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Autore: Lolimik    23/11/2020    5 recensioni
•"Io ho sempre pensato che nessuno aveva la voglia di dirselo, ma la verità era che le chiamavamo così, con quel generico “medicine”, perché in realtà non sapevamo cosa cazzo stavamo curando."•
E se Akito non fosse mai riuscito a guarire Sana dalla malattia della bambola?
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Hisae/Margareth, Naozumi Kamura/Charles Lones, Sana Kurata/Rossana Smith | Coppie: Naozumi/Sana, Sana/Akito
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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SEROTONINA




• Capitolo 1 - Preistoria









“…E voglio un pensiero superficiale
che renda la pelle splendida
senza un finale che faccia male
coi cuori sporchi
e le mani lavate
a salvarmi
vieni a salvarmi …”

-Voglio una pelle splendida – Afterhours -








Quando Naozumi dormiva a casa mia facevamo l’amore due volte, guardavamo almeno un paio di episodi di una sitcom che ci piaceva poco e niente solo per ripeterci che non ci piaceva affatto e mangiavamo corn fleks a letto senza trovarlo né piacevole, né fastidioso.

Poi lui si addormentava girato su un fianco, io fissavo un po’ il soffitto, aspettavo attenta quella sensazione di stretta alla gola, di respiro via via più incalzante e a quel punto sgattaiolavo dal letto al bagno, prendevo le medicine e finalmente crollavo.

Già, le medicine.

Noi che neanche ci accorgevamo di avere le emozioni difettose le chiamavamo così, con un termine generico ma estremamente preciso.

Eppure c’è un nome per ogni medicina.

Se hai mal di stomaco prendi un antiacido, se hai la febbre un antipiretico, se hai mal di testa un analgesico.

Ma con che farmaco si cura un’emozione che non si prova?

C’era chi diceva che pronunciare per intero quel nome “psicofarmaci” creasse un certo imbarazzo quindi si tendeva al generico “medicine”.

Per me erano solo stronzate, dire di provare imbarazzo presupponeva uno stato d’animo e a quel punto era come dire che non c’era più bisogno di prenderle, le medicine.

Io ho sempre pensato che nessuno aveva la voglia di dirselo, ma la verità era che le chiamavamo così, con quel generico “medicine”, perché in realtà non sapevamo cosa cazzo stavamo curando.

Quando Naozumi si svegliava se ne restava sempre per un po’ seduto sul letto. Si stropicciava gli occhi guardando il cellulare, poi faceva tre sbadigli grattandosi la testa e andava in cucina.

Lo sentivo mentre apriva la dispenza, mentre cercava la confezione di pane a fette, la scartocciava, ne prendeva due e le infilava nel tostapane.

Poi prendeva la marmellata dal frigo, io dalla stanza da letto sentivo il cigolio della porta che si apriva fin dentro alle tempie, e a quel punto mi alzavo anche io, roteavo un po’ la testa da un lato all’altro e lo raggiungevo in cucina.

«Stasera non so se sarò dei vostri.» Me lo disse rimanendo di spalle, continuando a curiosare nel mio frigo che lui trovava sempre “privo”.

Aveva questa caratteristica Naozumi, usava il termine privo e lo accostava a molte cose della mia vita.

Io per esempio percepivo che lui fosse privo di alcune cose, cose non tangibili, che non facevano propriamente parte della sua vita, era una questione più intima, la cosa comunque mi lasciava piuttosto indifferente.

M’imbambolai a guardarlo grattarsi la testa confuso, diviso tra il prendere le fette ormai fin troppo tostate dal tostapane o cercare il coltello per spalmarci su la marmellata.

Ma non feci niente.

Aspettai si sistemasse al tavolo, lamentandosi del pane troppo caldo e della marmellata troppo fredda.

«Capito quello che ho detto?» Mi chiese, mettendomi davanti una fetta di pane ricoperta da appena una striscia di marmellata.

«Non sai se ci sarai.»

«Già… Ti dispiace?»

Rimirai la fetta di pane con poco interesse. Non ne avevo poi tanta voglia di quella roba.

