Ciò
che si nasconde nell’ombra
Capitolo
I: Incubi al chiarore di luna
Il
deserto del
vastissimo Paese del Vento poteva apparire lo stesso di ogni altra
sera. Il blu
della notte rivestiva le dune del contrasto argenteo con la luna piena.
Benché
fosse autunno, nel resto del mondo, soltanto le gocce di rugiada fra
gli aghi
dei cactus vischio bagnavano l’atmosfera. Ma su
quell’arida nazione aleggiava
uno spettro che non si era mai sopito.
Era
un alito di vento fresco,
quasi freddo, con un vago odore di terra umida e di foglie secche che
marcivano
nel fango. Arrivava da oriente, dai boschi caducifogli del Paese del
Fuoco, da
un tempo antico quanto i miti. Smuoveva l’atmosfera
solitamente immobile ed era
così inusuale da inabissare nelle tane, celate sotto un
oceano di sabbia, prede
e predatori. Erano abituati ai rigidi dettami di un habitat inospitale,
ma non
potevano nulla contro il potere dell’ignoto.
Sembrava
tutto
tranquillo, ma non lo era.
Gaara
della Sabbia
avvertiva quella stessa, irrazionale, sensazione. Attraversava la
nazione che
aveva giurato di proteggere il giorno in cui era diventato Kazekage del
Villaggio della Sabbia. Tuttavia, somigliava enormemente a quel bambino
che
aveva giurato di distruggere il mondo agli inizi della sua vita da
ninja.
Era
ritto, immobile.
Sul viso di cera si delineavano la pennellata sottile della bocca e il
contorno
delle occhiaie nerissime, le quali sagomavano lo sguardo azzurro,
spalancato,
privo di sfumature. Come la statua di un autorevole leader, quale lui
era,
Gaara era muto, era cieco ed era sordo tranne che per i suoi pensieri.
Rimestavano
sotto la chioma scarmigliata, simile a fiamma viva.
Uguale
calore avevano
le impressioni, gli incubi, che scivolavano ai lati
del suo sguardo. Si
contorcevano insieme alle lingue asciutte di sabbia da cui era
attorniato e sopra
cui viaggiava, slittando su un tappetto di sabbia che levitava a
qualche metro
di distanza dal terreno. L’aura azzurra di chakra, da cui il
suo fisico esile
era avvolto, luccicava, aderiva sopra quel materiale così
abbondante nel deserto
e lo plasmava secondo i suoi comandi, i quali venivano impartiti dal
pensiero
senza che la lingua dovesse pronunciare una parola.
Gaara
era fatto così:
conservava tutto dentro di sé e quel che fuoriusciva dalle
maglie strettissime
della concentrazione, lo tormentava con dubbi da cui era impossibile
fuggire. I
suoi fratelli, persino i suoi uomini, l’avrebbero intuito in
un attimo
osservando quell’incedere ondivago, la confusione mediante
cui muoveva di
scatto la sabbia sotto ai piedi cambiando traiettoria, pur non
palesando
nemmeno un sintomo d’incertezza.
Per
contrasto, i
pensieri del ninja più forte di tutta la nazione si
spostavano di poco. Ritornavano
al principio di quella notte uguale a tutte le altre. Alla luna piena
che aveva
ammirato fin dalla sua innocente, scellerata,
infanzia. Al freddo ferro
della ringhiera del balcone sotto le dita affusolate. A quella vaga
eccitazione
per la mattina successiva, dove avrebbe accolto il nuovo Hokage del
Villaggio
della Foglia e il suo seguito. Alla paura che le congratulazioni per la
nomina
sbandassero fuori dalle labbra senza controllo, tradendo la vergognosa
presenza
di un’emozione.
Gaara
era fatto così:
custodiva gelosamente quel suo piccolo mondo interiore. La sua gente
del
Villaggio della Sabbia, la sua nazione, la sua
splendida luna piena, lo
sapevano. Lo percepivano senza che lui dovesse pronunciarlo.
