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Autore: Soe Mame    25/11/2020    1 recensioni
Il momento arriverà.
Continua ad aspettare, continua ad aspettare che arrivi.
Continua a sperare, continua a sperare che arrivi.
[1649-1738: È bastato meno di un secolo per cambiare tante cose tra il Sud Italia e la Spagna.]
Genere: Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Belgio, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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[Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari. Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.]


Era questo che ti spaventava di più, vero, nonno?
Certo che avresti potuto dirmelo. Non che all'epoca sarei stato in grado di capire, ma almeno mi sarei preparato.
... No, non è vero. Non sarei stato in grado di riconoscerlo neppure se tu mi avessi avvisato. Sono un idiota.


1649

L'erede del grande Impero Romano necessitava di un'accurata biografia scritta di proprio pugno, come era stato per il suo illustre nonno: un'autobiografia che, allo stesso modo, si sarebbe diffusa per tutta l'Europa, suscitando esclamazioni di stupore, ammirazione e invidia - L'idea della stampa a caratteri mobili era stata un'invenzione stupenda, nonché un'inaspettata dimostrazione di utilità da parte di quelle patate gelide.
Al momento di iniziare, tuttavia, si era accorto di una sfortunata serie di problemi.
L'autobiografia di suo nonno esordiva con una presentazione tonante e altisonante, con declamazione del suo nome umano e del suo solenne significato: Romulus, come il divino Primo Re, Iulius, perché la gens Iulia era di nota discendenza divina - così diceva la propaganda -, Romanus, perché ovviamente nessuno sarebbe mai potuto essere più romanus di lui. Fosse stato Feliciano a scrivere, non ci sarebbero stati problemi: Felicianus, figlio della Fortuna, Valles, a simboleggiare le valli dei colli romani. Lui, invece, non aveva la più pallida idea di cosa dovesse significare Lavinius.

«È il nome della splendida sposa di Enea, Lavinia!» gli aveva detto il nonno, con un sorriso che andava da un orecchio all'altro.

Mica l'avevano chiamato Aenea, Iulo o Remus. L'avevano chiamato come la moglie di Enea. Tanto valeva che gli mettessero una sottana e lo chiamassero direttamente Lavinia. (E dire che fonti stranamente attendibili - il cretino - gli avevano garantito che quello con la passione per l'indossare sottane, gonne e merletti fosse Feliciano.)
In verità, non avrebbe neppure potuto esordire presentandosi come Lavinius Valles, perché novant'anni prima l'idiota se n'era uscito con una proposta.

«"Lovino"?»
«"Lavinius" sa troppo di vecchio. Siamo nel Cinquecento, dobbiamo essere al passo coi tempi!»

Quella era stata una delle rarissime volte in cui l'imbecille aveva avuto ragione. Strano a dirsi, ogni tanto succedeva. Poi, però, Lovino aveva letto i documenti ufficiali e aveva notato un Vargas lì dove ci sarebbe dovuto essere un Valles.

«Che cazzo è un vargas?»
«Significa "pendio della montagna". Considerala una traduzione del tuo cognome!»
«Intanto pendio della montagna ci sarai tu. Poi...» Non si era potuto esimere dallo spappolargli lo stomaco con una testata: «Non prendere queste iniziative in documenti ufficiali!»
«Ma dicevi che non ti piace come pronunciamo il tuo cognome!»
«Infatti fa schifo.»
«E poi d'ora in poi abiterai qui. "Vargas" ti si addice molto di più.»
Almeno, quelle erano le frasi che aveva capito, perché lo scimunito stava rantolando - ma lui era intelligente e le capiva, le cose.

