo?» domandò Jonas, gli occhi pieni di paura.
«In quel caso.» Nathan tornò indietro sino a trovarsi davanti a lui. Ci fu un momento d’esitazione, ma poi la sicurezza tornò a brillare quasi boriosa nei suoi occhi azzurri e senza timore pose la mano sulla spalla del ragazzino, stringendola con fare quasi confidenziale.
«In quel caso non ci rimarrà altro che andarlo a cercare e prenderlo a calci in culo fino alla quinta prova.»
I due si fissarono per un lungo momento e Jonas non pensò neanche per un istante d’abbassar lo sguardo, di annuire con deferenza, con educazione come suo nonno gli aveva sempre insegnato a fare, con il rispetto dovuto ad un adulto.
Sorrise però, come avrebbe fatto ad un compagno. Fiducioso.
Sì, l’avrebbero ritrovato e preso a calci in culo.
 
E forse, ma solo forse e quando nessuno guarderà, potrei anche abbracciarlo di nuovo. Solo per un momento, solo perché mi ha fatto prendere uno spavento del diavolo. Solo perché ho paura che sia stata tutta colpa mia.
 
«E gli metteremo anche un collare, così voglio vedere come si riperde. Ai miei tempi si mettevano delle fasce attorno ai bambini, così non potevano andare lontano. Lo facevate anche voi?» chiese Lea sorridendo.
Nathan ghignò. «Sì, cazzo! Però, se lo mettiamo nel marsupio, se lo porta Golia in spalla, chiaro?»
I ragazzi si trovarono tutti a ridacchiare piano, divertiti da quell’immagine, prima di ricominciare a camminare.
 
«Posso sapere perché le cose più spiacevoli toccano sempre a me?» domandò Úranus scatenando l’ilarità di tutti.


Non ebbe il coraggio di dir loro che la terza direzione in cui puntava l’ago della bussola divina, quella da cui probabilmente era scaturita la pressione incredibile che li aveva attanagliati nell’Area Cani, era la stessa in cui, se non errava, si trovava il precipizio oltre cui vi era solo l’oblio.
 
Perché un vento fantasma risale dal Tartaro?


 
*
 


L’uomo in nero si era tolto il lungo cappotto e l’aveva poggiato sul giovane, avendo cura di coprirlo per bene. Pareva quasi una coperta tanto l’indumento era più grande del dovuto, ma il suo Signore era davvero molto alto, quasi mastodontico se comparato alle genti del suo popolo, quindi non si era sorpreso più di tanto. Per altro, il ragazzo non doveva esser molto grande, forse potevano avere la stessa età.
 
Se non fosse che, di certo, io devo aver visto la luce secoli prima di te.
 
Michael gli aveva proposto la sua felpa, stava imparando la differenza dei vestiari dell’epoca moderna, ma Cicno aveva gentilmente rifiutato: se la prossima scena sarebbe stata la sua sarebbe stato bene che fosse perfetta in ogni particolare.
Il suo fratellastro aveva sorriso divertito, accusandolo di qualcosa come “complesso della crocerossina”, ma non aveva la più pallida idea di cose significasse e, a giudicare dalle risate e dalle parole del loro capo, non ne soffriva davvero.
 
«È tutta scena, Mick, non è davvero così gentile e adorabile, il nostro Cicno.» gli aveva detto ridendo.
Il ragazzino aveva alzato il mento verso il cielo, l’espressione indignata palesemente falsa.
«Allora significa che io sono speciale, perché con me è sempre gentile.» poi gli aveva strizzato l’occhio e Cicno, divertito, gli aveva concesso uno dei suoi sorrisi più delicati.
Non che il figlio di Apollo avesse davvero torno, ma neanche ragione: Cicno non sapeva spiegarsi il perché ma da quando aveva incontrato il loro Signore, l’uomo dagli occhi allungati e poi anche quel ragazzino impertinente, si era ritrovato fin troppo spesso a comportarsi in modo… normale.
Non aveva voglia di fare i suoi soliti giochi, di imporsi come doveva fare un tempo. Non ne aveva neanche bisogno.
Con il loro Signore non avrebbe retto, era una sfida invincibile, almeno su quel fronte. Non sarebbe riuscito ad assoggettarlo al suo volere come aveva fatto con tanti altri uomini prima di lui. Non funzionava il suo fascino, non funzionava il suo tono imperioso, il suo sorriso lascivo e la sua sensualità. L’aveva visto nudo, l’aveva spogliato lui stesso in pratica, l’aveva aiutato a lavarsi e poi portato in braccio su di un comodo giaciglio. Mai una volta aveva scorto desiderio nel suo sguardo e forse, a questo punto, Cicno poteva pensare che non fosse attratto dagli uomini ma solo dalle donne.
 
Peccato.
 
Il ragazzino invece gli stava simpatico. O per lo meno come potrebbe star simpatico qualcuno a lui.
Michael era nato e cresciuto in un epoca completamente diversa dalla sua, lo conosceva come una leggenda, come un mito. Sapeva cos’aveva fatto, quanto sangue macchiava le sue mani, ma non sembrava minimamente turbato dalla cosa. Senza contare la loro indesiderata parentela… forse Apollo aveva fatto del male anche a lui e ora si sentiva in un qualche modo legato a Cicno.
Tutto ciò non gli interessava veramente, finché avesse continuato a far il lavoro sporco per lui, ad accontentare ogni sua richiesta ed arrossire come una vestale allora nulla gli avrebbe fatto avere un comportamento diverso nei suoi confronti.
Alla fine poteva esser anche utile aver qualcuno che si reputasse suo “amico”, dopotutto, chi non avrebbe voluto?
Con uno dei suoi più classici moti di egocentrismo Cicno sorrise compiaciuto: gli piaceva così tanto che gli altri si reputassero legati a lui, perché questo significava che avrebbero fatto più volentieri più cose.
Se solo avesse potuto scaricare a Michael anche quella dannata grana.
Abbassò lo sguardo sul giovane che dormiva sonni irrequieti con il capo poggiato alle sue gambe.
Dei dell’Olimpo, perché gli era venuta in mente un’idea simile?
Oh, giusto, il suo Signore gli aveva detto che quel ragazzo era un tipo che s’affezionava facilmente, che ripagava sempre con gratitudine un aiuto inaspettato e spontaneo.
 
