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Autore: itsgiads    24/11/2020    0 recensioni
Maria è solo una bambina quando, da una delle finestre della maestosa Martiniana, guarda impotente Antonino lasciare la villa. Il rancore accompagna gli anni che seguono: attraversa il terremoto del 1908 e la Grande Guerra. Ed è proprio dopo la fine del conflitto che raggiunge il suo apice, quando Antonino ritorna alla villa dopo ormai quindici anni di assenza. Entrambi i ragazzi sono cresciuti: Maria, divenuta giovane donna, ha cominciato a lavorare alla Martiniana come domestica, mentre Antonino è uno dei membri di spicco della borghesia reggina. La memoria di ciò che è stato comincia ad abbattere il muro di ostilità che Maria ha costruito. La distanza, quella tra i corpi e tra i due ceti, si affievolisce sempre di più, fino a far riscoprire loro una felicità che sembrava appartenere al passato. Sullo sfondo di una Reggio Calabria liberty, i due giovani stringono un legame corporeo e intellettuale, che li soggioga e li rende al contempo liberi. Ma ci sono ostilità che non si esauriscono con un "cessate il fuoco". Apparenze e verità scomode non lasciano spazio a sentimenti ed emozioni. Sono gli anni Venti, gli anni del progresso, del trambusto, del prodigio della mente umana. Non certo dei romanzi d'amore.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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CAPITOLO 2

LI BONI FESTI

 

Partivi di duv'era e vinni apposta, veniri a chista casa cunsulata,

veniri a chista casa, bella, cunsulata;

puru sei mastri e setti 'mperaturi, tutta la puntijaru di diamanti.

Vu' siti ammenz'a nui, perla d'amuri, ca tutti quanti si ponn'ammucciari

La nivi vi dunau la sua jianchezza , la rosa russa sì lu so' culuri.

 

Partii da dov'ero, e venni a posta in questa casa consolata,

venni in questa casa, bella, consolata;

pure sei maestri e sette imperatori la puntinarono tutta di diamanti.

Voi siete in mezzo a noi, perla d'amore, che tutti quanti si possono nascondere.

La neve vi donò la sua bianchezza, la rosa rossa, sì, il suo colore.

Antonino Romeo era arrivato alla Martiniana ormai da una manciata di giorni, ma nessuno di noi domestici poteva vantare di aver veramente fatto la sua conoscenza. La mattina commissionava il suo solito caffè, leggeva il giornale che Francesco, il maggiordomo, stirava per lui ogni mattina e, dopo aver fatto una carezza a Oreste, usciva dalla villa e montava sopra la sua automobile. Non era quasi mai nei paraggi e, in tutta onestà, per me era meglio così.

Erano Sebastiano e Giuseppa a servirlo quando rientrava in tarda serata. Se si ritirava nella sua stanza, era la ragazza a portagli quanto da lui richiesto, considerato che Sebastiano non riusciva a salir bene le scale; nel caso in cui, invece, avesse preferito cenare col padre in sala da pranzo, non c'erano ostacoli che impedissero al cameriere di svolgere le sue normali mansioni. E forse un po' gli dispiaceva.

Da quando l'aveva visto, Giuseppa si era perdutamente invaghita del piccolo Romeo. Quando tornava nella dependance, dopo avergli consegnato il vassoio, aveva sempre un'aria gaia e su di giri. Ne decantava le lodi anche poco prima di mettersi a letto, costringendomi ad ascoltare lusinghe e complimenti che, parecchi anni addietro, sarebbero potute uscire proprio dalla mia bocca. "Mi ha sorriso in una maniera che le gambe hanno iniziato a tremare" oppure "ha preso in mano il vassoio senza aspettare che lo appoggiassi. Le nostre mani si sono sfiorate!". Roba da far venire il voltastomaco.