«Se non vuoi venire, non venire, mica posso obbligarti?»

Sgranocchiò un pezzo di pane sporcandosi un po’ il labbro con la marmellata.

«E’ che siete tutti vecchi compagni di scuola, mi sentirei a disagio e poi ho due copioni da valutare con Miho e Take, ne approfitterei.»

«Fa come vuoi, Nao. Te l’ho detto.»

«Ci sarà pure Hayama?»

«Così mi sembra di aver capito, ma non lo so se ci viene mica.»

Lui mi guardò giusto un po’, alcune briciole gli erano rimaste attaccate sul labbro tra la marmellata.

«Uhm…»

«Già…»

«E dove vi vedrete?»

«Mi sembra al Mambo, dopo sento Hisae.»

«Non mangi?»

«Si…»

Fissai la fetta per qualche istante prima di addentarla con pochissima convinzione.

Lui si alzò, prese del succo all’arancia dal frigo e lo mise in tavola insieme a due bicchieri.

«Devo cambiarlo questo frigo, il cigolio di quella porta mi rimbomba nelle tempie… Appena ho voglia lo faccio.»

«Dici sempre così…»

Già, dicevo sempre così.

«Comunque, Sana… Tornando a stasera…»

Sapevo già dove stava andando a parare, sbuffai lasciando andare nel piatto quella fetta di pane tostato smangiucchiata e ormai fredda e mi alzai di scatto.

«Non ti devi preoccupare, pensa al tuo lavoro e va da Miho e Take. Io reincontrerò i miei vecchi amici, farò finta che ciò che dicono m’interessi, che il cibo sia buonissimo e poi ce ne torneremo a casa. Ognuno nelle proprie vite.»

«Non sono tranquillo… Ora.»

Sapevo benissimo quello che gli stava passando nella testa, chi soprattutto.

«Senti, Nao, non essere ridicolo! Se lo vedessi per strada non saprei neanche riconoscerlo, e poi, non credo verrà e se anche lui dovesse venire, non mi cambia certo la vita,.»

«E a lui?»

Una piccola parte di me se lo chiese. A lui avrebbe cambiato la vita? Durò un solo istante ma mi parve di sentire qualcosa. Mi sentii patetica.

«Potresti limitarti a me?»

«Lo sai che mi fido di te.»

«E allora dacci un taglio.»

Poi mi alzai lasciandolo lì a pulirsi la bocca.

*****

Quando andavo dalla mia psicoterapeuta, la dottoressa Aoki, mi colpivano due cose: i pomelli d’ottone antichi ad ogni porta della sala d’attesa e il numero eccessivo di piante che adornavano il suo studio.

Ci andavo ogni venerdì lì da lei perché mia madre lo trovava necessario, io invece non lo trovavo necessario, ci andavo solo per farmi prescrivere le medicine, ma non glielo avevo detto.

Durante la settimana potevo inviarle persino dei messaggi, lei si era mostrata disponibile ma io non avevo mai sentito il bisogno di farlo.

Non avevo niente da dirle, mi bastava quello che mi dava.

Avevo appena terminato il questionario, l’ennesimo propinatomi dalla dottoressa Aoki, e mi chiesi se fosse veramente possibile incasellare un individuo in un paio di fogli A4.

Io poi quei fogli li compilavo senza neanche più leggere le domande.

Pensai che quel mestiere fosse sopravvalutato.

Per me era solo una sorta di spacciatrice legalizzata, l’ennesima.

«Ha avuto bisogno di prendere più medicine della settimana scorsa in questa settimana?»

«Stanotte ho avuto un attacco di panico.»

«Uhm…»

«Mi sa dire perché?»

«Siamo qui per capirlo, Signorina Kurata… Quindi mi diceva che stasera ci sarà questa cena con i vecchi compagni del liceo… Pensa di andarci?»

Me lo chiese con una certa premura, mentre io ancora mi rimiravo quei fogli tra le mani.

«Già…»

«Ottimo signorina Kurata.»

«Dice?»

