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Autore: Baudelaire    30/11/2020    6 recensioni
Questa storia è liberamente ispirata alla saga di Harry Potter, ma al femminile.
Ho voluto cimentarmi, a modo mio, su questo tema.
Rebecca Bonner è una Strega Bianca e la sua vita sta per cambiare per sempre...
La stella di Amtara diCristina è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PROLOGO

“Ora sai quello che devi fare.” – mormorò la voce.
“Sì.”
Jack si alzò dal letto. Aveva atteso per ore che tutti gli altri si addormentassero. Doveva essere notte fonda. Il silenzio era glaciale, come l’aria là fuori.
Si gettò sulle spalle il vecchio mantello logoro, afferrò la piccola valigia e aprì piano la porta. Si voltò a guardare, sprezzante, la camera sudicia dove aveva trascorso tutta la sua vita.
Una vita d’inferno.
Attraversò il lungo corridoio. Gli sembrava quasi di sentire il respiro lento e misurato dei suoi compagni.
Ma forse compagni non era il termine esatto. Lo si diventava quando si condivideva qualcosa. A lui questo non era mai stato permesso.
Ricordava solo di essere sempre stato escluso da qualsiasi attività di gruppo. Fin dal suo primo giorno lì dentro, lo avevano confinato in una stanza isolata, buia.
Del resto, chi poteva desiderare la compagnia di uno come lui?
E poteva forse biasimarli, quando la prima persona a ripudiarlo era stata proprio colei che gli aveva dato la vita?
Sentì la rabbia montare, ancora una volta.
Strinse i pugni, cercando di dominarla.
Doveva riprendere il controllo di se stesso, se voleva compiere la sua missione e andare fino in fondo. Non doveva permettere alle emozioni di dominarlo, o avrebbe fallito.
Aprì il portone e uscì nel vento freddo della notte. Lo richiuse alle proprie spalle senza voltarsi indietro.
Quella non-vita era finita per sempre. Nessuno avrebbe sentito la sua mancanza, né lui avrebbe avuto nostalgia di quei miserabili. Era sempre vissuto in solitudine, ma nel suo cuore sentiva che la vita, per lui, iniziava adesso.
Si strinse nel mantello e si avviò nella notte.
 
 
 


Capitolo 1
“LA LETTERA”
 
Bunkie Beach era deserta, quel pomeriggio d’agosto. Solo poche ore prima il termometro registrava trentacinque gradi e la spiaggia era affollata di turisti. Poi il cielo si era rannuvolato, la temperatura era precipitata e gradualmente i bagnanti avevano fatto ritorno nei loro alberghi, visibilmente seccati per l’inatteso cambio di programma.
Un forte vento ululava per tutta la costa e dalla grande villa sopra la collina, che abbracciava in un solo sguardo tutto il litorale, i mulinelli di sabbia sollevati dal vento somigliavano a piccole ombre che si rincorrevano allegre. Un cielo nero, gravido di pioggia, incombeva minaccioso sulla maestosa abitazione in pietra bianca, come una leonessa pronta a divorare la sua preda.
Villa Bunkie Beach era una vecchia costruzione immersa nel verde, con un ampio giardino pieno di roseti che digradava dolcemente verso il mare e lunghi filari di pini marittimi che ne costeggiavano il perimetro.
Prima che il paesaggio fosse deturpato dagli innumerevoli stabilimenti balneari, creati ad uso e consumo di orde di turisti schiamazzanti e spesso irrispettosi dell’ambiente, il panorama della costa nuda e selvaggia che si tuffava nell’oceano era da togliere il fiato. La villa era situata in posizione isolata, a notevole distanza dalla spiaggia cosicché, anche nei giorni di maggiore affluenza turistica, chi vi abitava non udiva altro che un mormorio indistinto provenire dalla costa.
L’interno dell’abitazione richiamava la maestà e lo splendore dell’esterno. Una larga scalinata in pietra conduceva all’interno, attraverso un portone in legno bianco. Nell’ampio salone al pianterreno troneggiava un tavolo ovale in cristallo, sorretto da un basamento in pietra a forma di drago. Sulla destra, un divano e due poltrone con ricami dorati erano posizionati di fronte ad un grande camino antico. Dal salone si accedeva alla cucina attraverso una porta in legno e, attraverso una grande porta finestra, si aveva accesso ad una veranda con una vista mozzafiato sull’oceano.
Un’ampia scalinata in marmo nero conduceva al piano superiore.
Qui, in una delle due camere da letto, Rebecca Bonner sognava sua madre. Camminavano fianco a fianco in riva al mare, i piedi dolcemente accarezzati dall’acqua. Rebecca parlava e sua madre l’ascoltava sorridente.
Erano felici.
Nel sonno, le sue labbra sottili s’incresparono in un sorriso.
Il suono del campanello al piano di sotto spezzò l’incanto e Rebecca si rigirò nel letto, infastidita, rimboccandosi ancora di più le coperte, come se quel gesto avesse potuto scacciare il fastidioso visitatore.
La notte precedente non aveva chiuso occhio e si era rigirata invano nel letto fino a notte fonda, nella vana speranza di prendere sonno.
All’alba, ormai rassegnata al fatto che quella notte Morfeo non l’avrebbe cullata tra le sue braccia, si era alzata e aveva cominciato a sbrigare le faccende di casa, fino all’ora di pranzo.
Nel pomeriggio aveva fatto una lunga passeggiata fino al porto, intimamente grata al maltempo che aveva fatto volatilizzare la massa di turisti che in quei giorni gremivano come formiche Bunkie Beach.
La lunga camminata l’aveva ritemprata e, di ritorno a casa, si era infilata a letto, crollando subito in un sonno profondo.
Il campanello suonò di nuovo.
Rebecca aprì gli occhi, intontita e si alzò a sedere di scatto.
Al terzo squillo saltò fuori dal letto, si infilò la vestaglia azzurra e si scaraventò in gran fretta giù dalle scale, rischiando di rompersi l’osso del collo scivolando sull’ultimo gradino.
Piuttosto seccata, aprì la porta e si trovò davanti un ometto calvo intento a scarabocchiare qualcosa su un cartoncino giallo.
“Rebecca Bonner?” – domandò alzando gli occhi.
Rebecca annuì.
“Una raccomandata per lei.” – disse porgendole una busta, il cartoncino giallo e una penna.
Rebecca prese carta e penna e firmò, poi richiuse piano la porta reggendo tra le mani la busta e scrutandola diffidente.
Andò a sedersi in cucina e rimase a guardarla per qualche istante, senza aprirla.
Poi si alzò e si preparò una tazza di caffè.
Pochi minuti dopo salì di sopra e spalancò le persiane della sua camera, lasciando che la fresca brezza salmastra inondasse la stanza. Inspirò a lungo l’aria frizzante, con gli occhi chiusi. Poi andò in bagno, si spogliò e s’infilò sotto la doccia.
Più tardi, dopo essersi asciugata i lunghi capelli mossi e ramati, si vestì e scese di nuovo in cucina.
Lesse l’indirizzo vergato a mano:
“Alla cortese attenzione della sig.na Rebecca Bonner
presso Villa Bunkie Beach n. 15
Country Road - Bunkie Beach”
Inspirò profondamente, prese la busta e l’aprì.
 