Spontaneo… la crescita di una pianta può essere spontanea, la stupidità umana, la capacità di un animale di eseguire il suo verso. Non la mia voglia di aiutare qualcuno, specie in questo modo.
 
«Se riesci a far diventare la tua espressione un po’ più arcigna sono sicuro potrai iniziare a sputare veleno.» lo prese in giro l’uomo in nero.
Cicno gli lanciò un’occhiataccia, dimentico del fatto che quello fosse il suo capo e che era consigliabile non farlo arrabbiare.
Ma lui non aveva mai avuto superiori nella sua vita, quindi era alquanto facile scordare le giuste norme sociali.
 
«Così fosse non avrei sprecato tempo ad incantare le mie lame, mi sarebbe bastato il mio stesso veleno.» rispose a tono.
L’uomo rise bonario. «Ricorda sempre per cosa lo stai facendo. So che non è nella tua indole, ma dovrai dimostrarti più gentile e buono.»
Il giovane si esibì in un sonoro verso di stizza. «Non sono abituato ad esserlo con chi mi è inferiore.» precisò, cercando intenzionalmente di capire quale fosse il punto massimo di sopportazione dell’altro.
Ma quelle parole non ebbero alcun effetto se non quello di far sogghignare l’uomo.
«Superiore in cosa? In bellezza? Oh, senza dubbio non ne troverai tra le persone tra cui andrai. In forza? Mi spiace dirti che forse sarai la penultima ruota del carro, forse solo una, massimo due persone saranno più deboli di te. Va da sé che hai già trovato chi ti è superiore.
Vogliamo parlare di poteri? In quello avrai filo da torcere. Forse tu sarai il più bravo ad utilizzare i tuoi, ma ve ne sono di interessanti tra gli altri.
Quindi, meritano la tua magnanimità?» domandò senza abbandonare quell’espressione distesa.
Cicno storse il naso. «No.»
La risata del suo Signore fu potente e alta, tanto che per un attimo temette potesse svegliare il giovane dormiente.
«Ma Michael già la ha.» gli fece notare.
Un’altra smorfia infastidita, tanto sapeva di esser bellissimo anche così.
«Michael mi è utile. E condividiamo un fardello comune.» borbottò.
«Figli di Apollo.» replicò solo l’altro.
Cicno fece scattare il capo verso di lui, odiava quando qualcuno tirava in ballo suo padre e se solo avesse potuto avrebbe dato fuoco al mondo con un solo sguardo.
L’uomo neanche gli diede attenzione, se ne stava tranquillo a lucidare la sua arma splendente, un lungo pugnale dalla lama ricurva e seghettata, lo stesso che avevano utilizzato durante la loro “caccia”.
Cicno abbassò lo sguardo sulla piccola cinghia di cuoio abbandonata al suo fianco, dove facevano bella mostra di sé i suoi cinque pugnali di bronzo celeste, quelli che aveva lasciato nella sua vita mortale e che certo non aveva quand’era giunto all’Ade.
 
«Un regalo per te.»
 
Così gli aveva detto l’uomo. Gli aveva consegnato i pugnali ed un comodo modo per portarli con sé, come se fosse una cosa normale, come se fosse ovvio che un set di armi di millenni prima fosse caduto nelle sue mani.
Come avesse fatto a trovarlo non lo sapeva, ma quell’uomo, quell’essere, gli pareva più potente ogni volta che lo rivedeva.
Ghignando Cicno si disse che sì, aveva scelto decisamente il lato giusto.
Soprattutto se da questo stesso lato militavano anche Dei che, in vita così come in morte, non aveva mai sentito troppo vicini all’Olimpo.
Vi era un’intera categoria di divinità che spesso non venivano considerate, che venivano date per scontato o ancor peggio, i cui poteri e doveri venivano assegnati ad altri Dei per pure ignoranza. Molti di loro se ne stavano in silenzio, in disparte, facevano il proprio lavoro e non si immischiavano nelle faccende dei “Grandi Dodici” e di tutti quegli altri Dei che vorticavano attorno alla cerchia d’oro. Ma ce ne erano anche altri che da sempre covavano rancore verso i loro parenti più famosi, verso i fratelli più piccoli saliti al potere, verso cugini, genitori…
Senza farsi notare Cicno lanciò uno sguardo al Dio che era giunto prima da loro con il ragazzo che ora riposava sulle sue gambe. Il giovane era ancora febbricitante, indebolito ed infettato dal potere oscuro che albergava nell’essere divino che, con un solo tocco, era stato in grado di avvelenargli la mente, il corpo, il sangue e l’anima. 
Se ne stava chiuso nel suo mutismo e nella sua pesante pelliccia nera. Pareva un enorme animale selvatico, dal pelo sporco e arruffato. I lunghi capelli neri gli coprivano in parte la maschera bianca che celava il suo volto. Due cerchi scuri al posto degli occhi, una linea dritta per la bocca.
Le lunghe braccia magre erano sproporzionate, terminavano con mani grandi dalle dita ossute come zampe di ragno. I piedi nudi erano sporchi di terra, erba nera e frammenti luminosi.
Nel suo insieme era spaventoso come lo erano i suoi incubi.
 
Ma in molti ignorano il fatto che sia Fobetone ad oscurare le loro menti e non Ipno o Morfeo.
 
Da quel che gli era stato concesso di capire, d’origliare, Fobetone non era interessato a ciò che stava cercando di fare il suo Signore, ma piuttosto alla salvezza dei suoi figli. Uno di essi si trovava nel gruppo di semidei assegnatogli dal capo.
Cicno abbassò lo sguardo sul giovane, domandandosi quanto ancora avrebbe dormito, quando la febbre sarebbe cessata ed il veleno della paura epurato dal suo corpo.