La mia domanda forse la mise un po’ a disagio, mi fece cenno di restituirle i fogli compilati e mi regalò un sorriso veloce.

«Beh se è la prima cosa che mi ha detto mettendosi a sedere, evidentemente ha piacere di andarci.»

«Io, veramente, rispondevo solo alle sue domande, mi ha chiesto se stasera avevo impegni e le ho risposto di sì. Mi ha chiesto di cosa si trattava e le ho risposto che era una cena tra vecchi compagni del liceo… Tutto qui.»

«Beh, però ha deciso di andarci. Come si sente a riguardo?»

Sospirai già esausta.

«Me lo dica lei, in fondo la pago per questo.»

«Signorina Kurata lei non mi paga per dirle come si sente, ma per capire…»

«Per capire come si sente… La conosco la tiritera! Gliel’ho detto, io non sento proprio niente se non la noia di ripeterglielo ogni volta.»

«Anche non sentire niente è qualcosa, lo sa, Signorina Kurata?»

Beata lei che aveva tutte quelle certezze.

«Io penso solo…»

«Cosa?»

«Niente, lasci perdere.»

«No, la prego, continui. Cosa pensa?»

«Penso che la gente non sappia starsene tranquilla, ecco quello che penso. Basterebbe rilassarsi, farsi andar bene le cose per quello che sono, senza farsi domande, senza annaspare di continuo alla ricerca di risposte…»

«Come ha fatto lei con la sua carriera d’attrice?»

«La mia carriera d’attrice è finita quando avevo 12 anni.»

«Dunque lei pensa che in questi quindici anni se n’è stata semplicemente tranquilla?»

«Lei che dice?»

«Che se sente sia stata la scelta giusta per lei ha fatto bene.»

Sollevai gli occhi al cielo.

Gli argomenti preferiti della mia psicoterapeuta erano la mia vecchia carriera, la mia relazione con mia madre, la mia relazione con Naozumi e l’odio che mia madre nutriva per il lavoro che mi ero scelta.

«Lei non sente che sia stata la scelta giusta, vero?»

«Non sono io che devo sentirlo…»

«Mi scusi, ha ragione, le riformulo la domanda: lei non sente che io sento di aver fatto la scelta giusta?»

«Le piace fare la cassiera in un konbini?»

«Mi piace che mi permetta di avere una casa mia in cui potermene stare tranquilla, sola e in silenzio senza troppe complicazioni.»

«Non crede che tranquillità, silenzio e solitudine siano sensazioni un po’ troppo drastiche da ricercare per una donna di 27 anni, soprattutto se combinate insieme, soprattutto se combinate alla sua storia clinica?»

«Può darsi.»

La mia risposta dovette sembrarle condiscendente, e in effetti lo era, perché a quel punto lasciò andare un gran sospiro e stemperò l’agitazione riordinandosi una ciocca di capelli dietro all’orecchio.

Ormai mi sentivo più strizzacervelli di loro.

«Questi vecchi amici chi sono? Persone che rivede o sente spesso?»

«Sento spesso solo una di loro, la mia amica Hisae, con il resto ho perso i contatti.»

«Non siete rimasti in buoni rapporti?»

Immancabilmente pensai ad Hayama. Non eravamo rimasti in buoni rapporti? Me lo chiesi nella mente almeno tre volte.

Avevo 12 anni l’ultima volta in cui l’avevo visto e a quella domanda, francamente, non sapevo rispondere.

«Uno di loro non lo vedo da 15 anni.» Mi uscì fuori senza che neanche me ne rendessi conto.

Notai che lo sguardo della dottoressa Aoki si strinse un po’, impercettibilmente.

«Ha voglia di rivederlo?»

Ci pensai un po’ su e mi venne da ridere.

«Sa, penso che sia probabile che in questi quindici anni io l’abbia addirittura incrociato da qualche parte senza neanche riconoscerlo.»

«Lo trova divertente?»

«Beh… Considerando che a 12 anni vivevo con la convinzione che sarebbe stato l’unico per me, mi viene un po’ da ridere.»