“Gent.ma sig.na Rebecca Bonner, ho il piacere di informarLa che lei è stata ammessa alla “Scuola di Protezione per Streghe Bianche Prescelte AMTARA”.
La convocazione per le studentesse del primo anno è prevista per il giorno quindici settembre alle ore sedici davanti al cancello d’ingresso della scuola.
Tutti i libri e il materiale necessari all’anno di studi sono disponibili gratuitamente presso il nostro Istituto, il quale garantisce a tutte le Prescelte vitto e alloggio per tutto l’anno scolastico.
Lieta di poterla annoverare tra le nostre privilegiate studentesse e in attesa di fare la Sua conoscenza, Le porgo i miei migliori saluti.”
Professoressa Dana Collins – Preside di AMTARA
 
Rebecca posò la lettera.
Ecco, il momento che tanto aveva temuto era arrivato.
Rebecca era una Strega Bianca. Sua madre, Banita Presley, era morta due mesi prima a causa di una brutta malattia. Rebecca era vissuta sempre con lei da quando suo padre, uno Stregone di nome Anshir, era morto lasciandola orfana a soli due anni.
Banita aveva cresciuto da sola la loro figlia, insegnandole i primi rudimenti della Magia Bianca.
Quando Rebecca fu grande abbastanza, Banita aveva capito che era arrivato il momento di dirle tutta la verità.
Un pomeriggio, mentre fuori un tremendo temporale allagava il giardino e un forte vento sferzava con violenza i pini marittimi, Banita sedette sul divano accanto alla figlia. Rebecca stava leggendo un libro, cercando di scaldarsi al tepore del caminetto acceso.
“Tesoro, ti devo parlare.” Il suo sguardo serio allarmò Rebecca, che si affrettò a posare il libro e la fissò, in attesa.
Banita le rivelò il segreto della sua nascita, spiegandole che, molti secoli prima, le Streghe Bianche e le Streghe Nere avevano combattuto quella che veniva tuttora ricordata come la Guerra dei Due Mondi, per stabilire il predominio nel Mondo Magico.
Le Streghe Bianche avevano lottato fino allo stremo delle forze, riuscendo infine ad avere la meglio sulla Stregoneria Nera.
Dopo il conflitto, il Mondo della Magia Bianca aveva vissuto lunghi anni di pace e prosperità, seppur a caro prezzo. Moltissime Streghe Bianche avevano perso la vita nella guerra e nessuna avrebbe mai dimenticato quei sanguinosi anni. Ogni Strega Bianca sapeva di dovere la vita alle sorelle morte in battaglia.
Ma la pace non era durata a lungo.
Molto presto, le Streghe Nere avevano ripreso ad attaccare e uccidere le Streghe Bianche, gettando il Mondo della Magia Bianca nel più totale sconforto, avendo fino ad allora nutrito la convinzione di aver sconfitto ed eliminato per sempre la Magia Nera.
Stavolta fu anche peggio, perché ora le Streghe Nere attaccavano anche i figli e le figlie delle Streghe Bianche, fino ad allora risparmiati.
Il mondo della Magia Bianca non riusciva a spiegarsi da dove provenisse l’orda di Streghe Nere che, di punto in bianco, aveva fatto ritorno nel loro mondo. Né tantomeno riusciva a spiegarsi il motivo di tanta ferocia contro la loro progenie.
Fino a quel momento si era sempre trattato di Magia Bianca contro Magia Nera. Le Streghe Nere si erano sempre accanite contro le Streghe Bianche, ma mai nessuna aveva attaccato i loro figli.
Le Streghe Bianche, del tutto prese alla sprovvista, inorridirono quando i primi omicidi dei loro figli furono perpetrati. Stavolta le Streghe Nere sembravano accese da una follia mai vista prima. Una luce malvagia brillava nei loro sguardi. Non risparmiavano nessuno e si accanivano con ferocia sia sui figli sia sulle madri che, nel disperato tentativo di proteggerli, morivano sotto i loro colpi mortali.
Fu una carneficina senza precedenti. La Guerra dei Due Mondi non poteva essere minimamente paragonata a quanto stava accadendo ora. I figli delle Streghe Bianche erano vittime sacrificali immolate sull’altare di un odio antico, ma rivolto alle loro madri.
Molte furono le Streghe Bianche che, sopravvissute ai loro figli, non ressero il peso del dolore e scagliarono Incantesimi mortali contro se stesse. Solo una madre può comprendere il vuoto e l’abisso che la morte della propria creatura lascia nel suo cuore. Molte sono le madri coraggiose che affrontano questo peso atroce e continuano a vivere. Ma per alcune Streghe Bianche il peso della colpa ricadde come un macigno su di sé. Si addossarono la colpa di quella carneficina, inspiegabile e atroce.
Fu infine una Strega Nera a rivelare la verità al mondo della Magia Bianca. O, perlomeno, a lasciare un piccolo ma significativo indizio.
La Strega Nera aveva attaccato una giovane Strega Bianca e il suo bambino di otto anni.