"Certo, qualcuno potrebbe guarirlo… qualcuno abbastanza potente da riuscir ad utilizzare il bene ed il male della stella maggiore a suo piacimento. Qualcuno sopra il livello medio di tutti quei piccoli guaritori in erba che a mala pena conoscono i veri canti di cura."

 
Cicno inclinò il capo, la mente persa a seguire i sussurri di quella voce calda e bassa che gli ricordava terribilmente la voce di qualcun altro. Forse quella del suo padrone? Forse di un altro uomo? Ma come poteva ricordarla ancora se a mala pena rammentava quella di sua madre?
 
Chi sei?
 
Con gli occhi chiari puntati sul volto affaticato del giovane, Cicno si ritrovò a carezzargli il capo senza neanche rendersene conto.
Quand’era stata l’ultima volta in cui aveva donato un gesto così gentile e disinteressato a qualcuno? Perché in quel momento il semidio era incosciente e non avrebbe potuto percepire il suo tocco, non avrebbe potuto reputare la sua azione benevola. Era inutile, era solo- per sé stesso.
 
Filio.
 
Abbassò lentamente le palpebre, socchiudendole sino a sfocare la vista. Il viso del ragazzo mutò impercettibilmente, dandogli l’illusione di vedere un altro giovane al suo posto. Ma fu solo un istante.
Con un sospiro silenzioso continuò ad accarezzargli la testa. I capelli erano corti ma morbidi, fini e di un colore così particolare che Cicno mai aveva visto.
Le guance arrossate, le sopracciglia crucciate, le labbra tirate.
Stava soffrendo, vedendo chissà cose nei suoi incubi, nelle sue memorie. Era entrato in una grotta fatta di oscurità e verità, due delle cose più pericolose di questo mondo, e Cicno, se solo avesse voluto, avrebbe potuto rischiarare i suoi pensieri con un semplice tocco. Erano secoli però che non usava più la sua magia curativa, che non cantava più i salmi inventati dai suoi fratelli, scritti da suo padre.
Apollo… quel gran bastardo di Apollo.
No. Aveva deciso che non avrebbe mai più usato il suo potere curativo, che solo maledizioni e malanni sarebbero usciti dalle sue labbra.
Però se il giovane si fosse ripreso in fretta, lui avrebbe potuto iniziare il suo lavoro prima, portarlo a termine prima, essere libero prima.
La decisione ora non stava nell’utilizzare o meno la discendenza di Apollo, ma nel fare qualcosa di utile per sé stesso.
E Cicno era così bravo a fare, trovare, ottenere, il meglio per sé.
 
«Potreste riprendervi la veste?» domandò d’improvviso a voce alta.
L’uomo in nero si voltò a guardarlo, smettendo di parlare in modo fitto con Fobetone. L’osservò curioso, poi si avvicinò e tolse il giaccone da sopra il semidio.
«Se sta al caldo la febbre passerà prima.» disse pacato.
Cicno annuì. «Sono un guaritore più efficiente del tempo.» rispose con una punta d’orgoglio.
L’uomo alzò un angolo delle labbra, un sorriso storto che pareva più il ghigno di una iena.
«Allora il nostro compito qui è finito.» si voltò verso il Dio e gli fece un cenno del capo.
Fobetone replicò il gesto e gli si avvicinò con lentezza, estraendo dalla pelliccia scura una sfera dei ricordi di Ermes. La depositò con gentilezza al fianco di Cicno, tra la cinghia arrotolata dei suoi pugnali.
 