«Lo considerava importante, allora? Come mai vi siete persi di vista?»

«Certo, a 12 anni tutte le persone che ti circondano sono fondamentali, non crede?»

«Io ho parlato di persona importante, lei di fondamentale e poi mi sta parlando proprio di lui.»

«E’ la stessa cosa e poi le ho parlato di lui perché è l’unico che non vedo da 15 anni, gli altri li ho sempre rivisti grazie a queste feste che la mia amica Hisae ha organizzato nel corso del tempo!»

«Se lo dice lei…»

Come se la matematica fosse arrivata in suo soccorso, la dottoressa Aoki mi guardò perplessa per un attimo.

«Lei però non ha finito il liceo 15 anni fa… Dunque questa persona non è stata insieme a lei al liceo…»

«Già, però alle medie eravamo tutti nello stesso istituto.»

«Poi lui si è trasferito?»

«No, lui se n’è andato.»

«Come se n’è andato?»

«Si beh, si è trasferito con la famiglia a Los Angeles.»

«Singolare…»

«Cosa? Che un ragazzino giapponese si trasferisca a Los Angeles con la famiglia?»

«No, è singolare la scelta del verbo. Mi sembra di capire che lei lo incolpi di qualcosa, Signorina Kurata.»

Per la prima volta non sapevo cosa risponderle. Mi accorsi che la dottoressa Aoki portava una grossa spilla sul foulard gliela fissai per un po’ quasi in trance.

«Le si è aperta la spilla, Dottoressa.»

Lei mi guardò per qualche istante prima di risistemarsela.

«E verrà anche Naozumi alla festa?»

«No, non sono amici suoi, soprattutto non è gente con cui potrebbe sentirsi alla pari. Poi ha da lavorare.»

«Pensa che Naozumi non veda di buon occhio le sue amicizie?»

«Penso che possa pensare quello che gli pare, tanto non m’interessa…»

«Come vanno le cose con Naozumi?»

«Normali… Come tra due persone che stanno insieme da due anni, credo.»

«E il sesso? Ti piace fare l’amore con lui?»

«Si, molto, anzi moltissimo.» Mentii, ma lei per fortuna non se ne accorse.

*****

Le cose che mi piacevano di Hisae erano i suoi capelli miele e le sue risposte al vetriolo, soprattutto il fatto che avesse ancora voglia di regalarle a qualcuno sperando di sortire un qualche effetto.

Poi mi piaceva anche il fatto che fosse tanto esuberante e schietta.

Cercavo di vederla poco, comunque.

Mi rendevo conto che la sua voglia di vivere certe volte mi metteva a disagio. Da una parte mi stremava, dall’altra temevo di potergliela in qualche modo succhiare via senza rendermene conto e allora declinavo la maggior parte dei suoi inviti.

Però ecco, ad Hisae non importava molto del fatto che io mettessi delle distanze, senza curarsi di sembrarmi invadente si presentava a casa mia ogni volta che le andava.

C’erano delle volte in cui non le aprivo e allora lei si piantava lì e mi cantava dalla porta alcuni imbarazzanti jingle che canticchiavo da ragazzina nelle mie pubblicità, finché stremata non la lasciavo entrare.

Quel tardo venerdì pomeriggio, più o meno, andò così.

Superai il record di jingle pubblicitari ascoltati prima di desistere.

Sette.

Mi meravigliai li ricordasse tutti così bene.

«Sana cosa vuol dire che non vieni?» Hisae era bellissima, quel giorno notai lo fosse particolarmente, ma non era solo un qualcosa di meramente estetico, lei aveva dentro una luce e quella luce più di tutto la rendeva bella.

Ed era proprio quella luce, più di tutto, che quel giorno trovai insopportabile.

«Mi hanno cambiato il turno a lavoro.»

«Sana…» Trascinò il mio nome all’infinito guardandomi sospettosa, tamburellando un piede sul pavimento.

«Ho il turno 20-2. Mi dispiace.»

«E com’è che non ti credo?»