Ero quasi contenta quando Sebastiano, chiaramente in preda a una gelosia feroce, cominciava a elencare, invece, i vizi e i difetti del signorino. "Si crede il padrone del mondo, paru paru peri peri. Non sa che sono i vagabondi a gironzolare dalla mattina alla sera?". Aveva apprezzato, però, che avesse rifiutato di assumere un valletto o, peggio ancora, di affidare questo compito allo stesso Sebastiano. Ormai era desueto possederne uno e non c'erano ragioni per cui Antonino avesse bisogno di un aiuto nel vestirsi o nel farsi la barba. Sotto questo punto di vista, era stato saggio.

Non essendoci dunque un gran bisogno della servitù, se non alle prime ore del mattino e sul calar del sole, avevamo molto tempo libero. Ci svegliavamo presto sì, pulivamo la casa da cima a fondo, ma, senza i padroni tra i piedi, potevamo permetterci di fare più pause e di prenderci i nostri tempi. Quella mattina Antonino era sparito, come suo solito, e il padre aveva comunicato che avrebbe mangiato a Bagnara con il Cavaliere De Leo.

Era appena passata l'ora di pranzo ed eravamo tutti riuniti attorno al tavolo della cucina, mentre terminavamo il nostro pasto. Graziella sfregava la buccia di un bergamotto tra le mani per profumarle. Giuseppa la guardava stranita, non l'aveva mai visto fare.

«Ma che, non ci hai mai provato?» le chiese la cuoca.

«No, non ci ho mai nemmeno pensato, in realtà».

Le porse la buccia, invitandola a sperimentare lei stessa.

«Devo strofinare, sì?» domandò.

Ci guardammo tutti, divertiti ma anche inteneriti dalla sua ignoranza. Poi cominciò.

«Che buon odore!» esclamò mentre si passava la buccia sui palmi.

«Ci fanno i profumi con quello» la informò mia nonna.

Peppa spalancò la bocca. «E perché costano così tanto? Non basta strofinarsi la scorcia addosso?»

Mi portai le mani sul viso, non credendo alle mie orecchie.

In quel momento entrò Francesco con una lettera in mano. Lanciò un'occhiata curiosa a Giuseppa, che si stava divertendo a passarsi la buccia di bergamotto sul collo, poi mi guardò in cerca di una risposta. Scossi semplicemente la testa.

«Bene» esordì.

Peppa saltò in aria, non aspettandosi di trovarselo dietro. Posò la buccia all'istante.

«C'è posta, signori!»

Poggiò la lettera davanti a Giuseppa.

«Ma non mi scrive mai nessuno».

«Me l'ha data tua mamma oggi in paese».

Lei fece una smorfia. «Mia mamma non sa scrivere».

Francesco sorrise. «Chi ti dice che l'abbia scritta lei?».

La guardammo aprire la busta con diffidenza. Poi il suo atteggiamento cambiò: spalancò gli occhi, cominciò ad ansimare e si alzò di scatto.

«Che giorno è oggi?» domandò velocemente a Francesco.

«Mercoledì, penso»

Lei tornò a guardare la lettera.

«Santo cielo! Santo cielo!» continuava a ripetere.

Si tolse il grembiule in tutta fretta e lo lanciò sul tavolo.

«Che stai facendo?» le chiesi confusa.

«Marì, alzati, andiamo a Pellegrina»

Guardai mia nonna, ma nemmeno lei sembrava intendere.

«È tornato Sebastiano!» annunciò poi, trionfante.

Per un secondo non capimmo, poi ci rendemmo conto di avere in mente il Sebastiano sbagliato. Anche il fratello di Peppa aveva questo nome, motivo per cui si rivolgeva al cameriere chiamandolo "Ba'", un po' a scherno, come se gli stesse dando del babbo.

Mi alzai e le andai incontro.

«Fa vedere» le chiesi, tendendo la mano per prendere la lettera. Me la porse con aria entusiasta.

