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Autore: Miawolf    22/11/2020    1 recensioni
“[...] Ben presto mi fu chiaro che restare non era più un compito, una necessità. Era un capriccio, e dovevo vincerlo per suo bene, o forse, egoisticamente, per il mio. Perché speravo con tutto il cuore, ogni volta per tornavo a casa, di leggere in lei un segnale, un piccolo indizio che mi suggerisse che anche lei cominciava, finalmente, a guardarmi con occhi diversi. E ci speravo anche questa volta, come una sdolcinata ragazzina, che questo Natale mi regalasse finalmente il segnale che attendevo da anni.”
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jacob Black, Renesmee Cullen | Coppie: Jacob/Renesmee
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
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La mattina della Vigilia di Natale mi svegliai tesa. Prima di aprire gli occhi aguzzai le orecchie e constatai che casa era silenziosa, almeno, più silenziosa del solito. I miei dovevano essere andati a casa dei nonni per i preparativi del gran cenone, o forse a caccia, o a comprare gli ultimi regali. Ne fui felice, perché mi presi tutto il tempo che volevo per sonnecchiare ancora un po’ nel mio letto caldo, ma non prima di aver controllato se sul display del mio telefono ci fossero delle notifiche. Anzi, la notifica. Non trovai nulla di interessante, quindi provai a richiudere gli occhi per una buona oretta nella speranza di prendere di nuovo sonno, ma non funzionò. Mi arresi, abbandonai il letto, e pigramente mi diressi a fare colazione. Scendendo le scale ricontrollai il telefono e trovai un suo messaggio. Mi aveva inviato uno scatto della valigia piena ma ancora aperta sul letto. Le farfalle si svegliarono insieme a me, cominciando a svolazzare timidamente nel mio stomaco vuoto. Arrivata in cucina mi versai una tazza di caffè fumante già preparato dai miei, e mi diressi verso una delle poltrone rosse del salotto di fronte al camino che sempre i miei avevano acceso per me. Cominciai a sorseggiare il mio caffè osservando di nuovo la fotografia che Jake mi aveva inviato. Secondo quanto mi aveva detto ieri sera al telefono il volo sarebbe decollato tra un paio d’ore. Calcolando volo, viaggio in macchina e anche il tempo di prepararsi per la serata, mancavano all’incirca sette ore. Continuai a buttare giù il caffè bollente nella speranza che le farfalle ci si sarebbero annegate dentro. Mi ritrovai a scorrere ancora una volta la galleria del mio cellulare. I contenuti delle foto erano a dir poco ripetitivi: foto di me e Jake alla spiaggia di LaPush, foto di me e Jake che ridiamo di fronte ad uno dei falò notturni della tribù, foto di me a cavallo di Jake lupo, foto di me che dormo accucciata sulla pellliccia di Jake lupo, e così avanti fino ad arrivare alle foto più vecchie, dove dimostravo almeno 4 o 5 anni in meno di adesso. Mi sentii a disagio guardando la differenza abissale tra noi due. Io così aspra, con quell’aria da bambina, magrissima eppure così rotonda nei lineamenti, e lui, esattamente come è adesso, esattamente il contrario di me: Un armadio fatto di fibre muscolari, con un accenno di barba, la mascella squadrata e le vene che pareva volessero scoppiare sotto la pelle bruna. Ai suoi occhi io resterò per sempre la dodicenne di queste fotografie, o forse la bambina che si divertiva a farsi lanciare in aria sotto lo sguardo terrorizzato di mia madre. Magari mi ha cambiato pure qualche pannolino un tempo, ed io non lo ricordo neppure. Come potrebbe adesso vedermi sotto una luce nuova? Spensi il cellulare e spostai l’attenzione sulle lingue di fuoco di fronte a me, sospirando affranta.

 

Sapevo di sbagliare. Non potevo permettermi di desiderare una cosa del genere, era ridicolo, o forse addirittura disgustoso. Non condividevamo di certo lo stesso DNA, ma era lo stesso una cosa deprorevole, vergognosa. Quando ero nata lui era già maggiorenne. Mi ha imboccata, cullata, ha badato a me. Mi ha insegnato a cacciare e ad andare in bici. Questo fa di lui un fratello, un padrino, zio, cugino o amico di famiglia, non importa. Fatto sta che era assolutamente, totalmente sbagliato. Dovevo liberarmi di questa infatuazione pre-adolescenziale. Erano mesi ormai che provavo a psicanalizzarmi da sola, cercando articoli su internet, sbirciando in qualche manuale di psicologia infantile quando andavo in libreria insieme a mia madre. Ma nessuna delle mie ricerche mi aveva portato alla causa o alla soluzione di questo problema. Avrei tanto voluto parlarne con qualcuno, ma sarebbe stato troppo imbarazzante per me. Già dovevo convivere con la consapevolezza che mio padre sapesse tutto, e quella moritificazione bastava e avanzava. Per fortuna almeno, mio padre è sempre stato un tipo discreto, faceva finta di non sapere e non si è mai azzardato a chiedermi se avessi voglia di  parlarne. Ormai mi ero rassegnata alla completa mancanza di privacy. Mi limitavo ad apprezzare i momenti di solitudine per pensare in totale libertà, come in quel momento. Mi diressi verso il bagno e lasciai che l’acqua della doccia diventasse sempre più calda. Avevo bisogno di calore, mi aiutava a ricreare nella mia testa quella sensazione di pace che sentivo solo vicino al calore febbricitante di Jacob. Mi spogliai e solo quando vidi il fumo fuoriuscire dal box doccia entrai. 