Se già "Lavinius" gli aveva dato problemi - era di origine etrusca, gli aveva detto il nonno, e il fatto che non si vedesse un etrusco da almeno millecinquecento anni gli aveva impedito di scoprire cosa accidenti potesse significare il suo elegante nome da femmina -, "Lovino" li aveva in parte accentuati. C'era chi gli aveva fatto notare il suo rievocare il vino, per poi chiedersi se non fosse destino che spettasse alla Franc- Ovviamente, Lovino era scappato a gran velocità prima di dare il tempo al satiro gallico di completare la sua agghiacciante affermazione. Poi c'era chi aveva affermato che il suo nome non fosse vero, in quanto inesistente. La testata spacca-interiora l'avevano supplicata.
A ben pensarci, ormai doveva avere la testa ricoperta di callo osseo, a furia di giustiziare gli stomaci dei cretini - che, per sua grande sfortuna, erano tanti. A volte aveva pensato che sarebbe stato bello e scenografico se gli fossero cresciute due grosse corna d'osso, ma poi si era reso conto che l'imbecille avrebbe reagito sventolandogli davanti una muleta - e Lovino si era subito visto presentarsi davanti ai sovrani, a comunicare loro la triste dipartita della loro nazione in una corrida improvvisata.
Tornò a concentrarsi sul foglio e decise di mettere da parte l'idea di iniziare con una presentazione: non era "Lavinius Valles" da novant'anni, e "Lovino Vargas" era un nome così particolare che avrebbe senz'altro distratto i lettori, costringendoli a fermarsi a pensare piuttosto che a proseguire l'indiscutibilmente fantastica biografia.
C'era inoltre un secondo problema, in realtà ben più pressante del primo: in che cazzo di lingua avrebbe dovuto scrivere? Siciliano illustre, napoletano, abruzzese, pugliese, lucano, calabrese, logudorese, campidanese, turritano, gallurese? Romanesco o latino sarebbero state le scelte più ovvie, ma l'immagine della sua preziosa eredità nelle mani dello zio Petrus lo spaventava abbastanza da pensarci il meno possibile. Il fiorentino trecentesco sarebbe stata l'altra scelta più ovvia, ma il fiorentino era roba di Feliciano e il trecentesco lo rendeva stantio. Quell'altra lingua era fuori discussione, naturalmente. Correre nudo urlando: «Soy un súbdito fiel del santo Reino de España!» sarebbe stato meno umiliante. E poi lui non aveva mai parlato spagnolo, se non con i sovrani - che erano umani, e della lingua delle nazioni non capivano una sillaba -, di certo non l'avrebbe usato per una cosa così importante come la mastodontica biografia dell'erede dell'Impero Romano.
Come poteva scrivere qualcosa se non sapeva neppure in che lingua scriverla? E soprattutto, al di sopra di qualsiasi problema lingustico o onomastico... cosa ci avrebbe scritto?
Nonostante le apparenze, aveva visto più di cinque secoli di storia, nessuno avrebbe potuto dire che non avesse nulla da raccontare! Il problema stava nel fatto che non ci fosse nulla che lo facesse apparire eroico: non pretendeva la conquista del mondo come suo nonno, ma almeno una cosa piccola come sfoderare la propria flotta e fare a pezzi Impero Ottomano - cosa che aveva brillantemente fatto il suo tenero fratellino minore, dallo sguardo tonto e la vocina di miele. Impero Ottomano l'aveva incontrato anche lui ma, in quella situazione, Lovino aveva vestito i panni della Damigella In Pericolo - colpa del suo nome da femmina, ne era sicuro! L'aveva salvato Spagna, ma era suo dovere, quindi non contava. Spagna l'aveva salvato anche da Francia, ma non aiutare qualcuno a scappare da Francia sarebbe stata l'azione più crudele possibile per qualsiasi essere vivente, quindi non contava neanche quella.
Ci pensò meglio. Aveva visto nonno Roma partire per un viaggio da cui non era più tornato, aveva visto sua madre Langobardia morire in battaglia contro il nuovo re dei Franchi, che di lì a poco si era preso suo fratello e l'aveva portato oltre le Alpi; aveva visto lo zio Petrus approfittare dell'improvvisa mancanza di Langobardia per inglobare più territorio possibile, strappandogli l'eredità lasciata dal nonno; aveva visto lo zio Marino disinteressarsi al suo destino, aveva visto all'incirca Chiunque interessarsi alla posizione strategica delle sue terre e all'eredità di suo nonno.
"Minchia, che vita di merda." Era alto un metro e una mela, aveva perso nonno, madre e fratello, uno zio fingeva di non vederlo e l'altro pure, il suo territorio era integro come un vaso di terracotta sfracellato a terra e si era ritrovato solo contro un numero indefinito di imperi interessati a caricarselo in spalla e a portarlo lontano da casa sua. Cosa che, per inciso, aveva fatto il cretino dopo aver bastonato Francia - Non che fosse chissà quale impresa, dato che Francia era incapace di studiare una strategia sensata.
Il suo rancore e il suo odio per tutti era giustificatissimo. Se solo fosse cresciuto e fosse diventato bello e forte come nonno Roma, allora sì che avrebbe potuto combattere a testa alta per il suo regno - i suoi regni - e si sarebbe potuto riprendere Veneziano! Allora sì che avrebbe potuto scrivere pagine e pagine di splendide lotte all'ultimo sangue in cui picchiava Francia, gonfiava Impero Ottomano, stendeva il Sacro Romano Impero al completo - Gli stava particolarmente sulle palle, Sacro Romano Impero, e aveva degli ottimi motivi per volerlo vedere cancellato dalle cartine - e si riprendeva, vittorioso, il suo tenero fratellino dall'aspetto indifeso. Ah, sì, si sarebbe occupato anche di Spagna, ma tanto Spagna era scemo, quindi avrebbe avuto pietà e gli avrebbe fatto giusto un po' male, come un avvertimento. E, una volta riunitosi a Feliciano, sarebbero stati Italia. Italia: la terra dei giovani tori.
Lovino spalancò gli occhi. Giovani tori? Artigliò il foglio, lo trasformò in una sfera perfetta e lo scagliò fuori dalla finestra. Lui era lì che si spremeva il cervello per superare i terribili problemi della stesura della biografia e gli imperi stranieri arrivavano a contaminargli persino le etimologie!
"Non è ancora il momento." Battè i pugni sul tavolo e si alzò di scatto: "Perdonami, nonno, ma non sono ancora pronto per scrivere una biografia degna di rivaleggiare con la tua!".
Qualcuno bussò alla porta, con invidiabile tempismo. L'avesse fatto anche solo otto secondi prima, gli avrebbe fatto la pressatura dell'uva nello stomaco.
«Entonces, Lovi!» Ovviamente era l'idiota, convinto che bastasse bussare per avere il permesso di entrare: «Come sta andando la biografia?»
Se gli avesse detto la verità, lui, rincitrullito com'era, l'avrebbe stritolato in un abbraccio e gli avrebbe ricordato quanto fosse pequeño, adorable y lindo - ed era l'ultima cosa che voleva.
«Fanculo.» Pronunciata la risposta di base a qualsiasi domanda fastidiosa, Lovino andò alla finestra. Al momento, la presenza di imperi rischiava di causargli una brutale orticaria e non voleva ritrovarsi con gli occhi grossi come cipolle solo per averne guardato uno.
«... Lovi?»
«Cazzo vuoi?» D'accordo, Spagna era stupido, ma stava mostrando un livello a dir poco tragico: la penna era ancora nel calamaio, i fogli erano visibilmente meno di quanti se ne era portati in stanza ed erano bianchi immacolati, persino Feliciano avrebbe intuito!
«Sei...»
"... Ma si scem?" Il tono dell'altro era così stordito che provò pietà e si voltò verso di lui. Come previsto, stava sfoderando una delle sue espressioni più stupide.
Ora che ci faceva caso, però, non aveva dovuto alzare la testa. Spagna era più alto di lui, ma gli era bastato alzare appena lo sguardo per lanciargli un'occhiataccia. Le cose erano due: o gli spagnoli tendevano a rimpicciolirsi - insieme alle strutture architettoniche e alla mobilia -, o non era stato il mondo a cambiare. Lovino, che era una persona acuta e intelligente, capì subito e agì di conseguenza.
«Porca di quella puttana!»
«Va tutto bene, Lovi, è normale-»
«E grazie al cazzo che è normale, era pure l'ora!»
Si affrettò a raggiungere lo specchio e il vedersi ben al di sopra del bordo inferiore fu già un primo piacevole colpo al cuore - Esisteva un tipo di colpo al cuore piacevole, ma le menti inferiori non gli avevano mai creduto. Scrutò il ragazzo dall'altra parte del vetro e, dopo qualche minuto, approvò, cercando di non mostrarsi troppo fremente. Avrebbe voluto subito ammirarsi di più e meglio, ma non intendeva fare niente del genere con del fastidioso pubblico spagnolo. A quanto pareva, il nonno doveva aver ascoltato la sua preghiera accorata e l'aveva trasformato in un giovane alto e bello. Sì, più basso di Spagna, ma di certo più bello di lui - ed essendo Spagna quello più esteticamente accettabile di tutta Europa, ne conseguiva il suo essere diventato l'uomo più bello che il Vecchio Continente avesse mai visto. Sì, probabilmente Feliciano sarebbe stato identico a lui, ma Feliciano era pure una mozzarella con lo sguardo perso nel mondo dei sogni. A rovinare tutto quel ben d'Italia c'erano i vestiti: i pantaloni gli arrivavano al ginocchio e quella sottospecie di tunica ricavata da uno straccio per lavare i pavimenti si era accorciata fino ai fianchi. Doveva (finalmente) liberarsene e indossare (finalmente) qualcosa di più consono.
«Ohi, bastardo.»
Antonio parve svegliarsi. Avrebbe potuto pensare fosse rimasto romanticamente e passionalmente ammaliato dal suo fascino indiscutibile, ma era più probabile fosse impegnato a realizzare quanto fosse successo - Ciarlava lui e ciarlavano in tanti sul país de la pasion, ma lui tutta 'sta incredibile pasion aveva sempre faticato anche solo ad intravederla - E, per inciso, stava benissimo così.
«Portami dei vestiti decenti, che questi sono tornati ad essere degli stracci.»
Spagna sospirò. Non era un buon segno, perché voleva dire che avrebbe tirato fuori qualche scusa stupida per non dargli ragione: «È tardi, non possiamo chiamare i sarti adesso.» Per l'appunto: «Ma possiamo farlo domani!» E lì s'illuminò, e quella era una cosa che precedeva frasi brutte: «Intanto, posso darti qualcosa di mio!»
Portare stracci fuori misura e sembrare un morto di fame o indossare i vestiti smessi di una delle nazioni più ricche d'Europa? La logica imponeva la seconda, la dignità lo frenava, il fatto che fosse Spagna era un incentivo a rifiutare, ma il fatto che la scelta fosse tra stracci spagnoli e costosissimi abiti spagnoli eliminò qualsiasi dubbio: «Portami quelli più decenti. Ti aspetto qui.»
Un'altra espressione stupida, a riconferma del suo titolo di país de las tonterías: «Non sarebbe meglio se venissi da me?»
«E secondo te esco con questa roba?» Novant'anni che lo conosceva, novant'anni che doveva spiegargli l'ovvio: «Nessuno deve vedermi con questa schifezza. E guai a te se lo dici a Luciano o Marita.» La voce si era appena incrinata sul secondo nome, ma fece finta di nulla. «E se provi a portarmi i gregüescos, te li faccio ingoiare!»
Il volto di Spagna si rabbuiò di colpo. Era comprensibile, stavolta. «Continuo a scordarmi di bruciarli.»
«E portami qualcosa di colorato.» aggiunse Lovino: «Che la moda tetra mette una tristezza infinita.»
«Non è tetro!» Quell'affermazione doveva aver avuto il potere di spazzare via l'inquietante immagine dei gregüescos, perché il suo Capo era tornato alla modalità "Lovi, por favor, escuchame!": «È elegante!»
«È elegante per un funerale.»
La cosa positiva di quella modalità era la sua breve durata, e il suo puntuale concludersi con una resa: «Ti porto il vestito rosso.»
Prima che Lovino potesse chiedere di quale vestito rosso stesse parlando, Antonio era già sparito. "... Spero che il vestito rosso sia decente.".