La povera madre non era riuscita a difendere il figlioletto, che era caduto, privo di vita, tra le sua braccia.
Disperata, lanciò un grido sovrumano, lanciandosi come una furia contro l’assassina.
“Perché state facendo questo? Perché?” – urlò con quanto fiato aveva in corpo, lanciando Incantesimi come una forsennata, che l’abile nemica riusciva a schivare con estrema facilità, con un ghigno diabolico dipinto sul viso deforme.
“Per il nostro padrone. Il Demone Supremo, Posimaar.” – fu la risposta.
Il sorriso malvagio della sua nemica fu l’ultima cosa che la Strega Bianca, di nome Anna, vide, prima di cadere sotto il suo ultimo terribile Incantesimo.
La Strega Nera non poteva certo immaginare che Anna sarebbe miracolosamente uscita illesa dal suo attacco. Credendola morta, se ne andò.
Anna si risvegliò parecchie ore dopo. Fu soccorsa e curata dalle ferite magiche riportate nel duro scontro e poté così raccontare quello che la Strega Nera le aveva rivelato.
Non era molto, in realtà, ma perlomeno ora si sapeva che il mandante delle Streghe Nere era un Demone. Un Demone dal nome strano, che mai nessuno prima di allora aveva mai nemmeno sentito nominare.
Chi era questo Demone Supremo che aveva risvegliato la Magia Nera?
Qual era il motivo del suo odio contro la Magia Bianca?
Cosa voleva dalle Streghe Bianche?
Il Consiglio Superiore di Stregoneria Bianca, presieduto da Calì Amtara, aveva svolto  approfondite ricerche su di lui, senza risultato. Il suo nome non compariva nei libri di storia e la sua nascita non era registrata da nessuna parte. Naturalmente, Posimaar doveva essere un soprannome o qualcosa del genere. Era praticamente impossibile risalire alla sua vera identità.
Mentre il numero della vittime delle Streghe Nere aumentava a dismisura, il Consiglio si rese conto che era necessario un intervento immediato per impedire lo sterminio delle Streghe Bianche e la conseguente fine del Mondo della Magia Bianca.
Calì Amtara convocò una seduta straordinaria, durante la quale propose di affidare il compito di difendere i figli e le figlie delle Streghe Bianche alle Prescelte: si chiamavano così le giovani Streghe nate dall’unione di una Strega Bianca con uno Stregone. Ogni Prescelta, dalla nascita, possedeva il dono dell’Antiveggenza, era cioè in grado di prevedere eventi futuri.
Il fatto curioso era proprio che le Streghe Nere stavano annientando le Streghe Bianche, ma nessuna aveva torto un solo capello alle Prescelte.
Le Prescelte costituivano una minoranza nel mondo della Magia Bianca. Molte Streghe Bianche avevano creato una famiglia con uomini privi di poteri magici. Erano sempre meno le Streghe Bianche sposate con autentici Stregoni. Anche per questo, e in virtù del loro particolare dono, le Prescelte erano considerate un prezioso tesoro da custodire e proteggere.
Furono in molti a domandarsi il motivo per cui il misterioso Demone Supremo aveva risparmiato le Prescelte. Paura del loro potere? Poter vedere in anticipo il futuro costituiva indubbiamente un problema per il nemico. Con le Prescelte le Streghe Nere non avrebbero avuto vita facile come con le Streghe Bianche e i loro figli.
Fu proprio questa convinzione che spinse Calì Amtara a credere che le Prescelte fossero le uniche in grado di  fermare gli attacchi delle Streghe Nere. Fino ad allora Posimaar le aveva risparmiate. Ma nessuno conosceva i suoi piani. Presto il Demone avrebbe potuto attaccare anche le Prescelte e trovare un modo per arginare il loro potere, finendo per avere la meglio anche su di loro.
E allora il mondo della Magia Bianca sarebbe stato irrimediabilmente perduto. Questa era la più grande paura di Calì Amtara. Il loro destino era nelle mani delle Prescelte.
Ma la sua proposta incontrò molti dissensi in sede consiliare.
“Le Streghe sono troppo giovani.” – affermò qualcuno.
“Non hanno l’esperienza necessaria.” – disse un altro.
“E’ troppo pericoloso.”- sentenziò un terzo.
Dopo ore di discussione, a seguito della quale Calì Amtara cominciò ad avvertire un cerchio alla testa, la proposta fu messa ai voti e approvata con una conditio sine qua non: Calì Amtara avrebbe dovuto istituire una scuola preposta all’istruzione e all’addestramento delle Prescelte, che le avrebbe accolte al compimento del diciottesimo anno di età e avrebbe avuto la durata di tre anni, al termine dei quali ciascuna sarebbe stata assegnata dal Consiglio stesso ad un Protetto o una Protetta (così erano chiamati i figli delle Streghe Bianche).
Fu così che il Consiglio fondò la Scuola di Protezione di Amtara, che prese il nome dalla sua Presidentessa.
 