Prima del mio debutto nel mondo speravo che questi sentimenti confusi fossero dettati dalla mia limitatissima vita sociale. La mia famiglia era anche la mia scuola, e gli amici erano i lupi. Pensavo di aver proiettato su Jacob una ricerca di riconoscimento, di affermazione di me. E speravo che una volta conosciuti dei nuovi ragazzi, umani, coetanei, prima o poi mi sarei infatuata di qualcuno in grado di rimpicciolire nella mia testa quel metro di misura che avevo fatto di Jake. 

Ma così non fu. Certo, di ragazzi di bell’aspetto doveva esserne pieno il mondo. Il problema però era che non appena scambiavo con loro qualche parola, l’incanto svaniva. Ma comuqnue, in silenzio o no, era inutile fare paragoni: quello che sentivo accanto a Jake non era minimamente paragonabile a quello che provavo quando ero insieme qualcunque altro ragazzo. Poggiai le spalle contro le piastrelle fredde lasciando che il flusso d’acqua bollente venisse trasformato dalla mia immaginazione nel corpo di Jacob.

Il cellulare squillò fastidiosamente, ma ne fui felice, tutto sommato. Non avrei voluto passare il cenone di Natale ad evitare di incrociare lo sguardo di mio padre per la vergogna, già sapere che avrei rivisto Jacob dopo mesi mi provocava un livello di ansia più che sufficiente. 

“Papà” risposi scocciata. Attivai il viva voce e mi infilai di corsa l’accappatoio poggiato allo scaldasalviette acceso.

“Buongiorno, mia adorata. Vedo che oggi sei di buon umore” 

Spiritoso. Sbuffai e alzai gli occhi al cielo, però mi scappò un piccolo, piccolo sorriso.

“Quando ci raggiungi? Sono appena tornato da caccia con gli zii, pensavo di trovarti”

“Sono appena uscita dalla doccia, tra poco arrivo”. 

“Qui i preparativi continuano. Fa’ presto”  

“Sì. A dopo papà”

Quando la chiamata terminò il display si accese mostrano a caratteri cubitali l’orario. Mezzogiorno: meno sei ore. Mi guardai nello specchio appannato. Avevo gli occhi tirarti dal turbante e le guance a chiazze rosse dal calore dell’acqua. E non solo. 

Decisi di mettermi in piega i capelli, per il grande cenone....

Sì, proprio il cenone.

Ipocrita” dissi col pensiero alla ragazza così capelli umidi nello specchio. 

Ormai da un paio d’anni avevamo cominciato questa strana tradizione. E tutto solo per tenermi contenta. Per me il giorno di Natale era il più triste dell’anno. Con una famiglia di otto persone che non si nutrivano di cibo, spesso finivo col passare la notte di Natale a casa di nonno Charlie o alla riserva. Tuttavia ci soffrivo un po’, e quando fu evidente a tutti nonna Esme iniziò un nuovo progetto: aveva costruito un grande pergolato dietro la villa, con una tettoia fatta di grandi lastroni di legno sorretti da quattro colonne in legno e pietra. Lì sotto si trovava un grosso salotto con divani e poltrone da esterno. Poco distante, un grosso pozzo fuoco in pietra  era delineato per metà da un muretto che seguiva la sua forma squadrata, e per metà da altri divanetti poltroncine e tavolini. Il tutto immerso ovviamente nella folta e rigogliosa foresta di Forks. L’obiettivo era quello di venirsi incontro: i vampiri potevano semplicemente smettere di respirare, ma i licantropi no, e in un luogo chiuso per tante ore avrebbero sofferto la “puzza di candeggina”, come diceva Jake. Certo, con i loro sensi sviluppati sarebbero riusciti a sentire quell’odore da metri e metri, ma sicuramente era meglio di niente. Il camino era stato creato per riscaldare l’ambiente, ma solo per me. Nè gli uni nè gli altri sapevano cosa volesse dire avere freddo. Entrambi usavano i vestiti solo per costume sociale, non di certo perché ne avessero bisogno. Più che altro il camino era solo un gesto simbolico, voleva dire: “rispettiamo le vostre usanze”.

Anche i Quileute avevano fatto dei passi verso di loro: niente cena e niente tavolata chilometrica. Il cenone era diventato una sorta di buffet, in questo modo sarebbe stato facile raggirare Charlie e Sue, o eventuali invitati umani, dal notare che otto persone non toccavano cibo. 

Spensi l’asciuga capelli e guardai soddisfatta il risultato. La mia chioma color castano ramato formava dei boccoli larghi che si poggiavano sulle spalle, e le curve sinuose mettevano in risalto alcune ciocche più chiare di altre.

Il passo successivo fu scegliere qualcosa di adatto da mettere. Volevo star calda, ma non scomoda dentro un cappotto. Il tutto cercando di essere carina per l’occasione. 

Sì... l’occasione. 

Sbuffai di nuovo, per la cinquantesima volta da quando avevo aperto gli occhi. 

Scelsi il maglione più caldo che avevo, con maglie grosse color nocciola e oro che formavano grossi treccioni. Invece dei soliti jeans scelsi un pantaloncino scamosciato nero, e sotto del collant leggeri, forse troppo. “Chi bella vuole apparire...” recitai il mantra di mia zia Alice immaginandolo nella mia testa recitato proprio dall sua voce acuta e cristallina.

Per non sembrare ridicola e fuori luogo optai per i miei soliti anfibi neri, quelli che mi salvano in ogni situazione. 

“Piedi sempre al caldo” questo mantra invece lo recitai con la voce di mia madre. Ricoprii le ciglia con una generosa quantità di mascara e potetti finalmente considerarmi soddisfatta del risultato. Afferrai cappotto e borsa,  diedi un’ultima occhiata al cellulare prima di salire in macchina. Meno cinque ore. Con le farfalle impazzite nello stomaco, misi in moto e mi avviai.

   
 
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