Il vestito rosso era stranamente decente. Camicia bianca, panciotto rosso, pantaloni rossi, calze bianche, niente abiti mortiferi e niente gregüescos. S'intonavano persino ai capelli castano rossicci, e contrastavano gli occhi verde nocciola. Ora che ci faceva caso, i suoi colori erano piuttosto confusi. Adeguati per una nazione che poteva imprecare in oltre dieci lingue ma non sarebbe stata in grado di sceglierne una.
«Te quedan bien!»
«Sì...» Dovette ammettere. Aveva rifiutato la giacca perché... I pantaloni aveva potuto tirarli un po' su, ma la giacca sarebbe apparsa troppo grande per lui. Non doveva far sapere a nessuno che quelli fossero gli abiti di Spagna, indossare una cosa del genere avrebbe significato sbandierarlo.
Qualcuno bussò alla porta. Era un bussare leggero, ma bastò a fargli schizzare il cuore in gola. Quello era un colpo al cuore poco piacevole, invece. Cioè, il motivo era piacevole, erano le conseguenze ad essere non piacevoli.
«Possiamo entrare?» C'era una sola persona - nazione - che aveva la decenza di bussare in quel modo, ed era forse quanto di più carino il Vecchio Continente avesse mai visto quanto a bellezza femminile. Doveva essere stato Spagna a darle il permesso, perché Marita era educata e aspettava sempre, prima di entrare.
Quando incrociò quei grandi occhi verdi, avvennero diverse cose nel giro di un singolo secondo: i suoi timpani soffrirono a causa di un urlo troppo alto; il suo respiro venne meno, perché qualcosa gli si era lanciato contro con violenza; si era reso conto, con gran scorno, di non essere virilmente più alto di lei, ma di poterla guardare dritta negli occhi; la temperatura si era alzata di botto, non appena aveva realizzato cosa stesse succedendo e che ciò che sentiva contro il petto non erano le morbide onde di lunghi capelli femminili.
«Come sei carino!» La presa di Belgio era inaspettatamente forte, come non inaspettato fu l'acuto nella "i" di "carino". Marita si scostò appena, e incontrò di nuovo il suo sguardo. Ridacchiò, senza neppure darsi pena di nasconderlo: «Sei dello stesso colore del tuo vestito!». Fingere uno svenimento avrebbe potuto liberarlo da quella situazione, ma non aveva intenzione di fare la ragazzina svenevole solo perché la donna più bella del mondo gli si era spalmata contro e aveva il viso ad una spanna scarsa di distanza. Assolutamente no!
«Dagli tregua, Mari.» Luciano era rimasto sulla soglia della porta, lo sguardo a metà tra la sorpresa e la rassegnazione.
«G-Gliel'hai detto!» Lovino si costrinse a guardare Antonio, perché continuare ad avere il viso di Marita a pochi centimetri era deleterio per la concentrazione: «Ti avevo detto-»
«Io non ho detto niente.» Fu la candida risposta dell'altro, minimamente turbato.
Luciano prese subito la parola: «L'abbiamo sentito.» spiegò, sintetico.
«Che sono più grande?» Era possibile una cosa del genere? Non gli era mai capitato di percepire nazioni in crescita. Le uniche sue esperienze a riguardo erano state più estreme.
«E visto che l'unico piccolino qui sei tu...» Una guancia gli venne tirata e Lovino dovette tornare a guardare Marita. Avrebbe potuto pensare lo stesse facendo apposta.
«Ormai Lovi non è più piccolino.» L'idiota battè le mani, gli occhi gli brillavano un po' troppo: «Luciano, domani chiama i sarti. Lovi ha bisogno di un guardaroba nuovo!»
Lussemburgo alzò appena un sopracciglio: «Lungi dal non eseguire l'ordine...» disse, piano: «Ma le nostre finanze-»
«Non sarà qualche vestito a mandarci in bancarotta!» Senza abbandonare quel sorriso da idiota che amava tanto sfoggiare, Spagna si rivolse a Belgio: «Marita, vai nelle cucine. Stasera si fa festa!»
«Sì!» Finalmente, la ragazza lasciò andare Lovino. Metà di lui sentì improvvisamente freddo, l'altra metà riprese a ragionare in modo coerente.
«Devo chiamare anche le ballerine di flamenco?»
«Ora non esageriamo.»
"Come "non esageriamo"?" Lovino fece per lanciargli un'occhiataccia, ma la voce di Belgio lo distrasse: «Vuoi che dica ai cuochi di fare i churros?» Di nuovo, la temperatura si alzò troppo e la voce si rifiutò di uscire. Si limitò ad annuire.
«Oh.» Marita guardò da sopra la sua spalla, verso lo scrittoio: «Ancora nulla per la biografia?» Nonostante fosse un po' scema anche lei, Belgio era senza dubbio la persona più intelligente che avesse mai incontrato. Dato che la voce era ancora incastrata da qualche parte nella gola, Lovino fece di no con la testa.
«Ma almeno ti è servita, eh?» Gli prese le mani. Le sue, nonostante il colorito candido e le dita affusolate, non erano morbide. Gli era già capitato di sentirle, visto quante volte gli accarezzava la testa, ma in quel momento quasi se ne stupì. E fu prossimo allo svenimento sul serio, ma resistette con invidiabile stoicità.
«C-Cosa?» Il filo dei suoi pensieri era poco lineare. La voce era riuscita a liberarsi, ma era uscita a pezzettini minuscoli e graffiati.
«Beh, devi aver pensato qualcosa di importante.» Belgio annuì alle sue stesse parole: «Deve essere stato per questo che sei cresciuto!»
«Ah...» Aveva desiderato crescere, era vero. Era bastato così poco? Era davvero stato quel singolo desiderio? A saperlo, si sarebbe premurato di esprimerlo molto prima.
«Ne parleremo dopo.» Spagna s'intromise, Belgio lasciò le mani di Sud Italia e Romano fu tentato dal tirare una testata all'imbecille. Non poteva più colpirgli lo stomaco con precisione, ma avrebbe potuto rivoltargli la faccia - con il naso sulla fronte, gli occhi sul mento e la bocca affanculo. «Hai un incarico, Marita. E anche tu, Luciano, torna alla contabilità.»
«Io ci vivo nella contabilità.» Lussemburgo alzò gli occhi al soffitto, Belgio si congedò con un sorriso più luminoso del sole: «Benvenuto nel mondo dei grandi, Lovino!».
Solo in quel momento Romano realizzò appieno di soffrire di un gravissimo problema causato dagli occhi verdi. Avrebbe dovuto trovare una soluzione, o avrebbe passato i secoli successivi sull'orlo dell'eruzione vulcanica, incapace di muoversi e ragionare, con la voce ad intermittenza. L'unico modo che ebbe per rispondere, quindi, fu annuire un'altra volta.

Se li avessi davvero guardati, forse avrei notato qualcosa già allora. O forse no, forse le cose sarebbero andate esattamente così. Che cosa diavolo ho visto per novant'anni?




