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Autore: Andy Black    19/11/2020    2 recensioni
Del resto, lui era un tipo che pensava molto.
Pensò che fosse vero. Pensò che pensasse troppo.
“Sì, forse è vero. Forse è davvero così.”.
Annuì, e sbuffò; odiava il fatto di non riuscire a lasciar sedimentare le cose, non era in grado di farsele scivolare addosso. Lui non andava avanti, quando una cosa lo turbava, e finiva per essere tormentato dai perché, dai come.
Dai se.
Ci annegava, nei se, lui.
Rimaneva così a lungo invischiato nei dubbi che finivano per risalire il suo corpo dal basso e saturare la luce nei suoi occhi neri, consumando visibilmente la sua attenzione.
In pratica, per gran parte di quel martedì di settembre, Devon aveva guardato il Tissot sul suo polso con molta insistenza tanto che, quando arrivò l’orario di chiusura della libreria, non gli pareva fosse davvero scesa la sera. Se ne accorse gettando lo sguardo fuori dalle vetrine, cercando di scavalcare con gli occhi l’alta pila di volumi che l’indomani avrebbe dovuto controllare e mettere a registro. Poi li avrebbe sistemati ordinatamente, sugli scaffali, o in colonna, per terra, come aveva fatto nell’ultimo periodo; pareva funzionasse: pareva che le persone, dall’esterno, si fermassero a guardare.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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MURALE

 
Era un martedì di settembre estremamente torrido. Il millenovecentonovantasette si era appena portata via Maria Teresa di Calcutta e Devon, quasi contemporaneamente, si era sentito fuori luogo.
Si guardava attorno, si vedeva solo e troppo differente dalle persone che gli camminavano davanti. Spesso, addirittura, non riusciva a capire cosa dicevano; era così chiuso in se stesso che dalle loro bocche pareva uscissero solo ronzii sinistri e rumori ovattati. Qualcuno poco sovente entrava nella sua libreria e finiva per chiedergli informazioni ma lui restava zitto, immobile, a guardare i suoi pensieri come linee luminose che volavano rapidi e orbitavano attorno ai ricordi.
Ed era strano, perché Devon non era un viaggiatore.
I suoi non erano voli pindarici, lui non era un sognatore; si limitava a spegnere la testa, riempiva le orecchie d’ovatta e rimaneva in piedi fino a quando non si ricordava che sì, lui era un adulto, con delle responsabilità, e che quindi doveva riempire il piatto che avrebbe mangiato a fine giornata.
Comunque, si diceva, quello era un martedì di settembre estremamente torrido, il ventilatore era rotto anche se non mancava molto all’orario di chiusura. Era seduto sul suo sgabello preferito, l’unico col cuscino del sedile ancora integro. Gli altri erano consumati, il ferro del telaio finiva per formare lividi scuri sulle cosce e sulle natiche e i vestiti venivano ricoperti di spugna giallastra, sporca e indurita. Aveva finito, anche quella volta, per perdere lo sguardo tra i nuovi libri di Steven King da ordinare sugli scaffali e un paio di vecchie edizioni de La Metamorfosi di Franz Kafka che erano poggiate proprio accanto alla cassa. Aveva letto quel libro diverse volte, nel corso dei suoi quarantatré anni, ma non aveva mai colto appieno tutte le sue sfumature. Riusciva ogni volta a cogliervi una chiave di lettura differente e la cosa lo stupiva. Del resto, lui era un tipo che pensava molto.
Pensò che fosse vero. Pensò che pensasse troppo.
Sì, forse è vero. Forse è davvero così.”.
Annuì, e sbuffò; odiava il fatto di non riuscire a lasciar sedimentare le cose, non era in grado di farsele scivolare addosso. Lui non andava avanti, quando una cosa lo turbava, e finiva per essere tormentato dai perché, dai come.
 
Dai se.
Ci annegava, nei se, lui.
 