Rebecca aveva ascoltato il racconto di sua madre in silenzio. Solo quando finì di parlare, cominciò a comprendere il significato di quello che le aveva appena raccontato: Banita era una Strega Bianca e Anshir uno Stregone.
Sgranò i suoi occhi azzurri, guardando sua madre in cerca di una conferma.
“Proprio così.” – rispose Banita annuendo.“Sei una Prescelta, e molto presto riceverai la lettera di ammissione ad Amtara.”
“Ma io non so se sarò in grado …” – protestò debolmente.
“Certo che sarai in grado.” – la interruppe sua madre con un largo sorriso. “Ce l’hai nel sangue.”
 
Tre anni dopo l’istituzione di Amtara, il numero degli omicidi era notevolmente diminuito e questa fu la conferma per Calì Amtara che la sua idea si era rivelata vincente.
Ciononostante, le perdite rimanevano numerose e a volte le stesse Prescelte perdevano la vita.
Non era un gioco. Le Prescelte non avevano scelta, esattamente come le Streghe Bianche. Si trattava di una lotta senza precedenti, qualcosa in cui, loro malgrado, erano coinvolti tutti. Ma la cosa peggiore era combattere contro un nemico sconosciuto, senza conoscerne il motivo.
Questo era ciò che più faceva infuriare Rebecca ogni volta che ci pensava. Ma quando accennava il discorso a sua madre, Banita la distoglieva dai suoi pensieri per farla concentrare sullo studio.
Sì, perché da quando aveva rivelato la verità a sua figlia, Banita era diventata un’insegnante intransigente. Nell’attesa che la figlia diventasse maggiorenne per poter essere ammessa ad Amtara, aveva deciso di anticipare i tempi e cominciare a tramandare alla figlia tutti gli Incantesimi che conosceva. Voleva che Rebecca arrivasse preparata quanto più possibile alla Scuola di Protezione.
Era vero quello che le aveva detto, ce l’aveva nel sangue e credeva fermamente che la figlia avrebbe svolto il suo compito egregiamente. Tuttavia, in fondo al suo cuore, sapeva che questo non sarebbe bastato. Stavolta avevano di fronte un nemico pericoloso, senza scrupoli, che non si fermava nemmeno di fronte alla vita di ragazzini e ragazzine innocenti. I suoi piani, quali che fossero, dovevano essere ben precisi e Banita aveva paura per Rebecca. Pur sapendola forte e coraggiosa, l’idea che la figlia avrebbe dovuto combattere contro un nemico sconosciuto e chissà quanto potente, la spaventava.
Banita era sola. Anshir se n’era andato e lei aveva giurato di proteggere Rebecca facendole da padre e da madre. Ogni volta che guardava la figlia, si diceva che aveva fatto un buon lavoro.
Rebecca era dolce e gentile, ma allo stesso tempo forte e determinata. Era molto difficile riuscire a distoglierla da un proposito, quando si metteva in testa di portarlo a termine.
Banita ammirava queste sue doti ma ora aveva paura che il coraggio della figlia, da solo, non sarebbe bastato.
Per questo divenne intransigente con lei, obbligandola a ore e ore di studio alle quali, inizialmente, Rebecca si oppose con ostinazione.
“Che motivo c’è mamma?” – ribatteva contrariata. “Presto riceverò la lettera. Imparerò tutto là. Perché devo iniziare adesso?”
“Rebecca” – replicava sua madre paziente – “ Questo non è un gioco. Amtara non è una scuola qualsiasi. Il nostro mondo sta vivendo forse il periodo peggiore di tutta la sua storia. Abbiamo a che fare con qualcosa di grande e pericoloso, cui non sappiamo nemmeno dare un nome. Se il progetto di Calì Amtara non funzionerà, sarà la fine, per tutti noi.”
“Ma….”
“Non voglio sentire scuse o lamentele. Sai bene quanto io tenga a te. So che darai il meglio di te ad Amtara ma, tesoro, desidero prima insegnarti tutto ciò che conosco. Anche se ora ti sembrerà inutile, un giorno forse questi Incantesimi potranno salvarti la vita.”