La settimana stava volgendo al termine e Lovino non aveva ancora fatto i suoi due giorni di lavoro autopattuiti. Questo significava lavorare per ben due giorni di fila, per un probabile totale di sei ore a meno di settantadue di distanza.
«Ma magari, ora che sei più grande-»
«Vaffanculo.»
Ovviamente lo schiavista aveva provato ad incastrarlo, ma lui aveva la risposta pronta e le gambe veloci. Tuttavia, per non venir meno alla sua idea - il minimo necessario per poter rispondere a tono a tutti coloro che gli davano dello sfaticato -, dovette indossare gli stracci da lavoro, prendere la cesta e andare a cogliere pomodori.
"Ma quanti cazzo di pomodori ci sono?" Li coglieva, li coglieva, li mangiava, ma sembravano rigenerarsi durante la notte. Erano buoni, erano belli, ma stavano iniziando a diventare un incubo. E sfidava chiunque a dire che raccogliere pomodori due giorni a settimana per novant'anni non avesse un che di inquietante. Ignorò una voce fastidiosa che gli faceva notare come fosse improbabile avesse colto pomodori in inverno - una voce fastidiosa che suonava come quella di Antonio - e si guardò attorno, in cerca di qualsiasi altra cosa da fare. Non c'erano mari, non c'erano laghi, non c'erano fiumi e di certo non poteva pescare nei canali d'irrigazione; non c'era legna da tagliare - non che avrebbe fatto una cosa tanto faticosa, ma poteva aggiungerla alla sua lista di lamentele -, le stalle erano già affollate - e, anche se non lo fossero state, non si sarebbe mai abbassato a rimanere in un luogo con degli scarti organici in vista -, i pollai erano già stati visitati e-
Belgio stava raccogliendo patate. Se ne stava inginocchiata, con un enorme cappello in testa e un altrettanto enorme cesto vicino. Afferrava un ciuffo d'erba con due mani, tirava ed estraeva tuberi bitorzoluti ricoperti di terra; li staccava, li spolverava, li ispezionava e li buttava nel cesto. Poi affondava le mani nel terreno da cui aveva appena tolto la patata, riemergendo con altre non necessariamente più piccole. Si muoveva con calma, quasi non avesse fretta. Beh, di certo le patate non sarebbero scappate (Supponeva.), quindi, in effetti, poteva dire che non avesse fretta. E poi non è che ci fosse tutta quella gran richiesta di patate - dunque, in primo luogo, perché le coltivavano?
Marita alzò lo sguardo. Era più vicina di quanto pensasse. Ah, no, era lui che si era avvicinato. Quando era successo?
«Lovi!» Belgio si alzò, si spolverò le ginocchia e lo raggiunse in due passi. Romano si accorse solo in quel momento che indossava i pantaloni. «Vai a cogliere pomodori?»
Il suo gravissimo problema la giudicò vicina abbastanza da potersi manifestare, quindi Lovino si ritrovò senza voce. Scosse la testa. La situazione iniziava ad essere ridicola: conosceva Belgio da decenni, aveva passato quasi un secolo ad approfittare delle più disparate occasioni per sederlesi sulle gambe, perché sembrava l'avesse appena vista?
«Ti sei stancato, eh?» Marita sospirò. «Ti capisco. Anch'io ho chiesto di passare alle patate, giusto per cambiare un po' la visuale!» I capelli le arrivavano alle spalle, in onde biondo cenere, ma non avevano nulla da invidiare alle lunghissime chiome delle nobildonne. «Preferirei occuparmi del cacao, in realtà.» Nonostante passasse molto tempo all'aperto, non era abbronzata come lui. Forse non si toglieva mai il cappello? «Sono sicura che ci si possa tirare fuori qualcosa di buono-» Forse era cresciuta anche lei, ma non se n'era accorta. Non era sempre stata così, ne era quasi sicuro. «-magari mischiandolo con qualcosa di più dolce, perché è davvero troppo amaro, mi chiedo come facciano gli americani a mangiarlo!»
«Dammi un bacio.»
Ora poteva andare a sotterrarsi insieme alle patate. Aveva pensato - per sbaglio -, che magari - sarebbe potuto succedere - avrebbe potuto - forse - provare - non si sapeva mai - a cort- interessarsi a Belgio. Era oggettivamente bellissima, era oggettivamente la persona più intelligente che conoscesse, adesso erano entrambi adulti, perché non avrebbe dovuto? Solo che, nella sua mente, la scena si sarebbe dovuta svolgere in maniera piuttosto diversa. Lei era più bassa, arrossiva, abbassava lo sguardo e balbettava qualcosa, imbarazzata. La situazione reale era talmente nonsapevaneppureluicosa da essersi manifestata identica ma opposta.
Una risata leggera lo costrinse a tornare a guardarla. Non sapeva neanche cosa avesse borbottato lui stesso, forse un'imprecazione, ma non è che gli importasse granché.
«Sei cresciuto ma non sei cambiato, vedo.» Belgio sorrise. «Va bene.»
"Come va bene?"
Lei si portò i capelli dietro le orecchie. Lui sarebbe volentieri fuggito, ma la sua idea di sotterrarsi doveva starglisi rivoltando contro, con i piedi che avevano già messo radici. Marita tornò ad avvicinarglisi come aveva fatto pochi giorni prima, con totale disprezzo di qualsivoglia forma di pudicizia. Lovino, impossibilitato a fuggire - o anche solo muoversi, o anche solo parlare, o anche solo urlare, o anche solo continuare a maledire la propria voce talmente fuori controllo da dar voce ai suoi pensieri -, non trovò altro modo di scappare se non serrando gli occhi. Per nessun motivo logico, le mani si strinsero e il respiro venne meno. Forse stavolta sarebbe svenuto sul serio - per l'imbarazzo o per soffocamento.
Qualcosa sulla fronte.
Riaprì gli occhi. Se avesse aspettato qualche secondo, non si sarebbe ritrovato in quella posizione sconveniente, con lo sguardo costretto a guardare in alto per bloccare qualsiasi pensiero lussurioso. Troppo tardi, ovviamente. Pregò solo che Marita non se ne fosse accorta.
Belgio tornò a terra con un saltello. Erano alti allo stesso modo, si era dovuta mettere in punta di piedi per portare le labbra alla sua fronte. Romano riconsiderò l'utilità delle radici: dovevano essere quelle a tenerlo in piedi, al momento.
«Stavolta hai accettato!» ridacchiò Marita.
Lovino annuì, la mente piena di nebbia e la temperatura a livelli solari. Si sarebbe potuto rinfrescare facendo una passeggiata dentro la bocca dell'Etna.
«Anche se...» Belgio si portò una mano alla guancia, lo sguardo pensieroso. «Forse non era quello che volevi. Però è quello che posso darti.»
Quelle parole furono un vento che spazzò via la nebbia. La mente era ancora stordita, ma iniziava a dare segni di ripresa. «P-Perché?» ... Insomma, stava iniziando a dare segni di ripresa. Non si poteva pretendere riuscisse a fare anche domande sensate.
«Perché non voglio darti ciò che vuoi.» La placida risposta di Marita, accompagnata da un sorriso, sarebbe stata una pugnalata al cuore se Lovino non fosse già partito con aspettative rasenti il nullo. Le cose non sarebbero potute andare diversamente, in fondo lo sapeva: niente era mai andato come sognava e, soprattutto, Marita doveva vederlo ancora come un bambino. Aveva fallito nel mostrarsi un vero uomo maschio e virile, non poteva biasimarla.
«Temo suoni un po' male.» ammise Belgio, picchiettando un dito contro la guancia. «Non è che ti odio, Lovi. Anzi, sei una delle cose più lief en schattig che mi sia mai capitato di incontrare!» Aveva un po' paura di sapere cosa fosse un "lief en schattig". «È che non sei tu la persona a cui penso di più.»
Romano si fece attento: «La persona...?» Dunque Marita pensava a qualcuno in particolare? Dubitava fosse qualche umano, doveva trattarsi di una nazione. Lussemburgo? Il suo fratellino era lì con loro, in perfetta salute, perché avrebbe dovuto? Spagna? ... Eliminò subito quell'ipotesi. Se Belgio lo stava rifiutando per Spagna - Spagna -, gli avrebbe personalmente estirpato le regioni vitali nel modo più cruento possibile. Francia? Rabbrividì. Di certo non sarebbe stata così calma se avesse pensato a Francia. Rimaneva una sola nazione.
«Torniamo al lavoro.» La voce di Belgio lo riportò alla bizzarra realtà. «O Antonio ci sgriderà e poi Felipe e Mariana sgrideranno lui!»
L'idea di Spagna sgridato da un'austriaca, seppur di discendenza spagnola, non lo emozionava troppissimo. Scosse la testa per eliminare qualsiasi traccia di nebbia residua e trasse un respiro profondo. L'aria sapeva di terra, ma bastò a spegnere il fuoco che l'aveva incendiato fino a quel momento. Ci fosse stata anche un po' d'acqua, avrebbe fatto il pieno dei Quattro Elementi - Ma non l'avrebbe mai detto a Spagna, neppure come battuta, ché poi lo guardava strano e gli chiedeva conferme circa la sua fede cattolica.
«Ti aiuto.» Riuscì a dirlo e se ne compiacque. La voce non tremava. Era bello riuscire a parlare con Marita senza sembrare un idiota. Sentiva solo un residuo di lava sulle guance e gli occhi erano più umidi del previsto.
«Mi aiuti?» cinguettò Belgio.
«Ti aiuto.» Mosse le gambe. Ci riuscì, quindi le radici dovevano essersi seccate per il troppo caldo. Meglio così. Posò il cesto accanto a quello di Marita e s'inginocchiò. Gli era capitato di cogliere patate, qualche volta. Di rado. Aveva rinunciato quando si era reso conto di doverci mettere un briciolo di forza.
«Come posso rifiutare l'aiuto di un così gentile cavaliere?» Marita lo raggiunse a terra. Sembrava di buonumore. Non seppe perché, ma si sentì in qualche modo sollevato. Forse perché Belgio sembrava di buonumore per la sua presenza, non perché l'avesse preso in giro. E, se si sentiva di buonumore per la sua presenza, non doveva esserle sembrato troppo ridicolo o senza speranza.