«Tienila da conto, è delicata, fragile.» sussurrò con voce cavernosa il Dio.
Cicno cercò di guardarlo in volto senza paura, ma non poté impedire a centinaia di brividi di precorrergli la pelle esposta.
«Sarà fatto.» mormorò di rimando, la voglia di rispondere con strafottenza perduta all’istante.
Fobetone si voltò, senza dir più nulla, camminando con lo stesso passo lento e strascicato verso l’infinità delle Praterie degli Asfodeli, confondendosi con il buio, l’erba e la Foschia.
Il suo Signore invece si era rimesso il cappotto, chiudendo con attenzione i bottoni e lisciando il tessuto.
«Suo figlio potrebbe creare qualche problema. Non è una personalità riottosa o fastidiosa, ma i poteri degli incubi sono più forti ed indomiti sotto pressione.» lo mise in guardia.
Cicno annuì, riportando l’attenzione su di lui. «So come trattare con questo tipo di genti. So come trattare con tutte le genti.»
«Da ciò che si dice del tuo passato, direi di no. Ma voglio darti fiducia.» ghignò ancora. «Ci sono invece due personalità abbastanza problematiche. Il ragazzo qui, è un buffone fedele. Gli hai salvato la vita, te ne sarà grato. Vede il lato positivo e pensa sempre al meglio, ma non sottovalutarlo, i cani fedeli sono quelli che mordono più a fondo e con più forza.»
«Sono quelli che non mollano la presa neanche se presi a calci, lo so. Gli altri due?» chiese con uno sbuffo. La sua mano non aveva smesso un attimo di carezzare i capelli del giovane.
L’uomo finse di non averlo notato. Alzò il bavero della palandrana. «Figlio di Ares, uno stronzetto caparbio. Un po’ volgare, convinto di saper far tutto, un buon leader però, non ti manderà in pasto alle belve se non crederà che potrai tornarne vivo. Forse, ben pensandoci, lui potrebbe piacerti.»
Cicno annuì. «Sì, sembra il mio tipo, in effetti.» gli diede ragione sorridendo già all’idea.
«Non farti strane idee, non lo abbindolerai con il fascino. Ma gli piacerà la tua lingua senza peli.»
«Finché non darà di matto e farà ciò che deve fare mi accontenterò di un’affinità morale. Altri?»
«Una figlia di Ecate.»
«Dei dell’Olimpo…»
«Che non sa usare la magia.» ghignò l’uomo.
«Quindi un elemento inutile. Nel caso ve ne fosse bisogno posso sacrificare lei senza problemi? Dubito sua madre vegli su di lei se è un’incompetente, Ecate non è troppo magnanima con i suoi figli più deboli.»
«No, non lo è, ma potrebbero essere i tuoi compagni di viaggio a non volerla abbandonare. Ha un carattere persino peggiore del tuo, ma forse potrai capirla meglio degli altri visto che entrambi godete nel ferire il prossimo.» disse ammiccando.
Cicno sorrise angelico. «Solo se il prossimo se lo merita.»
«E in base a cosa si dovrebbe decidere?»
«Al mio gusto personale, ovviamente.» rispose sempre con lo stesso tono mieloso.
L’altro ridacchiò. «Ti tratterà male.»
«Deve solo provarci.»
«Ci sarà una figlia di Nike a metter pace. Pare che a lei dia ascolto.»
«Oh, la vittoria è con noi quindi?» domandò ironico.
«In parte. È una donna giusta, sani principi, forte morale. Non sopporta troppo le volgarità, non sopporta le ingiustizie. Attento a ciò che fai e a come lo fai, gli altri la tengono in gran considerazione, fartela nemica potrebbe implicare perdere la fiducia di tutti.
C’è anche una tua sorella, buona guaritrice, cresciuta con un medico.»
«Un?»
«Un guaritore dei tempi moderni, era sua assistente. Non è gran ché nel combattimento corpo a corpo, ha una buona mira ma dal tempo in cui proveniva far combattere delle donne, insegnargli a tenere un’arma in mano, farle allenare, non era visto di buon occhio. Si tendeva a proteggerle solo, a farle rimanere a casa. Sa qualcosa ma non troppo.»
«Potrebbero parlare con una donna di Sparta, sarei davvero deliziato nell’assistere ad una scena del genere.» sognò il giovane con sguardo perso.
«Non dimenticare che solo il figlio di Ares è andato al Campo, è il più giovane di tutti, quello morto per ultimo. Tua sorella e il figlio di Fobetone sono quelli che ne sanno di più. Ovviamente lui sa tutto. Nike solo poche informazioni, Ecate completamente all’oscuro di tutto, se ti dicessi com’è morta probabilmente moriresti di nuovo, ma dalle risate.» disse scuotendo il capo. «Esser troppo sicuri di sé non è sempre un bene…» continuò con una lieve inclinazione ammonitrice nella voce.
Cicno lo ignorò. «Lui non sa nulla?» chiese indicando il giovane.
«Poco e niente. Sapeva dell’esistenza delle Cacciatrici, conosceva qualche semidio in vita. Sapeva di essere diverso, di avere particolarità straordinarie, ma non sa nulla del nostro mondo, a conti fatti.»
Con un sospirò il ragazzo alzò gli occhi al cielo, fissandoli sulla volta buia e rocciosa.
«In parole povere mi mandate tra un gruppo allo sbaraglio. Perché proprio io?» domandò in fine.
Quando abbassò lo sguardo per incontrare il volto dell’uomo si pentì immediatamente della sua domanda.
Non perché si fosse palesemente lamentato di aver un compito difficile con compagni difficili, un potenziale fuoco greco pronto ad esplodere ed ardere in eterno, ma perché aveva appena colpito la parte cruciale di tutta quella storia.
 
Uno dei motivi per cui ha scelto me se non il solo ed unico.
 
«Per l’ultimo membro della comitiva.» sorrise divertito, troppo divertito. «Giovane d’età, sedici anni, il più piccolo del gruppo. Carattere altalenante, non ancora formato del tutto, qualcuno a cui è stato insegnato il rispetto forzato verso gli adulti e chi gli è superiore ma che stenta a perpetrare lo stesso carattere tranquillo e remissivo con i suoi coetanei. Non è forte fisicamente, non lo è mentalmente, non è in grado di controllare i suoi poteri. Potrei dirti che è una bomba ad orologeria ma non capiresti il paragone. Sappi però che è bravissimo a farsi prendere dai sensi di colpa, dalle paturnie tipiche dell’adolescenza, di una persona fragile. 
Il giovane che ti riposa in grembo lo ha preso come un fratello minore, lo protegge, lo accudisce perché è quello di cui il ragazzino ha bisogno. Non si direbbe ma questo roscetto ha un bell’istinto genitoriale.» sorrise ancora.
Cicno lo guardò diffidente. «Solo per questo? Perché la mente del ragazzo è malleabile e prendendo potere su di lui potrò averne di conseguenza su tutti gli altri?»
«Oh, no, non credo proprio. Potresti fare molti danni in effetti, però: dal bambino al rosso, dal rosso a tua sorella e la figlia di Nike. Dalla figlia di Nike a quella di Ecate e a quello di Ares e da tua sorella al figlio di Fobetone. Forse la tua ipotesi non è troppo sbagliata, ma tienila come ultimo colpo.»
«Allora per cosa?» domandò sempre più innervosito.
Le labbra dell’uomo parvero allungarsi, coprendo l’intero spazio delle guance, come la bocca di un serpente.
 
E lui odiava, aborriva i serpenti.
 
Ogni volta che gli lanciava uno sguardo più affilato, un ghigno più ampio, Cicno si convinceva della pericolosità di quell’essere, immaginandosi quanto dovesse esser potente, quanto dovesse esser spietato in campo, quanta crudeltà, cattiveria, quanta impietosa furia si celasse in quell’involucro così semplice.
Chi era- anzi, cos’era quell’essere?
 
«Perché avete entrambi varcato i neri cancelli e perché siete legati dal volere dei Gemelli della Notte.»
 
Cicno si ritrovò a distogliere lo sguardo sgomento, la luce che brillava nelle iridi dell’altro lo stava annichilendo, trasmettendogli lo stesso terrore che ogni nemico doveva avere nei suoi confronti.
Anche un Dio ne sarebbe stato colpito, anche loro avrebbero tremato.
Chiunque egli fosse era perfettamente in grado di dar al rogo l’Olimpo e tutti i suo seggi d’oro.
Aveva decisamente scelto la parte giusta.
 
