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Autore: Vento di Fata    29/11/2020    0 recensioni
[AU!] [Akuroku, accenni di Zemyx, XemSai, KaiXion, background VanVen]
"Sono tutti quel tipo di bambini che gli insegnanti definiscono “problematici” o “disagiati”, e forse è questo che li ha fatti avvicinare, come un branco di cani randagi che si raduna per difendersi contro il mondo e per leccarsi le ferite dopo ogni battaglia.
Alle volte Roxas, con i vestiti di seconda mano che ha troppa paura di sporcare e la cartella di scuola nuova e un fratello che gli vuole bene che lo aspetta a casa, si sente un pesce fuor d’acqua, sembra sempre che ci sia qualcosa che li divide, una consapevolezza che non riesce a comprendere, qualcosa che non li fa avvicinare. Ma in fondo gli piacciono quella nuova vita e quegli amici, anche se ogni tanto sente Ventus che torna tardi dal secondo lavoro e piange in salotto, quando crede che sia lui che Vanitas stiano dormendo."
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Axel, Roxas, Saix, Xion
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessun gioco
Capitoli:
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Link alla playlist della storia, le canzoni per il capitolo iniziano da "When you Love Someone" e finiscono con "Lost Boy"
Nota dell’autore: qui oltre agli avvisi del precedente capitolo vi segnalo anche la presenza di una scena di violenza tra un genitore e un figlio, discussione di abusi famigliari passati e di un attacco di panico descritto. La differenza di età, nonostante le età cambino in questo capitolo, resta comunque di quattro anni.
 
 
I am a lost boy from Neverland
Usually hanging out with Peter Pan
And when we're bored we play in the woods
Always on the run from Captain Hook
"Run, run, lost boy", they say to me
"Away from all of reality"

Neverland is home to lost boys like me
And lost boys like me are free

- Lost Boy, Ruth B 
I am a lost boy from Neverland
 
 
 
Non cambia nulla tra di loro, le prime settimane.
Lea è sempre Lea, che ride troppo e fa lavoretti poco legali per pagarsi la tinta e i tatuaggi e ha sempre l’erba in tasca da smezzare con Zexion e Demyx, e Roxas è sempre Roxas, che a scuola passa il tempo a scrivere storie che si vergogna di rileggere e promette a Ventus di non fumare e di non fare tardi quando usciva e che no, nessuno dei suoi amici fuma marijuana quando c’è lui, anche se poi torna a casa all’una con i vestiti che puzzano di tabacco ed erba.
Nessuno dei due menziona la sera del suo compleanno, e se qualcuno del gruppo ha intuito qualcosa, nessuno parla.
Le cose cambiano quando Lea gli fa una domanda.
«Hai mai pensato di fuggire da qua?» chiede un pomeriggio d’autunno. Sono nella camera che dividono Lea e Isa, sdraiati sul letto mentre si passano una sigaretta e guardano i poster ingialliti e i disegni attaccati al soffitto. Quel giorno Lea si è presentato con un livido che gli anneriva il collo, un cerotto sulla fronte e il labbro inferiore medicato malamente, ma ha sorriso comunque e gli ha proposto di andare a casa sua a fumare, dato che i suoi genitori sono fuori e Isa è con il suo misterioso fidanzato.
«Non proprio da qui, ma quando ero piccolo sì.» confessa Roxas onesto, soffiando fuori un po’ di fumo e guardandolo mentre sale verso il soffitto e scompare. Lea mugola con aria interrogativa. «I miei genitori litigavano sempre, anche prima che papà venisse arrestato. Ven viveva già con Vanitas e io ero da solo a sentire due adulti che si urlavano addosso e poi facevano sesso per fare pace dimenticandosi di avere un figlio che dormiva nella stanza accanto.»
«Che schifo.» commenta Lea. «Perché non sei scappato?» Roxas non risponde. «Dove ti sarebbe piaciuto andare?»
Roxas si gira a guardarlo. Ha una risposta sulla punta della lingua, ma troppa paura per dirla. Magari Lea alzerebbe un sopracciglio e farebbe una battuta, prima di rubargli la sigaretta e soffiargli il fumo in faccia per dargli fastidio. O riderebbe di lui, chiedendogli se veramente è così ingenuo. Mettendo su un sorriso forzato, Roxas ride e gli passa la sigaretta. «Non lo so.» dice. «Tu dove vorresti andare?»
«Twilight Town» risponde Lea senza esitazione, «dicono che ci sia un tramonto bellissimo e il miglior gelato al sale marino del mondo. Il mio posto ideale.» sposta lo sguardo verso Roxas, uno strano sorriso che gli aleggia sul volto e fa scendere un rivolo di sangue dal labbro spaccato. «Vorrei andarci insieme a te, sai.»
A quelle parole Roxas fa un suono del tutto simile a uno squittio, sentendo un calore invadergli le guance. «E come mai proprio con me?» riesce a chiedere attraverso il nodo che sente alla gola.
Una mano sale ad accarezzargli il viso, e Lea resta per un po’ a contemplarlo, come se stesse cercando di memorizzare ogni particolare del viso di Roxas. «Perché credo che la luce del tramonto su di te sarebbe bellissima.»
Il bacio che viene dopo sa di tabacco e sangue, e stavolta è Roxas a iniziarlo, sfiora con le dita la mano che arriva a cullargli la guancia come un uccellino ferito e muove impacciatamente le labbra contro quelle di Lea, il cuore che batte forte come se volesse uscirgli dal petto. Quando si separano dopo quella che gli sembra un’eternità sente un sorriso aprirglisi sul viso arrossato e Lea non smette di accarezzarlo, un’espressione indecifrabile negli occhi verdi.
«Fammi una foto, durerà di più.» sfugge a Roxas, facendolo ridere piano.
«Bel modo di rovinare un momento, Rox.» risponde Lea senza cattiveria prima di chinarsi di nuovo a baciargli le labbra, con una dolcezza quasi insolita per il ragazzo tutto spine che è abituato a vedere. Roxas si sente sorridere nel bacio e stringe nella mano il davanti della maglietta di Lea, sentendo contro le dita il battito del suo cuore. «Potrei abituarmici a tutto questo miele.» sussurra contro le sue labbra, facendolo ridere.