«Sai cosa mi piace dello stare con te, Lovi?»
Romano trasalì. Si era quasi abituato a starle vicino senza dire una parola - ed erano trascorsi appena dieci minuti - ed esordire in quel modo gli aveva fatto deflagrare il cuore.
«Che non devo parlare spagnolo.»
... Questo non se l'era aspettato. Marita parlava spagnolo senza problemi e non aveva mai dato l'impressione di odiarlo.
«Con te che ti rifiuti e parli solo la lingua delle nazioni, mi viene spontaneo usarla!» Era il modo in cui stavano comunicando anche in quel momento, del resto.
«Beh, sono costretto a parlare spagnolo con gli spagnoli.» le fece notare: «Con te, Luciano o il bastardo parlo nella lingua delle nazioni. Non vedo cosa ci sia di speciale.»
Marita ridacchiò. Ma era una risata un po' strana. «Luci ed io parliamo in spagnolo con Antonio.» Ora che ci pensava meglio, aveva ragione. Era così abituato a sentire il cretino parlare in spagnolo da essercisi assuefatto.
«E tu e Luciano...» Si bloccò. In effetti, dovevano parlare due lingue diverse: il belgiese e il lussemburghese. Trattenne un verso di stizza: avrebbe voluto dire che fratelli che parlano lingue diverse avevano un sapore triste, ma lui da solo ne parlava più di una decina e l'unica che aveva in comune con suo fratello era ormai stata monopolizzata e modificata da qualcun altro.
«Parliamo in spagnolo.» Belgio tirò su un ciuffo di patate con un po' troppa forza. «Noi non... abbiamo esattamente una nostra lingua.» Non distolse lo sguardo dal bottino. «La stiamo costruendo, pian piano. Anche se è difficile, parlando solo spagnolo tutto il giorno. Cioè, Luci la sta costruendo. A me va benissimo la lingua di Abi.»
Ed ecco che quel nome era stato pronunciato. Abel. Era oltre un anno che nessuno osava più dire quel nome - o Olanda, o Paesi Bassi, o Repubblica delle Sette Province Unite, o Repubblica dei Sette Paesi Bassi Uniti, o qualsiasi altra roba affine.
Marita pescò le patate dal terreno con molta meno calma di prima. Lovino si sedette. Non sapeva cosa dirle - Era stata lei ad iniziare quella conversazione, doveva essere conscia che si sarebbe arrivati a quel punto. Nonostante fino a quel momento si fosse rivelato disastroso, disse la prima cosa che gli venne in mente: «Sei pentita?»
Belgio si fermò. Lo sguardo era fisso sulle mani sommerse di terra fino quasi ai polsi. Incredibile quanto il terreno delle patate riuscisse ad essere granuloso. Mosse una mano piano, come se la stesse muovendo nell'acqua.
«No.» rispose, infine. La sua voce era gentile, ma suonava in qualche modo meno calma. La sua espressione, invece, era nascosta dai capelli e dal cappello. Era ovvio che non fosse più di buonumore. Romano non capì perché si fosse lanciata in quell'argomento spiacevole - con lui, tra l'altro -, ed era sicuro che una sola parola sbagliata avrebbe fatto non pochi danni.
«Ero nel tercio, sai?» Belgio parlò di nuovo. Lovino annuì. Ricordava la partenza sua e di Spagna fin troppo bene. Marita estrasse le mani da terra e mimò un'arma da fuoco. «Ero una dei moschettieri. Moschettiere semplice.»
Lovino aggrottò la fronte: «Non eri maestre de campo
«No.» Marita abbassò l'arma invisibile. «Eravamo contro mio fratello. España non poteva rischiare di vedere un maestre de campo passare al nemico.»
«E allora perché ti ha portata?»
«Gliel'ho chiesto io.»
Romano tacque. Si limitò a guardarla, ora che il suo viso era di nuovo visibile: era calma, ma non serena.
«Lovi.» In un battito di ciglia, quell'ombra sul volto di Belgio scomparve, coperta dal suo solito sorriso allegro. «Ti posso rivelare un segreto?»
Una frase del genere, unita a quell'espressione così da Marita, lo mandò di nuovo a fuoco. Ma stavolta non si sarebbe fatto sottomettere da delle emozioni insensate!
«C-Certo!» Annuì, come a dare più forza alle sue parole.
«Un segreto segretissimo che rimarrà solo tra noi due?» Si era sporta verso di lui. Forse stava sognando, ma gli sembrava quasi di vedere, nei suoi occhi, una minuscola speranza. Quando annuì una seconda volta, s'immaginò di aver visto giusto.
«Io non mi chiamo Marita.»
«Eh?» Sbattè le palpebre, confuso. «C-Come sarebbe a dire...?»
«"Marita" non è il mio vero nome.» ripetè Belgio: «Mi chiamo Manon. Sono diventata "Marita" quando sono venuta qui.»
«Manon...» Lovino soppesò quel nome, sillaba per sillaba. Era un po' strano - suonava francese, e questo era un difetto - ma, a guardarla bene, le si addiceva molto di più di "Marita".
«Ormai anche Luci ha smesso di chiamarmi così. Ma vorrei tanto che almeno lui lo facesse!» Belgio gonfiò le guance, con disappunto. Romano non era sicuro che quel tono giocoso non nascondesse un po' di tristezza.
«T-Ti chiamerò "Manon", allora!»
Manon sgranò gli occhi. «Davvero lo faresti?»
Il problema degli occhi verdi tornò a manifestarsi in una forma più lieve. «S-Sì. Se ti fa piacere.»
«Mi farebbe piacerissimo!»
Quell'abbraccio rischiò di farlo cadere sulla schiena, ma Lovino riuscì a rimanere seduto. Poteva sopravvivere a Manon spalmata addosso, al suo viso a due dita dal suo, alle sue labbra sulla fronte, al fatto che tutto ciò che di curvo avesse fosse premuto contro di lui, ma ritrovarsi sdraiato sotto di lei sarebbe stato un colpo letale.
«Quando siamo soli, però.» Manon si scostò appena, per guardarlo negli occhi. Lovino cercò di non pensare all'ipotesi di ritrovarsi di nuovo da solo con lei, ma l'aveva appena fatto.
«S-Sì. È un segreto, no?»
Belgio annuì. Tornò seduta, le mani alle ginocchia piegate. Non sembrava troppo intenzionata a tornare alle patate.
«Perdonami, Lovi.»
«Eh?» "Cosa? Quando? Perché?"
«Per prima. Sarò sembrata strana, ad incupirmi di colpo in quel modo.» Si schiacciò il cappello contro la testa, con un sorriso di scuse. «Sono un po' stanca, in questo periodo. Penso a cose tristi anche quando non sarebbe il caso.»
«Tuo fratello si è ribellato e ti sei trovata contro di lui sul campo di battaglia.» La voce era uscita più piatta del previsto. «È passato appena un anno. Chiunque sarebbe ancora turbato.» Il ricordo di Feliciano disperso da qualche parte nel territorio di Sacro Romano Impero gli fece serrare i pugni. «Tu, invece, ti sei già ripresa. È naturale che-» La voce gli morì in gola. Solo pronunciando quelle parole aveva realizzato: quando Manon era tornata, si era ritrovata davanti il suo fratellino - preoccupato per lei, per il loro fratello. Lei non si era ripresa: aveva taciuto per non turbare suo fratello più di quanto lui non fosse già.
«... Lovi.» Belgio si era abbassata il cappello talmente tanto da tornare a coprire il volto con la falda. «Forse è meglio se rientriamo. Il sole picchia parecchio.» Intravedeva il suo sorriso, ma era ben lontano dall'essere naturale.
«Metà della mia famiglia è distrutta, metà è pronta a saltarmi alla gola.» Romano abbozzò un sorriso, ma sapeva benissimo quanto potesse risultare amaro. «Se dovessi mai trovarmi contro quell'idiota di Feliciano, credo impazzirei.»
Manon rimase immobile. Solo la curva delle labbra mutò: da piegata all'insù, divenne una linea dritta. La vide fare un respiro profondo. Lei dischiuse le labbra, ma non parlò. Le richiuse. Alzò la falda del cappello, svelando gli occhi lucidi. Dischiuse di nuovo le labbra e, stavolta, parlò: «Era la cosa più giusta da fare.» Nonostante la sua espressione, la voce era ferma. «Dove pensava di andare, Abi? Era solo, completamente solo, e si stava gettando in pasto a leoni affamati.» Sospirò, ma sembrò più uno sbuffo. «Una nazione sola, giovane e inesperta tra le braccia di Francia e di tutto il Sacro Imperio Romano, sotto gli occhi di Inglaterra e Dinamarca e Noruega, circondato dai territori di España. Non credo possa esistere posizione geografica peggiore!»
Messa in quel modo, Olanda perdeva tutto il suo cupo fascino ribelle e si trasformava in un emerito idiota. Ma Lovino l'aveva sempre detto di avere la sfortuna di conoscere un sacco di imbecilli.
«Ho chiesto a España il permesso di unirmi al suo esercito perché volevo riportarlo qui. Qui, al sicuro. Con me e Lucilin.»
«Lussemburgo?» capì Romano.
Belgio parve accorgersi solo in quel momento di ciò che aveva detto. Serrò le labbra e guardò altrove, quasi avesse detto una terribile parolaccia di fronte ai sovrani. Quando tornò a guardare Lovino, mormorò: «Anche questo è un segreto. Luci me la farebbe pagare, se scoprisse che ho rivelato il suo nome.»
«Non lo dirò a nessuno.» Non gli era ben chiaro il motivo di tutta quella segretezza ma, se era un suo desiderio, lo avrebbe rispettato.
Manon gli regalò un sorriso più sereno. O meglio, meno finto di quello mostrato poco prima. «Ho chiesto a España solo a titolo informativo.» riprese: «Se avesse rifiutato, mi sarei introdotta nell'esercito di nascosto. Dovevo parlare con Abi. Dovevo raggiungerlo, convincerlo. Ma so che ha la testa più dura del marmo, quindi sapevo che l'unico modo per convincerlo che avessi ragione sarebbe stato sconfiggerlo!»
Romano affondò il volto in una mano. «Ragioni come un impero.»
«Non è una via che mi piace.» protestò Belgio: «Io preferisco risolvere le cose parlando. Ma Abi non mi ha mai ascoltato, quindi non ho potuto fare a meno di provare anche la via meno piacevole.» Posò entrambe le mani a terra. «Però Abi ha vinto. E ora è una nazione indipendente. È passato un anno e non è ancora stato assalito da Francia, Sacro Imperio Romano, Inglaterra o Dinamarca e Noruega.»
Lovino non riuscì a nascondere i brividi. Già l'esistenza di tutti quegli imperi al di là delle Alpi (o dei Pirenei) gli metteva ansia, pensare di esserne circondato lo faceva tremare tanto da faticare a rimanere in piedi - ma era seduto, quindi Manon non l'avrebbe mai saputo.
«Non mi pento di aver combattuto contro di lui.» disse Manon, e la sua voce sicura era una conferma delle sue parole: «Volevo riportarlo al sicuro e quella era l'unica strada che mi era rimasta. Ho fallito e me ne sono fatta una ragione.» Abbassò lo sguardo. «Almeno Luci è al sicuro. E lo sono anche i nostri popoli.» Il "ma" pendeva sopra di loro, pesante come un macigno. Quando Belgio parlò di nuovo, la sua voce era appena un sussurro: «... Ma mi chiedo cosa l'abbia spinto a ribellarsi a España.»
Romano non disse nulla.
«Qui aveva tutto. Il suo popolo era al sicuro dagli altri imperi, qui c'era tutta la sua famiglia... Perché ribellarsi, gettarsi in una mischia di guerre che non sembrano avere mai fine, correre un rischio del genere, per...» Le dita affondarono nella terra. «Ci ho pensato molto. Credo di aver capito. E non è un pensiero piacevole.» Tornò a guardarlo negli occhi. Sembrava... sollevata? Possibile?
«Adesso rientriamo davvero, Lovi. O queste» Indicò le patate. «si cuoceranno e España ci sgriderà!» Scattò in piedi, raccolse il cesto e gli porse la mano. Lovino si maledisse per non averlo fatto lui per primo - sarebbe stato molto più galante, nonché un'occasione per non fare la figura del bambino. Accettò comunque la sua mano, bella ma poco delicata. Era ovvio che la mano di una donna che lavorava la terra e imbracciava moschetti non fosse morbida e immacolata.
«... Grazie.» borbottò.
«Eh?» Manon piegò appena la testa di lato. «Grazie? Per cosa?»
«Per la tua fiducia.» Raccolse il proprio cesto, contenente ben una patata. «Mi sembri stare meglio. Forse dovevi parlarne un po'.»
Belgio non rispose subito, quasi fosse rimasta senza parole. Ma le parole le ritrovò presto, così come la sua tendenza alla fisicità: «Mi hai fatto parlare proprio tanto, eh, Lovi?» Gli tirò una guancia, le dita ormai ruvide per il troppo rimestare nel terreno.
«M-Manon!»
«Ma non ci posso fare niente, sei così lief en schattig che non riesco a resisterti!»
E da quello Lovino capì che "lief en schattig" tutto voleva dire tranne che "possente e virile", rendendo invece sempre più concreta la possibilità che fosse un tragico sinonimo di dulce y lindo.
«Sono io che ti ringrazio.» Quello di Manon fu un sussurro quasi impercettibile.
«Eh?»
«Su, su, non senti già una voce disperata che urla "Donde estááááá mi pequeño Lovinitoooo"
«Ti prego, dimmi che non lo fa sul serio in pubblico-»
«Ehm... »
«... Lo ammazzo. ».



