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Autore: Tenar80    19/11/2020    2 recensioni
Ten è, almeno in apparenza, un giovane professore universitario. Victoria è, almeno all'apparenza, la pupilla di un generale. Entrambi indossano una maschera da cui dipende molto più della propria vita. Forse è questo ad attrarli così tanto l'uno verso l'altra...
Dal testo: "La semplicità con cui mentiva impensieriva un poco Ten, ma lui stesso lo faceva, ogni volta che gli chiedevano del suo passato. Questo come lo poneva nei confronti di una ragazza che aveva la stessa propensione alla dissimulazione? La sua era necessità, Victoria sembrava piuttosto divertirsi. Questo escludeva che fosse necessità?"
Questa fic è autoconclusiva, ma fa parte della serie steampunk "L'assedio degli angeli – preludi"
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'assedio degli angeli – preludi'
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Benvenuti o bentornati nell'universo steampunk de "L'assedio degli angeli"!
Questa fic fa parte di una serie composta da quattro racconti. Ognuno di loro è indipendente e autoconclusivo, ma, almeno nella mia testa, l'insieme dovrebbe essere più della somma delle parti. 

Non avete letto Racconto di Fiorile? Male! Correte a farlo! 
Se non avete tempo e/o voglia in realtà non fa niente. Ecco qualche info per orientarvi. Siamo in un mondo steampunk simil vittoriano e più precisamente nella sua capitale del suo più vasto Impero. L'umanità vive sotto la costante minaccia di attacchi da parte degli angeli, creature proveniente da una dimensione adiacente. A combattere gli angeli c'è un corpo militare scelto, le Ali Nere, il cui equipaggiamento, realizzato a partire dai corpi degli angeli uccisi, permette di scontrarsi con i nemici nella loro dimensione. In realtà nessun essere umano sa molto degli angeli, chi siano, cosa vogliano e perché cerchino di distruggere il mondo umano. Alcuni esseri umani nascono con residui di ali o di corna, costoro sono definiti "impuri" e condannati a una vita da schiavi.

Avete già letto Racconto di Fiorile? Bentornati!
Dal primo racconto sono passati più di dieci anni. Scopriremo qui come se la sia cavata Victoria e come questi dieci anni l'abbiano trasformata. Ogni racconto ha un punto di vista differente, che ci porterà a scoprire qualcosa di più di questo universo, ma Victoria sarà presente o almeno nominata in tutti e quattro.

Un grazie di cuore a tutti coloro che vorranno leggere o commentare



– Era questo il libro che stavi cercando?

    – Sì, potrebbe essere – rispose Ten, prendendo il volume che il collega gli stava porgendo.

    «Iconografia degli angeli nelle pievi del distretto della capitale».

    Era un volume raro, un’edizione di una cinquantina d’anni prima, con una copertina in pelle scura e, di sicuro, un apparato grafico di tutto rispetto. Certamente…

    – Ten, non sono riuscito a imbucarti in una festa esclusiva perché tu te ne stia a leggere in un angolo per tutta la sera! – protestò Carl.

    – Ma no, certo… – cercò di salvarsi il giovane professore, sistemandosi gli occhiali in un istintivo gesto di protezione.

    Ovviamente era proprio quello che avrebbe voluto fare. C’erano buone possibilità che i suoi sforzi degli ultimi due anni si concretizzassero in quel libro. Ma non poteva. Doveri sociali. Ovunque andasse, erano inevitabili. Senza un minimo di sorrisi e inchini, pur con tutto ciò che sapeva, non sarebbe mai entrato, lui, uno straniero sconosciuto, nell’università imperiale. Anzi, ancora di più che a Ji’Quin, dove aveva vissuto in precedenza, nell’impero era il complicato balletto delle relazioni sociali, più che il talento, a determinare l’avanzata di una persona. E Ten, lì come a casa propria, si sentiva, su quella musica, un pessimo ballerino.