Nella luce del pomeriggio il viso di Lea e i suoi capelli brillano d’oro e d’arancio, come l’incendio che gli arde nel petto e lo spinge verso la vita, e Roxas si trova a pensare che per una volta tutto sembra essere a posto, chiusi in quella cameretta che puzza di fumo e di solitudine.
E tutto non è più a posto quando la porta d’ingresso sbatte contro il muro del corridoio e dei passi entrano in casa. Lea spalanca gli occhi e si tira a sedere di scatto, più agitato di quanto Roxas abbia mai visto, e con un gesto veloce spegne la sigaretta premendosela sul polso e balza in piedi. «Vai fuori» sibila, aprendo la portafinestra che sta dietro ai letti.
«Lea, ma che...»
«Lea!»
«Arrivo! Muoviti Rox.» il tono di Lea non è solo urgente, ma sembra quasi spaventato. Spinge Roxas sul balcone, in modo che sia dietro al muro e nascosto, accostando poi le imposte. «Dammi un minuto mamma, mi sto cambiando!»
«Se scopro che stai ancora fumando, ragazzo...»
Roxas rimane in ascolto, non azzardandosi a muovere un muscolo mentre sente Lea muoversi nella stanza, probabilmente nascondendo l’accendino e le sigarette e la giacca di Roxas che ha lasciato sulla testiera del letto, prima che la porta si apra con un tonfo. «Avevo detto che stavo arrivando!» sente Lea protestare.
«Non usare quel tono con me, Lea.» la voce di sua madre da sola è abbastanza da far capire a Roxas perché Lea si sia agitato in quel modo. Non sembra la voce di qualcuno da cui ti vorresti far scoprire in camera con un ragazzo a fumare. «Sai bene che non voglio vedere porte chiuse in questa casa. Stavi fumando di nuovo, non è vero?»
Lea sbuffa, fingendo una tranquillità che Roxas sa che non ha in quel momento. «Non stavo fumando. Ero al telefono con un amico.» dice. «Adesso non posso più chiamare i miei amici?»
«Bugiardo. Te l’ho già detto molte volte, Lea, che non voglio che fumi o che ti chiudi in camera.» il tono è di avvertimento, e per una volta Roxas non sente Lea rispondere per le rime. «Dove diamine è tuo fratello?»
«È fuori con i gemelli. Sono andati in biblioteca. E tu non dovresti essere a lavorare?» è una bugia bella e buona, Ienzo e Zexion sono dall’oculista, ma il rumore secco di uno schiaffo che segue la frase e il tonfo del peso di Lea che cade sul letto fa intuire a Roxas il motivo per cui non ha detto la verità.
«Non è compito tuo decidere come o quando posso tornare a casa, checca ingrata.» silenzio, solo il cigolio delle molle del materasso mentre Lea si muove. «a volte mi chiedo cos’abbiamo sbagliato con te e Isa.»
«Il primo errore è stato concepirci cred-» un altro ceffone. Roxas si copre la bocca con la mano per nascondere un sussulto, il cuore che batte a mille. Vorrebbe alzarsi, correre dentro e afferrare la mano di Lea e scappare via con lui, ma può solo restare contro il muro ad ascoltare.
«Chiedi subito scusa.»
«...scusami mamma.» la voce di Lea è talmente bassa da sembrare un pigolio.
«Bravo.» sente i passi allontanarsi e la porta aprirsi; «un giorno farete morire sia me che vostro padre, voi due.» i passi si allontanano, e anche da balcone Roxas può sentire il respiro profondo che prende Lea. La portafinestra si apre di nuovo e lui esce, con entrambe le guance arrossate, un graffio sullo zigomo e il labbro che ha ricominciato a sanguinare, e immediatamente afferra la mano di Roxas e lo tira in piedi.
«Dobbiamo levare le tende, Rox» lo dice con urgenza, stringendogli la mano talmente forte da fargli sbiancare le nocche; «appena usciamo dalla camera corri come se ci inseguisse il diavolo, ok?»
«Lea ma che...» non finisce la frase perché Lea gli tappa la bocca con la mano e lo tira insieme a lui nella camera. Può sentire, distante ma non troppo, il rumore di un televisore acceso. Lea mette la testa fuori e scruta il corridoio, e prima di accorgersene stanno correndo.
La porta d’ingresso si apre con un botto, ci sono delle urla sopra il rumore dei loro piedi sui gradini, Roxas stringe la mano di Lea mentre escono dal condominio e corrono per la strada, ignorando le macchine che passano vicino a loro. Quando si fermano, abbastanza lontani da essere in un posto che riconoscono a malapena, Roxas riesce a stento a respirare, si appoggia al muro cercando di riprendere fiato mentre alza lo sguardo su Lea. Lo sta guardando con gli occhi spalancati, anche lui col fiatone, il mento sporco di sangue e gli occhi lucidi, e prima che lo realizzi Roxas gli getta le braccia intorno al petto e lo stringe forte, premendo la fronte sudata contro la sua maglietta. Sente Lea espirare, e le sue braccia che lo stringono di rimando.
Cambia qualcosa, quel giorno.
 
È strano fare finta di niente, poi. Roxas, come gli altri, ha sempre visto la conseguenza, il dopo, di ciò che Isa e Lea passano in casa, i lividi e i cerotti e la tristezza quando devono tornare. E tutti cercano di distrarre tutti dai loro problemi, senza mai parlarne apertamente, e allo stesso tempo sono così concentrati sul loro vissuto da non accorgersi degli altri.
Ma dopo quel giorno è come se Roxas si rendesse conto di cose che non aveva notato prima. Non solo guardando Isa e Lea, il modo in cui sembrano chiudersi quando qualcuno alza la voce o sobbalzano se vengono afferrati con troppa forza, ma anche osservando gli altri da dietro il suo taccuino, mentre scrive storie e prende spunto da ciò che lo circonda.