«Dobbiamo fare un discorso.»
«Va bene, va bene.» Lovino riemerse dal lenzuolo, e sperò di avere un'espressione abbastanza irritata. «Oggi mi sono distratto. Domani ti porterò tutte le patate che vuoi.»
Persino lui si rendeva conto del fatto che presentarsi dal suo Capo con un cesto contenente un'unica patata non fosse esattamente una grande dimostrazione di impegno e laboriosità, ma non aveva la minima intenzione di mostrarsi pentito. Perché no.
Quando era rientrato in casa, Antonio l'aveva guardato con un misto di severità ed esasperazione, la ramanzina già prossima alla partenza, ma Manon si era intromessa: «Perdonaci.» Aveva sorriso. Sì, era vero, tra di loro parlavano in spagnolo. «È stata tutta colpa mia, in realtà. Abbiamo parlato così tanto che non ci siamo neppure accorti del tempo che è passato!»
Romano si era dovuto trattenere dal dire qualsiasi cosa: Belgio era così buona e gentile che l'idea di apparirle come un bambino lief en schattig bruciava sempre di più.
«Marita.» E così, la ramanzina era stata dirottata su di lei. «Tu sei più grande. Dovresti dare il buon esempio.»
Ad onor del vero, per quanto ne sapeva Lovino, Manon era di un paio di secoli più giovane di lui - ma il fatto che lei fosse una splendida donna dal Millequattrocento e lui fosse appena cresciuto per caso eliminava qualsiasi sua pretesa di anzianità.
«Hai ragione, scusa.» Manon aveva ridacchiato, per poi saltellare via. «Me ne vado in cucina, ciao ciao~»
Romano sarebbe rimasto a guardarla sparire oltre l'angolo, ma la voce del cretino-che-stavolta-avrebbe-pure-avuto-ragione l'aveva strappato alla sua visione: «Ne riparliamo stasera, Lovi.» Era stato un sospiro di resa e, un poco - ma molto poco -, Lovino aveva provato qualcosa che si sarebbe potuto lontanamente definire un accenno vago dell'idea immaginifica di una minuscola puntina effimera e trasparente di senso di colpa. Ma era stato ben lungi dal manifestarlo. Quindi ora si doveva sorbire Antonio in camera, spazio circoscritto con un'unica porta al momento poco raggiungibile e finestre troppo in alto per pensare di fuggire calandosi.
«Non sai quanto vorrei crederti.» Con un altro sospiro, Spagna si sedette ai piedi del letto. Era riuscito a liberarsi dai suoi impegni solo all'ora di andare a dormire e, di certo, questo non aveva acuito quell'accenno vago dell'idea immaginifica di una minuscola puntina effimera e trasparente di senso di colpa. Affatto.
«Che palle.» Romano si lasciò ricadere sul materasso. «Domani te le raccolgo tutte, contento? Così tutta la fauna locale potrà mangiare per mesi!»
Per tutta risposta, ottenne un altro sospiro. Ma non si sarebbe mostrato pentito. Non per delle brutte patate bitorzolute.
«Spero tu e Marita siate stati bene, almeno.»
Lovino rispose con un mugugno. Forse la frecciatina un po' la meritava.
«Ne ha davvero bisogno. Pobrecita.»
Si fece più attento. Il tono di Antonio era un po' troppo serio e non era un buon segno. Si rimise a sedere, piano. Come sospettava, Spagna sembrava preoccupato. Pessimo, pessimo segno. Spagna era troppo stupido per preoccuparsi di cose superficiali.
«Per la guerra?» azzardò a chiedere.
Antonio annuì. «Non so neppure quante battaglie abbia combattuto. Per ottant'anni.»
Sentirlo dire ad alta voce era più spaventoso di come avrebbe potuto immaginarlo. Certo che lo sapeva. Li aveva visti partire, tornare, ripartire e ritornare, per chissà quante volte. Ma Manon tornava sempre con un sorriso, parlando con la sua voce squillante, come se fosse semplicemente andata a fare una passeggiata. Per otto decenni non aveva fatto altro che fingere per non far preoccupare le due nazioni più piccole presenti in quella casa - per non dare un dolore a suo fratello minore. Romano trattenne una smorfia. Fratelli minori. Sempre colpa loro.
«Io ero con lei.» disse Spagna: «Ogni volta che mi vede, rivede le battaglie contro Holanda. Non ha nessuno con cui parlare.» Giunse le mani. Non aveva mai smesso di guardare davanti a sé. Forse era anche lui era perso in quei ricordi - ma, al contrario di Manon, riusciva a riviverli con freddezza. Forse anche questo suonava un po' anormale, per più di un motivo.
«... È una brava ragazza.» La frase più stupida che Lovino avrebbe potuto dire. Ma tanto era Antonio, poteva dirgli qualsiasi cosa e lui l'avrebbe presa per buona.
Il tono di Spagna, infatti, non cambiò. Si rese conto che avrebbe preferito il contrario. «Ma la guerra l'ha turbata. Molto.»
... Qualcosa non andava. «Spiegati.»
Finalmente, Antonio si degnò di smettere di rimirare la parete e di guardare lui. Non fece nessuna faccia stordita, né stupida. Era serio, e Lovino avrebbe tanto voluto che la smettesse.
«Lei...» Spagna parlava piano. Non a bassa voce, era quasi stesse cercando le parole più giuste: «... Marita ha spesso pensieri cupi.»
Sì. L'aveva vista lui stesso. E li aveva al punto da parlarne all'improvviso, come se fosse sul punto di scoppiare - e chissà, forse quel giorno le sarebbe andato bene chiunque. "Proprio chiunque, eh?".
«Ha molte domande, ma non riesce a trovare risposte che la soddisfino.» Spagna continuò: «Lei è tornata qui, a casa, ma la sua mente ancora vaga per i campi di battaglia. Le ci vorrà del tempo per tornare.»
Lovino annuì, piano. Non si era mai accorto di niente. Manon era stata davvero brava a fingere.
«Per questo motivo, Lovi...»
Romano tornò a guardarlo. Non si era neppure accorto di aver distolto lo sguardo.
«Senti ciò che Marita ha da dirti, se lo desideri, ma non ascoltarla.»
«Eh?» Inarcò un sopracciglio. «Questa è la frase più stupida che-»
Spagna continuava a rimanere serio. «Quando qualcuno arriva a questo punto...» Con la coda dell'occhio, Romano notò che aveva stretto i pugni. «I pensieri si distorcono fino a sfociare nel delirio.»
Il sangue si fece ghiaccio. Non era possibile. "Manon... È impazzita...?" Aveva sentito di soldati impazziti durante le guerre. Ne aveva sentito, sì. Non li aveva mai visti, ma ne aveva sentito parlare. Però Manon non aveva mai mostrato segni di squilibrio. Ma Manon era stata davvero brava a fingere.
Scosse la testa, a scacciare quel pensiero. Non era possibile. Non era possibile.
«Lovi.» Spagna gli aveva coperto una mano con la sua. Non si era accorto di averle serrate anche lui. «È bello che tu voglia stare vicino a Marita. Ne ha bisogno, in questo momento. Ma stai attento a ciò che dice.»
Non poteva guardarlo negli occhi. Non mentre gli diceva una cosa del genere, con quella voce seria che usava solo nelle situazioni davvero gravi. Non avrebbe sopportato di vedere ancora quell'espressione - avrebbe significato accettare le sue parole, accettare che...
«Se...» Si fermò. Non poteva dirlo. Sarebbe stato troppo.