Rimaneva così a lungo invischiato nei dubbi che finivano per risalire il suo corpo dal basso e saturare la luce nei suoi occhi neri, consumando visibilmente la sua attenzione.
In pratica, per gran parte di quel martedì di settembre, Devon aveva guardato il Tissot sul suo polso con molta insistenza tanto che, quando arrivò l’orario di chiusura della libreria, non gli pareva fosse davvero scesa la sera. Se ne accorse gettando lo sguardo fuori dalle vetrine, cercando di scavalcare con gli occhi l’alta pila di volumi che l’indomani avrebbe dovuto controllare e mettere a registro. Poi li avrebbe sistemati ordinatamente, sugli scaffali, o in colonna, per terra, come aveva fatto nell’ultimo periodo; pareva funzionasse: pareva che le persone, dall’esterno, si fermassero a guardare. Certo, pochi entravano: rimanevano tutti dietro quel vetro doppio e asfissiante che divideva la libreria dal marciapiede del palazzo che faceva angolo tra Alexander Street e la centoventicinquesima. Del resto, proprio oltre quelle vetrine, c’era il violento Bronx
Sospirò, ma forse più che un sospiro fu uno sbuffo, fatto stava che liberò i polmoni dall’ansia che lo stava assalendo. Come ogni sera, meticoloso, prese i guadagni della giornata ma quella volta decise di tenere quelle poche banconote strette tra le mani e di non infilare i soldi in tasca. Si girò e sistemò lo sgabello, il suo sgabello, nello spazio che si era ricavato tra le due librerie che aveva alle spalle. Quella di destra manteneva pesanti tomi sulla storia europea, mentre quelli a sinistra coloratissimi volumi per bambini.
Rimase a guardare i colori, si perse nei ricordi e pensò a quando, sedici anni prima, assieme ad Annie aveva deciso di trasformare la vecchia bottega da barbiere di un altrettanto vecchio Curtis Jones in un luogo di cultura. Sorrise, Devon, ripensando a quanto giovani fossero lui e sua moglie, quando avevano alzato la saracinesca per la prima volta. Ricordava il profumo delle pagine dei primi libri che avevano aperto, e il sorriso di Annie, e i suoi lunghi capelli ricci, rossi come rame appena filato. Quando era felice i suoi occhi si addolcivano, nascondendosi dietro le palpebre. Gli zigomi le si riempivano, e le efelidi quasi le scoppiavano sul viso.
Era lei, quella attenta, tra i due.
Lui si limitava a parlare coi clienti, a consigliare. Del resto lo s’intendeva dopo pochi secondi, lui era quello sensibile tra i due. Devon amava leggere, stare in silenzio, in disparte, a guardare il cielo, disegnando con la fantasia oggetti improbabili tra le nuvole.
Spesso lo faceva anche con le stelle.
Quella sera, quel martedì di settembre, Devon sarebbe salito sul tetto e avrebbe guardato le stelle, proprio come faceva quando lei gli stava ancora accanto. Pensò che fosse incredibile come l’assenza di quella donna facesse più rumore della sua stessa risata.
Coi ventisette dollari d’incasso nella mano destra e le due copie de La Metamorfosi nella sinistra, abbassò l’interruttore e vide le luci spegnersi pian piano. Negli occhi però rimase un bagliore che stentava ad abbandonarlo e che quasi lo accecava. Mosse piccoli passi verso la parte del negozio illuminata dai lampioni esterni, quindi uscì, tirò giù la saracinesca e sospirò.
Tutt’intorno c’era solo silenzio. Di tanto in tanto una Lincoln s’alternava a una nuovissima Toyota Prius; l’ultima che aveva visto gli era sfilata silenziosa davanti senza che lui se ne accorgesse.
Casa sua era proprio dietro l’angolo. S’avviò, cominciando a guardare in alto, verso il cielo, un po’ confuso, ancora abbagliato dalle luci dei neon, quindi, come ogni sera, attraversò la strada.
Guardò solo a destra, che da sinistra non gli parve di sentire nessuno, che se fosse passata un’altra Prius quella l’avrebbe preso in pieno.
Dicevamo, quel martedì di settembre, quella torrida sera di quel millenovecentonovantasette, all’esterno della libreria, Devon attraversò la strada e da lontano vide il volto smunto del senzatetto che tutti i giorni incontrava prima di rincasare.
La prima cosa che notava di lui, ogni giorno, erano i calzini: di spugna, alti, forse troppo bianchi per appartenere a un uomo che dormiva per terra, accanto a una bastardina dalla coda lunga con la quale condivideva ogni morso di pane.
Bogdan, si chiamava. Era albanese.
Devon non sapeva come mai si trovasse a New York, e non aveva mai perso troppo tempo a chiederglielo. Si limitava ad avvicinarsi a lui, a guardarlo educatamente, ad accarezzare Nancy e a lasciargli qualche spicciolo nella coppola rovesciata che aveva davanti. Anche quel giorno, indossava il suo gilet verde acido, macchiato sulla parte sinistra, non riusciva a capire di cosa, e il paio di pantaloni che dovevano appartenere a qualche abito un tempo costoso, ora però stracciato sulle ginocchia.
Quando lo guardava, la prima cosa che l’uomo pensava era che il colore della sua pelle fosse piuttosto strano. Bogdan non era bianco, ma neppure mulatto. Era come se fosse perennemente abbronzato.
Un po’ come la gran parte degli uomini balcanici.
Insomma, quel martedì di settembre del novantasette, quella torrida sera dopo la chiusura della libreria, Bogdan salutò Devon sorridendo gioviale nonostante gli mancassero un paio d’incisivi.
- Salve, uomo gentile. – gli disse quello, seduto sul cartone consumato di un frigorifero Indesit rubato dal retro del negozio di elettrodomestici che si trovava su Morris Avenue. Poggiava la schiena su di un lampione della luce dalla lampada fulminata.
- Buonasera, Bogdan... – aveva esordito Devon, detergendosi il sudore della fronte con la manica della camicia. - Com’è andata, oggi?
Gli occhi del libraio erano visibilmente stanchi.
- Tutto bene. – rispose di contro l’altro, col suo inglese imbastardito. – Quei libri sono per me?
Lui annuì. – Uno. Sono uguali. L’altro è per me. Leggilo, - disse, porgendoglielo. - È molto interessante.
Le mani nodose del clochard afferrarono le pagine ingiallite di quel piccolo tomo, poi i suoi occhi di ghiaccio lessero il titolo.
- Le metamorfosi… - fece, dubbioso. – Kafka.
- Franz Kafka. Un autore boemo.
- Boemia. Vicino all’Albania… - annuì Bogdan, e lo fece anche Devon, sorridendo.
– Parla della solitudine e delle difficoltà che ne derivano. Ma io ci vedo insita la tematica del cambiamento, e di come non sempre sia semplice accettarlo. Di come addirittura faccia schifo, delle volte…
Bogdan pronunciò il grosso labbro inferiore e annuì, confuso.
- Cosa significa insìta?
Devon ridacchiò, più stanco che divertito. – Nulla d’importante. – disse poi, abbassandosi e posando nella coppola tutti i ventisette dollari d’incasso di quel giorno. Non ebbe neppure voglia di vedere lo sguardo stupito del clochard, incredulo, mentre lo ringraziava. Lui si era già voltato, era tornato dall’altra parte della strada e aveva girato l’angolo.
Sospirò e in un attimo, quel martedì di settembre, Devon si ritrovò davanti al portone di casa sua. Cercò le chiavi, trovò le chiavi, usò le chiavi, poi il cancello cigolò sinistro e produsse un’eco stridula e agghiacciante nell’androne del palazzo. Lui viveva all’ultimo piano, il quinto, di quell’edificio costruito quasi per caso, nel South Bronx.
Lì le persone non erano sempre educate come lui, o Annie; nessuno portava i soldi a Bogdan, o un po’ di cibo per la bastarda dalla coda lunga.
Scrollò quei pensieri dalla testa, quindi sbuffò e accese la luce nei corridoi. Un filo d’aria fresca attraversò l’intero corridoio fino alla scala A, quella di destra, portando con sé la puzza di chiuso che ormai viveva tra le porte di mogano nero e la moquette infeltrita poggiata sui pavimenti.
Salì i gradini, silenzioso e lascivo, poggiava un passo dopo l’altro, respirava pesantemente e aspettava che quel martedì di settembre diventasse un giorno qualunque della sua vita, o della vita di qualcun altro.
Che poi era la stessa cosa.
 