«Beh, quando tra un ora uscirò da questo appartamento lasciandoti qui, ci crederai.»

La vidi sbuffare a lungo, guardarmi senza sapere cosa dire.

Io neanche sapevo cosa dirle.

La lasciai sulla porta e mi avviai verso il bagno senza neanche guardarla in faccia.

«Dove vai?» Urlò.

«A fare un bagno, tra un ora devo andare a lavoro, te l’ho detto.»

Preparandomi la vasca pensai che la dottoressa Aoki mi aveva messo addosso una strana sensazione, non la decodificavo, ma sentivo mi stesse agitando.

Forse era per quello che avevo preferito un bagno caldo alla doccia.

Non glielo avevo detto che mi aveva agitata perché dirglielo l’avrebbe portata ad altre domande, soprattutto l’avrebbe convinta che stesse perseguendo la strada giusta per “aggiustarmi”, come lei e mia madre amavano dire.

Certe volte mi chiedevo se quel termine l’avrebbe usato anche Naozumi, poi però mi rispondevo che sicuramente mi trovava “priva” ma non “rotta”.

Lasciai andare un sospiro e m’immersi nella vasca.

Mi lasciai andare sentendo l’acqua invadermi le narici, gli occhi, i timpani.

Tutto era ovattato e calmo nel suo assordante rumore ondulatorio, tutto era distante.

Percepii i battiti del mio cuore, i muscoli e le ossa del mio corpo allentarsi.

Tutto si lasciava trasportare dall’acqua senza opporsi.

Mi sentivo in pace, con la testa vuota.

Tum- tum- tum.

Forse il mio cuore andava un po’ più veloce.

«Che cazzo fai, Sana!»

Le urla di Hisae mi trascinarono bruscamente alla realtà, le sue mani mi strapparono via dall’acqua e dalla quiete che finalmente stavo provando.

«Sei ancora qui?»

«Cosa cazzo pensavi di fare?»

«Il bagno… Non si può?»

Lo sguardo di Hisae aveva dentro delle preoccupazioni che non riuscivo a leggere chiaramente, mi accorsi che qualcosa l’agitava, ma la sua era un’agitazione diversa dalla mia.

La sua, a differenza della mia che non aveva sbocchi, veniva fuori da ogni parte, dalle mani che non stavano ferme, dagli occhi che non avevano smesso di guardarmi neanche per un istante, dal respiro affannato.

«Ti prego Sana…» Sussurrò prima di sparire dal bagno portandosi una mano alla fronte.

La sentii camminare per l’appartamento, imprecare e sbattere qualcosa con forza. Poi rientrò nel bagno come una furia, si sedette su un angolo della vasca e si accese una sigaretta.

Si, lei fumava.

Il fumo la calmava, lo faceva già al liceo quando mi trascinava dietro alla palestra dell’istituto e fumava almeno un paio di sigarette col timore e l’ansia di essere scoperta.

Il fatto che lei avesse quel vizio era forse la cosa che subdolamente mi legava a lei, ma non ne ero certa.

Sentivo solo che quando la vedevo fumare mi sentivo meno sola, un po’ più affine.

Era più o meno una sensazione così, la percepivo, ma era poco chiara, più intima.

Difficilmente inquadrabile.

Io prendevo le medicine e lei fumava.

Si esauriva in quelle sette parole.

«Perché hai chiesto un cambio turno?»

«Non l’ho chiesto, te l’ho detto.»

«Non mi prendere per il culo, Sana. E’ per Naozumi? Non vuole che vieni?»

«No… Figurati.»

«E allora perché?»

«Perché cosa?»

«Aspetta!» Urlò balzando un po’ all’indietro, regalandosi poi una lunga boccata. «Non dirmi che è per Hayama? Ti scoccia rivederlo?»

Hisae indossava un cappotto cammello con una cintura stretta in vita, pensai fosse ironico che lo indossasse mentre era in un bagno perché mi ricordava un accappatoio.

Mi accorsi che un lembo della cintura le penzolava nella vasca, lo sollevai con un piede e glielo mostrai.