A quelle parole Rebecca non aveva saputo ribattere.
Banita, intuendo il suo disagio, le mise le mani sulle spalle, in un gesto protettivo.
“Tuo padre se n’è andato. Io sono qui per te, amore mio, ma non so fino a quando. Se mai dovesse succedermi qualcosa, voglio avere la certezza di aver fatto tutto ciò che era in mio potere per tramandarti tutto quello che so. Non potrei mai perdonarmelo….”
Rebecca aveva alzato gli occhi celesti nei suoi. “Mamma, cosa dici? Cosa mai dovrebbe succedere?”
Banita aveva sorriso. “Niente, tesoro. E’ solo che non voglio avere rimpianti.”
 
Così, Rebecca aveva ceduto. Si mise di buona lena a studiare i libri di Banita, per diverse ore al giorno, sacrificando splendide giornate di sole durante le quali, pensava frustrata, avrebbe potuto scendere alla spiaggia e divertirsi. Poi cominciò ad esercitarsi con la pratica, aiutata da sua madre che, Rebecca non lo aveva mai notato prima, era una combattente eccellente e schivava i suoi colpi con abilità da maestro.
Rebecca ripensava spesso alle sue parole.
Perché mai Banita pensava che sarebbe potuto accaderle qualcosa? Forse la verità era che non aveva mai del tutto superato la morte di suo padre. E ora che tutto era cambiato, aveva paura per lei. Cosa avrebbe fatto Rebecca senza sua madre? Come avrebbe affrontato Amtara da sola, senza nessuno a sostenerla? Era davvero pronta per una cosa tanto più grande di lei?
In fondo, lei era una semplice Strega Bianca. Certo, aveva le Premonizioni, anche se fino ad allora non le erano sembrate poi così utili. Forse perché, fino adesso, la sua vita non si era rivelata particolarmente eccitante. La verità era che Rebecca si sentiva una Strega qualunque, anche se si era ben guardata dal confidarlo a sua madre. Sapeva che le Prescelte erano un tesoro prezioso per tutti.
Per tutti, meno che per lei.
Sì, forse ora avrebbero davvero potuto essere utili ai Protetti. Forse era davvero arrivato il momento di dimostrare che non erano Streghe qualunque.
Ma era davvero così? In fondo, lei era solo una ragazza come tante, che aveva sempre vissuto in una casa vicino alla spiaggia. Cosa conosceva davvero della Magia Bianca? Non aveva mai combattuto contro nessuno. Tutto quello che conosceva di una guerra era la storia di quella dei Due Mondi, raccontata dalle vecchie generazioni e tramandata fino a loro affinchè sapessero, affinchè non dimenticassero, affinchè il sacrificio delle Streghe Bianche rimanesse vivo nel ricordo.
 
Fu con questi cupi pensieri che arrivarono i 18 anni.
Il tempo passava, inesorabile, e lei non avrebbe potuto fermarlo.
Ancora pochi mesi e poi tutto sarebbe cambiato per sempre. La sua vita, le sue giornate, il suo futuro. Tre anni di studio per andare forse incontro alla morte.
“Basta, devi smettere di pensarci.” – si imponeva, scuotendo con decisione la testa.
Non aveva alcun senso indugiare su pensieri tanto malsani.
D’altro canto, aveva forse un’alternativa? No. Tutto era stato deciso per lei, e per tutte le altre Prescelte.
Già, le altre Prescelte.
Rebecca non ne aveva mai conosciuta una. Forse, dopotutto, non sarebbe stato tanto male. Avrebbe fatto amicizia. Si sarebbe divertita, forse. Magari le lezioni si sarebbero rivelate perfino piacevoli. E poi, con tutto quello che aveva studiato a casa con sua madre, non si sarebbe fatta trovare impreparata.
Sì, doveva convincersi che tutto sarebbe andato bene. Non sarebbe stata da sola, dopotutto. C’era sua madre. E avrebbe finalmente trovato delle nuove amiche.
 