    – Vieni, ti presento al padrone di casa – disse Carl, prendendolo per un braccio.

    Sospirando, Ten si lasciò trascinare nel salone illuminato a giorno dalle lampade a gas, nel pieno della folla.

    Se non altro, pensò, una festa in mezzo all’aristocrazia imperiale era un’esplosione di colore. 

 

    Dov’era cresciuto Ten il colore non esisteva, almeno non con quella infinita varietà di toni e sfumature. Il suo era un mondo senza sole, di toni scuri e improvvisi lampi di luce abbagliante. A volte, durante le feste, venivano create sinfonie di esplosioni luminose. Per quanto bellissime, non erano paragonabili all’avvolgente luce dorata che dalle lampade si rifletteva sui bicchieri di cristallo, alla policromia degli affreschi alle pareti, per non parlare dei toni dei velluti degli abiti delle persone che popolavano la sala. L’uomo che Carl gli stava indicando, ad esempio, aveva enormi favoriti candidi e indossava una giacca color vino scuro su una delicata camicia avorio. Ogni cosa nel suo abbigliamento, dai gemelli d’oro, alla catenella dell’orologio che spuntava da una giacca era un simbolo preciso in un linguaggio che Ten trovava tanto affascinante quanto alieno.

    – Conte Anderson, vi presento il professor Tenshi Kuroha, di Ji’Quin, esperto in storia degli angeli – stava dicendo intanto Carl.

    L’uomo dai favoriti candidi, una delle persone più ricche della capitale, in grado di finanziare le sue ricerche per i prossimi dieci anni, se lo avesse voluto, lo studiò attraverso il monocolo dalla montatura d’oro.

    – L’unica cosa che ci serve sapere sugli angeli è come ucciderli – grugnì.

    Non sembrava molto incline a finanziare la ricerca, pensò Ten.

    – Non si può combattere ciò che non si conosce – replicò il giovane professore, usando il proprio miglior tono conciliante.

    – Mah. Finché avremo Soilber alle Ali Nere, non abbiamo molto da temere.

    Ten abbassò il capo, perché non aveva senso criticare l’eroe dell’impero. Le Ali Nere erano il corpo militare preposto alla difesa dagli attacchi degli angeli e il colonnello Soilbeir ne era il comandante sul campo. Si mostrava raramente in pubblico, ma quando lo faceva, con la sua bellezza algida ed enigmatica, incarnava alla perfezione l’ideale dell’eroe. Senza contare il fatto che aveva un indubbio talento nell’uccidere gli angeli.

    – In realtà perfino le Ali Nere dovrebbero ascoltare le teorie del professor Kuroha – intercesse Carl. – Alcune spiegano…

    – Beh, se proprio ritenete, dopo che avrà suonato potrete parlarne con Delia Morozov – brontolò il conte, il cui interesse si era già esaurito.

    – Quella Delia Morozov? – chiese Carl.

    – Certo, chi altri potrei invitare a suonare a casa mia? E adesso, vogliate scusarmi.

    – Scusa… Chi è Delia Morozov? – chiese Ten, appena il conte fu uscito dal loro raggio d’azione.

    Carl, che dimostrava sui trentacinque anni, sei o sette più di lui, lo guardò come se avesse fatto una domanda inopportuna e sicuramente era così. Poi sospirò.

    – Continuo a dimenticarmi che sei di Ji’Quin. Delia Morozov è la moglie del generale Morozov, il comandante in capo delle Ali Nere. A parte questo, è stata una delle pianiste preferite dell’Imperatrice Madre e una senatrice, prima che vietassero alle donne la carriera politica.

    Ten aggrottò la fronte.