Vede le occhiaie sui volti di Ienzo e Zexion, il modo in cui sembrano ripiegarsi l’uno sull’altro per sorreggersi a vicenda, l’ansia di Ienzo di essere il migliore e di sapere tutto, vede il tremolio nel labbro inferiore di Zexion quando vorrebbe dire qualcosa ma non ci riesce, perché non trova le parole o forse non ha il coraggio di dirle, il fatto che dopo tutti questi anni ancora si rivolgano ai loro genitori adottivi per nome, come se non fossero certi di restare.
Vede la paura di Xion quando il suo cellulare squilla e Naminé non è con lei, i vestiti troppo grandi che sembrano quasi cercare di nasconderla agli occhi del mondo, i capelli che non ha più smesso di tenere quasi del tutto rasati, le unghie spezzate e sporche di sangue perché se le mangia fino alla carne viva, i gesti nervosi e il modo in cui cammina come se le facesse male qualcosa.
Vede Demyx che ha smesso di fare quei suoni quando è felice e si zittisce prontamente quando inizia a parlare troppo animatamente di musica o in inglese, le sue chiacchere fin troppo entusiaste di come i suoi genitori lo stiano aiutando a smettere tutte le sue abitudini e comportamenti che fino a quel momento non si era nemmeno sognato di nascondere, il modo in cui sembra “normale” ma che di normale su di lui non ha nulla.
E guardandosi dentro, vede sé stesso: timido, piccolo, nascosto ai margini di due vite quasi parallele, che volta la testa quando sente Ventus parlare con Vanitas di quanto sia preoccupato per lui, per sua madre che continua a chiamarli, per le sue compagnie, il suo silenzio; che guarda il mondo attraverso la carta di un quaderno e l’obbiettivo di una macchina fotografica, troppo impaurito forse, per avvicinarsi, come un bambino che guardi un acquario di squali.
È come se rivedesse tutto per la prima volta.
E quello che vede lo spaventa.
 
Anche chiuso in camera e con la testa immersa nei compiti di filosofia, Roxas riesce a sentire lo squillare del telefono. Sente Vanitas alzarsi e andare a rispondere, chiedere chi parla. «Roxas sta facendo i compiti adesso, non può- non urlare, ti capisco benissimo. È urgente? Va bene...» la porta si apre e Vanitas mette la testa nella porta. «C’è un tuo amico al telefono. Dice che è urgente e non la smette di urlare.»
Chiudendo il libro di filosofia, Roxas prende il cordless scassato che gli porge Vanitas e risponde. «Pronto?»
«Roxas, vieni subito a casa di Xion!» la voce di Demyx quasi gli rompe un timpano. «Sai dove abita, alza quel culo e vieni!»
«Dem, ma che...» Demyx chiude la chiamata prima che possa finire. Ancora confuso, restituisce il telefono a Vanitas e valuta il da farsi, ma senza accorgersene si è già mosso per infilarsi la giacca a scacchi e andare a recuperare le scarpe. Anche senza pensarci, sa che se qualcuno dei suoi amici lo chiama direttamente a casa è perché c’è qualcosa di serio in ballo.
«Roxas...» il tono di Vanitas sembra pronto per una predica, ma nemmeno lui ci crede. «...non fare tropo tardi.» conclude. Roxas annuisce, infilando gli stivaletti senza nemmeno allacciarli e uscendo di casa, iniziando a correre non appena mette piede all’esterno.
Già dopo pochi metri sente, lontane, delle voci, e quando svolta col fiatone nella via dove Xion abita vede due macchine della polizia, e un piccolo capannello di persone tra cui riconosce i capelli rossi di Lea e quelli biondi di Demyx.
«Xion!» chiama Roxas, accelerando il passo per raggiungere i suoi amici. Si fa largo fino a raggiungerli, in tempo perché veda Xion uscire con in braccio Naminé, accompagnate da un poliziotto e da una donna in giacca e pantaloni, che tiene una mano sulla spalla di Xion e nell’altra tiene in mano quello che sembra un borsone.
«Xion!» stavolta è Demyx a chiamarla. «Che diamine è successo?» grida. Xion sobbalza, sorpresa dalle urla, ma si volta verso la donna e le parla a bassa voce, facendo nascere un’espressione confusa sul suo viso. La donna alza lo sguardo verso Demyx e dopo di lui guarda Roxas, Lea, Isa, Ienzo e Zexion, prima di lasciare la spalla di Xion e prendere in braccio Naminé, per permetterle di raggiungerli. «Che cosa è successo, Xi? Tutto il quartiere ha sentito le sirene!» chiede Demyx, ma Xion sembra quasi sollevata quando risponde.
«Hanno arrestato mio padre.» dice, la voce poco più che un sussurro. «E porteranno me e Nami in una casa-famiglia.»
«Cosa?! Ma che diamine... non posso-» Zexion mette una mano sulla bocca di Demyx prima che possa finire la frase, perché per la prima volta Xion sembra sorridere senza l’aiuto di una sigaretta o dell’erba.
«Non capisci, Dem?» le sta venendo da piangere, si sente nella voce, e Roxas vorrebbe tanto abbracciarla. «È finita. Non farà più nulla a me e Nami non rischierà...» si blocca, ma è in quel momento che tutto va a posto. Per questo è felice.
Nessuno sa cosa dire. Cosa si può dire, in quella situazione?
Ienzo si fa avanti per primo, allunga una mano e accarezza la testa a Xion, l’unico gesto che non l’abbia mai gettata nel panico. «Siamo tutti felici per voi, Xi. Ci chiamerai, non è vero?» dice, cercando e fallendo di nascondere l’emozione nella sua voce. Xion annuisce, chiudendo gli occhi contenta. Piano piano tutti loro imitano Ienzo.
Non sanno bene cosa dire, nessuno di loro è bravo con le parole, ma riescono a mettere su abbastanza frasi di senso compiuto, abbastanza da far capire la loro felicità per Xion e Naminé.
«Xion, dobbiamo andare.» la richiama la donna, senza alzare la voce, con il tono di chi sa come comportarsi in quella situazione. Xion le lancia un’occhiata e poi si gira verso di loro, e ha gli occhi veramente pieni di lacrime.
«Vi voglio bene, ragazzi.» dice prima di allontanarsi.