Nel mese di gennaio accadde qualcosa che fece dimenticare a Rebecca qualunque preoccupazione su Amtara e Posimaar.
Banita si ammalò.
Per uno strano scherzo del destino, le parole di sua madre su una sua possibile dipartita si rivelarono purtroppo profetiche.
All’inizio Rebecca pensò che Banita fosse solo stanca. Le lunghe lezioni di Incantesimi dovevano essere state impegnative tanto quanto lo furono per lei.
Purtroppo, con il passare dei giorni, entrambe si resero conto che si trattava di ben altro.
Alla fine Banita fu costretta a letto.
Rebecca consultò diversi medici, i quali espressero tutti la medesima diagnosi. Il morbo aveva attaccato diversi tessuti, tanto da diventare incurabile e a sua madre non restavano che pochi mesi di vita. Un anno, forse, con un po’ di fortuna e le cure adeguate.
Rebecca era annientata. Trascorse i mesi più difficili di tutta la sua vita, durante i quali si dedicò totalmente a Banita. Le dava le medicine, la vegliava durante la notte, le preparava i pasti, anche se sua madre aveva perso del tutto l’appetito ed era ormai l’ombra della donna forte e vitale che era stata un tempo. Rebecca inghiottiva in silenzio le lacrime, cercando di non pensare al momento in cui sarebbe rimasta sola.
Ripensò alle sue parole pronunciate solo pochi mesi prima, come una profezia. Possibile che sua madre sentisse dentro di sé che sarebbe giunta presto la sua fine? Sapeva in qualche modo che l’avrebbe lasciata sola, come aveva fatto suo padre molti anni prima?
E così, il peggiore dei suoi timori sarebbe diventato realtà. Proprio adesso che aveva più bisogno di lei. Proprio adesso che il fatidico giorno stava per arrivare.
Cosa avrebbe fatto? Come avrebbe affrontato tutto quello che l’attendeva?
Il terrore si impossessava di lei ogni volta che ci pensava. Ma Rebecca si costringeva, con uno sforzo sovrumano, a distogliere la mente per dedicarsi totalmente a sua madre.
Non sapeva quanto tempo sarebbe rimasta con lei. Le previsioni mediche erano incerte. Banita peggiorava di giorno in giorno. Sarebbe potuto succedere da un momento all’altro.
La vegliava giorno e notte, addormentandosi sulla poltrona accanto al suo letto, ignorando il dolore alla schiena e il mal di testa. Se fosse successo mentre non era accanto a lei, non se lo sarebbe mai perdonata.
Trascorsero così quei primi mesi dell’anno, finchè la primavera lasciò il posto ad un inizio d’estate afoso e soffocante.
Banita ormai parlava a stento, soffocando violenti colpi di tosse che la colpivano a più riprese ogni volta che apriva bocca. Per Rebecca era una sofferenza inaudita vederla così. Si maledì anche solo per averlo pensato, ma a volte pregava in cuor suo che venisse posta fine a quel dolore inutile. Che senso aveva ormai? Non aveva alcuna speranza. Solo un miracolo avrebbe potuto salvarla, un miracolo nel quale Rebecca non credeva più. Ci aveva sperato, all’inizio, prima che il morbo si impossessasse del suo fragile corpo. Per un certo periodo aveva quasi pensato che i medici si sbagliavano, perché sua madre era forte e avrebbe superato anche questa.
Ma molto presto fu costretta a fare i conti con la realtà. Era stanca…. Stanca di quelle giornate interminabili, stanca di quella poltrona logora che l’aveva accompagnata in tante notti insonni, stanca dei lamenti di Banita, del dolore che provava e dinanzi al quale si sentiva totalmente impotente. Era annientata, sconfitta.
Era solo una piccola Strega Bianca, la cui stupida Magia non sarebbe servita a salvare sua madre.
Non aveva avuto alcuna Premonizione sulla sua malattia. Ma se anche fosse accaduto, cosa avrebbe potuto fare? Avrebbe forse potuto cambiare il destino?
No.
Al diavolo la Magia.
Al diavolo le Premonizioni.
E al diavolo Calì Amtara e la sua stupida idea.
 