    La netta divisione tra i sessi che vigeva nell’Impero lo stupiva ancora di più del fatto che gli impuri potessero essere solo schiavi. Il fatto che con metà della popolazione umana si dovesse avere una condotta differente rispetto a quella che si doveva tenere con l’altra non cessava mai di destabilizzarlo. Le donne non potevano insegnare all’università, occuparsi di politica o combattere. Non ci si poteva intrattenere da soli con una donna di buona famiglia non sposata e anche con quelle sposate vi erano argomenti che non andavano assolutamente trattati. Era passato del tempo da quando aveva chiesto stupito dove fossero le donne in università, ma continuava a fare errori di cui Carl non si capacitava. Dopo tutto l’amico non poteva sapere davvero quanto lui fosse straniero…

    – Una persona famosa, quindi – riassunse.

    – Un grande talento e un pessimo carattere – precisò Carl. – Non c’è da stupirsi che l’unico che la sappia tenere a bada sia il capo degli uccisori d’angeli… In ogni caso vale di sicuro la pena di ascoltarla. Si è ritirata dalle scene quando io ero ancora un bambino e non ho mai avuto l’occasione. Vieni.

 

    Si trovarono un posticino tranquillo nella sala della musica, più piccola e adiacente al gran salone della festa. Le sedie erano già state predisposte a semicerchio intorno a un grande pianoforte a coda davanti al quale erano posizionati due sgabelli.

    – Una sonata a quattro mani, quindi – gli sussurrò Carl. – Mi chiedo chi la accompagnerà.

    La curiosità fu presto risolta.

    La signora ormai sui sessanta, magra e dritta come un palo, con l’espressione di chi trova tutto ciò che ha intorno di pessimo gusto ma è troppo educata per dirlo, non poteva che essere Delia Morozov. A sedersi accanto a lei fu una ragazza persino più alta e più magra della grande pianista. Ten si scoprì a guardarla, affascinato come non era mai stato da nulla, come il serpente ammaliato dal suono del flauto che aveva visto una volta in una fiera. La giovane aveva capelli di un biondo chiarissimo che portava intrecciati in una complicata acconciatura decorati da boccioli di rose blu, dello stesso colore dell’abito tempestato di brillanti. Eppure non c’era nulla di lezioso nel viso dall’incarnato eburneo che non degnò neppure di uno sguardo la sala, per concentrarsi immediatamente sullo spartito posizionato sul leggio. Ten rimase per tutta l’esecuzione a fissarne le mani eleganti che si muovevano su e giù per la tastiera. Era uno sciocchezza. Quante mani aveva visto, ormai? Aveva imparato a considerarle normali, pratiche in un mondo dotato di gravità e non di telecinesi. Eppure, ecco, le dita affusolate che schiacciavano tasti quasi dello stesso colore, che danzavano nel creare la musica, gli spiegavano d’un colpo le poesie che i suoi antenati avevano dedicato a quel mondo, in cui la bellezza appariva all’improvviso, abbagliante come un lampo in grado di incenerire il cuore.

    La giovane suonò soltanto un brano, per poi sedersi un poco discosta dalla propria maestra, mentre questa portava a termine l’esecuzione. Non era fatta per l’immobilità, pensò Ten. Una brava ragazza dell’impero sarebbe stata ferma, con lo sguardo basso rivolto alle mani tenute unite sul proprio grembo, in docile attesa. Non c’era nulla di docile in quella posa, che sembrava piuttosto quella di un rapace pronto a lanciarsi in picchiata all’apparire di una preda. Persino i suoi occhi avevano l’azzurro delle iridi del falchi pellegrini. Il giovane studioso scosse il capo. Era tutto nella sua testa. La giovane pianista era ferma e rispettosa esattamente come ci si attendeva da lei, messa in bella mostra dalla maestra, senza dubbio, perché i buoni partiti presenti le potessero chiedere di ballare. Delia Morozov le stava di certo facendo un favore. A vent’anni le ragazze dell’impero erano già quasi tutte sposate, ma lei sembrava più prossima ai venticinque. Ten si chiese come dovesse sentirsi una ragazza in quel sistema quasi di compravendita. Qualche mese prima aveva visitato con Carl una fiera in cui si vendevano impuri. Aveva scoperto che la maggior parte di loro veniva selezionata per le particolari caratteristiche estetiche, proprio come si fa con i cavalli o con i cani e aveva visto in gabbia bambini dalle deliziose corna ritorte che spuntavano tra i capelli, ragazzetti le cui gambe terminavano con degli zoccoletti. Quando si era trovato davanti a una bambina di forse sei anni dalle piccole, perfette ali ricoperte da piume nere, tenuta al guinzaglio come si fa con un animale di pregio, si era sentito male. Aveva accampato una scusa qualsiasi per fuggire via, ripararsi in un vicolo appartato e lasciare che il suo corpo esprimesse con conati di vomito un rifiuto che sarebbe stato pericoloso esplicitare in altro modo. Eppure, vendendo gli sguardi che inevitabilmente dagli uomini presenti nella sala venivano lasciato verso la ragazza, si chiese se fosse poi tanto differente la situazione di coloro che non erano schiavi.