Si chiuse la porta alle spalle in maniera delicata. Quella rispose con uno scatto sordo della serratura e basta, senza disturbare ulteriormente le lancette dell’orologio, che nel silenzio di quella casa imperavano come il buio all’interno degli armadi di Annie, pieni ancora dei suoi vestiti.
Forse avrebbe dovuto mangiare, Devon, quel torrido martedì di settembre del novantasette, che almeno avrebbe guardato le stelle con la pancia piena.
Invece no.
Invece posò le chiavi di casa sul tavolo e, stringendo soltanto il libro di Kafka tra le mani, uscì nuovamente, salendo l’ultimo piano di quel palazzo che puzzava di chiuso e trovandosi sul tetto, lontano dalle luci dei lampioni, dai rumori dei motori delle auto e del vociare della brutta gente, che più buio si faceva e più trovava il coraggio per mostrare il proprio volto, tagliato dalle lame delle scelte poco sagge.
Devon invece ne aveva fatte, di scelte sagge, anche se forse aveva sbagliato a decidere di tornare a vivere dov’era cresciuto. Quel martedì di settembre, di quel novantasette che un po’ torrido lo era stato dall’inizio della primavera, avara di piogge tranne che ad aprile (che pioveva sempre un po’ di più ad aprile e non riusciva mai a spiegarsi il perché), beh, proprio quel martedì di settembre Devon aveva capito che fosse tutta colpa sua.
Soho sarebbe stata meglio.
Forse anche Tribeca o Nolita. L’Upper East Side non se lo sarebbe potuto permettere. Sognava il Queens, in realtà, ma non lo avrebbe mai ammesso. Invece aveva scelto di rimanere lì, dove suo fratello Marcus era rimasto ucciso, dove suo padre era stato arrestato per vendicarlo e dove sua madre aveva faticato fino all’ultimo giorno della sua vita da schiava per farlo studiare e per tenerlo fuori dalla violenza che ogni giorno bagnava quelle strade come onde di sangue sulla battigia.
Quella povera donna c’era riuscita: Devon aveva studiato filosofia e al posto delle catene e dei denti d’oro aveva indossato le camicie di lino e gli occhiali da lettura con la montatura leggera.
Devon aveva conosciuto Annie quasi subito dopo essere uscito dal college e, spinto da quella ragazza dell’Indiana con gli occhi pieni dell’oro dei campi di grano, in mezzo ai quali quella era cresciuta, aveva deciso di tornare a casa, più grande, meno manipolabile e meno solo, per aprire quella libreria.
 