L’”anche noi” resta sospeso nell’aria mentre tutti la guardano salire su una delle macchine e partire, lasciandoli indietro ma andando verso qualcosa di migliore.
Si sente tanto il vuoto, all’inizio, come è giusto che sia. Le risate di Naminé, le parolacce, lo skateboard, manca tutto.
Quei vuoti vengono riempiti dalle chiamate e dalle lettere.
Quest’ultime iniziano, dopo qualche settimana, ad arrivare a tutti, a volte identiche e a volte diverse tra i vari componenti del gruppo. Lì Xion racconta tutto, della casa-famiglia, delle persone che incontra, dei dottori e di una dottoressa in particolare con cui deve parlare tutti i giorni. A volte insieme alle lettere arrivano anche dei disegni di Naminé, dove sono tutti disegnati con la fantasia di una bambina di sei anni. E nella sua fantasia Lea diventa una palla di spine rosse e Isa una nuvola, a quanto pare.
Le lettere ricordano a tutti loro che non stanno dimenticando, che anche se sono separati sono comunque amici.
Roxas spera di non doverne avere ulteriori prove.
 
«Lea, mi spieghi dove stiamo andando?» chiede Roxas, stringendo nervosamente la tracolla della borsa e dondolandosi sui talloni. Intorno a loro la stazione è vuota, forse per il caldo torrido di agosto e forse perché sono tutti in vacanza, ma esita comunque a stare troppo vicino a Lea in pieno giorno e in città.
«In culo alla balena, biondo» è la risposta pronta di Lea mentre salgono sul treno. «Lo scoprirai quando arriveremo.» Roxas sbuffa e si lascia guidare a due posti liberi, sfilandosi la borsa e lasciandosi cadere sul sedile. Lea si siede davanti a lui con un certo sorriso sghembo, dandogli un colpetto alla caviglia con il piede. «Avvisa tuo fratello e il suo fantasma che sei fuori a festeggiare il tuo compleanno, prima che chiamino la polizia.»
«Posso sempre dire che mi hai rapito» risponde senza perdere un colpo Roxas, anche se ha già in mano il telefono e senza nemmeno guardare digita un messaggio per Ventus e Vanitas. Sono con Dem e gli altri a festeggiare, mi sa che faccio tardi. «e non sarebbe tanto lontano dalla verità, visto che non mi dici dove mi stai portando.» Lea gli fa un ennesimo sorriso storto e prende a guardare fuori dal finestrino, volutamente ignorandolo e facendogli galoppare ancora di più la frustrazione nel petto. «Dai Leà, lo sai che odio le sorprese.» lo prega, usando il nomignolo che ha preso ad usare per dargli fastidio, sbagliando apposta l’accento e la pronuncia e guadagnandosi un’occhiata di fuoco dal più grande.
«Con quel nomignolo sei su del ghiaccio fottutamente sottile, Roxas Carol. Ora zittisci quella boccuccia e mettiti le tue adorabili cuffiette da gatto.» lo canzona Lea, riferendosi alle cuffie che Roxas ha ricevuto da Demyx quella mattina, un adorabile paio di cuffie bianche e blu con due orecchie da gatto sull’archetto di plastica. Roxas gli fa una boccaccia ma obbedisce e guarda Lea fare lo stesso con le sue cuffie, perdendosi entrambi nella musica mentre accanto a loro la città scorre via.
Piano piano Roxas perde il conto dei minuti che passano e delle stazioni in cui si ferma il treno, occhieggiando ogni tanto Lea che sembra assolutamente rilassato e tranquillo, il viso per una volta pulito da lividi che però gli anneriscono la parte di petto che riesce a vedere dallo scollo della maglia, gli occhi che ogni tanto incontrano i suoi e sembrano scintillare di malizia e impazienza, ma continua comunque a non proferire parola. Quando finalmente il treno si ferma un’ennesima volta e Lea si alza, Roxas sente di nuovo l’agitazione che gli stringe il petto, ma quando Lea gli sorride e gli porge una mano non può fare a meno di prenderla e stringerla forte.
La stazione dove scendono e da cui escono è piccola e pulita, quasi del tutto deserta, e un cartello sopra l’ingresso che dà sulla piazza fa sgranare gli occhi a Roxas.
Stazione di Twilight Town.
Si volta di scatto verso Lea, che continua a tenergli la mano e sorridergli con quel dannato ghigno sghembo che vorrebbe cancellargli a schiaffi e poi a baci come se non lo avesse appena portato a due ore da World That Never Was per il suo compleanno, e come se non lo avesse fatto per lui e lui solo, senza portare nessun altro dei loro amici e...
«Allora? Bella la sorpresa?» chiede.
Roxas si ritrova a dover raccogliere i pensieri per un attimo prima di riuscire a parlare. «Mi... mi hai portato... perché?» è l’unica cosa che riesce a gracchiare, il cuore che sembra soffocarlo, le guance che vanno a fuoco e i palmi sudati.
Lea gli fa un sorriso vero, aperto, raro come una gemma. «Te lo avevo detto che volevo venirci con te, Rox.»
Twilight Town è bella come se la era immaginata. È così diversa da World That Never Was, così bella e quasi famigliare, che Roxas non può fare a meno di guardarsi attorno come un bambino in un luna park, la mano saldamente stretta in quella di Lea – “nessuno ci conosce qua e nessuno lo andrà a dire a tuo fratello o ai miei genitori, Rox, non farti seghe mentali” – e l’altra che è infilata nella borsa, stretta intorno alla macchina fotografica che tira fuori a ogni via che incontrano e scorcio di cielo che vedono tra gli edifici, e presto le tasche posteriori dei suoi jeans sono piene di polaroid scattate, divise tra quelle che terrà e quelle che vuole mandare a Xion. Riesce a fare qualche foto anche a Lea, sia di nascosto che per sua richiesta, e dopo un po’ di convincimenti ottiene anche di farsi una foto insieme a lui, e quest’ultima non la mette in tasca ma la infila nella tasca sul petto della camicia, proprio sopra il cuore.