 

    Quando il concerto finì e iniziarono le danze, Ten si trovò inevitabilmente solo. A livello intellettuale lo affascinavano i riti di corteggiamento dell’impero, con i balli e i convenevoli stereotipati, le conversazioni già prestabilite, la necessità, per gli uomini, di stabilire non tanto o non solo la gradevolezza di una possibile partner, ma anche il suo patrimonio e la sua spendibilità sociale. A livello personale la cosa non gli interessava e gli dava una vaga sensazione di disgusto, togliendogli tutto il piacere che, in circostanze diverse, avrebbe potuto provare per il ballo. Per Carl, ovviamente, quella era un’opportunità da non perdere e si era buttato nella mischia alla ricerca di una ragazza nubile di medio livello a cui risultare simpatico. Era il terzo figlio maschio di un industriale e, se voleva sperare di mantenere il tenore di vita a cui era abituato, doveva sposare in fretta una ragazza dalla ricca dote.

 

    La sala aveva un balcone, che, nella sera ancora fredda di primavera, era rimasto vuoto. Ten ci si sistemò con soddisfazione. Non soffriva il freddo e, per i suoi occhi, la luce che filtrava dal salone era più che sufficiente per leggere. Come aveva sperato, quel libro, che poi era l’unico motivo per cui si trovava alla festa, conteneva le informazioni che stava cercando. Doveva appuntarsi i nomi delle chiese da visitare e muoversi in fretta. Non era sicuro di essere l’unico impegnato in quella ricerca e non poteva permettersi di arrivare secondo.

    Immerso com’era nei propri pensieri, quasi non si accorse che qualcun altro era uscito sulla terrazza. Alzando gli occhi nel momento in cui girava pagina, Ten si rese conto che, appoggiata alla balaustra, c’era la giovane che aveva suonato con Delia Morozov. Ne intravedeva il viso, girato di tre quarti, inconsapevole della sua presenza. Non stava davvero guardando la città che si stendeva ai piedi  avvolta dai suoi perenni fumi, in cui le luci dei lampioni a gas e quelle delle case si riverberavano quasi spettrali, ma qualcosa di più distante, altrettanto vasto e spaventoso. In mano aveva un bicchiere che non era una coppa da champagne, quanto piuttosto  un panciuto bicchiere da cognac e, come se non ci stesse pensando davvero, ne bevve un lungo sorso. Lo appoggiò alla balaustra, si chinò e armeggiò un istante sull’orlo della gonna per estrarre finalmente una scarpa.

    – Maledetti aggeggi di tortura – mormorò, prima di gettare la calzatura all’indietro, senza guardare.

    Ten si ritrasse, per evitare di venire colpito da una scarpa che, tra punta in metallo e tacco, era una discreta arma da guerra. Afferrò l’oggetto al volo e pensava di essere stato silenziosissimo, ma la giovane si girò di scatto e Ten si trovò, imbarazzato, con un libro e una scarpa in mano, di fronte al bel viso sorpreso di lei.