Per
questo, solo per
questo, la luna l’aveva informato. Comunicava con il Kazekage
in una lingua di
cui lui era l’unico conoscitore. Poteva avvisarlo mediante un
banale fascio di
luce verso le ombre della sera. Quell’uomo ancora
dall’aspetto di un adolescente
aveva colto il messaggio: aveva seguito i raggi argentei notando un
arabesco di
ombre strane. Erano formate da conformazioni rocciose, case e altri
oggetti di
cui non si era accorto per anni. All’inizio, Gaara della
Sabbia aveva quasi
creduto che quel corpo celeste volesse rallegrarlo prima che la paura
l’appesantisse.
Poi
aveva visto quel
profilo. Piedi, gambe, busto, braccia e mani
nell’oscurità. E un viso in
penombra, dal sorriso di un mostro.
Le
viscere gli erano
piombate addosso come se non gli fossero mai appartenute. Avvinghiate
in
un’improvvisa morsa di terrore, di turbamento, di sorpresa
senza gioia, gli
avevano frenato il respiro. Era rimasto così, irrigidito,
per un tempo
incalcolabile. Qualche goccia di sudore era scivolata giù
dalla fronte e lui si
era accorto di non aver sbattuto le palpebre da quando aveva iniziato a
fissare
quella forma. Con una fatica immane, degna
dell’utilizzo di una tecnica
estremamente potente, Gaara aveva serrato lo sguardo. Aveva respirato.
La
nausea l’aveva carpito. Un singhiozzo aveva scosso il nodo
alla gola. Poi, con
una calma prudente, aveva sbirciato le ombre dalle ciglia socchiuse.
Lui
non
c’era più. Come lo sapesse, come fosse stato in
grado di capirlo, non ne aveva
idea. Aveva fissato il villaggio attorno a sé e tutto gli
era sembrato, di
nuovo, normale: gli edifici sfiorati dalla carezza della luna, le
imponenti
mura naturali, circondanti il perimetro del villaggio, nel buio. I
ninja di
pattuglia sopra i tetti, uomini capaci di tramutarsi in ombre
artificiali che
si dileguavano nella luce naturale.
La
luna non aveva più
illuminato nulla del genere. Le ammonizioni erano sparite nei suoi
contorni da
palla di cristallo. Pareva quasi che il disagio del Kazekage fosse
derivato da
un innocuo scherzo dei sensi, dell’agitazione che albergava
in lui. Tuttavia,
Gaara non era uomo da ammettere le fragilità
dell’animo umano.
Era
partito,
occultando la sua presenza ai ninja di guardia, eludendo persino il
giro di
pattuglia dei fratelli. Li amava con tutto il suo cuore, eppure non
osava
rivelargli nulla.
Era,
semplicemente, fatto
così.
Là,
in solitudine,
immerso in quello smisurato mare di sabbia, Gaara assaporava quello
strano
odore di foresta putrescente e si domandava da dove arrivasse.
Più lo
inseguiva, più gli sfuggiva trasformandosi in un sentore che
sfiorava appena le
narici. Credette, davvero, che i suoi sensi stessero affrontando un
improvviso
stress fuori dalla sua comprensione. Ne ebbe paura: il cuore
rintoccò veloce
nel petto e, per un istante, dubitò di sé stesso
e dell’immagine che aveva
mantenuto così a lungo della sua persona. Stava per
arrendersi alla propria
debolezza.
Poi
quel mondo che
conosceva sin da bambino, sommerso dall’unico elemento che lo
avesse mai accolto
sin dalla nascita, comprese il delirio delle sue preoccupazioni. Come
un
genitore che avrebbe fatto di tutto per il suo unico figlio, il deserto
ebbe
compassione di lui.
Così
si sollevò,
mostrando ciò che si nascondeva nell’ombra, in
agguato.
In
principio, fu un
dardo di sabbia. Emerse dalla linea piatta del deserto, senza che
nessun evento
atmosferico l’avesse scatenato. Gaara non se ne accorse.
Intuì che stava
viaggiando per perforargli il cranio solo in quel lasso di tempo dove
chiunque
sarebbe morto senza via di scampo.