Lei imprecò e si mosse per il bagno con una certa fretta alla ricerca del phon.

A quel punto mi alzai dalla vasca anche io e mi avvolsi nell’accappatoio che somigliava tanto al suo cappotto cammello.

«E in camera mia il phon. Naozumi dice che non è sicuro tenerlo in bagno.»

Lei allora lanciò la sigaretta nel water e mi seguì in camera.

Le posai il phon sul letto e cominciai ad asciugarmi la pelle dandole le spalle.

Lei parlò, mi disse qualcosa che non mi arrivava perché la sua voce era coperta da quella grossa del phon.

«Hai capito quello che ti ho detto?» Mi chiese dopo che ebbe finito.

«No.»

«Sono passati quindici anni, Sana. Andiamo! Non puoi privarti di una serata in compagnia degli amici per questo! Insomma stiamo parlando della preistoria!»

Quella parola, quel termine che Hisae aveva buttato fuori con derisione e compatimento mi colpì.

Preistoria.

Quindici anni fa era la preistoria.

Sentii che la preistoria di cui parlava Hisae corrispondeva ad un periodo storico che non c’era più.

Io, nella mia personale preistoria avevo sentito di amare per davvero per la prima e unica volta sempre la stessa persona, e di esser stata riamata sempre dalla stessa persona.

Capii che io, nella mia personale preistoria, avevo sentito per l’ultima volta un’emozione chiaramente.

Poi le ere si erano succedute, di quel che eravamo non c’era più nulla, nemmeno un reperto incastrato sotto un lembo di terra.

Un frammento inestimabile insabbiato tra il miele dei suoi occhi e la terra arida dei miei.

Nessuno me lo trovava dentro un frammento di Akito Hayama, ma io me lo sentivo.

Lo percepivo come un tesoro che avevo nascosto dentro di me, un tesoro che avevo fatto esplodere e i pezzi mi ballavano dentro senza senso, senza ordine preciso. Io che ormai non sapevo più raccogliere li avevo lasciati lì, esplosi, sparsi sulla bocca, negli occhi, sullo stomaco, nei timpani.

Non era facile capire, forse neanche volevo farlo, ma in qualche modo sottile un pezzo importante me lo sentivo ben conficcato in un punto preciso tra lo stomaco e il cuore.

Avrei potuto ma non volevo raccoglierlo.

C’erano delle notti in cui sognavo che l’Akito dodicenne tornava da me, mi scendeva nella bocca, rotolava verso lo stomaco e tentava di strapparmi via qualcosa, qualche pezzo che mi accorgevo chiaramente luccicasse come l’oro.

In ogni sogno io lo rincorrevo, lo scacciavo e c’erano delle notti in cui vincevo, altre invece in cui lui tirava via quel pezzo e veniva risucchiato tutto, io lui, il mio corpo intero.

Come un lavandino pieno d’acqua a cui veniva tolto il tappo.

E mi gorgogliava la gola, mi mancava il respiro.

Per quindici anni sempre lo stesso sogno.

Per fortuna c’erano delle notti in cui mi lasciava in pace.

C’erano giorni in cui la vita me lo faceva dimenticare, poi bastavano pochi dettagli combinati sadicamente insieme e tornava alla memoria tutta quella preistoria che avevo nascosto ben bene tra il miele dei suoi occhi e la terra arida dei miei.

«Infatti non ti ho mica detto che non ci vengo per lui?»

«Beh, lo spero davvero, guarda!»

«Sul serio Hisae, non è per lui, devo lavorare… Semplicemente.»

A quel punto mi passò il phon e cominciò a cercarsi qualcosa nella borsetta.

«Comunque la serata l’ha organizzata lui… Ci pensi? Non è mai venuto ad una delle nostre serate e poi così di punto in bianco…»

«Me l’hai già detto Hisae.»

«Si lo so, però… A dire il vero non è che lui abbia proprio organizzato, cioè noi due ci siamo incontrati la settimana scorsa per caso e lui mi ha detto che avrebbe avuto piacere di rivedere tutto il vecchio gruppo. Così…»

«Hai organizzato tutto.»

