Singing
is the answer
22 – The library of idiotic revelations
«No, nonna, non insistere. Sono fuori per studiare, devo prepararmi per un es…
no, non torno sub… nonna, nonna?» Raon aveva notato Aya da lontano facendole cenno di raggiungerla, per poi
indicarle silenziosamente il telefono che stringeva ancora tra le dita.
«Niente, ha riattaccato. Boh, avrà avuto da fare. Allora? Andiamo a studiare
per questo cazzo di esame, sì o sì?»
L’amica scosse la testa sorridendo per poi fiondarsi su di lei abbracciandola,
stringendola forte al petto: la differenza di altezza era palese, ed i lunghi
capelli biondi solleticavano una Raon indispettita
quanto confortata. Le erano mancati i suoi abbracci, le era mancato il suo
bisogno di affetto; per una volta quella fisicità non la stava irritando poi
molto. Si scostò quel tanto per constatare che quella stretta non si allentava
minimamente.
«Aya… sto… sto soffocando!» Puntò le mani sul suo
stomaco spingendola, con il solo risultato di sentirsi nuovamente a contatto
con il seno dell’altra.
«Zitta. Così impari a sparire e farmi preoccupare come una disgraziata. Sei
stata una emerita stronza, sappilo.»
Di ragione, in fondo, ne aveva da vendere.
E questo lo sapevano perfettamente entrambe.
«Stavo male, lo sai.»
«Stare male non vuol dire staccare il cellulare, eliminare i messaggi,
visualizzare le conversazioni senza rispondere. Credi che non me ne sia
accorta? Sul serio? Pensi che non sappia?»
Sapere cosa, si chiese Raon curiosa: cosa era
trapelato da un comportamento del genere? Sembrava Aya
avesse tratto conclusioni su tutto, soltanto analizzando gli ultimi giorni
caratterizzati da una assenza forzata.
«Quindi?»
Forse il malessere dato dall’umiliazione subita a causa della madre.
Oppure la sensazione di non sentirsi compresa, inadatta pure, inadatta a quel
mondo che voleva vederla sempre sorridente, sempre perfetta. Sempre bene. O
semplicemente, la sua inadeguatezza di fronte ai problemi, portandola a
comportarsi spesso come una bambina offesa.
«È chiaro come il sole, è colpa sua.»
Raon affondò ancor di più nella giacchetta leggera,
consolandosi di quella breve sensazione d’essere pienamente capita.
«E ti sta facendo male, perché vorresti levarti dalla testa tutto quanto, ma
non ci riesci.»
Certo, certo non ci riusciva, e la sua anima intanto veniva sondata pezzo per
pezzo. Possibile fosse così facile per Aya scavarle
dentro, toccarla ovunque e cogliere ogni sfumatura? La loro amicizia aiutava,
sì, ne era sicura: il rapporto che avevano instaurato tempo prima aveva
raggiunto uno step successivo, una consapevolezza maggiore. Annuì, staccandosi
a malincuore stringendo ancora tra le dita il telefono, trovando una seconda
chiamata a scuoterla; lo infilò in tasca, sentendo gli occhi pizzicare.
Maledire ancora una volta la propria emotività non rientrava nei programmi, ma
così era stato: sentiva un impulso pesante a riversare un indefinito
quantitativo di lacrime e di insulti a caso, ma non era certo il luogo adatto.
L’imponente ingresso della vecchia biblioteca comunale si stagliava su di loro
con una certa opulenza.
«Dai, andiamo. Sappi che ne hai di cose da recuperare, e ti ho portato tutti
gli appunti. Non è un grazie che voglio…»
Che carina. Raon si sentiva grata di averla accanto.
«Una cena sarà più che sufficiente.»
«Come, scusa?»
«Certo, dovremo pur risolvere questa faccenda di quel pagliaccio triste di Åsli, no? So che lo hai visto, non fai altro che pensare a
lui, vero?»