Filtrata
dall’adrenalina
inibitrice, il Kazekage scorse quella pallottola dalla traiettoria
netta e
precisa: era levigata in superficie, schizzava priva di incertezze.
L’accompagnava un fruscio asciutto e quell’odore
penetrante di cui Gaara aveva
un vago ricordo, per via di un viaggio diplomatico nel Paese del Fuoco
di pochi
mesi prima. Stava raggiungendo la punta del suo naso. Allora Gaara
sorrise. Uno
degli angoli si sollevò in una smorfia un poco crudele.
«Patetico»
un
lampo del passato attraversò quel sussurro inudibile, ma il
ninja seppe con
certezza che anche quel suo misterioso, inetto,
assalitore l’aveva
udito. La sabbia di Gaara s’issò
fra lui e il dardo. Fu il colpo
a morire al posto suo. Il Kazekage sentì il rumore del
pulviscolo che
evaporava, sfracellato contro una barriera più consistente
di esso. Le ciglia
gli fremettero: qualche granello si era insinuato ai lati del suo
sguardo, ma
non se ne curò.
Il
deserto fece
capolino da dietro la tenda di sabbia da cui era stato protetto. Si
aprì
mostrandogli una nuova calma assordante. Era sempre placida, era sempre
vuota,
tuttavia il ninja percepì chiaramente l’umiliazione.
«Io
che sono vivo
grazie alla sabbia… Ti aspettavi forse qualcosa di
diverso?»
Parlava
senza umore o
espressione Gaara, ma il suo sorriso era largo sulle labbra sottili.
Per la
prima volta, mosse un passo in avanti sul suo tappeto di sabbia.
«Sei
piuttosto
impreparato, o forse sei solo uno sciocco ragazzino… Chi
altri avrebbe sfidato Gaara
del Deserto?» la voce calò, ghiaccio
sopra l’arido paese di cui era il vero
signore. Era insolente, era indifferente.
Era
oltraggiosa per
chiunque si stesse prendendo gioco di lui a quel modo.
«Hai
risvegliato
qualcosa che non puoi controllare, moccioso.
Preparati a morire» ancora
una volta, Gaara percepì quell’istinto
primordiale, di cui tutti i ninja
leggendari erano dotati, sfarfallargli nello stomaco. Erano impulsi
totalmente
privi di logica, da cui traeva la consapevolezza di aver indovinato
qualcosa al
di là della sua comprensione.
Quella
sensazione gli
causò un altro moto di nausea, nonostante la sicurezza di
facciata e quel
sorriso di cui si era rivestito dopo tanto, troppo,
tempo. Non sembrava
nemmeno che il suo sussurro fosse rivolto al nemico
nell’ombra, tanto era
sfuggito al suo controllo naturalmente: un fiume che scorreva verso il
mare
ignorando gli ostacoli sul tracciato. Euforia e timore si mescolarono
in gola.
Poi
sentì la sabbia tremare
sotto ai suoi piedi e il fremito nelle viscere si trasformò
in una tenaglia.
Gaara soffocò un singhiozzo di nausea, gli occhi spalancati
su un panorama che
sobbalzava con lui.
Cosa
diavolo…
Si
rese conto di tutto
in un lampo: di quel puzzo che gli inacidiva le narici, dei brividi da
cui era
scosso il suo cuore e le sue budella. Della sabbia che gli stava
invadendo
bocca e occhi, trasformandolo in un cieco a cui mancavano gli altri
sensi, se
non quello del dolore.
Un
vento strano, con
quell’odore nauseabondo, sfuocava il cielo con la sabbia
mutandolo in
acquitrino, da mare cristallino qual era. Gaara
s’inginocchiò sul suo tappeto
di sabbia e lo sentì molle attorno alle gambe,
perché si stava trasformando in
un bozzolo protettivo che non voleva, ma che derivava da quella sua
sensazione
di panico. La sabbia sapeva soltanto difenderlo, d’altronde.
E
divorarmi…
Gaara
non riuscì più a
trattenere il vomito. Mentre assisteva a quel corpo che buttava fuori
tutta
l’ansia e la fatica che non sapeva di aver conservato fino a
quel momento, udì
il boato con cui il deserto stava sfogando la propria frustrazione: una
tempesta di sabbia!