Quel martedì di settembre era torrido, lo si era già detto parecchie volte, ma sul tetto di quel palazzo di tanto in tanto un filo d’aria fresca sfuggiva alla morsa dell’afa e dava un po’ di respiro.
Col libro tra le mani, si avvicinò al cordolo e vi ci sedette.
Inspirò, pulì i polmoni dalla fuliggine di quella giornata senza colori vividi e aprì una pagina a caso. E lesse di Gregor Samsa, l’uomo diventato uno scarafaggio, che a poco a poco non riuscì più a far capire alla sua famiglia quanto li amasse e quanto gli dispiacesse ciò che era successo.
Leccò la punta dell’indice destro, riprese a leggere e, come ogni volta, sentì l’angoscia di Gregor Samsa serpeggiargli nel ventre. Quando la metamorfosi avvenne, l’uomo non riuscì più a parlare e si trasformò in uno scarafaggio, e tutta la sua famiglia cominciò a vergognarsi di lui.
Gregor Samsa non riusciva più ad esprimersi.
Gregor Samsa viveva rinchiuso, perché nessuno doveva vederlo.
Gregor Samsa non serviva più a nulla.
Nessuno avrebbe più dato amore a Gregor Samsa.
Chiuse il libro all’improvviso, Devon, poi sospirò e cercò di buttare fuori quel macigno che gli si era poggiato sulla bocca dello stomaco. Sapeva di essere lì per guardare le stelle, e non per leggere per l’ennesima volta quel libro, e non riusciva a spiegarselo, ma solo quelle parole lo facevano sentire compreso e appagato.
Solo leggere di quell’uomo così schiacciato dalle apparenze riusciva a farlo riconnettere con la propria vita. Scappava da quel mondo e si rintanava nella sua bolla, per riuscire a guardare all’esterno con lucidità. Troppa lucidità.
Quel martedì di settembre, ormai lo si era capito, era torrido, e lui decise di sbottonare leggermente la camicia; nessuno lo avrebbe visto, se non il manto di stelle accese che aveva sulla testa. Alzò il mento, perse gli occhi nel vuoto della volta nera e, come faceva ogni volta che si perdeva, si cercava lì.
Sospirò, sentì la forza venirgli meno nelle braccia e nelle gambe e, con la faccia sempre rivolta verso il cielo, si sedette per terra. La testa poggiava sul cordolo, proprio accanto a quel libro che aveva consumato.
Percepiva il cuore battere sempre più lentamente, come se si stesse fermando, mentre il calore che provava spariva gradualmente. Il rumore della città fu messo da parte, per un timido istante, e Devon rimase da solo con se stesso. Si vedeva nello specchio della notte appena scesa, mentre la stella polare riluceva dritto davanti a lui, come a mostrargli la direzione. E su quella tavolozza sporca di diamanti ricordò di quella sera sul patio di casa sua, lontani da New York, dove il vicino di casa si chiamava Ezekiel e abitava a quasi due miglia da lei.
Erano seduti su dei gradini di legno, un po’ consunti, che lui aveva riparato qualche anno prima. Entrambi avevano alzato il volto in cielo, mentre lei gli si aggrappava al braccio, poggiandogli la testa sulla spalla.
Era abituata a quello spettacolo, lui no. Quindi decise d’insegnargli qualcosa.
 