Anche Lea sembra catturato dalla città, gli occhi verdi illuminati dal sole brillano di una gioia quasi sconosciuta a Roxas, la gioia di un ragazzino spensierato che forse non è mai riuscito a essere. Con i suoi capelli rossi, così simili al colore degli edifici e del tramonto che stanno aspettando (sa che sono lì per questo, lo ha capito dal primo momento in cui ha realizzato di aver messo piede a Twilight Town), sembra appartenere a quel posto, e forse è così, perché Roxas non riesce a immaginarselo in nessun altro posto se non lì, che cammina in quelle strade illuminate dal sole col rumore del mare in lontananza, e non può fare a meno di pensare che dovrebbe essere l’unico posto in cui Lea può essere trovato. Lontano da World That Never Was, dal grigio e dallo smog, lontano da fumo e dai lividi, dalla droga e dal disordine.
Quando Roxas si volta verso Lea, dopo essersi fermato per guardare una vetrina, nota però un’ombra sul suo viso. Gli occhi sembrano perdere lo scintillio che li aveva animati, le labbra corrucciate in un’espressione di profondo pensiero, il fantasma di una tristezza che sembrava aver dimenticato. Senza pensarci Roxas alza l’obbiettivo e scatta una foto, catturando quel momento così intimo, quell’incrinatura nella maschera, così impercettibile e nascosta che quasi subito se ne pente. La foto finisce nella sua tasca e non ne fa parola, lo raggiunge di corsa e gli prende di nuovo la mano, osando alzarsi sulle punte – e comunque non arrivandogli sopra le spalle – per chiedergli un bacio, e vede l’ombra scomparire dal viso di Lea.
Il tramonto inizia ad avvicinarsi e Roxas si ritrova seduto su un muricciolo, i piedi a penzoloni verso una scarpata di qualche metro. Tra le mani tiene la foto che ha rubato a Lea, sfiorando con i polpastrelli delle dita il viso assorto stampato sulla fotografia. Vorrebbe chiedergli cosa stesse pensando in quel momento, quale nube avesse attraversato il suo viso, ma quell’attimo era stato così effimero e veloce che forse nemmeno lui aveva realizzato di averlo.
«A che pensi, Rox?» un bicchiere di plastica con una cannuccia gli compare davanti al viso e Roxas lascia andare la foto, infilandola nella tasca e prendendo il bicchiere. Lea si siede vicino a lui, una gamba piegata contro il petto e una a penzoloni accanto a quelle di Roxas, e si ficca in bocca il ghiacciolo al sale marino, dandogli un morso sperimentale prima di illuminarsi. «Avevano ragione a dire che qui fanno il ghiacciolo al sale marino migliore del mondo.» considera a bocca piena, facendo sfuggire una risatina a Roxas.
«Non pensavo a niente, in verità...» prende una pausa per bere un po’ del suo frappè alla fragola; «è stato un bel compleanno questo.» Lea annuisce soddisfatto a quelle parole, toccandogli una caviglia con il tacco della scarpa come aveva fatto sul treno; «Sono felice di essere qui... con te.»
«Mi fai arrossire con questi modi, screanzato» risponde Lea con fare melodrammatico, togliendosi il ghiacciolo di bocca per agitarlo verso Roxas, facendolo ridere nuovamente. «Scherzi a parte, sono felice che ti sia piaciuto il regalo... per un secondo in stazione ho pensato che mi avresti insultato.»
«Non volevo insultarti, solo... non me lo aspettavo. Che facessi tutto questo per me, intendo.» considera Roxas, guardando di fronte a loro il sole che inizia a calare e colorare di giallo e rosso il cielo. «È la prima volta che qualcuno mi fa un regalo del genere.»
Lea lo guarda, studiando il modo in cui la luce del sole illumina il profilo del viso di Roxas e da una sfumatura aranciata ai capelli biondissimi. Se avesse con sé il suo album da disegno, che tiene gelosamente nascosto sotto il letto, starebbe già disegnando un suo ritratto. Con un sorriso gli tocca la base della schiena con la mano che non tiene il ghiacciolo, invitandolo ad avvicinarsi di più, finché non sono praticamente fianco a fianco, la spalla di Roxas contro il torace di Lea e la sua testa appoggiata sulla sua spalla. «Se tu me lo chiedessi, Rox, penso che potrei andare a chiedere al sole di non calare mai e rimanere sempre qui con te in questo momento.» ammette a bassa voce, voltando la testa in modo da affondare le labbra tra i suoi capelli profumati e nascondere così quella confessione.
Col cuore che galoppa come un puledro nel petto, Roxas si lascia andare a quei contatti che gli fanno provare così tanto tutto insieme, chiudendo gli occhi per un momento e godendosi il calore del suo corpo e del sole su di loro. «Vorrei poter restare qui per sempre e tenerti lontano da tutto quello schifo.» confessa a sua volta, non osando aprire gli occhi né muoversi. Sente Lea irrigidirsi per un secondo, prima che il braccio che era appoggiato alla sua schiena scenda a cingergli un fianco, tenendolo ancora più vicino a sé. «Vorrei che sparisse tutto tranne questo.»
«Occhio che poi Dem e gli altri se la prendono a male...» scherza Lea, lasciandogli un bacio sulla tempia. Il ghiacciolo si scioglie sulla sua mano, dimenticato come il frappè di Roxas, ma a nessuno dei due importa per davvero. «Sei tu il più normale fra di noi, quello con la famiglia perfetta, dovresti essere il paladino delle caste inferiori e salvarci tutti per portarci nel tuo castello.» a quelle parole Roxas lascia cadere il frappè, improvvisamente rigido, il fantasma di un ricordo che gli afferra la gola. Si appoggia nella sua stretta, cercando una sicurezza che non ha. «Che ti prende Rox? Carenza d’affetto?»