    – Mi rincresce moltissimo, non era davvero mia intenzione…

    – Sono sicuro che non intendevate uccidermi con la vostra scarpa – sorrise Ten, considerando la calzatura. – E concordo che ci si possa voler infilare un piede dentro solo per espiare qualche grave peccato.

    La sua reazione riuscì a riportare una parvenza di sorriso nel viso pallido della giovane.

    – Non ho parole per scusarmi… Ero arrabbiata, ma non dovevate farne le spese voi, signor…

    – Ten… Professor Tenshi Kuroha, storico dell’università imperiale – si presentò lui, porgendole la scarpa.

    Dopo anni passati a studiare i rituali di corteggiamento dell’impero com’era possibile che si trovasse a interagire con la prima donna che lo avesse davvero colpito per interposta calzatura?

    – Chi avreste voluto uccidere con questo tacco, se non sono indiscreto? – chiese.

    Lei sorrise, riprendendosi la scarpa. 

    – Il figlio minore del conte, credo. Ha pensato che il modo migliore di corteggiare la tenuta di campagna del generale Morozov, che secondo lui dovrei ereditare, fosse calpestarmi i piedi per tre giri consecutivi di valzer.

    Era del tutto diversa dalle deliziose, impersonali bamboline con cui Ten si era trovato a interagire nelle rare occasioni sociali. Quasi provò pietà per il giovane rampollo.

    – Si dovrebbe avere più cura delle tenute di campagna che si desidera corteggiare – concordò.

    – E voi, cosa vi impedisce di unirvi alla caccia alla dote che sta avendo luogo là dentro?

    – Vivo nell’impero solo da due anni. Non sono abilitato come cacciatore e inoltre potrei non pestare piedi, ma non conosco abbastanza bene le danze dell’impero da evitare una brutta figura.

    – Credetemi, non potete essere peggio di certi elefanti ballerini che caracollano per la sala.

    Ten rise. Era la prima volta, da che alloggiava nella capitale, che rideva insieme a una donna. Le uniche con cui era lecito scherzare erano le cameriere e le inservienti, che però rispondevano alle battute con sorrisi forzati, obbligati dalla consapevolezza che quello era l’atteggiamento migliore. Una volta era stato invitato da Carl a un pic-nic con le sue due sorelle minori. Due ragazze deliziose che avevano parlato di stoffe, balze e ricami per tutto il tempo, interrompendosi solo per qualche commento malevolo su notabili della città che lui non conosceva o per lanciarsi in accurate descrizioni di quello che era il loro uomo ideale, il colonnello Soilbeir. La compagnia migliore, in quell’occasione, si era rivelato il piccolo cane ricciuto delle sorelle che, se non altro, non parlava. A sentire Carl, tuttavia, quel tipo di atteggiamento vacuo era proprio quello che ci si aspettava da una ragazza e a Ten era rimasto il dubbio che le fanciulle fingessero quella superficialità solo per non dispiacere al fratello. Le donne erano talmente addestrate a comportarsi come si richiedeva loro da diventare, quasi, esseri inconoscibili nella loro essenza.

    – Non conosco il vostro nome – disse Ten.

    – Victoria e, dal momento che questa sera Delia è di umore contraddittorio, sono presentata come Moroziva.

    Ten la guardò senza capire, fino a che la giovane colse la sua perplessità.

    – Si aggiunge ivo o iva a un cognome per presentare un figlioccio, un parente povero che si intende proteggere o anche un figlio illegittimo – spiegò Victoria. – A Delia piace far pensare che si accompagni alla figlia illegittima di suo marito.

    – Ma non lo siete.

    – No, non che io sappia.

    – Non credo di aver mai conosciuto una donna come voi, qui nell’impero, o come la vostra maestra.

    Victoria rise.

    – No, non credo.

    Poi lanciò una breve occhiata al salone.