Era il 15 giugno. L’estate era arrivata con largo anticipo e Rebecca aveva spalancato tutte le finestre di casa, cercando di portare un po’ di frescura nella stanza dove Banita dormiva tranquilla.
Aveva passato una notte serena. Non si era svegliata nemmeno una volta e Rebecca, dopo molto tempo, era riuscita a riposare un po’.
Scese per una colazione veloce, approfittando del fatto che sua madre stesse ancora dormendo, tendendo l’orecchio al minimo rumore. Ingurgitò velocemente una tazza di latte con i cereali e poi tornò di corsa di sopra.
Entrò in camera e si accorse che Banita era sveglia.
Aveva profonde occhiaie ed era visibilmente dimagrita, ma i suoi occhi brillavano di una strana luce. Una luce che Rebecca vedeva per la prima volta, da quando si era ammalata.
“Mamma, cosa c’è?” – chiese in un soffio.
Banita cercava, a fatica, di sollevarsi sul cuscino. Corse in suo aiuto e la fece sedere con la schiena appoggiata al cuscino.
“Non ti devi affaticare.”
“Devo parlarti.” – disse Banita con voce roca.
“Di cosa? Mamma, non voglio che ti stanchi. Sei molto pallida.”
Si allarmò. Sua madre sembrava preda di un’agitazione improvvisa, mai vista prima. Eppure, aveva dormito tutta notte, senza emettere nemmeno un lamento.
“Ti senti male?”
Banita scosse la testa a più riprese.
“No no, mi devi ascoltare.” – rispose, con una punta di irritazione nella voce.
“Va bene mamma, ti ascolto, ma ti prego stai tranquilla.”
Rebecca sedette sulla poltrona accanto a lei e quel gesto sembrò tranquillizzarla.
Banita allungò una mano e Rebecca la prese tra le sue. Poi, la mano risalì sul suo volto, per imprimervi una leggera carezza.
A quel tocco, Rebecca deglutì, cercando di ricacciare indietro le lacrime.
“Non piangere.” – le sussurrò.
“Come posso, mamma?” – rispose con rabbia, asciugandosi gli occhi col dorso delle mani.
“Io sarò sempre con te.”
“Sì, proprio come papà, vero?”
Si pentì immediatamente di quelle parole.
Distolse il viso da lei, vergognandosi un po’.
Sapeva quanto era stato difficile per sua madre crescerla da sola. Era crudele ora parlarle in quel modo. Ma non poteva farne a meno, perché la verità era che sarebbe rimasta da sola, né più né meno.
“So quanto ti è mancato.” – riprese Banita. La sua espressione era dolce. Non c’era traccia di risentimento sul suo volto. “Ma non è di questo che voglio parlarti, ora. C’è qualcosa che devi sapere, prima che io me ne vada.”
 
Venti minuti dopo, Rebecca era paralizzata dallo stupore. Pensò seriamente che sua madre non fosse in sé.
Delirava.
Sì, non c’era alcun dubbio.
Tutto quello che le aveva appena raccontato doveva essere frutto della sua fantasia. I farmaci, la malattia, le notti agitate e insonni passate a lamentarsi per colpa di quel maledetto dolore fisico che ora sembrava essersi portato via anche la sua salute mentale.
Non c’era altra spiegazione.
Sua madre era impazzita.
 