Suo fratello era partito per la guerra anni prima e, stando a quanto riportato nella sua prima lettera, era stato assegnato a un corpo d'armata che operava nel nord est, là dove scorre l'Isonzo. Era da tempo che non si avevano sue notizie e, sebbene Giuseppa tentasse di giustificare il fatto con un semplice "magari non ha tempo", eravamo tutti coscienti che la paura le stesse logorando l'anima, specialmente dopo la distruzione del piccolo paesino di San Martino del Carso. Il messaggio che stringevo tra le mani era la prova che, per fortuna, i nostri presentimenti erano sbagliati.

«È fantastico, Peppa!» esultai.

«Là ha scritto che sarebbe arrivato a metà della settimana successiva. Oggi è la metà della settimana successiva»

Le diedi indietro la lettera.

«Mi sembra un po' vaga come indicazione, però. Franco» mi rivolsi a Francesco «dove l'hai vista la madre di Giuseppa?»

«Alla fermata della corriera» rispose.

Guardai Peppa con aria complice. Era quello il giorno, allora.

Slegai anche io il grembiule e lo abbandonai su una sedia.

«Andiamo, su» la esortai «quand'è la prossima corriera?»

La ragazza non riusciva a rifletterci, tanto era emozionata. Francesco si intromise nel discorso «Se camminate svelte, potreste prendere quella delle due e un quarto. È quella che prendo per accompagnare mia madre a messa, nel pomeriggio». Afferrai il polso di Giuseppa «Allora andiamo, su». Lei si girò per guardare mia nonna. Con uno sguardo intenerito, ci diede il permesso di uscire. Dopo aver trascinato Peppa in giardino, mi richiusi la porta alle spalle.

«Come sei, carica?»

«MaronnaMaria! Ci credi? Non solo è vivo, è anche a casa!» dai suoi occhi scendevano sincere lacrime di commozione. Il nostro rapporto poteva pure non essere idilliaco, ma in quel momento sentivo la necessità di gioire per lei, con lei. Sapevo cosa voleva dire attendere a lungo notizie di una persona per poi ritrovarsela, da un giorno all'altro, come nuova parte della propria quotidianità. Era una sensazione travolgente, enorme, irrefrenabile. E il caso volle che la mia persona fosse proprio lì, in giardino, in procinto di rientrare alla villa.

Ci venne incontro. Serrai la presa sul polso di Peppa, quasi a voler respingere con forza il senso di piacere e al contempo di frustrazione che la sua vista mi suscitava. Lei continuava a piangere, ma accennò un sorriso.

Antonino si fermò a pochi passi da noi, le mani dietro la schiena. «Signorine...» disse abbassando il capo. Non era usanza fare la riverenza a una persona che non fosse di nobile lignaggio. La moglie di Romeo apparteneva a una famiglia di aristocratici, era noto, ma Antonino rimaneva pur sempre il figlio di un borghese arricchito e, in quanto tale, eravamo esonerati da inchini o gesti simili.

«Ci vogliate scusare, signorino, ma siamo un po' di fretta, come vedete» lo informai.

«Oh, chiedo scusa se vi ho intralciate» rispose formale. «Dove siete dirette?»

«A Pellegrina» rispose veloce Giuseppa «mio fratello è rientrato oggi dal fronte».

Gli occhi del ragazzo brillarono contenti. «Immagino la gioia! Posso offrirvi un passaggio con l'automobile?» propose cogliendoci di sorpresa. Da dove proveniva tutta quella galanteria? E perché mai sprecare tutto quel tempo a conversare con due semplici cameriere? Era insolito, addirittura oltraggioso a detta di suo padre, ma Antonino non aveva mai badato a regole o consuetudini.

«Vi ringraziamo, signorino Antonino, ma siete appena rientrato, non vorremmo scomodarvi» risposi per entrambe. Giuseppa mi guardò come se stessi delirando.

«Nessun disturbo, sul serio. Sempre che a voi non dispiaccia».

