Prologo
14 dicembre 2003
Agli sgoccioli dell’anno, il gelo di un
dicembre inclemente penetrava mantelli, sciarpe, guanti e cappelli come fossero
carta velina, fino a sfiorare le ossa. Nulla di anomalo, nessun Dissennatore che gelasse l’acqua nelle pozzanghere e il
sangue nelle vene, semplicemente un rigido inverno londinese.
Anche il vento non mancava, ma non il soffio
carico di speranza del vento del cambiamento, bensì la sferzata penetrante che
preannuncia la neve. Per fortuita coincidenza, la domenica aveva accolto quel
rigore, dando pace ai frenetici abitanti della capitale: perfino i più devoti
alla messa domenicale erano ancora barricati in casa, stretti tra qualche
coperta e una tazza di tè bollente.
Dalle vetrate scintillanti della City fino
all’ultima propaggine di quartiere residenziale, la quiete rendeva surreali le
strade, quasi desolate, mentre un brivido di freddo correva tra i rami spogli.
Era in un angolo non troppo malandato
dell’East End, in uno di quei sobborghi dal silenzio particolarmente profondo,
che una ragazza stava uscendo di casa. Un lungo mantello blu notte era
allacciato sotto il collo sottile, per poi scendere fino a sfiorare dei robusti
stivali di cuoio. Dall’ampio cappuccio sfuggiva una cortina di capelli rosso
scuro, onde disordinate che le scivolavano davanti agli occhi mentre armeggiava
rumorosamente il portone. Troppo rumorosamente,
stando ai colpi secchi che la vicina diede alla finestra sopra di lei.
La giovane sobbalzò con un’imprecazione,
mentre le chiavi sfuggivano dalle dita livide di freddo. I suoi occhi ambrati
scattarono verso l’alto, e rivolse un sorriso poco convincente alla donna,
senza distogliere lo sguardo mentre si abbassava per recuperare le chiavi.
Proprio mentre l’altera signora stava per
ritirarsi, però, un acuto trillo perforò l’aria. Sul volto pallido si dipinse
un’aria sconfitta, mentre estraeva rapidamente il cellulare dalla tasca.
«Pronto? Sì, giusto un- aspetta un momento,
credo che la vecchia arpia stia per lanciarmi un’altra secchiata d’acqua»
bisbigliò scocciata, reggendosi al corrimano gelato per scendere i gradini
davanti all’uscio.
«Seriamente, finirò per ammazzarla! Sarò l’Auror che ammazza
vecchie Babbane» saltò sana e salva sul marciapiede, accompagnata
dall’incombente e arcigno sguardo della vedova Doyle. Sforzandosi di non
lanciarle un’occhiataccia – o una fattura – si avviò lungo la strada coperta di
ghiaccio. «Potrei anche soffiare la prima pagina al “serial killer dei
criminali” per un paio di giorni, prima che Robards mi uccida e prenda il mio
posto... Eh? Harry è già uscito? Merlino,
sono solo le sei!... No, vengo diretta dal turno di Azkaban, ma credo che
Robards sia tornato in anticipo da tutta la faccenda dell’Interpol… capirai,
cancellare qualche memoria qua e là mentre io mi trascino in quello schifo… non
saprei, si potrebbe risolvere abbastanza in fretta, ora che lui si è unito alle indagini» la ragazza
affrettò il passo, giunta in prossimità di un vicolo particolarmente angusto.
«D’accordo Ginny, glielo dico, ora ti lascio… devo farmi collegare il camino
alla Metropolvere, seriamente... sì, anche far
sistemare il portone… Ok, un abbraccione, ciao».
Uno sbuffo contrariato lasciò le labbra della ragazza,
mentre si faceva spazio tra un muro fatiscente e un cassonetto che sembrava non
essere mai stato svuotato. Si sforzò di evitare pozzanghere poco invitanti, le
gambe fasciate da jeans costellati da strappi che poco c’entravano con lo stile
e molto con la minaccia di disfarsi da un momento all’altro.
A un primo sguardo, quella ragazza stonava enormemente in
un vicolo sudicio. Non che fosse difficile, stonare in un vicolo sudicio, ma
lei ci riusciva particolarmente bene.
Probabilmente era stato il cappuccio che, scivolandole
sulla schiena, aveva scoperto chiaramente il volto fresco e spruzzato di
lentiggini, dal naso leggermente a patata, alle guance piene a quasi anche la
bocca corrucciata; probabilmente erano i capelli, lunghi e lasciati correre
distrattamente per i fatti loro oltre le spalle esili; probabilmente era anche
qualcosa negli occhi ambrati, concentrati su qualche pensiero distante anni
luce da quel vicolo.
Probabilmente era tutto, a urlare che quella fosse una
ragazza appena ventenne.
Un’universitaria qualunque, l’avrebbero definita i suoi
vicini, non particolarmente degna di nota, che divideva un minuscolo
appartamento con un gufo. Certo, il gufo faceva ancora sollevare parecchie
sopracciglia nel suo disastroso palazzo, ma ci si abituava.
Del resto, i membri della Comunità Magica erano molto bravi
a far abituare i Babbani alle loro piccole anomalie, tanto più gli Auror. E lei
sì, era una ventenne che condivideva un minuscolo appartamento con un
gufo, ma era anche una delle cacciatrici di maghi oscuri di spicco del
Ministero della Magia.
Lo era da ormai cinque anni, e amava la sua routine.