«Cosa…
ho… liberato?»
Il
Kazekage percepì,
per la prima volta, una sensazione bagnata sulle guance, ma fu per
qualche
breve istante: furono prosciugate proprio come i resti del suo stomaco.
Sentiva
ben poche cose, a parte la sabbia che lo stava, lentamente,
sommergendo: l’assordante
impazzimento del cuore, l’acido in bocca, l’assenza
d’aria nei polmoni. Eppure,
avvertiva uno strano piacere nella carezza familiare del suo elemento,
anche se lo disgustava più d’ogni altra cosa.
Io
voglio… voglio
andarmene!
Con
furia tentò di
governare l’unica cosa che l’avesse sempre
ascoltato, ma essa continuò nella
sua opera: turbinava nel vento e lo inabissava, sotto un oceano di
sabbia.
Allora capì. Comprese.
La
scarica elettrica
dell’adrenalina lo scosse molto prima che udisse quella
voce.
«Non
hai liberato
nulla, Kazekage… Sei solo tornato alla tua natura, di chi sa
uccidere e lo fa
per vivere… Cosa ci sarebbe di più
importante?»
«No,
tu sei… sei
un’illusione… Qualcuno che vuole
ferirmi!» Gaara aveva perso la propria
apparenza, scioltasi alla fiamma di una candela: quel viso di cera
gocciolava
di sudore e lacrime testarde, che non si erano fatte opprimere dalla
stretta
della sabbia. Ma non riusciva a rialzarsi in piedi: fissava la sabbia
con cui
venivano trascinati i suoi polsi più a fondo, le dita che
sfioravano l’ombra di
quel misterioso, diabolico, avversario.
Per
chi sono i miei
pensieri?
Solo
poche riflessioni
baluginavano nel pensiero avvinto dai sensi. Gli pareva di scorgere
braccia di
donna nelle lingue sabbiose da cui era avvolto. Il contorno delicato di
un
abbraccio di cui non poteva avere memoria.
«Perché…
perché mi fai
questo?» Masticò
impastato di sabbia, dolore e serenità
stomachevole: la mancanza d’aria stava togliendo il suo
spirito dal corpo. Era
sprofondato a terra, in quella culla arida di cui conosceva la
conformazione,
ma da cui non poteva trarre alcun calore.
Fu
con enorme fatica
che scorse i contorni di due gambe che si chinavano vicino a lui. Ma
quel
sorriso di mostro, no, non l’avrebbe mai dimenticato. Gli
parlava e lo metteva
di fronte alla realtà, a ciò che si era nascosto
nell’ombra e non l’aveva mai
abbandonato. Deglutì il boccone graffiante della sabbia e
della saliva e quasi
soffocò, disgustato e intorpidito.
Lui
semplicemente
parlò.
«Perché
mi odi come
il giorno in cui mi hai visto allo specchio, ma io non so che farmene
di un
sentimento tanto inutile: per me c’è solo
amore… L’amore infinito che provo per
te.»
Il
Kazekage della
Sabbia trasalì prima di svenire. L’ultima emozione
fu quella di un criminale
che aveva condannato anche le persone a lui care con le sue azioni.
Gaara
della Sabbia, il
bambino che era sopravvissuto per morire per mano della sua maschera
d’adulto,
sorrise senza gioia: non l’aveva mai incontrata nel corso
della sua breve
esistenza.
«Bene…
Ora che ho
fatto tutto quanto in mio potere… Che il mondo conosca il
male che mi ha fatto.»
Quel
deserto che
l’aveva tanto servito e, forse, amato, si svelò a
quel bambino, rinchiudendo il
Kazekage in una prigione di vento e sabbia. Così gli occhi
del Gaara che era
stato poterono scorgere il profilo blu e dorato del Paese del Vento,
oscurato
dalla tempesta che avanzava con lui.
Si
dirigeva verso la
figura alta delle pareti di roccia da cui il Villaggio della Sabbia era
circondato.
Continua
nel Capitolo II: Odore di foglie e terra marce