“Stai mentendo.” – disse gelida.
“Credi davvero che potrei farlo?” – mormorò Banita esausta. “Nelle mie condizioni?”
“Eppure, stando a quanto dici, è quello che hai fatto finora.”
Banita ammutolì.
Rebecca strinse i pugni, respirando pesantemente.
Era arrabbiata.
Non avrebbe voluto sentire una sola parola di tutta quella storia.
Tutto quello che voleva era riavere una madre in salute e la vita di prima.
Tutte cose che non sarebbero tornate mai più.
“Sì, è vero. Non ti ho detto la verità. Ma solo perché pensavo che non fossi pronta.”
“Oh. E adesso invece lo sono?” – esclamò Rebecca furiosa. “Ora che stai per andartene per sempre, ora che rimarrò sola per il resto della mia vita… ORA è il momento giusto?”
Le sue labbra tremavano e quando vide una lacrima spuntare negli occhi di sua madre non riuscì più a trattenere il pianto.
“Ho sbagliato.” – mormorò Banita. “Ma non c’è più tempo. Devi promettermi che imparerai ad usarlo. Dovrai esercitarti a lungo, ma è necessario…”
“Per quale ragione?”
Gli occhi di Banita si inchiodarono nei suoi. “Perché questo fa di te una Strega speciale.”
“Credevo che tutte le Prescelte fossero… speciali.”
“Tu di più.”
Banita inspirò a fondo, con uno sforzo sovrumano, come se i polmoni si rifiutassero di riempirsi di quell’aria tanto benefica.
“Promettimelo.”
“Perché? A cosa mi servirà?”
“Al momento giusto lo saprai.”
Rebecca fece una smorfia. “Non è una risposta che posso accettare, mamma. Non puoi uscirtene così, di punto in bianco, con tutta questa storia e impormi la tua volontà. Lo capisci? Ho bisogno di sapere.”
“No, hai bisogno solo di fidarti di me.”
“Fidarmi dopo questo?”
Banita puntò gli occhi nei suoi. “Sì, figlia mia. Devi fidarti di me.”
Rebecca non distolse lo sguardo. Era ancora arrabbiata, Banita lo sapeva.
Ma sua madre stava morendo.
Sospirò, chiudendo gli occhi.
“Perché me lo hai detto solo adesso?”
“Perché sto per morire.”
“Avresti dovuto dirmelo prima. Avresti dovuto aiutarmi ad usarlo, se ci tieni così tanto. Ora mi chiedi qualcosa che non so nemmeno se sarò in grado di fare.”
“Ci riuscirai.”
“Non l’ho mai fatto. Non l’ho mai usato. Possibile che non ti renda conto di quello che mi stai chiedendo?”
Rebecca ora piangeva.
Banita si sollevò un po’ di più sul cuscino.
“Tesoro, non eri pronta. Non ancora. Ne hai passate così tante…. La mancanza di tuo padre, la scoperta di essere una Prescelta. Non me la sono sentita di gravarti anche di questo peso. Ma adesso non c’è più tempo. E’ una cosa che fa parte di te. Ti rende speciale. Ed è essenziale che tu lo comprenda.”
Rebecca alzò lo sguardo.
“E’ pericoloso?” Ora la sua voce era calma, misurata.
Banita sorrise. “No. Fa parte di te. Questa sei tu. Non avere paura di quello che sei…. Non averne mai.”
Rebecca abbassò lo sguardo.
“Devi promettermelo. Prometti che lo farai. Prima di entrare ad Amtara dovrai averlo imparato alla perfezione.”
Rebecca sgranò gli occhi. “Mancano solo 3 mesi!”
“Per questo dovrai lavorare sodo.”
Rebecca sospirò, posando la mano sulla fronte. Come diavolo avrebbe fatto in così poco tempo? E poi, per quale dannata ragione?
Era inutile. Sua madre non le avrebbe spiegato altro. Dalla fermezza del suo sguardo capì che era irremovibile. La durezza e la determinazione che vi leggeva sembravano quasi aver cancellato un po’ i segni lasciati dalla malattia. Doveva essere qualcosa di importante, altrimenti Banita non avrebbe insistito tanto. E anche se Rebecca non capiva, anche se era ancora arrabbiata con lei, anche se tutta quella dannata storia che era la sua vita ormai non aveva più alcun senso per lei, come avrebbe potuto dirle di no?
Era sua madre, sangue del suo sangue, la persona che si era sempre presa cura di lei.
Dirle di no sarebbe stato come ucciderla prima del tempo. E lei sarebbe riuscita a vivere con quel rimorso per il resto dei suoi giorni?
Una promessa era una promessa. Avrebbe dovuto mantenerla, anche dopo la sua morte. Non l’avrebbe mai tradita. Anche se sarebbe stata dannatamente sola. Anche se non aveva idea di come accidenti avrebbe fatto.
Le girava la testa. Perché la sua vita doveva essere così maledettamente difficile? Perché non poteva tornare bambina, quando non aveva altri pensieri che giocare e stare tutto il tempo con sua madre? Da quando, esattamente, le cose erano precipitate in quel modo assurdo?
“Rebecca, promettimi che lo farai.”
La voce di Banita la riportò bruscamente alla realtà.
Non aveva scelta.
Doveva fidarsi di lei. Anche se questo significava aggiungere un ulteriore problema da risolvere alla lunga lista…
Probabilmente se ne sarebbe pentita amaramente. O forse, un giorno, l’avrebbe ringraziata per questo. Solo il futuro le avrebbe dato la risposta.
“Va bene mamma. Te lo prometto.”
 
Il resto della giornata trascorse apparentemente tranquilla. Banita si addormentò a più riprese e Rebecca potè dedicarsi alla casa, sbirciando di tanto in tanto in camera per controllare il suo stato di salute.
Fu alla sera che tutto precipitò, così velocemente che, in seguito, Rebecca faticò a ricordare come fosse accaduto.
Banita cominciò a delirare, agitandosi furiosamente nel letto, in preda a lancinanti dolori.
Rebecca chiamò subito il medico, che rimase in camera con lei a lungo.
Rebecca aspettava fuori, al colmo dell’angoscia. Non sentiva più alcun rumore provenire dall’interno della stanza, ma non era sicura che fosse un buon segno.
Quando il medico aprì la porta, le bastò guardarlo negli occhi per capire.
Il dottore scosse piano la testa, con aria affranta.
Non c’era bisogno di parole.
Rebecca aveva capito.
 
Le rimase accanto per tutto il tempo, guardandola dormire tranquilla. Il calmante somministrato dal medico doveva essere molto potente.
Infine, si addormentò sulla poltrona.
Quando si svegliò, il mattino dopo, il sole era già alto.
Il corpo senza vita di sua madre giaceva immobile accanto a lei, il viso disteso in un’espressione di nuovo serena.
Banita se n’era andata per sempre.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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