«Figuriamoci!» esclamò emozionata Peppa, prima di incamminarsi con Antonino verso l'automobile. Gliela diedi vinta, non che non fossi nervosa o in imbarazzo, ma preferii non guastare l'entusiasmo della ragazza.

L'automobile di Antonino era il classico gingillo con cui poteva divertirsi il rampollo di una famiglia nobile e agiata. Modelli di quel genere non se ne vedevano da quelle parti: non aveva la capote, o meglio, probabilmente era stata rimossa per far fronte alle giornate calde e afose; i sedili erano imbottiti, non come quelle scomode panche che si trovavano sulle corriere; splendeva sotto al sole, come se fosse appena uscita dalla fabbrica. Faceva quasi impressione toccarla, quasi si stesse oltraggiando una reliquia.

Giuseppa non si fece grandi problemi, invece. Spalancò la portiera del posto accanto al conducente «Io davanti!». Il piccolo Romeo ridacchiò.

Rimasi ferma a qualche passo dall'automobile. Lo guardai mentre mi scrutava con sguardo inquisitorio. Poi aprì per me la portiera dei posti dei passeggeri. «Dopo di Lei, signorina». Arrossii per quell'insensata cortesia. Mi sedetti dietro a Giuseppa. «Quelli dietro sono i posti per le signore per bene», mi informò poi Antonino con un sorriso prima di richiudere lo sportello. Peppa si girò di scatto «Marì, facciamo cambio di posto, ora!».

Feci una smorfia «Che stai dicendo?»

«Dai, su, voglio essere anche io una signora per bene!»

«Peppa, va riggettiti» le dissi allora, suggerendole di lasciar perdere. La sentii sbuffare.

«Pronte?» domandò il signorino, sedendosi. D'un tratto sentii un calore inaspettato, complice la vicinanza o più semplicemente il motore che scoppiava. Lasciammo la Martiniana sotto gli occhi increduli dei domestici che ci osservavano dalle finestre della cucina.

La bellezza e la varietà dei paesaggi che la Calabria offriva non smettevano mai di stupirmi. Percorrevamo le strade di montagna serpeggiando tra alberi alti e sottili, ma, al contempo, il mare sembrava non volerci abbandonare. Da un lato il bosco, dall'altra ecco Messina. Non so se fosse una sensazione comune a tutti quelli che vivevano sulle due coste contrapposte, ma lo Stretto riusciva a infondermi sicurezza. Continuavano a descrivere il mare come sconfinato, interminabile, eppure la Sicilia distava da noi poco più di un paio di chilometri. Ed era dunque quel riuscire a porre un limite all'illimitato che ti faceva sentire protetto e al riparo. Mentre ci dirigevamo verso Nord, guardavamo l'antica Zancle salutarci per sparire dietro al monte, consapevoli, però, che al nostro ritorno sarebbe comunque stata lì ad aspettarci, almeno lei. Era questo che intendevo con lo Stretto indispensabile.

Ci impiegammo un'ora per arrivare a Pellegrina, tra un tornante e quello successivo. Il paese era piccolo e claustrofobico, ma gli abitanti erano gente accogliente e generosa. Quando facemmo capolino nella piazza principale, tutti si girarono per capire a chi appartenesse quell'automobile dalle linee così moderne. Giuseppa salutava a uno a uno i signori che incontravamo, sentendosi una matrona davanti al popolino. Cercava questo lei: l'invidia degli altri, lo stupore, la meraviglia. E con accanto uno come Antonino di certo non passava inosservata. Lasciammo l'automobile sul ciglio della strada, proprio davanti a casa di Peppa. Prima di venire alla Martiniana, aveva abitato in un terratetto che si affacciava sulla piazza della chiesa, lì dove c'era il panificio dei suoi genitori. Pellegrina era famosa per la sua tradizione della pitta e del pane di grano e quello della famiglia Cuzzopodi era stato uno dei primi forni ad aprire e farsi conoscere nel paese e nei dintorni. Tuttavia, con la morte del padre di Giuseppa e la partenza del fratello Sebastiano, la produzione aveva subito un calo considerevole, tanto da costringere i Cuzzopodi a chiudere il locale. Fu proprio il giorno della chiusura che Francesco, il maggiordomo della Martiniana, anche lui pellegrinese, propose a Peppa di racimolare qualche soldo diventando cameriera. Ora però Sebastiano era tornato e, Dio permettendo, l'attività avrebbe anche potuto riaprire i battenti.