«Mio padre è in prigione per violenze domestiche, dopo che Ven lo ha denunciato.» confessa improvvisamente Roxas fissandosi le scarpe; «per questo sono andato a vivere da lui, ma nostra madre continua a difendere papà, anche ora che è in galera, e continua a chiamare Ven e Vanitas e li accusa di continuo di aver distrutto la famiglia portandomi via.» lo confessa tutto d’un fiato, strappando il cerotto prima che possa fargli troppo male. «A ogni compleanno chiama Ven e gli chiede di parlare con me, li sento urlarsi contro per ore e mi sento in colpa perché soffrono tutti per colpa mia.» ora che lo ha detto non riesce più a trattenersi, una voce da qualche parte nella sua testa dice che sta rovinando il momento ma non riesce a costringersi a zittirsi; «A volte vorrei risponderle e dirle di smetterla di chiamarci, una volta per tutte, ma so che finirei col cedere alle sue richieste e non voglio, so quanto male ha fatto a me e Ven, ma... a volte vorrei solo tornare a essere una famiglia.» Lea non parla, gli accarezza con il pollice il fianco e lo lascia sfogarsi, lascia che gli racconti dei suoi sensi di colpa e della sua tristezza, prima che la sua voce si spenga lentamente.
«Che merda.» commenta infine, stringendolo un po’ di più a sé e lasciando cadere lo stecco del ghiacciolo ormai sciolto per potergli stringere una mano nella sua appiccicosa. «Se mai finirò in galera e incontrerò il tuo vecchio mi assicurerò di tirargli un cazzottone da parte tua, che ne dici?»
Roxas tira su col naso, sentendo una fastidiosa umidità negli occhi. «Ci sto» risponde, azzardando un timido sorriso. «...grazie.»
«E di cosa, Rox? Parlare di queste cosa fa bene, non bisogna tenersele dentro. Lo so per esperienza, carino.» Lea sorride a sua volta, prima di voltarsi verso l’orizzonte. «Guarda... c’è il tramonto.»
Roxas sposta lo sguardo e vede un’esplosione di colori, rossi e arancioni e gialli che sfumano e colorano il cielo, illuminando d’oro e di rubino tutta Twilight Town, lanciando ombre affilate che sembrano solo rendere il cielo ancora più brillante. Resta in silenzio, guardando senza parole quello spettacolo che sembra lì solo per loro.
Il tramonto di Twilight Town è veramente bellissimo.
Roxas osa voltare lo sguardo e vede Lea, che sembra prendere fuoco immerso in quella luce, i capelli un incendio e gli occhi due tizzoni smeraldo. La luce di un incendio boschivo e di un abisso mortale. Sente il cuore esplodergli nel petto e vorrebbe mettersi a gridare, perché non vuole che finisca, non vuole che scenda la notte e non vuole tornare a casa.
Vuole solo essere lì.
Anche Lea si volta a guardarlo, forse sentendosi osservato, e gli sorride, sorride davvero, come se lo vedesse per la prima volta. Si china su di lui, fino a che loro labbra non sono separate da poco più che un respiro, la luce del tramonto che li avvolge come una coltre dorata, e Roxas si ritrova a spingersi contro di lui per catturare le sue labbra in un bacio impacciato, intimidito anche dopo quasi dieci mesi di baci e carezze dati in segreto che finalmente possono darsi all’aria aperta.
Sente Lea sorridere nel bacio e salire a tenergli una guancia con la mano appiccicosa di ghiacciolo per guidarlo, e in quel momento esiste solo lui, il suo sapore, il suo profumo e il suo abbraccio. Esiste solo Lea ed esiste anche Roxas, esistono insieme e per la prima volta Roxas pensa di sapere cos’è la pace.
Intorno a loro il mondo continua ad andare a fuoco.
 
C’è qualcosa che non va. Roxas lo capisce non appena mette piede in casa, già pronto a chiamare Lea che insieme a Isa non si è fatto sentire né vedere per tutta la giornata, e vede Ventus e Vanitas sul divano, gli occhi rivolti alla porta come se lo stessero aspettando. Ventus tiene aperto sul tavolinetto quello che sembra un libro.
«Come mai siete già qui?» chiede Roxas scalciando via le scarpe e lasciando cadere la borsa, mettendosi le mani in tasca. Ventus apre la bocca per parlare ma la richiude quasi subito e rivolge un’occhiata a Vanitas, quasi una supplica, e questo sospira e gli stringe la mano.
«Abbiamo ricevuto una chiamata molto grave, Roxas,» inizia mentre un gelo si abbassa sulla stanza; «riguarda il tuo amico Lea.» immediatamente Roxas si mette dritto e lo fissa.
«Cosa gli è successo? Sta male?» chiede, un artiglio gelido che gli viaggia su per la schiena e gli stringe le viscere. Pensa immediatamente a tutto ciò che potrebbe essere successo, da una rissa finita male a un incidente stradale, ma lo sguardo di Vanitas promette molto peggio.
«Roxas, Lea è stato arrestato.»
Ci vuole qualche secondo perché le parole acquistino un senso nelle orecchie di Roxas. Lo hanno arrestato. Hanno arrestato Lea. Per cosa? Cosa ha fatto? Potrebbe conoscere la risposta e questo lo spaventa ancora di più. «Come... come è successo?» riesce a biascicare, cercando di ignorare lo sguardo di Ventus che sembra sul punto di scoppiare a piangere o di avere una crisi di rabbia.
Vanitas non lo guarda più, ha spostato lo sguardo sul libro che è ancora aperto sul tavolinetto, ed è solo in quel momento che Roxas lo guarda meglio e lo riconosce: non è un libro, è il suo album di foto. È aperto all’ultima pagina che ha riempito, quella del suo compleanno che ormai è stato quattro giorni fa, e una foto in particolare è stata staccata, come a volerla osservare meglio.
Roxas, illuminato dalla luce del tramonto, sorride all’obbiettivo e fa un segno di vittoria con le dita della mano libera, e Lea lo abbraccia da dietro ma invece di guardare l’obbiettivo gli sta stampando un bacio sull’angolo della bocca.
Lo aveva rimproverato perché in nessuna foto era riuscito a convincerlo a stare fermo e a sorridere, preferendo invece le boccacce o i baci rubati. Ne aveva scattate un paio in cui si baciavano per davvero, ma insieme a quelle in cui Lea gli rubava vari baci sul viso le aveva nascoste in una scatola insieme alle sigarette e alle foto di Demyx e Lea fatti che provavano a volare. Quella era l’unica che aveva deciso di lasciare nell’album normale, pensando sarebbe passata inosservata in mezzo alle loro boccacce e sorrisi.
