– Kyoshiro… Puoi venire qui? – domandò la voce flebile dell’uomo. Il giovane, sentendo queste parole, si scosse dai suoi pensieri e girò la testa verso il futon. – Certo. – rispose. Si alzò, fece circa tre passi e si inginocchiò accanto al giaciglio del nonno, le mani appoggiate sulle cosce, simile ad un ospite nel corso della cerimonia del té. – Che cosa c’è? – chiese il giovane. Per alcuni istanti, l’anziano combattente esitò, indeciso e il suo petto si alzò e si abbassò in rauchi sospiri. – Puoi… Puoi stendere la tua mano destra? – soffiò con tono tremante. Il cancro lo consumava, ma non gli aveva tolto la lucidità. Kyoshiro si stava prendendo cura di lui e, con la sua presenza, cercava di lenire il suo senso di solitudine. Il giovane, pur perplesso, annuì e obbedì. Hittosai, con sforzi dolorosi, sollevò le braccia e afferrò le mano del giovane. I suoi polpastrelli, leggeri, ne sfiorarono il dorso, tastarono il palmo, ruvido di calli, toccarono le lunghe dita. Il rimorso colpì il petto dell’uomo, simile ad un pugno diretto sul volto. Accanto a lui, era l’unico figlio di sua figlia Kaori. E, a causa sua, erano stati costretti a soffrire il freddo e la fame. Eppure, la povertà non le aveva impedito di donare a suo figlio un’educazione sana. Kyoshiro, pur gravato dai ricordi di una triste infanzia, era riuscito ad andare oltre il suo odio. Mentre lui, Hitosai, malgrado la sua esperienza, non aveva saputo comprendere la limpidezza del sentimento tra Kaori e Kenichi. Kaori si era rivelata ben più coraggiosa di lui e lo aveva sconfitto. Lei, pur piegata dalla povertà e dal dolore, non era stata contaminata dalla cattiveria, mentre lui era impantanato in un senso dell’onore vuoto e inconcludente. E la sua vita si concludeva col peso dei rimorsi e dei rimpianti.
– Io devo chiederti scusa. – mormorò l’anziano combattente. Il più giovane, sorpreso, sbarrò gli occhi. – Ma che stai dicendo? – domandò, stupefatto. Un debole sorriso sollevò le labbra dell’uomo e i suoi occhi, per pochi, eterni istanti, brillarono di lacrime. – Tu hai un animo nobile, Kyoshiro e sei stato capace di perdonare la mia crudele stupidità… Ma io, in nome del nostro legame di sangue, ho preteso che tu mi chiamassi nonno, senza avere mostrato alcun segno tangibile di pentimento. E non ho saputo andare oltre i miei pregiudizi. La mia stupidità ha fatto soffrire te e i tuoi genitori. – mormorò, il tono triste, ma lucido. Ne era cosciente, il suo tempo si sarebbe presto concluso. Ma tale realtà non attenuava il peso del suo estremo dovere verso suo nipote. Tanto, troppo dolore opprimeva il suo animo e non poteva non donargli la debole consolazione della consapevolezza. Il giovane spadaccino tacque e la sua mascella si irrigidì. Suo nonno, in quei cinque anni, era mutato. E questo gli procurava una devastante pena. Quel suo pentimento era libero da qualsiasi ambiguità, ma giungeva in un momento assai difficoltoso per entrambi. Perché non si era accorto prima dei suoi errori? Perché si era lasciato dominare dai pregiudizi? Se lui non si fosse lasciato imprigionare dalla sua ostinazione, avrebbero potuto essere una famiglia. E tale coscienza trafiggeva il suo cuore di rimpianti. – Io ho creduto che l’onore fosse nelle forme… Ma tua madre, attraverso di te, mi ha mostrato che mi sbagliavo. Lei, nonostante la povertà e il dolore, non ha mai smarrito la purezza del suo animo. Ed è qui che sta il vero onore. Un uomo non si giudica per la sua discendenza, ma per le sue azioni. – concluse. Kyoshiro, sentendo queste parole, reclinò la testa sulla spalla destra e deboli singulti sollevarono il suo petto. Suo nonno aveva compreso i suoi errori nella loro interezza e gli aveva domandato perdono, senza alcuna pretesa. E il suo sguardo, malgrado la sofferenza del tumore, era lucido e consapevole. Quelle parole, finalmente, avevano consentito a Kyoshiro di emanciparsi dal peso dei ricordi. Tuttavia, la nera nube dell’amarezza non si dissolveva. Presto, suo nonno sarebbe morto. La sua mano destra, leggera, si posò sulla guancia avvizzita del vecchio, in una gentile carezza, e le sue labbra si piegarono verso l’alto in un sorriso. – Non devi preoccuparti, nonno. Io… Io ti perdono. – dichiarò il giovane pilota, il tono sincero. Per pochi, eterni istanti gli occhi di Hittosai si rifletterono nelle iridi castane del nipote. Nulla temeva la sua anima. La sincerità aveva richiesto al suo animo uno sforzo improbo, ma la ricompensa era valsa la sfibrante fatica. La sua anima era libera dai lacci e dai lacciuoli del rimorso e dell’orgoglio. Accennò ad un debole sorriso, poi i suoi occhi si chiusero e la sua coscienza scivolò nel sonno.