Giuseppa bussò con forza alla porta di casa.

«Oh Ma'! Sono io! Iapri ! »

Si sentì un cigolio. Da una fessura sbucò un occhio marrone. 

«Si' tu, Peppa?»

«E certo mamma, chi deve essere?»

La porta si spalancò. Davanti a noi c'era una donna alta meno di un metro e mezzo, coi capelli raccolti in uno chignon basso e un grembiule legato attorno alla vita.

«Gioia mia, Pe'!» esclamò abbracciando la figlia. Cominciarono entrambe a singhiozzare. Era un vuoto incolmabile, quello dell'amore materno. Nessuno mi aveva mai abbracciata con tale vigore, con un'emozione così forte da sentirsi il petto esplodere. Mi ero sempre accontentata delle briciole di affetto che mia nonna si lasciava scappare di tanto in tanto. Non mi ero mai lasciata abbattere dal dolore dell'assenza, forse perché, non avendo sperimentato se non per pochi giorni cosa volesse dire avere una madre, non ero ben cosciente di cosa significasse quel qualcosa di cui ero stata privata. Eppure, in quel momento avrei solo voluto che qualcuno mi abbracciasse in quel modo.

Sussultai quando sentii la mano di Antonino poggiata sulla mia schiena, come se avesse potuto leggermi i pensieri e cercare di colmare quella mancanza. Il mio gesto repentino colse l'attenzione della signora.

«Oh, scusatemi. Non vi ho nemmeno invitati ad entrare. Voi siete?» ci domandò.

«Scusate voi l'intrusione, signora Cuzzopodi» esordii io «sappiamo che per voi oggi è un giorno importante».

La donna si coprì la bocca con le mani, ricominciando a piangere.

«Sì», mormorò tra i singhiozzi «è proprio un giorno importante».

Io e Antonino si scambiammo un'occhiata perplessa, chiedendoci se fosse inopportuna la nostra presenza in un momento così intimo. Fu Peppa che ci tolse dall'imbarazzo.

«Mamma, loro sono Maria...»

«Oh!» disse spalancando gli occhi «tu sei l'altra cameriera, giusto?»

«Esatto» le risposi timidamente.

«E lui» si sovrappose Giuseppa «lui, mamma, è il signorino Romeo».

La donna fu sul punto di avere un mancamento.

«Buon pomeriggio, signora» pronunciò il ragazzo sollevando leggermente il cappello dal capo.

«Si-si-signorino» balbettò la madre di Peppa «che onore avervi qui. Entrate, prego. La casa è piccola, ma ce la facciamo a starci tutti».

La signora Cuzzopodi e la figlia si avviarono all'interno dell'abitazione.

«Dopo di Voi» «Dopo di te» dicemmo in coro noi rimasti sull'uscio.

«Insisto» continuò poi lui. Avanzai.

La casa era sicuramente modesta, ma nei miei anni fuori dalle mura della Martiniana avevo certamente visto di peggio. Si entrava subito nella sala principale, una camera con giusto un tavolo, quattro sedie, una stufa a legna e una poltrona. Giuseppa fece per sedersi sulla poltrona, poi però sua madre l'ammonì. Lasciò il posto ad Antonino.

«Non si preoccupi» le rassicurò subito il ragazzo «sono a posto così».

«Allora mi siedo io» concluse Peppa.

«Dove ti siedi, tu?» chiese una voce apparentemente stanca.