Un lieve tocco sul suo capo, delicato come quello che lui stesso posava sul ragazzo dormiente, gli fece venire i brividi.
Quando si era spostato? Quando era arrivato così vicino?
Trattenne il fiato, non osando voltarsi per vedere il ghigno ferale del suo padrone.
«Tieni stretto a te il bambino e non dimenticare i vostri monili.» una carezza appena percettibile tra i ricci morbidi. «Buona fortuna, piccolo cigno.»
 



Quando l’essere scomparve Cicno si concesse un respiro profondo, cercando di riportare a regime ogni suo tremito, ogni sua palpitazione.
Era dalla parte giusta, erano dalla stessa parte, quel potere così devastante non era contro di lui ma con lui, l’avrebbe difeso, sarebbe stato al suo favore e non a suggellare la sua terza e definitiva morte.
Riprese coscienza di sé, del suo corpo, della sua anima.
 
«Jonas… se non sbaglio era questo il tuo nome.»
Un ragazzino magro e pallido, con i capelli chiarissimi e gli occhi quasi grigi, timoroso di rivolgerli la parola ma capace di farlo solo mordendosi la lingua. Il ragazzo che portava il collare di rovi di Ipno, che faceva il paio con i suoi bracciali, le sue vecchie catene, trasformate in monili da Thanatos.
Non che avesse avuto mai la possibilità di dimenticarsene, ma per un po’ aveva smesso di pensare a quell’altra anima dannata, con cui condivideva fin troppo punti in comune, che stava dall’altra parte di quel legame, di quei gioielli.
L’uomo che li aveva “collegati” gli aveva detto che i loro destini erano ora legati a doppio filo. Cicno aveva perfettamente letto tra le righe: se Jonas fosse caduto sarebbe successo lo stesso anche a lui e questo non poteva permetterselo.
Con un ringhio infastidito strinse la mano senza rendersi conto d’averla ancora tra le ciocche corte dell’altro semidio. Sentì però un mugugnio infastidito e mollò subito la presa.
Dannazione! Ci mancava solo che quel tipo si svegliasse e lo trovasse a tirargli i capelli.
Un grugnito davvero poco elegante gli fuoriuscì spontaneo e subito dopo si mise l’anima in pace, dicendosi che prima iniziava, meglio sarebbe stato per la sua sanità mentale.
 
O quello che ne rimane dopo millenni di torture di ogni genere. Il divino Ade dovrebbe decisamente restringere la liberà dei suoi aguzzini.
 
Le belle mani si mossero entrambe sul giovane: quella che era tra i capelli scivolò sulla fronte e l’altra sotto la maglia consunta, proprio sul cuore.
Il centro del torace, il punto da cui si diramava la forza vitale di una persona, in cui tutti quei fili, quei canali immaginari in cui si snodava l’anima per formare il corpo fittizio, si intrecciavano e collegavano.
Non fece fatica a ricordare i canti di cura e ne scelse appositamente uno di Asclepio, per cercare di rimanere il più distante possibile da suo padre.
I palmi si fecero improvvisamente caldi, il sangue pompava veloce la magia curativa in ogni terminazione, entro ogni cellula. Così com’era successo in quella stanza oscura, Cicno vide d’improvviso i suoi arti rilucere come un vetro colorato posto davanti ad una candela, come se vi fosse una fiamma che l’illuminava dall’interno.
Le sue labbra si mossero con calma, una parola dietro l’altra, intonando con dolcezza suoni delicati come spuma, morbidi come la sabbia asciutta, freschi come l’acqua pura ed odorosi come le piante medicinali.
Quando le palpebre quasi trasparenti del ragazzo iniziarono a tremare il ghigno che piegò la sua bocca non era dissimile da quello di un re orgoglioso.

Ovviamente, vinceva sempre lui.

 
 
Non vi era luce, non vi era il classico, fastidioso, accecante giallo che vedeva sempre quando riapriva gli occhi dopo una febbrata. Nell’Ade non vi era luce se non crepuscolare, quella classica del cielo blu distante dalla parte aranciata del tramonto. Non sapeva come descriverlo bene, nella sua mente quell’immagine aveva un senso, aveva un legame con il suo passato. Faticava a ricordare perché, però.
Sentiva le vesti appicciate al corpo, come se avesse sudato parecchio. Aveva freddo, un fastidioso ronzio alla testa, la bocca asciutta, gli occhi secchi. Il suo corpo era di certo disteso a terra, sentiva l’erba pungente delle Praterie sulle caviglie e sul fianco leggermente scoperto, sui polsi e le mani, eppure il suo capo era sicuramente poggiato su qualcosa di più morbido, ma cosa?
Lentamente cominciò a riprendere coscienza di sé, del luogo in cui si trovava. Sapeva di essere nelle Praterie degli Asfodeli ma solo in quel momento la cosa ebbe un senso.
Era svenuto. Caduto a terra come un sacco di patate, come quei sacchi che lui e i ragazzi si lanciavano dalle barche alle banchine e spesso, quando erano troppo pesanti, li mandavano lunghi per terra sotto le imprecazioni proprie e le risa degli altri.
Non c’era stato nessuno a ridere di lui e rimetterlo in piedi però.
Non c’erano stati neanche i suoi compagni d’avventura.
 
Jonas, Lea!
 
Avrebbe voluto alzarsi, andarli a cercare, chiamarli a gran voce, ma non ce la faceva, non riusciva neanche a muoversi tanto era sfinito.
Cosa gli aveva provocato uno shock simile? Si era perso, vero? Stava guardando Jonas allontanarsi verso Lea che aveva trovato il suo ricordo, ma poi aveva sentito un suono.
 
Silenzio. Ho sentito il silenzio, però non il mio.
 