    – Oh, no. Il figlio del conte mi ha individuato! Presto, venite a ballare con me, non può importunarmi se ho già un cavaliere!

    – Potrei pestarvi i piedi, non ho mai ballato un valzer!

    Perché l’idea lo riempiva di panico?

    – Beh, siete più leggero di lui, non sarà un dramma! 

    Poi nel viso di Victoria si dipinse un’espressione maliziosa.

    – Ma se danzerete bene potrete chiedermi un premio in cambio – aggiunse.

    E Ten, chiedendosi come esattamente fosse possibile, si trovò a condurre la giovane dall’abito blu nel salone. 

 

    Ten non aveva mai ballato un valzer e, come sempre, non aveva un’idea precisa su come andassero usate le mani, ma la musica era una delle poche cose che non lo destabilizzavano. La musica non è altro che una vibrazione che si propaga nell’aria. Aria e movimento erano le prime cose di cui aveva fatto esperienza al momento della sua nascita. Non era necessario conoscerle, bastava assecondarle. Condurre con sé Victoria, beh, quello era un altro discorso. C’erano delle difficoltà tecniche. Victoria era più alta di tutte le donne presenti nella sala e anche di parecchi uomini. Ten era nella media e la giovane lo sovrastava di mezzo palmo. La danza che veniva suonata in quel momento, invece, dava per scontato che la dama fosse più esile, potesse essere presa e fatta roteare, si abbandonasse sul braccio del cavaliere e poi venisse fatta rialzare. Victoria era, senza dubbio, una ballerina nata, si muoveva con ottimo senso del tempo, senza dare segni di affaticamento, ma era forte e tonica, tutt’altro che facile da trattare come delicata bambolina senza venirne sbilanciati. Il rischio non era tanto pestarle i piedi, quanto caderle addosso, con esiti disastrosi sul piano estetico quanto su quello sociale. Poi, c’erano gli effetti imprevisti. Trovarsi così vicino a quel corpo etereo, aspirarne il profumo floreale, sentirsi addosso quegli occhi allo stesso tempo così limpidi e così indecifrabili… Non era pronto per quello. Lo avevano avvisato, ma non era pronto. In quel mondo gli individui cambiavano. C’era un momento preciso, gli avevano confidato, in cui si avvertiva il mutamento, involontario, ma irreparabile. E Ten lo sapeva che per lui era quello. L’umanità aveva cessato per sempre di essere un mero oggetto di studio.

    – Vi devo una ricompensa, professor Kuroha – disse Victoria, quando il ballo fu terminato.

    Aveva gli occhi che brillavano come acqua di sorgente accarezzata dal sole e un delizioso colore rosato si era diffuso sulle sue guance.

    – Venite con me – disse Ten, d’istinto.

    Poi si rese conto che la sua frase poteva essere variamente fraintesa. Lui stesso non sapeva esattamente come intenderla.

    – Il prossimo decadì devo andare a visitare una chiesa a qualche ora dalla capitale per una ricerca – provò, cercando di mettere ordine nei suoi stessi pensieri. – La primavera sta iniziando, può essere una gita gradevole. Sarei onorato se mi accompagnaste… Insieme a chiunque vogliate portare con voi, beninteso.

    Anche se provava un terrore del tutto immotivato nei confronti di Delia Morozov.

    Per un istante Victoria lo fissò in silenzio e Ten ebbe tutto il tempo di chiedersi cosa avesse sbagliato.

    – Non posso darvi una risposta, non sono padrona del mio tempo – rispose infine Victoria. – Potrei poter venire, mi farebbe piacere, ma potrei anche non potere.

    Ten si strinse nelle spalle.

    La conosceva da due ore, non sapeva nulla di lei e lui più di tutti era consapevole della necessità della vaghezza, in alcune circostanze.

    – Noleggerò un calesse e me lo farò portare sul retro della facoltà di storia per lo scoccare della terza ora. Ne ne aveste la possibilità e il piacere, fatevi trovare lì.

   
 
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