Nella stanza entrò un ragazzo reggendosi da delle stampelle improvvisate. Era di bell'aspetto: alto e longilineo, con capelli e occhi di un nero intenso, la pelle olivastra. Solo dopo mi accorsi che non portava una scarpa e che il pantalone gli stava fin troppo largo sui polpacci. Poi ci arrivai: non aveva una gamba.

«Sebastiano!» urlò Giuseppa in visibilio. Gli andò incontro a passo spedito, desiderosa di stringerlo tra le braccia. Lui porto le mani avanti e la avvertì «Piano, Peppa, piano». Lei allora ci andò cauta. Gli portò una mano sul viso e cominciò di nuovo a piangere.

«Dai, su, sono qua. Sono tornato, per Dio!»

Lei cominciò ad esaminarlo, trattenendo il respiro quando i suoi occhi caddero sulla gamba amputata.

«Ah, sì. Subito ti n'accorgisti, ah?» disse Sebastiano con tono spento.

«Chi succiriu?» gli chiese la sorella, decisamente impaurita.

Lui cominciò a muoversi piano verso la poltrona, nella quale sprofondò nel vano tentativo di sedervisi con grazia. Provai una pena senza precedenti.

«E chi succiriu, Peppa?» domandò sarcastico. «Ma tagghiaru!»

Giuseppa rimase con la bocca aperta, pietrificata. Certamente ci doveva essere una ragione se il fratello aveva tardato così tanto a dare segni di vita negli ultimi tempi.

«Quindi sei sciancato

«Che brutta parola!» affermò lui inorridito. «Zoppo, sono, sì. E mi iu bbona!». Il suo ottimismo mi rincuorò e mi fece male al tempo stesso. Constatare che a lui era andata bene voleva dire saper riconoscere che c'erano persone che erano andate incontro a una sorte ben peggiore. Il solo pensiero mi faceva venire le lacrime agli occhi.

«Jacques si chiamava un mio commilitone». Si trascinò un dito sulla faccia, dalla narice all'angolo della mandibola. «Si è aperto in due qua. L'hanno dovuto ricucire come una bambola di pezza. Continuava a ripetere "Su na...na ghel...na ghel ca..." » non riusciva a ricordarsi le parole esatte.

«Gueule cassée?» provò ad aiutarlo Antonino.

Sebastiano lo guardò con gli occhi sbarrati, tendendo il braccio nella sua direzione.

«Bravo! Così diceva! Sacciu ieu chi boliva diri» confessò poi, colpevole di non capire cosa stesse dicendo l'altro soldato.

Antonino gli si avvicinò. «È così che i francesi chiamano i militari sfigurati sul viso. Brutta sorte, la loro» spiegò.

«Non li considerano nemmeno veterani, capito? Sono mutilati e non ricevono niente, nessun'indennità. È assurdo»

«È davvero assurdo» gli diede ragione il signorino, prendendo una sedia e piazzandosi davanti a lui. Si guardarono, gli occhi negli occhi. Ci fu silenzio, uno di quelli pesanti che non si sa dove vogliano portare. Noi donne stavamo lontane da quei due, per non disturbarli mentre si studiavano e cercavano di scavare l'uno nel profondo dell'altro.

Poi fu Sebastiano a parlare. «Dove?» chiese.

«Bassano Veneto» gli rispose Antonino. Cozzapodi sollevò le sopracciglia e guardò in basso. «Caporetto, eh?» pronunciò poi.

«Anche» si limitò ad aggiungere il signorino.

Cadde di nuovo il silenzio. Fu ancora una volta Sebastiano a romperlo con un semplice «Io Carso».

Sugli occhi di Antonino si stese un velo di pietà. Piegò il braccio, invitandolo ad afferrargli la mano. Si strinsero in un gesto simbolico che sembrava andare oltre barriere sociali, ostacoli fisici e potenziale disprezzo. In quel momento non erano altro che due sopravvissuti, due che la morte aveva osato scalfire, ma non abbattere. Forse è vero che è nella sofferenza che siamo tutti uguali.

 

  
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