Se io dovessi combattere contro mio fratello, credo anch'io impazzirei.

«Se tu dovessi affrontare tuo fratello e le tue sorelle? Non saresti così anche tu?» rigirò il discorso. Solo così riuscì ad alzare lo sguardo e a guardarlo dritto negli occhi. Non sapeva neppure che tipo di risposta volesse. Forse, voleva solo che qualcun altro gli dicesse che, sì, il suo cuore ne sarebbe uscito distrutto, che era una cosa naturale, che Manon sarebbe tornata quella di sempre, che lui non avrebbe mai dovuto trovarsi in una situazione tanto-
«Ehm, Lovi...» L'espressione di Antonio si sciolse in un sorriso a disagio. «Io sono in guerra con Portugal da qualche anno.»
Ah. Giusto.
«Cataluña mi odia.» aggiunse: «Castilla e Galicia hanno preferito andarsene chissà dove. Non le vedo da decenni. E Valencia e Gibraltair mi rivolgono la parola solo se costrette.»
Lovino dovette distogliere lo sguardo un'altra volta. La domanda peggiore alla persona sbagliata. Spagna si rivelava sempre inutile.
«... Non mi ricordavo foste parenti.» borbottò. Non aveva usato neppure i loro nomi propri. Il bastardo chiamava per nome Francia - Francia! - e parlava di suo fratello e delle sue sorelle come avrebbe parlato di estranei. Ma, del resto, aveva smesso di dire "Abel" ottant'anni prima. Doveva essere il suo modo di distaccarsi.
Portò le ginocchia al petto e vi affondò la faccia, con un ringhio di frustrazione. Come cazzo erano passati dalle patate brutte ad un discorso del genere? Allora era vero che erano frutti demoniaci!
Spagna tolse la mano dalla sua ma, un istante dopo, la sentì sulla testa.
«È ora di dormire, Lovi.»
"E certo, ora sì che dormirò senz'altro benissimo!" «Ohi.»
«Sì?»
«Puoi dormire qui. Lo so che i tuoi capi ti hanno rotto i coglioni tutto il giorno e ora non riusciresti neppure ad arrivare in camera tua.» E così, aveva fatto ammenda per la patata. Se non avesse accettato, cazzi suoi.
«Está bien!»
Romano riemerse appena dalla sua muraglia di ginocchia. Antonio aveva di nuovo un'espressione stupida e la sua voce era di nuovo da idiota. Non era lusinghiero, ma lo preferiva così. Avere un simile cretino vicino avrebbe fatto desistere qualsiasi pensiero cupo dall'avvicinarsi.
«Non ti appiccicare.» lo ammonì: «Stattene dalla tua parte.»
«Sí, sí!» Oltre che idiota, sembrava pure su di giri. Lovino si rassegnò al fatto che avrebbe cercato di stritolarlo nel sonno.
Ma andava bene così. Con il tempo, Manon si sarebbe tranquillizzata, e sarebbe tornata la Belgio scema e allegra che aveva conosciuto novant'anni prima. Antonio non avrebbe più parlato in quel modo cupo e lui avrebbe potuto continuare ad insultarlo senza sentirsi anche solo vagamente in colpa. Andava bene così. Del resto, lui non avrebbe potuto farci niente, se non aspettare che le cose si sistemassero. Andava bene così.

Non avevo davvero capito un cazzo.


.