- Indica il nord.
- La stella polare indica il nord?
- Sì, omone. Se riesci a capire dov’è la stella polare poi diventa facile orientarsi.
- Un po’ come se fosse un faro per i marinai.
- No. Il faro ti aiuta a non schiantarti sugli scogli.
- ...
- Cosa c’è da ridere?
- Non sto ridendo. Continua.
- Stupido. Le stelle non stanno mai ferme. Girano, ma la stella polare resta sempre lì. Quindi impara a riconoscerla.
- E come si fa?
- Cerchi l’orsa minore.
- Credi che se sapessi trovare una costellazione nel cielo avrei problemi a trovare una singola stella, donna?
- Credo che sia più facile trovare la macchina in un parcheggio avendo un punto di riferimento. E poi la conosci, l’orsa minore…
- Baby, vengo dal Bronx. Da me, Orsa Minore è il nome di una prostituta senza denti e col reggiseno strappato. Efficiente, però.
 
Annie poi rideva, quando lui rimarcava le proprie origini in quel modo.
 
- L’orsa minore è lì. Vedi, quel rombo con la coda.
- È… è palesemente un aquilone.
- Fa lo stesso. Quella è l’orsa minore.
- E la stella polare dov’è?
- È l’ultima punta della coda.
- La coda?
- Il filo dell’aquilone.
- Ah, va bene. Quindi è quella lì.
- No, omone, ho detto l’ultima.
- Ma è quella, l’ultima.
- No. Quella è la penultima. L’ultima è più sopra.
- … oh. Va bene.
- Ora hai capito?
- Sì. La punta della coda dell’aquilone è...
 
- … è la stella che orienta i marinai… - sussurrò, guardando ancora in alto.
Lì, sul tetto del suo palazzo, non c’erano tutte le stelle che aveva visto in Indiana ma poteva vedere distintamente l’orsa minore. Tuttavia, d’improvviso, si rese conto di non vedere più la stella polare.
Eppure era la coda dell’aquilone, glielo aveva insegnato Annie quella sera sui gradini che aveva riparato, davanti ai campi di grano che frusciavano dopo ogni soffio di vento.
Lo ricordava perfettamente, lo aveva anche fatto altre volte, ma quel giorno lui era lì e non trovava più la sua stella polare.
 
Poi capì.
 
Senza direzione, si sorprese a guardare ciò che aveva attorno. Quel tetto era desolato, e lui era con la fame nel cuore. Aveva gli occhi di chi ormai non trovava più punti di riferimento.
Quello stesso martedì di settembre, senza Madre Teresa di Calcutta e con ancora più di tre mesi da sottrarre a quel novantasette maledetto, Devon si rese conto di non trovare più la sua stella polare.
Provò dolore, quasi subito.
Si sollevò da terra che non si era reso ancora conto di star piangendo copiosamente. Guardò le sue mani nodose, nere come la notte che aveva sulla testa, come il vuoto che aveva nel petto, quindi si sporse oltre il parapetto, e rivide il corpo senza vita di Annie.
Rivide gli uomini che l’assalirono, rivide il sangue macchiare il marciapiede, rivide la vita abbandonare lentamente l’oro dei suoi occhi e poi sentì il corpo muoversi da solo.
Superò le barriere, salì sul cornicione e si lasciò cadere, superando il quinto piano e liberando finalmente lo spirito da quelle catene.
 
