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Autore: Nina_99    24/11/2020    0 recensioni
Anzi lo vorrei gridare: "Non sono stata io!", ma mi torna subito in mente l'immagine della pace.
Genere: Science-fiction, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Calma, pace.
La brezza marina, il soffio della vita.
Bacia la mia pelle salata, cristallizza quella paradisiaca distesa liquida. Trasparente, di un celeste cristallino immacolato, trafitto dalla luce soave, la cui superficie pare la sezione di un minerale. Ogni singola goccia è parte della composizione sublime, di disegni geometrici che continuamente si rompono in piccoli frammenti per unirsi ad altre sfumature di azzurro, come in un caleidoscopio. Riesco a scorgere dei piccoli pesci che nuotano nell’acqua splendida, con movimenti poco repentini, senza nulla di cui temere, poiché io sono immobile. Sotto di me le onde si rimpiccioliscono fino a diventare innocui schizzi sulle caviglie. Vedo miliardi di colori: ogni singola goccia ne ha uno diverso, ogni increspatura ha la sua sfumatura. Ai miei piedi, l’acqua bassa sopra la sabbia dà origine a migliaia di monetine, di rame, d’oro e d’argento. Alle mie spalle l’oro luminoso della sabbia sottile, dura ma non invadente, piccoli granellini che si insinuano nel nodo delle mie ciabatte a pochi passi da me. Il mare è una favola di quiete, l’armonia delle onde perfettamente continue dà il tempo al respiro della mia anima. Tutto è calma e pace.

Uno stormo di gabbiani fende il cielo immobile del primo pomeriggio. Per un attimo squarciano la quiete e l’altrimenti silenzio, come un vento impetuoso mi travolgono. Ma subito fa ritorno la calma, beata e profonda, e continua a risuonare quell’armonia speciale.
Penso ai motivi che abbiano spinto il filosofo olandese, B. Spinoza, a comparare la Sostanza, oggetto del suo panteismo, all’Oceano sconfinato. La natura che è dio ed è tutto, ordine necessario, razionale e geometrico come tutte le forme che vedo, che come nascono si disgregano. Le singole onde sono i modi finiti, atte a determinare la necessità dei modi infiniti, il moto incessante del mare, dotato di attributi, ovvero l’estensione acquatica. Quell’acqua così primariamente importante da farsi archè a Talete, primo dei filosofi, come origine e termine ultimo, principio del mondo.
Osservo la scena, essa alimenta la mia riflessione. Ma una ventata più forte mi prende alle spalle, facendomi saltare il ragionamento, un accento su una sola nota della brezza fresca e confortante che riprende il suo tempo. Il colpo di vento ha lasciato un segno sulla mia pelle nuda come una cinghiata, non riesco a dimenticare il punto esatto dove mi ha colpito, così caldo e asfissiante come una lama. Come una scheggia.


Ma cosa stavo pensando? Alla filosofia? Osservo ancora le onde, sperando mi portino consiglio, e un oggetto spicca, sospinto da queste. Una bottiglia di vetro verde, con l’etichetta tendenzialmente scolorita, galleggia proprio di fronte a me. Chi l’ha gettata qui, in questo luogo sacro? Il vetro opaco contrasta con la limpidezza dell’acqua, mentre una nuvola oscura il sole e l’acqua sembra diventare come più torbida, ma la brezza non si ferma e mi convinco che la quiete abbia solo cambiato colore.
Pian piano il mare si spegne, perde quella sua sfavillante brillantezza che lo aveva caratterizzato. Mi giro verso la spiaggia, trovo le mie ciabatte ancora lì, ad aspettarmi.

Mi sento come se la melodia si fosse abbassata di un’ottava, la luce avesse diminuito la sua frequenza. Anche i colori mutano la loro tonalità, apparendo più realistici e meno idilliaci. Il sole, ormai, è stato inghiottito quasi tutto.
Il locus amoenus si deteriora. Mi sento come quando si guarda per troppo tempo il sole, che quando non c’è più tutto diventa buio. Innegabile che qualcosa abbia spezzato l’armonia.
La spiaggia comincia a popolarsi. Numerose bottigliette di plastica, d’acqua e d’altre bevande, si ergono sulla sabbia conferendo alla spiaggia un aspetto discontinuo, i tappi come conchiglie, anzi come resti di conchiglie. Non c’è nessuno qui? Anche i pesci sono andati via. Mi accovaccio per guardare l’acqua più da vicino. C’è una spuma nuova, sembra mutata la composizione stessa. Ma se non c’è nessuno qui! Dei pesci neanche l’ombra, mentre la mia ombra si stende sulla sabbia, prodotta da un sole misero, un sottile raggio rossiccio uno squarcio, una macchia di sangue del cielo.

L’arrivo di un forte vento, né caldo né freddo, mi fa notare di essermi bagnata e comincio ad avere freddo. Fredda la vista della spiaggia inquietante, delle mille bottiglie tutte rivolte verso di me, quasi attribuendomi la colpa della loro apparizione. Quel raggio di sole si dimezza e scompare di nuovo. Manca poco al tramonto. Riabbasso lo sguardo sul mare e ci trovo finalmente una forma di vita, un pesce rosso incastrato per metà in una lattina ancora più rossa, e metallica. Si dirige verso di me, lo aspetto e lo libero. Il contrasto al tatto tra il pesce, viscido e tiepido, e il metallo, freddo e tagliente, mi fa scivolare il dito e mi procura una piccola ferita all’indice. Una sola goccia di sangue scivola via tingendo irrimediabilmente l’oceano di un rosso scarlatto. Osservo i mostri metallici che galleggiano, schierati anch’essi mi fissano come i cadaveri dei membri dell’equipaggio del vecchio marinaio, protagonista della Ballata di S. T. Coleridge. Ma non mi pare di aver ucciso alcun albatro.