Così l’aveva seguito, aveva inseguito il silenzio e si era perso.
Era stato lui ad assordarlo, a fargli sanguinare le orecchie, a renderlo pazzo e sordo. Poi era cessato tutto.
Strizzò forte gli occhi, lasciandosi cullare dalla dolce melodia che riusciva a sentire, dal calore che si irradiava dal suo torace, dalla mano morbida e delicata che gli carezzava la fronte.
Che fosse morto davvero ma, questa volta, avessero deciso di prendersi gioco di lui facendogli scorgere un angolo del paradiso dei Cristiani?
Quella poteva esser solo la voce di un angelo, il tocco di un angelo, le mani.
Si costrinse ad aprire le palpebre, qualunque cosa fosse era da una vita che non sentiva più un tepore del genere, una sensazione di benessere tale. Avrebbe spiato gli angeli anche solo per un momento.
Quando finalmente riuscì nel suo intento rimase semplicemente senza parole.
Sopra di lui vi era un giovane dall’aspetto etereo, probabilmente il ragazzo più bello che avesse mai visto in vita sua. Il volto pareva modellato nella creta da un qualche maestro dell’antichità, le labbra rosse morbide e floride si muovevano ad agio, lasciando intravedere i piccoli e candidi denti, la punta rosea della lingua ogni qual volta un canto lasciasse la sua bocca. Aveva un voce paradisiaca, la più bella che avesse mai sentito, in assoluto.
Il naso dritto, gli zigomi alti, gli occhi grandi, limpidi, dalle ciglia lunghissime.
Erano efelidi quelle che vedeva spruzzate sulle sue guance? Sul naso? Pareva che anche quelle le avesse messe un pittore con cura reverenziale.
Era così sorpreso che gli parve quasi che la sua pelle brillasse di vita propria come se una luce abbagliante cercasse di liberarsi da sotto la sua epidermide.
Non appena i loro occhi si incontrarono l’angelo smise di cantare.
 
«Vi siete svegliato finalmente, vi sentite bene?» domandò gentilmente. La voce non era più angelica come il suo canto ma ugualmente melodica, più calda e bassa. Era la voce di una sirena ammaliatrice e Cade non se ne sentì spaventato neanche per un momento.
 
Male, bisogna sempre diffidare delle sirene, sono bellissime e letali.
 Ma gli angeli?
 
«A-ammetto di sentirmi un poco stordito.» disse con voce roca, schiarendosela con qualche colpo di tosse. «Ma, vi ringrazio, per avermi aiutato.» continuò cercando inutilmente di tirarsi a sedere.
L’angelo gli sorrise gentile e lo aiutò, stringendo le belle mani attorno alle sue spalle ed issandolo quasi di peso.
«Rimanete seduto per un momento, o avrete le vertigini. Quando vi ho trovato eravate inerme e malato, sembrava quasi aveste la febbre.» gli disse con calma, spiegandogli la situazione.
Cade annuì, pentendosene nel preciso istante in cui la testa iniziò a girargli furiosamente.
«Oh! Temo abbiate ragione, gira parecchio.» borbottò.
L’altro rise piano. «Ve l’avevo detto.»
Il rosso gli sorrise di rimando, quel sorrisetto beffardo che faceva sempre cadere tutti ai suoi piedi e che, con sorpresa, si accorse esser stato apprezzato anche dal giovane.
«Mi sono perso per le Praterie. Un attimo prima ero con i miei compagni e l’attimo dopo un suono mi ha attirato lontano da loro.» Aggrottando le sopracciglia Cade si rese conto che, forse per la prima volta in vita sua, stava parlando in modo educato, dando del lei ad uno sconosciuto. Perché?
«Non dovete vergognarvene di certo, le Praterie sono infide. Anche io ne soffro la presenza.» gli confessò con tono basso.
Cade annuì. «Posso- Posso chiedervi di darmi una mano ad alzarmi?» chiese sorridendo. Poi si riscosse. «Dannazione, non vi ho neanche chiesto come vi chiamate!» si voltò nella sua stessa posa, pulendosi la mano sulla giacca ed offrendola al giovane. «Io sono Cade Griffith e visto che vi devo la- no, non la vita, quindi l’anima? Sì, visto che vi devo la salvezza della mia anima vorrei che mi deste del tu.»
Il giovane dal volto angelico lo guardo quasi confuso, come estraneo a quella strana mossa e Cade s’accorse solo in quel momento che le vesti che indossava sembravano così simili a quelle delle statue antiche.
 
O cazzo.
 
«Ecco, vengo dall’anno 1900, nella mia epoca per salutarsi e presentarsi ci si dà la mano destra, non so se anche da voi…»
L’altro scosse il capo. «Se posso esser sincero, son così tanti i millenni che ho passato qui nell’Ade da non riuscire più a ricordare come le mie genti fossero solite salutarsi.» ammise senza vergogna.
Cade batté le palpebre: come mai? Non aveva incontrato nessuno dei suoi conoscenti? Neanche uno? O forse…
 
Dove si trovava non c’era gente con cui conversare?
Campi di Pena o Praterie?