«Già… Lo sai come sono fatta!»

«Beh comunque sia andata, buon divertimento e salutami tutti.»

«Comunque se come dici “lui” non è un problema possiamo passare a prenderti all’uscita da lavoro e…»

«No, grazie. Sarà per la prossima volta.»

Poi accesi il phon, di quel che disse non mi arrivò niente, se non un brusio confuso che si faceva sempre più lontano insieme alla sua figura sorridente che si fiondava via dal mio appartamento allargando platealmente le braccia.

*****

 

La cassiera in un kombini.

Era quel che facevo, sotto sotto ciò che ero.

Mi piaceva molto quel lavoro, più di tutti quelli che avevo improvvisato negli anni dopo la fine del liceo.

Mi piaceva perché non era impegnativo, solo una sequela di gesti meccanici da memorizzare rapidamente, perché non mi faceva parlare troppo con le persone e perché, qualsiasi cosa accadesse a quelli che ci entravano, mi dava l’opportunità di percepire sempre un certo distacco, come un velo trasparente tra me e loro.

Tipo pellicola per alimenti.

Tipo quella che avvolgeva quasi ogni cosa venduta in quel posto, mi tranquillizzava quando la toccavo strisciando tutto sul lettore, poi prendevo i soldi, in caso davo il resto, dei sacchetti e tutto iniziava e finiva in poche azioni per poi ricominciare un attimo dopo in una catena infinita e sempre uguale.

Hisae una volta mi chiese se mi facesse sentire un robot quel lavoro, mia madre lo ammetteva categoricamente, Naozumi si limitava a tacere pensando di sicuro che quella fosse l’ennesima fase passeggera che stavo attraversando e che mi rendeva “priva” di ambizioni.

Io ammiravo la loro lucidità delle volte.

Quando lavoravo lì al konbini mi rendevo conto che il tempo mi passava velocemente. Certe volte mi accorgevo che alcuni clienti della mia età o anche più giovani, mi riconoscevano.

Ero certa che alcuni di loro mi ricordavano come la ragazzina esuberante e allegra che aveva contagiato di buon umore la loro infanzia, nutrivano per me un affetto sincero e per questo non si permettevano di farmi domande né di chiedermi se effettivamente ero io quella Sana Kurata della loro infanzia.

Poi ce n’erano degli altri che me lo chiedevano in un’espressione commiserevole a cui rispondevo con un sorriso finto almeno il doppio della loro compassione e un tranquillo. “Va tutto bene, l’importante è essere felici.”

Il fatto che io poi fossi la ragazza di Naozumi, il grande attore, astro chiaro e lucente nel firmamento delle stelle del cinema giapponese, non era noto al grande pubblico, i suoi due manager non lo avevano trovato opportuno per la sua immagine.

Da quella decisione scaturì una grossa crisi interiore di Naozumi che durò giusto il tempo di un mio laconico “Non importa.”

E così, Naozumi Kamura, con due parole, cominciò a concepire come opportuno il privarsi di me davanti al mondo intero.

Era la caratteristica che maggiormente ci teneva uniti questa attitudine al sentirsi “privi” di me.

Quando vidi Nobu entrare dalla porta con la sua camminata trascinata, sempre un po’ esitante, guardai l’orologio alla parete.

«Sei in anticipo…»

«Già, se fossi rimasto a casa sarei crollato tra le scartoffie...»

Nobu era una persona che m’infondeva una certa calma. Forse perché era più giovane di me di qualche anno, o forse perché non era un tipo particolarmente loquace, fatto sta che in sua compagnia mi sentivo particolarmente a mio agio.

Era un semplice collega, tra noi non c’erano mai stati incontri in posti diversi dal konbini in cui lavoravamo, ma era una delle poche persone al mondo che non percepivo distante.

Di me sapeva che ero stata una idol e che per qualche motivo quella carriera mi aveva stancato, che mangiavo di nascosto le caramelle riservate ai clienti e che mi piaceva parlare poco di me.