*
 
Al quarto piano Jamal era nella sua stanzetta. La luce dei lampioni, all’esterno, non riusciva ad attraversare le doppie tende di raso color crema. La scrivania alla quale era seduto era illuminata soltanto dalla debole lampadina dell’abatjour. Il bambino graffiava la superficie della carta con la sua matita, sotto consiglio di sua madre, che dopo avrebbe controllato che nella sua lettera non vi fossero errori. Davanti a lui, nella penombra, imperava il grande poster di Micheal Jordan, con la maglia dei Chicago Bulls.
Sentiva sua madre nell’altra stanza, mentre urlava con la cornetta attaccata all’orecchio, come faceva quasi ogni giorno, e quasi ne era dispiaciuto, ma lui continuava a stringere con vigore la matita e a calcare la grafia spigolosa; pensò per un attimo a Micheal, a quando avrebbe letto la sua lettera. Lui scriveva ancora, ignorava le urla, voleva diventare ricco e famoso come il suo eroe, per poter aiutare la mamma coi soldi. La mamma aveva sempre problemi, coi soldi; da quando aveva perso il lavoro della mattina non compravano più il gelato, e soltanto ogni tanto raggiungevano Central Park, per giocare e correre.
Prima lo facevano più spesso.
Pensò che forse anche Micheal Jordan da piccolo avesse cercato sul dizionario la parola sfratto, senza capire cosa significasse. Qualcosa poi lo distrasse, alzò la testa e vide un’ombra cadere rapida oltre le tende.
 
*
 
Al terzo piano, il respiro di Monica era pesante. Sentiva le mani calde di Jerome avvolgere il suo corpo, stringerla e tirarla a sé, sentendo la frizione dei loro corpi affamati che si cibavano l’uno dell’altro, attirandosi e poi respingendosi, così, stesi sul fianco, sul materasso scomodo del letto di quella donna dalle treccine bionde.
Ormai accadeva già da qualche mese; lui era sposato, sapevano che non avrebbero dovuto, ma lui non poteva stare lontano da quel corpo e lei non riusciva a dire basta a quel senso di completezza che riempiva quando, una volta finito tutto, lui la stringeva a sé, la baciava, le diceva che era la donna più bella del mondo e che prima o poi avrebbe lasciato Tamara per vivere assieme quella favola.
- Vai… - aveva sussurrato quella, con la poca voce che l’era rimasta, mentre quella danza la sfiniva, mentre il fiato di Jerome e i suoi baci le aggredivano il collo. Sentiva il calore, e percepiva l’estasi che il suo corpo assaggiava a poco a poco.
Toccarono il paradiso poco dopo, entrambi.
E nessuno dei due si accorse dell’uomo che cadeva, oltre la finestra.
 