 
«Il mio nome è Cicno di Tebe, figlio di Irie, provengo dalla grande Grecia.» rispose stringendogli finalmente la mano.
Non era una stretta troppo salda, ma Cade lo imputò alla novità della cosa per lui. Che diamine ne sapeva di come si salutava la gente nell’antica Grecia?
«E, se voi mi chiedete di parlarvi con minor formalismo, vi pregherei di far lo stesso. Credo, per altro, che le nostre età siano simili.»
Cade gli sorrise radioso. «Oh, ma certo! Certo! Io ho ventisei anni, o almeno li avevo quando sono morto. Voi, cioè, tu quanti ne hai?»
Se avesse osservato meglio il giovane Cicno, se l’avesse davvero osservato e non solo guardato con ammirazione, si sarebbe reso conto del piccolo lampo di fastidio che gli aveva trapassato le iridi chiare, lo stesso che l’aveva colpito quando l’aveva visto pulirsi la mano sulla propria giacca, quando l’aveva stretta quella stessa mano.
«Ventisei primavere come te.» gli rispose, «Trovo davvero curioso aver trovato un giovane della mia età.»
«In effetti ne ho incontrati di più piccoli ma mai come me! Anche se ho almeno quattro compagni su sei morti prima di me.»
Cicno alzò un sopracciglio. «Forse è meglio che torni da loro, ti staranno sicuramente cercando.» disse d’improvviso, scurendosi in volto.
Cade lo guardò pensieroso. «Tu non hai dei compagni? Qualcuno con cui affrontare le sfide?» gli chiese cauto.
L’altro scosse la testa, i morbidi riccioli che rimbalzavano contro la fronte alta.
«So che il mio aspetto potrebbe ingannarti, ma ti assicuro che il luogo da cui provengo non ispira nessuno a scendere a patti con me, se non miei pari.»
Lo disse con amarezza, abbassando di poco lo sguardo ma lasciandosi pervadere da un’espressione dura. Non era autocommiserazione, era rabbia quella e Cade la conosceva bene.
«Eri nei Campi di Pena?» gli domandò allora a bruciapelo.
Cicno alzò di nuovo gli occhi, puntandoli decisi dentro i suoi. Aveva un’aria così fiera ora, le spalle aperte, la schiena ritta, il capo alto. Lo guardò come a sfidarlo a dir qualcosa a riguardo, a criticarlo.
«Esatto, da una delle terrazze più basse.»
Non era glorificazione, non c’era vanto nelle sue parole, ma non c’era neanche pentimento.
Cade non sapeva perché ma riusciva a capire tutte quelle cose solo guardandolo. Cicno non nascondeva il luogo da cui proveniva, non si vergognava di dirlo, si aspettava che qualcuno lo criticasse per questo ma, evidentemente, le sue azioni, per quanto pessime, non erano rimpiante.
 
Come me, esattamente come me. Se mi avessero spedito nei Campi di Pena non mi sarei pentito della vita che avevo vissuto, non mi sarei pentito di nulla, perché ho sempre creduto in ciò che facevo.
 
«Vuoi davvero farmi credere che un bel visino come il tuo sia finito nelle “terrazze più basse”?» chiese quindi sogghignando, cercando di allentare la pressione con le sue parole.
Cicno, ancora una volta, rimase sorpreso dalle sue risposte. Un attimo per capire cosa gli avesse davvero domandato ed il bel sorriso da angelo divenne quello furbo e affabile della sirena che gli era parso prima.
«Ero molto desiderato in vita, molte persone sfidavano altri o loro stessi per poter ambire a sedere al mio fianco. Molti di questi sono morti, la mia colpa è questa.» gli rispose provocatorio.
Cade lo guardò ancora, metabolizzando la sua spiegazione. Poi annuì.
«Penso che se non avessi avuto un po’ di pura fortuna irlandese ci saremmo potuti incontrare nei Campi di Pena. Da che parte stanno i truffatori?» domandò divertito.
Cicno fece un gesto vago con la mano. «Molto più vicini alla superficie di quanto non lo fossi io. Non ci saremmo mai potuti incontrare, sono un dannato di un certo livello io.»
A quell’affermazione Cade non poté far altro che ridere, sollevato dalla piega inaspettata che stava prendendo quel discorso. Quindi anche gli angeli sapevano fare gli stronzi? Interessante.
«E vuoi farmi credere che non ci fosse neanche un “dannato del tuo livello” per affrontare la Death Race?»
«Tu l’avresti fatto? Avresti scelto volontariamente tra la feccia qualcuno con cui arrivare fino alla fine sperando che non ti pugnalasse alle spalle alla prima occasione?» domandò retorico.
L’altro sorrise. «Io me lo sono portato dietro un dannato. Beh, è un dannatino in effetti, piccolo, un gattino bagnato, che è finito all’inferno perché ha avuto paura come tutti i mocciosi di sedici anni ed è scappato. Alle volte penso che i Giudici Infernali dovrebbero rivedere i loro criteri di scelta.»
A quelle parole però Cicno sembrò improvvisamente interessato.
«Un giovane dannato? Che non pare esser in grado di far male ad una mosca? Lo hai incontrato nel Labirinto della divina Persefone?» domandò attento.
Cade lo guardò curioso. «Se fosse?»
«Per il viaggio sino al Labirinto, effettivamente, ho seguito un gruppo di dannati. Con noi c’era un giovinetto, aveva sedici anni. L’ho perduto di vista per un attimo, le pareti d’edera si sono spostate e non ho più trovato sue tracce. Se fosse lo stesso giovane…»
L’irlandese rimase di sasso, il cervello che correva a mille. «Sai il suo nome?»
«Certamente, si chiamava Jonas, ma ammetto di non rammentare il nome della sua stirpe.»
«Magrolino, non troppo alto?»
«Sono d’altezza considerevole, per me tutti non sono molto alti.» disse sorridendogli e mettendosi in piedi.
Cade lo osservò da basso, sconcertato: quel tipo doveva esser alto almeno un metro e ottanta.
 
Cazzo, è più alto di me e io gli dormivo sulle gambe come fosse una ragazza. Altro che angioletto, sarà pure magro da far paura ma se fosse in forma sarebbe un dannato atleta.
 
Cicno gli prose la mano per aiutarlo ad alzarsi. «Era biondo, i suo i capelli molto chiari. Gli occhi azzurri parevano quasi grigi. I suoi lineamenti ancora acerbi, un fiore reciso nel momento della fioritura.» continuò con quella sua voce suadente.
Ma a Cade era bastato quel nome, ad esser sinceri, il resto era solo un rimarcare l’ovvio.

È il mio Jonas!
 