Note:
* "Lief en schattig": "Dolce e carino" in olandese.
[ Personaggi ]
* Anche se a volte si trova segnato che "Lavinia" significhi "purezza", il significato del nome è sconosciuto - Si sa solo che è di origine etrusca.
* Dato che Roma è il nonno delle Italie, mi sono chiesta chi potessero essere i genitori. Ho quindi pensato a Langobardia come alla loro madre: si tratta del regno longobardo, fondato nel 568 e caduto nel 774 per mano di Carlo Magno. È da qui che inizia ad esserci una divisione tra nord e sud, con Langobardia Maior (il nord, fino alla Toscana) e Langobardia Minor (il sud); da questo, ho pensato che la nascita delle Italie potesse collocarsi intorno all'inizio del 600 (senza il Mille davanti), come appunto "Langobardia Maior" (Veneziano) e "Langobardia Minor" (Romano) - Ironico, dato che è quest'ultimo il maggiore, e non ho messo date specifiche apposta- [ 1, 2, 3 ]
"Aspetta, ma come possono le Italie aver conosciuto nonno Roma se sono nate nel 600 e l'impero romano è caduto nel 476?" Beh, ho pensato che, visto che quello d'Oriente è caduto nel 1453, nonno Roma potesse essere rimasto in giro per un altro po' di tempo imprecisato, anche se non credo fino al 1453 - credo che Impero Romano d'Oriente possa essere un altro personaggio.
Lo zio Petrus e lo zio Marino sono, rispettivamente, Stato Pontificio e San Marino. Tra il 754 e il 1649, tra donazioni e annessioni, lo Stato Pontificio ottenne il controllo su Lazio, Umbria e Marche, e una porzione dell'odierna Emilia Romagna - e la sua capitale era ovviamente Roma. [ 1 ]
* Nel 1649, il Belgio e il Lussemburgo erano i "Paesi Bassi spagnoli".
In precedenza (Abbastanza in precedenza, tipo tre secoli prima), esistevano il Ducato di Lussemburgo e le Contee di Hainaut e delle Fiandre. Così, invece di chiamarli in qualche modo bellissimo tipo "Paesi Bassi spagnoli 1" e "Paesi Bassi spagnoli 2", ne ho approfittato per chiamarli "Lussemburgo" (suo nome originario) e Belgio (perché chiamarla "Hainaut" o "Fiandre" avrebbe implicato la presenza di un quarto fratello/sorella a rappresentare l'altra Contea, e ho approfittato del fatto che i romani chiamassero i nativi "Belgi" e la zona "Gallia Belgica"). [ 1 ]
* "Felipe" e "Mariana" sarebbero il re Filippo IV e la regina Maria Anna d'Austria. Gli Asburgo erano tutti imparentati, quindi anche quest'ultima era in parte spagnola.
* Per l'età di Manon mi sono basata sulla Contea di Hainaut, signoria nata nel 900 e corrispondente a gran parte dell'attuale Belgio. Ho pensato potesse essere "cresciuta" nel 1400 perché, dagli anni '80, ci fu una grande fioritura economica ed artistica. [ 1, 2 ]
* Il nome che ho scelto per Lussemburgo, "Lucilin", viene dall'antico nome del Lussemburgo, "Lucilinburhuc". "Luciano" non ne è la traduzione, ma è semplicemente assonante - e abbreviabile nel neutro "Luci".
* Una nota su Castiglia: sembra che nello stesso Hetalia ci sia una gran confusione sul chi debba rappresentare Antonio, se Castiglia o Aragona. Dato che, secoli orsono, l'autore aveva parlato di un'ipotetica sorella maggiore a rappresentare la Castiglia, sono andata di conseguenza, con Antonio prima Aragona e poi tutta la Spagna, e Castiglia come sorella maggiore. Logica avrebbe voluto lei fosse quantomeno presente, ma that's plot convenience!
(Se invece la cosa non vi convince - E VI CAPISCO TANTISSIMO -, pensate ad Antonio come alla Castiglia e sostituite tutti i "Castiglia/Castilla" con "Aragona/Aragón". Non è vitale per la trama.)
Catalogna e Gibilterra penso siano universalmente conosciute; Galizia e Valencia sono altre due attuali comunità autonome della Spagna, entrambe un tempo regni (Regno di Galizia e Regno di Valencia).
[ Storiche ]
* Il capitolo è ambientato nel 1649, ma il 1648 fu un anno duro per la dominazione spagnola: fu firmato il Trattato di Münster, parte della Pace di Vestfalia, in cui la Spagna riconosceva l'indipendenza delle Province Unite (i Paesi Bassi); a Napoli, venne bloccata la Rivolta di Masaniello, uno dei primi tentativi rivoluzionari del meridione italiano contro il governo spagnolo.
La rivoluzione olandese durò ben ottant'anni (1568-1648), e fu sullo sfondo della Guerra dei Trent'Anni (1618-1648), conflitto che coinvolse praticamente l'intera Europa. Le lunghissime e logoranti guerre segnarono l'inizio del declino dell'impero spagnolo. [ 1, 2, 3 ]
* !Divergenza dal canon!: In Hetalia, Spagna conquista il Sud Italia a seguito della Battaglia del Garigliano (1503), mentre io faccio riferimento alla Pace di Cateau-Cambrésis (1559).
La differenza sta nel fatto che la Pace di Cateau-Cambrésis è quella che dà "ufficialmente" inizio alla dominazione spagnola nel Sud Italia, per quanto con la Battaglia del Garigliano - e successivo Armistizio di Lione - la Spagna avesse già conquistato il Regno di Napoli.
Per questo nel capitolo si parla di "novant'anni"; potete pensare ai cinquantasei anni extra come ad un tira-e-molla tra Spagna e Francia oppure, se la cosa non vi convince, sostituite quel "novanta" con "centoquarantasei". (È abbastanza ininfluente ai fini di trama.) [ 1, 2, 3 ]
* Se già fare ricerche sulla moda passata maschile è difficile, trovare qualcosa di moda maschile che non sia vittoriano-edoardiano rasenta l'impresa. Per questo motivo, mi scuso nel caso l'abbigliamento risultasse poco accurato. ( ;°Д°)
A giudicare dai quadri, la moda maschile del secondo Seicento in Spagna prevedeva abiti scuri, se non proprio neri.
I gregüescos, o "pantaloni spagnoli", sono probabilmente la cosa più brutta mai concepita dalla mente umana: calzamaglia aderentissima, palloncini giganti sui fianchi e pacco in risalto. Stranamente, in un paio di decenni furono soppiantati dai "rhinegraves" (di cui non trovo una traduzione in italiano), una loro versione infinitamente più sobria. [ 1, 2, 3 ]
* Per la cronaca, nel 1649 la bandiera della Spagna era bianca con una croce rossa, la Croce di Borgogna. La Spagna ebbe la sua celebre Rojigualda a partire dal 1785, anche se inizialmente solo come insegna navale. [ 1, 2 ] (Se non si capisce a cosa si riferisca questa nota, fate caso ai colori dei vestiti di Romano.)
* Strano a dirsi ma, inizialmente, la coltivazione delle patate in Europa non ebbe granché successo - le si ritenevano un cibo per animali, e si arrivò addirittura a pensare che potessero provocare la lebbra (per il loro aspetto poco armonioso) o che fossero un frutto (tubero) demoniaco (perché non citato nella Bibbia). Furono riabilitate dalla metà del Settecento, e da lì si diffusero in tutta Europa. [ 1 ]
(Si potrebbe pensare questo sia un fine simbolismo di Antonio che vede Manon come una perfida strega ammaliatrice, ma la verità è solo che non volevo mettere la solita raccolta dei pomodori - Okay l'amore, ma dopo novanta (o centoquarantasei) anni-)
* Lo saprete, il "belgiese" non esiste: in Belgio si parla olandese e francese. Il "lussemburghese", invece, esiste ed è una lingua germanica affine al tedesco, con influenze dal francese. La lingua è stata ufficializzata nel 1984, ma tutt'oggi nel Lussemburgo si parla più tedesco e francese che non lussemburghese; addirittura, la lingua amministrativa non è il lussemburghese ma il francese. Dato che non mi sembra ci siano notizie del lussemburghese prima del 1800, posso supporre che a metà 1600 non esistesse. [ 1, 2 ]
* Ovviamente tutti sanno dei Quattro Elementi: la nota sta nello specificare che, per il cristianesimo, si tratta di manifestazioni di Dio - e che difficilmente nel 1600 si sarebbero lasciati passare discorsi che avrebbero potuto far pensare al paganesimo o all'alchimia. [ 1 ]
* Il tercio era una formazione della fanteria spagnola, consistente in un quadrato di picchieri circondati da moschettieri. *Che descrizione sopraffina!* Essenzialmente, i moschettieri impedivano alla maggior parte dei nemici di avvicinarsi, mentre i picchieri s'impegnavano ad infilzare gli avversari più vicini. Per la maggior parte, si arruolavano soldati da un po' tutti i territori spagnoli in Europa. Come intuibile, il maestre de campo era uno specifico grado militare, per la precisione corrispondente al colonnello. [ Una descrizione più sensata sulle kiwipedia italiana e inglese: 1, 2 ]
* La Spagna e il Portogallo furono in uno stato di guerra tra il 1640 e il 1668 - la cosiddetta "Guerra di restaurazione portoghese". Si trattava perlopiù di schermaglie, con rare battaglie. Nel 1649 si era nella seconda fase (1646-1660), quella incentrata principalmente su piccole incursioni, approfittando del fatto che la Spagna fosse impegnata in altri millemila fronti. [ 1 ]


Salve~✰
Ne sono conscia. Io in Hetalia avrei tipo una long in hiatus dal 2013, però no, eccomi che me ne esco con una long storica Spamano. Long "storica" che ha un linguaggio assolutamente inadatto al Seicento, ma il POV di Lovino mi diverte troppo- *Perdonatela pls pls-*
A proposito del POV di Lovino. Non ho messo il disclaimer perché credo sia ovvio, però non fa mai male specificarlo: non rispecchia necessariamente i miei pareri. Io non ho niente contro germanici/francesi/laqualunque- ( ;゚д゚);;;
COMUNQUE, stavolta sono stata bravissima e ho aspettato di finire la long, prima di pubblicarla! Sono nove capitoli. Cioè, otto+epilogo.
Il titolo è un riferimento alle prime tre lettere di Esperia, il nome greco antico dell'Italia del Sud, e di España. Riprende anche il verbo esperar, che significa sia "aspettare" che "sperare". Tuttavia, mi rendo conto che possa far venire in mente tante cose - esperto, esperanto, esposizione, esponenziale, espettorante, espiazione, espirare, espugnare, espunto, espellere, espresso, esplorazione, esplosione, Espurr, eccetera eccetera -, quindi pensatelo come volete! *Soe, no-*
In realtà, questa storia ha una storia a sua volta. Tanto tempo fa, una volta finita la CanaSey, avevo in programma di fare una storica sul Risorgimento, con il POV alternato dei due fratelli. Un po' perché la CanaSey non è (ancora) finita, un po' perché all'epoca passai ad altri fandom, un po' per la mole immensa di lavoro di ricerca che impiegherebbe una storia sul Risorgimento, sono finita con il non farla più. Questo Giugno è capitato mi ritrovassi a giacere nel letto circa diciotto ore su ventiquattro per un paio di settimane, causa malanni all'orecchio, e per nessun motivo, a distanza di sette anni, mi sono tornati in mente Hetalia, la Spamano e la fanfiction sul Risorgimento. E niente, mi sono ritrovata a rielaborare la parte di Romano in una cosa molto più fattibile, spostandola ad altri avvenimenti storici - Come sempre in una storia storica (!), spero non ci sia niente che causi un supermassive plot hole capace di risucchiare l'intera trama. ( ゚д゚ )
(Dato che hanno annunciato una nuova serie di Hetalia per l'anno prossimo, mi chiedo se il tornarmi in mente del tutto a caso non sia stato destino. (?))
Spero che il risultato possa essere di gradimento~
  
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