La ragazza strinse gli occhi e socchiuse le labbra nel vano tentativo di
parlare, fallendo miseramente. L’altra non faceva affatto riferimento alla
madre o all’accaduto in casa Lee, anzi, aveva ricondotto il tutto
all’antipatico cantautore, vigliacco senza palle incapace di intervenire al
momento giusto – e ci era andata leggera con i pensieri, stavolta.
«Visto? Ti ho detto che ormai so leggerti dentro. Sei come un libro aperto,
tesoro, e sai che non potrai sfuggirmi. Dai dai, letteratura non si studia da sola.
Preparati, chiederanno tutti gli autori che abbiamo studiato finora.»
Alla parola “tutti” le cedettero le ginocchia.
«Taci.»
«Dai, guardalo.»
«Aya, cazzo, siamo dentro, non si può parlare…»
sussurrava Raon, spazientita e svenata di tutta la buona
volontà che si era portata appresso. Si stava già pentendo di aver ricominciato
ad uscire.
Così, senza motivo apparente.
«Raon? Psss, Raon?»
Sbuffò sbattendo il volume di letteratura di quasi cinquecento pagine contro la
superficie liscia del grande tavolo verde oliva su cui si erano accomodate per
studiare. Mezza aula si voltò, osservando le due in cagnesco.
«Che cazzo vuoi? Me lo potresti dire, per favore?» il bisbiglio si stava
tramutando in un rantolo di pura follia omicida.
«Da quando non vi vedete?»
Lei si alzò, recuperò cellulare, libro e quaderno per gli appunti – svuotato di
ogni aspettativa di inchiostro – e li scaraventò in malo modo all’interno della
borsa. Squadrò lo stanzone per intero, cercando di calmarsi senza insultare
l’amica che la stava osservando con un’aria contrariata. Le grandi librerie di
legno consunto accoglievano innumerevoli volumi per serie di quattro livelli,
seguendosi una con l’altra fino all’accesso alla stanza successiva; alzò lo
sguardo al soffitto, bianco pallido,
completamente vuoto. Qualsiasi decorazione fosse stata presente in passato
sbiadiva al ricordo, le luci al neon appiattivano ogni sensazione di calore e
intima ricercatezza di quiete. Stonavano terribilmente con le decorazioni
esterne, sapore d’antico che lasciava spazio al bisogno di modernità. Raon tagliò corto e si trasferì di fretta alla stanzetta
laterale, un piccolo spazio dedicato a tomi di un certo spessore e volume, un
ritaglio appartato in quel susseguirsi di banali sedie in plastica bianche e
computer in standby. Strattonò senza troppi complimenti una di esse verso di sé
per accasciarvisi sopra con impazienza, rovesciando il contenuto della tracolla
su un tavolo ruvido, liso dal tempo e dall’utilizzo costante; l’illuminazione
meno impattante rendeva in un certo qual modo l’ambiente più intimo,
silenzioso. Scribacchiò un paio di frasi a caso ma non riusciva a concentrarsi
poi più di tanto: era tentata, le prudeva la mano all’idea di recuperare lo
smartphone, collegarsi nuovamente su Youtube e
scrivere ciò che pensava in pubblico, sotto all’ultima pubblicazione di quello
youtuber che le stava dando i nervi per il solo semplice fatto di esistere. Gliene
avrebbe dette di ogni sorta, avrebbe scritto ben bene in caps
lock e l’avrebbe fatto pure in inglese, giusto per farsi capire da chiunque
avrebbe scorso l’elenco di interazioni sotto al video del giorno stesso.
«Sai che non dovresti usare il cellulare qui dentro, vero?»
Si voltò alzando le sopracciglia in un moto di stupore misto all’imbarazzo più
totalizzante, all’ascolto di quel tono familiare.
«E tu che cavolo ci fai qui?»