Amava il suo lavoro, e il fatto che i suoi colleghi fossero i suoi amici e la
sua famiglia. Amava destreggiarsi freneticamente e in continuazione tra
commissioni, qualche allenamento di quidditch e i
lunghi orari del Ministero; le dava la sensazione di fare qualcosa di utile
della sua vita, il che era più di quanto una volta si sarebbe aspettata. Si
trovava persino ad apprezzare il suo modesto monolocale, perché poteva
sgusciare sul tetto del palazzo a leggere, ogni tanto… e, prima o poi, la
vedova Doyle si sarebbe decisa a tirare le cuoia: la sua sì che era una metratura come si deve.
In fondo, non aveva nulla di cui lamentarsi.
Ecco perché si sentiva in colpa. Perché né la
convocazione imprevista al Ministero, né la recente permanenza su uno sperone
roccioso sperduto nel Mare del Nord, erano il motivo per cui la sua fronte
fosse così corrucciata, i suoi sospiri così profondi, il suo sguardo così infastidito.
Il vero problema era come tutto, da mesi, sembrasse pesarle troppo: era
quell’inspiegabile insoddisfazione, quello sbuffo immotivato ogni tanto, quel
sentirsi chiusa in una vita già finita.
A ventidue anni e con una guerra alle spalle, però, la
stabilità non avrebbe dovuto starle così stretta.
I suoi occhi, quasi gialli nella penombra del vicolo,
scrutarono pensosi il cielo percorso da immense nuvole grigie, cercando per la
millesima volta di scacciare quel profondo senso di… noia.
“La
mia vita non può essere solo questo… no?” pensò,
prima di voltare su sé stessa e sparire con uno schiocco.
Dall’altra parte del mondo, nella suite
attico di un lussuosissimo hotel, regnava il buio totale.
Le vetrate ampie e la splendida vista erano
state coperte da pesanti tendaggi di velluto, le costose lampade dai paralumi
elaborati spente, i telefoni sparsi nei vari ambienti staccati.
Solo un piccolo rettangolo luminoso brillava
nel buio, spandendo un alone di luce azzurrina nel raggio di un metro scarso,
illuminando il moderno parallelepipedo di un computer, una webcam spenta ed un
microfono, tutti collegati ad una serpentina di cavi che strisciavano sul
pregiato parquet fino a perdersi nel buio.
In quel nulla assoluto, seduto di fronte al
monitor, c’era un uomo. La penombra rendeva difficile stabilirne l’età ed il
corpo asciutto era infagottato in una larga maglietta bianca e in un paio di
jeans.
A un tratto, l’uomo si sporse in avanti,
verso il microfono. Tolse una mano bianca e magra dal ginocchio e pigiò un
tasto dell’apparecchio, su cui brillò una spia rossa; la luce azzurrina ora
sfiorava parte del suo volto, rendendone la pelle ancora più cerea e spettrale,
in netto contrasto con qualche folta ciocca di capelli neri.
«Watari» la voce era roca dopo ore trascorse
nel silenzio.
Sullo schermo bianco campeggiò
improvvisamente una “W” nera, e a rispondere fu una voce totalmente distorta: «Ci
sono»
«Hai provveduto al MACUSA[i]?»
«Sì, ho già comunicato le nostre richieste,
partiranno nell’arco dei prossimi quattro giorni».
«… Allora chiama il Ministero. Lei deve
arrivare al più presto».
«Me ne occupo subito» metallica o meno,
quella voce non portava il minimo segno di titubanza. Nessuna indecisione,
mentre si apprestava placidamente a occuparsi
dei due Governi magici più importanti e potenti al mondo. Del resto, non
era affare inusuale affacciarsi sullo scenario internazionale e ottenere
immediatamente la più completa e rispettosa attenzione, non per Watari. Non per
l’intermediario del detective numero uno al mondo… magico, e non.
La connessione si chiuse, lasciando l’uomo a
specchiarsi nello schermo nero. Si passò un pollice sulle labbra sottili,
pensoso.
Non si aspettava che accadesse tanto presto,
ma non si poteva lamentare.
La tediosa indifferenza che sembrava farsi
sempre più intensa, di anno in anno, che sembrava divorarlo dall’interno e
affogarlo come una marea, ora sembrava già un ricordo lontano. La sua mente
macinava frenetica e assetata le prossime mosse, i pezzi di una partita a
scacchi preparata e agognata da tantissimo tempo. Una partita che avrebbe
vinto, esattamente come tutte le altre.
La noia era stata spazzata via, come per
magia.
LUMOS
Per chi è qui per la prima volta, in bocca al
lupo.
Per chi c’è già passato, abbiate pazienza che
prima o poi la finirò anche ‘sta fanfiction, ma dopo mesi (poi diventati anni)
di meditazione, nonché mesi (poi diventati anni) di blocco totale, non ho potuto
non farlo: non ho potuto non riscrivere da capo a piedi questa storia. Per
alcuni versi cambia poco, per altri non so ancora quanto cambierà. Per questo
ho dovuto eliminare la vecchia FF e partire da un nuovo file: scusatemi se una
o più recensioni saranno andate perse, ma vi assicuro che le tengo salvate in
un angolino del computer :3
Per tutti, grazie se sarete disposti ad
accompagnarmi in questo secondo tentativo, spero di poter ricambiare con una
storia che vi dia qualcosa, che vi faccia sentire (che cosa, questo non
lo so, penso che già il sentire sia un’ottima cosa).
I capitoli saranno pubblicati una volta ogni
due settimane (forse ridotte più avanti), e la prossima decina di capitoli è
già pronta perciò… si va in scena.
NOX