«Ven...»
«Che cosa c’era tra te e lui, Roxas?» la voce di Ventus vacilla ma è dura, che non ammette repliche. È la stessa voce che usa quando chiama sua madre. Roxas trema prima di cercare di rispondere.
«Eravamo amici, Ven.» bugia, bugia, due amici non si baciano così, ma non vi siete mai dati un’etichetta vero? Non vi siete mai fermati a pensare. Idioti. «...ci volevamo bene e basta.»
«In che senso tu intendi volersi bene, Roxas?! Non mi pare ti volesse solo bene.» l’album viene chiuso con un tonfo, intrappolando la foto proprio in mezzo alle due pagine e immediatamente Roxas pensa che la foto si piegherà e resterà il segno, ma Ventus continua a parlare. «Ho chiuso un occhio sul fatto che continuaste la vostra amicizia nonostante tutto quello che sentivo su quel ragazzo, dopotutto siete amici da quando sei arrivato e capisco il volergli bene, ma questo è ben altro!»
«Ven,» Vanitas gli posa una mano sul braccio. «Ven, calmati. Lascia parlare Roxas. Sono sicuro che ci saprà spiegare tutto, ma devi lasciarlo parlare.» alza lo sguardo su Roxas, e nei suoi occhi vede che lo sta pregando di dare una spiegazione, di negare, di dire qualsiasi cosa.
 «Noi... non eravamo quello» riesce a dire nel panico Roxas, non sa cosa dire, non sa come giustificarsi, c’è veramente qualcosa di cui doversi giustificare? «È solo che quando ho compiuto quattordici anni... ci siamo avvicinati e io ero felice di averlo vicino...»
«Ai tuoi quattordici anni lui ne aveva diciotto e passa, Roxas!» grida Ventus. Ventus non grida mai con loro. «Ti rendi conto di quanto sia sbagliato? Avrebbe potuto farti qualsiasi cosa! E oggi ci chiama la polizia e vogliono interrogare te, perché il tuo migliore amico è stato scoperto a spacciare droga!»
Droga? Lea non spaccia... ma ci ha mai detto cosa faceva per pagarsi le tinte e i tatuaggi? Come lo ha pagato il biglietto del treno per Twilight Town? Roxas boccheggia come un pesce fuor d’acqua, vorrebbe dire qualcosa, qualsiasi cosa, per difenderlo, ma non gli riesce niente. «No! N-non... ha mai costretto.» riesce a dire, rendendosi conto che gli bruciano gli occhi e il petto. Sta piangendo? Può almeno cercare di ripulire la faccenda di loro due. «Io non sapevo niente...»
«Cosa ne sai, Roxas?» Vanitas cerca di fermarlo, ma Ventus lo scansa e raggiunge Roxas, afferrandogli le spalle e quasi scuotendolo. «Era più grande e basta poco per abbindolare un bambino fragile come te, le parole giuste al momento giusto per farti pensare che ti voglia bene...»
«NO!» stavolta è Roxas a urlare, allontana Ventus con una spinta mandandolo contro il tavolino e si sente scoppiare in singhiozzi isterici, gli fa male il cuore e nella testa pensa alla foto spiegazzata nell’album, a Lea che ride e lo bacia sulla guancia mentre si fanno le foto e gli compra il gelato e non può aver fatto finta, non ha mai cercato di spingersi in là, non ha mai toccato nulla di Roxas che lui non avesse toccato per primo su Lea, nessuno può fingere così bene, nessuno può fingere quell’incrinatura nella maschera che è riuscito a fotografare. «Lea non... Lea mi... non è papà, Ventus.» le ultime parole le grida nuovamente, le lacrime gli rigano il viso come dei fiumi e gli fa male tutto.
«Roxas. Roxas calmati, ti farai venire un attacco di panico...» Vanitas gli stringe le mani e le allontana dalle braccia in cui stava affondando le unghie, ma Roxas continua a piangere e quasi non respira, scuote la testa e cerca di spiegarsi, di spiegare a Ventus che si sbaglia, che... «Roxas, lo sappiamo che Lea ti vuole bene. Ti vuole così tanto bene che per questo non ti ha mai detto niente di quello che faceva per avere soldi, non è vero?»
È sempre stato Vanitas quello che capiva di più la sua amicizia con i ragazzi. Il bene che si volevano e ciò che facevano per proteggersi... nessuno diceva niente agli altri e cercavano di distrarsi a vicenda dai loro problemi. Avevano sempre fatto così. Roxas annuisce, ancora col respiro che gli si blocca in gola e col cuore a pezzi, ma Vanitas non smette di parlare, gli parla e intanto gli fa sentire il suo respiro e piano piano a Roxas sembra di riuscire a respirare con più chiarezza, le macchie nere davanti ai suoi occhi iniziano a sbiadire e si ritrova seduto sul divano, con le mani ancora strette in quelle di Vanitas. Ventus è sparito e dietro la testa di Vanitas Roxas riesce a vedere che la porta della loro stanza è chiusa, e il dolore torna di nuovo perché forse ha spezzato Ven, ora hanno litigato e romperà anche questa famiglia, come era successo con mamma e papà. «Ven...» riesce a balbettare, guardando Vanitas con gli occhi nuovamente pieni di lacrime.
«Ven è andato in camera a calmarsi, esattamente come stai facendo tu in questo momento. Non ti odia e non spezzerai proprio niente.» risponde Vanitas, facendo capire a Roxas che quelle parole le aveva dette davvero, balbettando e gemendo come un idiota. «Adesso avete solo bisogno di calmarvi tutti e due. Fai una cosa per me, vai a mettere via l’album di foto nella tua camera mentre io vado a parlare con Ven.» l’album gli viene messo tra le mani e Roxas annuisce, concentrarsi su un compito singolo lo aiuta sempre a concentrarsi, come lo fa lo scrivere e il premersi le unghie nelle ferite. Si alza e va in camera, scavalca il cuscino gettato per terra e si alza sulle punte dei piedi per mettere sulla mensola più alta, vuota ed impolverata, l’album di foto. Nell’altra stanza sente la porta aprirsi e Vanitas entrare.