Aya non si sarebbe arresa: sapeva, capiva,
probabilmente tentava di far ammettere all’amica ciò che lei vedeva, e aveva
visto fin dall’inizio. Strinse le dita a pugno masticandosi l’interno della
guancia, da una parte così dall’altra, tornando con la mente al ricordo del primo
incontro con Per Fredrik Åsli. Quel gesto del dito
medio che Raon gli aveva dedicato all’udire una battuta
decisamente di pessimo gusto, se l’era meritato pure, e senza alcuna remora. Quello
che però Aya aveva pensato era chiaro: da tale
romantica quale era, li aveva immaginati assieme fin da subito, stuzzicando l’amica
in più di una occasione tra telefonate, messaggi ironici e frecciatine ben
piazzate. Forse le tante storie lette in giro, i manga shojo
aggiunti ad una già folta collezione presente in camera sua, oppure gli innumerevoli
anime che aveva seguito per anni, l’avevano portata a rimescolare le due
personalità contrastanti, unendole in un assurdo presunto rapporto. Un ipotetico
amore nato dopo mille peripezie vissute dalla protagonista del suo film
mentale. Rise coprendosi le labbra velate di un colore tenue, perfettamente
intonato alla carnagione ed agli occhi chiari; rise ancora mentre seguiva la direzione
presa da Raon, incurante della reazione non certo entusiasta
che le aveva scatenato contro poco prima. Adorava vederla arrabbiata, era uno
sfogo per lei ed una forma di intrattenimento per se
stessa.
Si bloccò all’entrata della stanzetta, i pugni poggiati con vigore sui fianchi:
Raon sorrideva paonazza, sfiorando l’avambraccio di
un ragazzo di spalle. Era sicura di non conoscerlo, aveva buona memoria fotografica
– soprattutto per il genere maschile, anche se non amava ammetterlo – e quello
non rientrava certo nella cerchia di conoscenze che avevano in comune. Chi poteva
essere? Una figura così particolare da riuscire a far arrossire l’amica, nota
per il disinteresse palese verso i sentimenti e l’altro sesso, doveva essere
straordinariamente bella. Interessante. Coinvolgente.
Doveva scoprirlo.
Era più forte di lei.
Si schiarì la voce attirando l’attenzione dei due.
«Ehi, credevo fossi di là.» Raon era visibilmente imbarazzata.
Si allontanò istintivamente dal ragazzo che le sedeva accanto, ricreando una certa
distanza.
«Siamo venute per studiare insieme, dobbiamo dare lo stesso esame e devi recuperare
un sacco di lavoro.»
«Buongiorno.»
«Ah, certo, buongiorno. Comunque, Raon, sei indietro,
tremendamente indietro, come pensi di fare se… ma aspetta, tu sei quello che mi
ha guardata malissimo qui dentro, l’altro giorno!» Aya
aveva riconosciuto il maleducato che l’aveva osservata dall’alto in basso
qualche tempo prima. Era lui, non poteva sbagliarsi, anche perché vedendolo a
fianco dell’altra, parevano cugini. Come dimenticarlo?
«Piacere, sono Tae. E tu? Oltre ad essere una gran casinista.»
La giovane si voltò indicandolo con un’espressione perplessa.
«Lei è Aya, una mia amica. Aya,
lui è il ragazzo che mi ha accompagnata a casa quando mi sono fatta male.»
Aveva omesso “è stato la causa della mia caduta”, non riteneva neppure
necessario sottolinearlo più. Lei si scusò imbarazzata, chiedendo qualche secondo
di privacy e scuotendo Raon per le spalle: era
preoccupata, i suoi piani si stavano sgretolando. Le stava sussurrando all’orecchio
domandandole se per caso ci fosse qualcosa tra loro: no, la risposta secca
seguita da uno sguardo furente.
Certo che no, rincarata la dose con sospiro piccato.
Ovviamente no.
E allora perché si stava vergognando da morire alla sola idea di ciò che le era
stato chiesto?
«E di quel Åsli? Non pensi a lui?»
Il sussurro s’era fatto più sommesso, non voleva farsi sentire.
«Ma che cazzo c’entra lui adesso? Che domanda è?»
La strattonò verso la stanza precedente, colpendola nell’orgoglio e allo
stomaco con poche semplici parole. «Non vedi che sei persa di lui?»