Giunge finalmente il tramonto e il mare riacquista una parte della sua bellezza: adesso è totalmente scarlatto ma impuro, saturo di rifiuti, uno spettacolo sbagliato. Mi volto per scoprire il colore della sabbia alle mie spalle e rimango senza parole.
Una delle mie ciabatte è sovrastata da una buccia di banana, l’altra è capovolta. Attorno ad esse la vista è riempita da sacchi neri, un’infinità di bottiglie, resti di copertoni o interi pneumatici ed un oggetto di un grigio triste non molto distante dalla riva. Mi accorgo che è un polpo morto, vorrei muovermi per raggiungerlo ma sinceramente mi fa ribrezzo, è troppo tardi per aiutarlo. Corpo morto.
Improvvisamente il tramonto si tinge di verdastro. La luce soffusa del giorno che muore sembra puzzare. L’acqua del mare, nella quale io sono immersa fino alle caviglie (da ore, ormai!), è schifosamente torbida e innaturalmente calda. La brezza si è trasformata in un alito sconcertante. Alle mie spalle infiniti rifiuti mi sovrastano, proiettando ombre di molto più grandi di me. Mi sento svuotata, sporca. Mi sento inquieta e mi chiedo fin dove si spingerà quest’imminente rovina. Vorrei tanto scappare via, ma non ci riesco.
La scena muta nuovamente, per la seconda volta quel giorno sento spezzarsi il silenzio. Stavolta a volare ben oltre la mia testa vedo e sento degli uccelli metallici, con ali farraginose e versi striduli. Mi oltrepassano rapidissimi, lasciando la desolazione dietro di essi, portatori sani di distruzione. Ho come il sentore che uno di essi cada in acqua, molto ma molto lontano rispetto alla mia posizione, o forse l’ho solamente immaginato. Una stella, cadente nell’oceano, dalla lunga distanza.


Ed io? Sono ancorata qui, spettatrice inconsapevole della fine del mondo. Confusa da una nebbia sempre più fitta, che occulta l’ultimissimo sole, stordita dal tanfo dello scarico (ma da dove arriva?), soggiogata dalle carcasse di automobili, elettrodomestici e perfino di un elicottero su quella spiaggia d’oro che prima era vergine.
Ed io, che ne sarà di me? Mi vedo in terza persona, descritta dal poeta inglese W. Owen, "attraverso i vetri appannati e la fitta luce verde, come in mezzo ad un mare verde, l’ho vista affogare".


La situazione è diventata insostenibile. Finalmente sono conscia del fatto di non potermi muovere e ciò mi arreca un dolore psicologico, oltre che fisico. Sono costretta a fronteggiare le onde immense con la schiena dritta e il mento in su, fingendo un residuo di dignità, che non penso di possedere. Io, donna, uomo, essere umano, terrestre, causa di tutto ciò. Io, adesso, devo pagare. Si innalza un’onda che mi sovrasta di almeno cinque volte. Alle mie spalle scoppia un incendio.
La sabbia ed il mare, e gli infiniti colori che vedevo. Non c’è più distinzione fra un rifiuto e l’altro, non esiste più la linea di confine, non mi sento più i piedi, io non sento più la differenza. Respiro un gas verdastro, marroncino, grigiastro, come quello che è l’oceano. Galleggio in questa atmosfera acida, immobile e senza parole, artefice e vittima della fine.
E’ troppo tardi anche solo per sperare di poter ripulire l’ecosistema. I pesci non torneranno. I turisti non torneranno. Nessuno più sarà beato da quel sole di mezzogiorno o rinfrescato dalle chiare fresche dolci acque del mare. Nessuno più crederà di aver visto una landa d’oro su cui aprire un ombrellone, nessuno più si stenderà a cospetto della magnificenza delle onde bonarie, che, giunte a riva, si quietano.
Sola sin dall’inizio, sto assistendo all’apocalisse. Nulla tornerà più come prima, io non tornerò più come prima. Quell’onda infinitamente gigante si sta per scagliare su di me, cavalcata da tutto ciò che io, essere umano, ho saputo produrre nella storia e, una volta divenuto inutile, gettato via. Trattengo il fiato, voglio affrontare questo destino con dignità, ma ho paura. Voglio credere che renderlo tale sia stato inevitabile, che la colpa non è mia, anzi lo vorrei gridare: “Non sono stata io!”, ma mi torna subito in mente l’immagine della pace dello stesso pomeriggio, è incredibile che sia trascorsa solamente una giornata.
Il sole tramonta, il cielo diventa nero, l’onda si innalza. Carica di rancore mi accusa e punta verso di me. Ormai non ho più scampo, voglio correre via, voglio pregare, voglio piangere. Voglio…




 
Mi sveglio di soprassalto.
Mi guardo intorno, è tutto come prima.
Sono per terra, a casa mia, nella mia residenza estiva, ma perché mi sono addormentata per terra con un lenzuolo? Stavo guardando la tv ieri sera, è ancora accesa.
Mi alzo e vado in cucina. Apro il frigo e bevo un sorso dalla bottiglia di plastica del latte. In piedi, con la bottiglia in mano, svogliata e assonnata al punto giusto, guardo sopra il lavello, oltre la finestra che dà sul mare.
Oggi è una bella giornata, calda e soleggiata ma non afosa, spalanco la finestra per assaporare la brezza marina.

E la ritrovo lì, concreta, unica e sola a spezzare la perfezione dell’acqua cristallina; essa mi osserva da lontano: la bottiglia verde di vetro.

  
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