«Ven...»
«Lasciami stare Vanitas, non... non è il momento.»
«Ventus, non puoi chiudere fuori Roxas. Ha bisogno di te, ora più che mai.»
«Mi pare che abbia già altri su cui contare.»
«Adesso sei solo crudele, perché ti fa incazzare che Roxas non sia più bambino e stia soffrendo.»
«Mi fa incazzare che qualcuno si possa approfittare di nuovo...»
«Ventus, fino a che tuo fratello non ci dirà qualcosa, nessuno si è approfittato di nessuno qua. Rox sta crescendo e ha preso una cotta, per la persona sbagliata forse, ma in quelle foto era felice come non ho mai visto Roxas da quando lo conosco, e non è colpa sua se è andata a finire male.»
Roxas smette di ascoltare e afferra le cuffie, infilandole velocemente e facendo partire la musica. Prende da terra il cuscino e se lo preme sul viso, permettendosi di piangere di nuovo.
 
Isa: Vieni giù al parco, ho una cosa da darti.
Roxas: È tardi e non sono dell’umore, Isa.
Isa: Me ne sbatto. Muoviti.
Isa lo aspetta seduto sul muretto, rigirandosi una ciocca di capelli sfuggita dalla treccia disordinata in cui sono legati i suoi capelli blu. Roxas si avvicina con le mani nelle tasche, cercando di non pensare al fatto che il suo blu senza il rosso di Lea è come un girasole in un campo di grano.
«Cosa dovevi darmi?» chiede a mo’ di saluto, scalciando il terreno con un piede e quasi perdendo le ciabatte – è ancora in pigiama. Isa lo guarda come a volerlo studiare, l’espressione indecifrabile identica a quella del gemello, prima di prendere dalla tasca un foglio arrotolato e darglielo.
Una volta aperto, Roxas sente l’istinto di gridare. Sul foglio spiegazzato c’è un ritratto di Roxas il giorno in cui sono andati a Twilight Town, con l’espressione meditabonda sul viso mentre beve il suo frappè. Lo stile disordinato è inconfondibile. Nell’angolino più in basso, in una scrittura decisamente diversa da quella di Lea, c’è scribacchiato un indirizzo... di una prigione.
«Ha detto di darti il disegno, ma ho pensato che ti avrebbe fatto anche piacere scrivergli. Sei anni sono lunghi da passare da soli, e conoscendoti non mi avresti dato pace finché non te lo avessi dato.» Isa si alza, le mani ficcate nelle tasche della felpa. «Lea ti voleva un gran bene, Rox.»
Roxas si sente soffocare. «...lo so.» dice. Tra di loro cala un silenzio imbarazzante. Con Isa non ha mai avuto molto da dire. «Adesso... cosa farai con i tuoi genitori?»
«Non sono più un problema, visto che me ne vado.» Isa lo dice in modo tranquillo, come se stesse parlando del tempo. «Lea era l’unica cosa che mi teneva in casa con quegli stronzi, e senza di lui non ci sto lì.»
«E... dove andrai?» non vuole chiedergli come farà, con che soldi, se anche lui spacciava come Lea, se lui sapeva e non ha detto niente.
«Non lo so onestamente. Finché alla macchina di Xemnas dura la benzina, immagino...» quel nome, non del tutto sconosciuto a Roxas, gli fa alzare lo sguardo dal foglio che sta praticamente stritolando tra le dita. Anche Isa sembra a disagio in quel momento, vede le sue mani muoversi nelle tasche. «Mi mancherete.» ammette infine, arrossendo come se si vergognasse. «Tutti. Anche quello sciroccato di Demyx.»
Ingoiando il groppo in gola, Roxas forza un sorriso. «Anche a noi mancherai, Isa. Fatti sentire, ok?»
«Ok.»
Finisce così, senza saluti o convenevoli, Isa gli da un ultimo sguardo e poi si allontana, raggiunge un uomo alto dai capelli chiari che lo aspetta fuori dal parco e che lancia un’occhiata di sfuggita a Roxas, prima di prendere per mano Isa e andare via con lui. Roxas si gira e corre a casa, facendo i gradini a due a due ed entrando in casa con più fretta di quando era uscito, ignorando le domande di Vanitas e andando a chiudersi in camera.
Si siede alla scrivania, accende la luce e riprende in mano il disegno. Non riesce a guardarlo, gli fa troppo male, ma con un gesto preciso strappa l’angolo dove è scritto l’indirizzo prima di nascondere il disegno sotto i quaderni di scuola. Lo guarda ancora un po’, girandoselo e rigirandoselo tra le mani, e intanto prende un foglio dal cassetto e recupera una penna.
Dopo qualche altro minuto, Roxas posa il pezzo di carta e si mette a scrivere.
 
 
 

Rieccoci qui, a un orario improponibile, ma l’insonnia è una brutta bestia e io pubblico solo di notte.
Che dire, questo capitolo è stato un vero e proprio rollercoaster di emozioni, passando dal fluff all’angst all’hurt/comfort, tornando nel fluff più assoluto (la scena di Twilight Town mi ha fatto venire almeno sei carie a scriverla, lo giuro) e finendo nell’angst with an hopeful ending. Spero che tutte le parti siano state di vostro gradimento, ho fatto del mio meglio per scrivere tutto come me lo immaginavo e al meglio delle mie capacità, per quanto possa essere difettoso.
Il prossimo capitolo verrà pubblicato domenica, quindi se volete scoprire come continui Spirals assicuratevi di seguirla e/o ricordarla! Sarà un lavoraccio, con un po' di fortuna sarà quasi completamente illustrato, almeno nelle sue parti più importanti, quindi spero che potrete apprezzarlo.
Detto questo vi saluto, spero che abbiate gradito il capitolo e se lo avete fatto vi invito a lasciare una recensione per dirmi cosa ne pensate, anche le critiche se costruttive sono ben accette.
See you on the flip side.
Vento di Fata
  
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