 
*
 
 
Al secondo piano, Marlon aveva chiuso delicatamente la porta di casa, senza sbatterla, per non far rumore. Non gli piacevano i rumori forti.
Silenzioso, era andato in camera e aveva scalzato gli scarponi. Aveva sospirato profondamente, poi aveva lavato le mani e la faccia, prima di entrare in cucina.
Sua moglie era ai fornelli, di spalle, mentre fischiettava una canzone di Jocelyn Brown. Sullo sfondo c’erano quelle piastrelle verdi, unte di grasso, che odiava. Avevano discusso un po’, quando le avevano acquistate.
- Sono orribili, Shawna.
- Senti, coso, in cucina devo starci io, - aveva detto. – quindi lascia scegliere me.
Era quasi sempre stato così: lui ragionava, lei lo affiancava sulla corsia di marcia da sinistra, lo tamponava col suo carattere forte e lo depistava con una spallata.
E così era finito a guardare il culo grasso di sua moglie con quelle mattonelle verdi sullo sfondo. Sospirò. Inizialmente s’era reso conto che avere accanto una persona che decidesse per entrambi fosse ciò che gli servisse, ma poi cambiò idea ignobilmente, perché non ne era più soddisfatto; guardava tutte le sere il volto di quella donna che avrebbe volentieri rinnegato, se solo ne avesse avuto il coraggio.
Si sedette al tavolo, mormorando un “buonasera” non del tutto convinto. Shawna era rimasta immobile, dandogli le spalle, mentre i fornelli sfrigolavano.
Non gli rispose.
Stringeva le cosce, strette in quella tuta azzurra di poliestere che la faceva sembrare soltanto più grossa. Sospirò ancora, lui, rimanendo in silenzio e guardando la sera che, oltre la finestra della cucina, aveva preso possesso del cielo.
- Che mangiamo?
- Hamburger. – aveva finalmente detto quella, apatica, voltandosi e mostrando lo spettro del volto che aveva vent’anni prima, quando lui aveva perso la testa per quella folle cassiera del 7/11. Dopo un figlio e un matrimonio lungo e spesso tortuoso, il suo viso era più piatto e largo, e gli occhi avevano perso quella luce che illuminava tutto. Si avvicinò al tavolo sbuffando, quasi gli gettò il piatto davanti tanto che qualche patata gli cadde davanti, sulla tovaglia. Lui non si scompose, la rimise dentro e addentò un pezzo di carne, stracotto, perché lei non sapeva cucinare, ed entrambi lo sapevano ma era una di quelle cose su cui avevano discusso per anni.
Avrebbe voluto gettare quella merda nella spazzatura alzarsi e andare direttamente a dormire ma poi, nel silenzio disturbato soltanto dalle pale del ventilatore sulle loro teste, videro qualcosa sfilare rapido, dall’alto al basso, proprio oltre la finestra.
Gli occhi di Shawna si accesero all’improvviso, per poi celarsi rapidamente dietro le palpebre.
- Marlon.
- Che era?
- Devon...
- Cosa?
- Devon Johnson. Del quinto piano. Si è buttato di sotto.
 
 
*
 
 
Al primo piano la porta di casa si era appena chiusa, e Richard aveva sentito i passi leggeri di sua moglie percorrere il corridoio. Pochi secondi dopo l’aveva vista poggiarsi allo stipite della porta. Aveva il volto stremato e indossava ancora la divisa gialla e rossa del fast food in cui lavorava.
- Amore… eccomi a casa. – aveva detto, scalzando le scarpe e poggiando le piante dei piedi sul pavimento fresco. – Come stai?
- La giornata è andata bene.
- Sophie? – aveva chiesto ancora, liberando i capelli dalla crocchia che raggruppava le sue lunghe treccine.
- L’ho fatta mangiare. – rispose quello. La guardò e capì che non fosse stata una delle migliori giornate, quella. Aveva avvitato l’applique al di sopra della culla della piccola, in piedi su di una sedia presa dalla cucina. Scese con un balzo e si avvicinò alla donna, dandole un bacio sulle labbra. Sentì l’odore di frittura che impregnava i vestiti della donna.
- Com’è andata oggi? – le chiese poi.
Rebecca aveva sospirato e s’era abbassata a prendere le scarpe, poi si era voltata ed era sparita nel corridoio buio, prima di rispondere.
- Di merda. Un cliente oggi mi ha accusata di avergli infilato un cazzo di capello nel panino. La fai addormentare tu?
L’uomo sorrise e si voltò andando da sua figlia e abbassandosi su di lei, poi la raccolse con una delicatezza che non pensava di avere. Temeva di poterle fare del male, anche solo involontariamente.
- Non essere volgare davanti alla bambina… - aveva ammonito lui.
Sentì poi la porta del bagno chiudersi, e il rumore dell’acqua della doccia riempire il silenzio.
Lui sospirò. Sorrise dolcemente e poggiò la testa della piccola sul suo petto.
Emanava un odore dolce, che sapeva di buono.
Sorrideva, col cuore pieno di gioia, mentre Rebecca aveva cominciato a canticchiare Honey di Mariah Carey, che avevano sentito qualche giorno prima alla radio. Aveva una voce bellissima, sua moglie, Richard glielo ripeteva in continuazione. Prese a cullare Sophie ondeggiando leggermente sul posto, finché non vide il suo riflesso davanti allo specchio, accanto alla finestra.
E lì, si era appena reso conto che, da orfano che era, stava riuscendo a costruirsi una famiglia; sentiva le lacrime premere per uscire, pensava che stava stringendo tra le braccia qualcuno che aveva il suo cognome e la cosa lo inorgogliva. Osservava le manine marroni, gli occhi scuri e la testa ricoperta di capelli neri e ispidi. L’espressione della piccola s’acquietava a mano a mano che i movimenti del suo papà continuavano, le palpebre si facevano più pesanti fino a quando non le chiuse.
La poggiò di nuovo nella culla, ripromettendosi di proteggerla da tutti i mali del mondo.
E poi vide un uomo cadere dall’alto, oltre la finestra, proprio accanto a lui.
 