«Sono sicuro che sia lui.»
Cicno sospirò. «Bene, sono lieto che sia ancora in gara e che sia salvo. Spero gli porterai i miei saluti.» così dicendo si piegò a raccogliere una cinghia a cui erano attaccati dei pugnali e quella che, Cade stentò quasi a crederci, pareva una sfera dei ricordi, solo completamente nera.
Un vago eco di silenzio gli sfiorò le orecchie dove il sangue secco ancora stagnava. Scosse la testa e cercò di liberare trattando via le croste con il mignolo.
Non si accorse che il giovane aveva raccolto anche la sua sacca e che ora gliela porgeva assieme alla sfera.
«Questa è la tua bisaccia e questa sfera di Ermes era al tuo fianco quando ti ho trovato. Non so se fosse tua ma di certo non appartiene a me, quindi te la rendo, puoi vedere se appartiene ad uno dei tuoi compagni.» gli sorrise ancora spingendogli gentilmente gli oggetti tra le mani.
Cade lo guardò stordito. «Aspetta, perché mi dici queste cose?»
L’altro inclinò il capo. «Per informarti, perché è così che ti ho trovato. Eri a terra, malato, privo di sensi. È bastato un semplice canto curativo per risvegliarti però-»
«Canto curativo?» lo interruppe bruscamente, senza notare del lampo di fastidio che gli aveva provocato. «Sei un semidio? Sei un figlio di Apollo?» domandò concitato.
Cicno sospirò, come se gli pesasse ammetterlo. «Esatto.»
«Wow! Questo sì che è fantastico! Due guaritori sono sempre meglio di uno.» affermò allegramente.
Il giovane greco lo guardo senza capire, l’espressione confusa. «Perdonami, come?»
«Ho detto che due guaritori sono meglio di uno! Ai miei tempi li chiamavamo “medici” ma da quello che mi è stato dato di capire, quando ci si riferisce ai semidei e ai tempi antichi si dice “guaritore”, perché il medico non c’era.»
«Sì, avevo afferrato il significato delle tue parole. Ciò che mi rimane ostico è il motivo per cui tu abbia detto una banalità così grande: è ovvio che due guaritori siano meglio di uno solo.»
«Visto? La pensiamo anche allo stesso modo! Dai sempre risposte belle dirette te, vero? Sono sicuro che piacerai tantissimo al biondastro. Magari anche a Lea e a Eliza. La ragazza delle praterie ti starà subito sul cazzo, ne sono sicuro. Si diceva “stare sul cazzo” ai tuoi tempi? Il gigantone pare cattivo a primo sguardo, ma è come l’elefante che ha paura del topo, quindi non ti preoccupare di lui, è un pezzo di pane e Jonas- beh, lui lo consoci già vero?» Cade iniziò a parlare a ruota libera, senza fermarsi un attimo. Infilò la sfera nera nella sacca, cercando di non pensare a niente, al suono del silenzio, ad uno strano sogno che forse non era altro che il ricordo contenuto in quella palla, né tantomeno al fatto che lui il suo, di ricordo, ancora non lo aveva.
«Perché mi stai dicendo queste cose?» la voce di Cicno interruppe il filo dei suoi pensieri e fu decisamente un bene.
Cade si voltò a guardarlo, sorridendo divertito alla faccia confusa, crucciata e anche abbastanza infastidita del giovane angioletto che gli aveva salvato la vita.
 
La morte.
La memoria.
L’anima.
Oh, e vabbè, che l’aveva salvato e basta.

 
«Come perché? Non penserai mica che ti lascerò andare da solo, allo sbaraglio per le Praterie come se niente fosse! Mi hai salvato! Il minimo che possa fare è offriti qualcosa di ugualmente importante in cambio e si dia il caso che io e i miei compagni abbiamo deciso di arrivare tutti quanti alla finale assieme e lì pugnalarci a vicenda. Non alle spalle. Guardandoci negli occhi. Senza rancore. E poi siamo una manica di semidei, vedrai che ti divertirai!» e per rimarcare il concetto l’afferrò per un polso e se lo tirò vicino, dandogli poi una pacca sulla spalla e cominciando a camminare, riprendendo nel mentre anche a parlare a ruota libera.
«Quindi se sei uscito dai Campi di Pena perché sei così pulito? Voi guaritori oltre a ricucire la gente ricucite pure i vestiti? Sembra quasi che ti sia fatto una doccia. Cavolo, sono secoli che non mi faccio un bagno come si deva, con dell’acqua vera. Nei Campi Elisi c’è l’acqua ma solo nei fiumi e nei laghi. Voi avete fiumi di fuoco? O quello è solo lo Stige?»
Cade chiacchierava tranquillamente, di tutto e niente, senza neanche aspettarsi davvero una risposta da quell’angelo davvero curioso sotto troppi punti di vista.
Se solo fosse stato più attento, se solo l’avesse guardato per bene negli occhi, avrebbe visto il compiacimento puro che strabordava dalle sue iridi, avrebbe visto tutto l’impegno di cui necessitava per mantenere un sorriso cordiale e non lasciare che le zanne da predatore fuoriuscissero scoprendo il suo ghigno.
Voltandosi di poco Cicno scorse in lontananza una figura nera.
Le labbra tremarono prima di aprirsi finalmente in quello squarcio famelico che ricordava tanto il sorriso ferino del suo padrone.
Anche nella morte, nessuno poteva dire di no a Cicno il Crudele, anche se questo non aveva proferito verbo.
 

Seduto sul suo trono osservava ancora i giovani eroi infatuarsi, perdersi e cercare di realizzare i suoi desideri. Li vedeva ancora cercare di compiacerlo, di portargli grazie, onori, premi, di sdebitarsi anche solo per un suo sorriso.
Era di nuovo sulla cima del mondo, era di nuovo seduto tra i seggi dell’Olimpo. Ancora una volta, nelle sue mani, il destino di altre vite.
Cicno era un predatore, così come lo erano tutti i membri del suo nuovo branco.
E i predatori amano il sangue.
 


La luce crepuscolare parve farsi improvvisamente più debole, assorbita dal corpo alto e longilineo del figlio di Apollo.


Nessuno avrebbe più dimenticato che anche il Sole aveva il suo lato oscuro e che Cicno lo incarnava quasi al pari del suo odiato padre.













   
 
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