Tutto questo lo aveva capito senza chiedermelo.

Di lui io sapevo che studiava medicina, che non era abituato ad avere pochi soldi e che leggeva molti libri.

La cosa che trovavo affascinante in lui erano le mani, si vedeva che non avevano fatto molto nella vita se non sfogliare la carta stampata.

Anche mia madre le aveva così, anche Naozumi. Erano mani affusolate che poi si arrotondavano squadrate sull’ultima falange, erano particolari, come levigate dalla carta, ma quelle di mia madre e di Naozumi non mi affascinavano come quelle di Nobu.

«Giacché sono qui va pure a cambiarti, Sana. Tanto mancano appena 5 minuti alle 2.»

Lo vidi sbadigliare un po’, sfilarsi lo zaino e il cappotto e mi accorsi che sotto indossava già l’uniforme.

Pensai che gli studenti avessero una certa naturale predisposizione nell’ottimizzare i tempi, ma non gli dissi niente, mi limitai a sparire dietro alla porta degli spogliatoi.

Quando venni fuori lo trovai assorto nel leggere un libro di testo, se ne stava seduto alla cassa nascosto da un volume che somigliava a quello di un’enciclopedia da cui fuoriuscivano solo i suoi capelli scuri e incasinati.

«Che stai studiando?» Glielo chiesi avvicinandomi un po’ di più alla cassa, accorgendomi che nel mentre trangugiava un egg salad sandwich.

«Sistema nervoso centrale, nuclei del rafe, processi biochimici dei neurotrasmettitori, triptammina, 5-HT… Una pallosità… Ci capisci qualcosa tu?»

«Assolutamente no.»

«Ecco, neanche io.»

«Beh, almeno il sandwich è buono?»

«Eccome!» Disse e con una mano me ne allungò un pezzo offrendomelo.

«No grazie, Nobu. Proprio non mi va un sandwich alle uova alle 2 del mattino.»

«Ecco, sbagli! L’unica cosa che ho capito fino ad ora è che la 5-HT è presente nelle uova, nei carboidrati…» A quel punto allungò giusto un po’ la mano verso l’espositore della cioccolata e mi strizzò un occhio. «E nella cioccolata!»

«5-HT?»

«Sì, la serotonina, l’ormone della felicità. Pensi che non abbia bisogno di una dose massiccia di felicità uno che studia questa roba?»

Scossi la testa abbozzando un sorriso. «Forse hai ragione, Nobu...»

*****

Fuori dal kombini c’era una fermata dell’autobus, quando facevo quel turno mi appostavo lì anche un paio d’ore prima di decidermi a prendere l’autobus e far ritorno a casa.

Mi sedevo lì e non riuscivo più ad alzarmi.

La verità era che mi sentivo stanca.

Non era una stanchezza propriamente fisica, era più una condizione che percepivo.

La percepivo sempre in realtà, in tutte le ore del giorno.

Era una stanchezza che non si appagava mai totalmente, neanche con un riposo, e con cui convivevo tra molti alti e bassi.

Però, quando finivo di fare qualcosa, me la sentivo addosso in maniera pressante.

M’immobilizzava.

Il più delle volte mi bastava rimanermene immobile per un po’ e poi, in un modo e l’altro, mi rimettevo in moto.

Quella sera ero seduta proprio lì, alla solita fermata con la testa poggiata al plexiglas della banchina su cui roteavano pubblicità che un tempo parlavano anche di me.

«Sana!!!» Era un urlo stropicciato e scomposto.

Feci in tempo a sollevare lo sguardo e li vidi, proprio a un passo da me.

Hisae, Fuka, Aya, Tsu e Gomi.

E poi lui.






Sono stata colta da una improvvisa illuminazione.

Non so francamente cosa ne verrà fuori perchè l'ultima delle cose che avrei pensato di poter scrivere era proprio una what if? Ma sono stata totalmente catturata da questa storia che non ho potuto smettere di scrivere neanche un secondo.

Spero tanto tanto che vi piaccia <3


Un bacio grandissimo


Lolimik
















  
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