 
*
 
 
Bogdan respirava profondamente. L’asfalto era stato rovente per tutta la giornata ma con lo scendere della sera qualche soffio d’aria aveva donato un po’ di frescura al suo corpo. Le guance rosse ancora erano bollenti e qualche goccia di sudore gl’imperlava la fronte.
Era rimasto immobile per diverse ore, con la schiena poggiata al palo della luce numero 2807 della città di New York e chi passava poteva sentirlo mentre parlava di dio con Nancy, la bastarda dalla coda lunga.
- Io rimango tutto il giorno a pregare che ci venga a salvare, – diceva, - a me e a te. Ma con lui il problema è sempre lo stesso, che non sai quando arriva, né se ti sente davvero. Non sai neppure se c’è. Ti devi fidare e basta…
Nancy l’aveva guardato perplessa, coi due grandi occhi neri, mentre l’altro accendeva una sigaretta di fortuna fatta coi resti di mozziconi trovati per strada e carta di giornale. Usò uno zippo quasi scarico, tirò e sentì l’inchiostro del New York Times grattargli la gola. ma proseguì il discorso dopo un colpo di tosse secco, quasi doloroso.
- Che poi… ti devi fidare di cosa? Fidarsi di dio è così scomodo che chi lo fa sembra contemporaneamente un eroe e uno stupido.
Guardò poi i soldi che l’uomo gentile della libreria gli aveva dato, quella calda sera di settembre, di quel millenovecentonovantasette, e sospirò.
- I soldi non me li ha dati dio. No… no, Nancy, me li ha dati quell’uomo. Dio mi ha fatto nascere dove c’era la guerra, poi mi ha dato te… forse era meglio che non ci fossimo mai incontrati… - disse, ridendo di gusto. Affondò la mano nel pelo ruvido della bastardina e l’accarezzò.
- Forse ora non saresti qui nemmeno tu. Sai? Immaginati, in una bella casa, grande, con il giardino. Sarebbe bello, sì. Mangeresti bene, come i cani che hanno i collari e a cui raccolgono la merda da terra. Invece ci dobbiamo accontentare.
Nancy lo guardava confusa.
- Forse dio è lì... quando ti accontenti trovi dio. Ma poi, che stronzata…
Avvicinò ancora quella sigaretta sporca di polvere alle labbra e gettò nel corpo il fumo insano, che gli solleticò la base dei polmoni e ne rimase incastrato. Guardò in alto, le finestre della palazzina di fronte erano quasi tutte aperte e spalancate, per far entrare un po’ d’aria fresca.
Poi continuò a parlare.
- Sì! – esclamò poi. – È una stronzata! Trovi dio solo se ti privi di qualcosa! Ti arrendi e diventi felice! Ma se ti arrendi, perché cazzo dovresti essere felice?! Hai perso! Sei un fallito! È come dire “andate a farvi fottere tutti, ora non me ne importa più!” e poi trovi dio. Non ha senso…
Respirò profondamente, aspettò che una piccola brezza gli baciasse il viso e poi chiuse nuovamente gli occhi.
 
Infine, quella sera di quel torrido martedì di settembre, del novantasette, sentì un rumore fragoroso di lamiere che si piegavano e di vetri che s’infrangevano, rotolando poi sull’asfalto.
Riaprì le palpebre, con l’antifurto della Toyota Prius parcheggiata di fronte che urlava a squarciagola che qualcosa fosse successo. Intanto, il corpo del gentile uomo della libreria, più leggero di quei ventisette dollari, era ormai disteso su Alexander Street.
- Alla tua, uomo gentile… - disse quello, alzando la mano verso l’alto.
   
 
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