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Autore: _aivy_demi_    01/12/2020    22 recensioni
Una ragazza sbadata, disordinata e senza alcun pelo sulla lingua.
Un ragazzo famoso, allontanatosi dalla propria città in cerca di qualcosa.
Si incontrano, si detestano fin da subito.
Una simpatica commedia romantica het piena di malintesi, incontri fortuiti (e non), umorismo e una punta di ironia che non guasta mai.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Singing

is the answer

 

 

22 – The library of idiotic revelations




«No, nonna, non insistere. Sono fuori per studiare, devo prepararmi per un es… no, non torno sub… nonna, nonna?» Raon aveva notato Aya da lontano facendole cenno di raggiungerla, per poi indicarle silenziosamente il telefono che stringeva ancora tra le dita. «Niente, ha riattaccato. Boh, avrà avuto da fare. Allora? Andiamo a studiare per questo cazzo di esame, sì o sì?»
L’amica scosse la testa sorridendo per poi fiondarsi su di lei abbracciandola, stringendola forte al petto: la differenza di altezza era palese, ed i lunghi capelli biondi solleticavano una Raon indispettita quanto confortata. Le erano mancati i suoi abbracci, le era mancato il suo bisogno di affetto; per una volta quella fisicità non la stava irritando poi molto. Si scostò quel tanto per constatare che quella stretta non si allentava minimamente.
«Aya… sto… sto soffocando!» Puntò le mani sul suo stomaco spingendola, con il solo risultato di sentirsi nuovamente a contatto con il seno dell’altra.
«Zitta. Così impari a sparire e farmi preoccupare come una disgraziata. Sei stata una emerita stronza, sappilo.»
Di ragione, in fondo, ne aveva da vendere.
E questo lo sapevano perfettamente entrambe.
«Stavo male, lo sai.»
«Stare male non vuol dire staccare il cellulare, eliminare i messaggi, visualizzare le conversazioni senza rispondere. Credi che non me ne sia accorta? Sul serio? Pensi che non sappia?»
Sapere cosa, si chiese Raon curiosa: cosa era trapelato da un comportamento del genere? Sembrava Aya avesse tratto conclusioni su tutto, soltanto analizzando gli ultimi giorni caratterizzati da una assenza forzata.
«Quindi?»
Forse il malessere dato dall’umiliazione subita a causa della madre.
Oppure la sensazione di non sentirsi compresa, inadatta pure, inadatta a quel mondo che voleva vederla sempre sorridente, sempre perfetta. Sempre bene. O semplicemente, la sua inadeguatezza di fronte ai problemi, portandola a comportarsi spesso come una bambina offesa.
«È chiaro come il sole, è colpa sua.»
Raon affondò ancor di più nella giacchetta leggera, consolandosi di quella breve sensazione d’essere pienamente capita.
«E ti sta facendo male, perché vorresti levarti dalla testa tutto quanto, ma non ci riesci.»
Certo, certo non ci riusciva, e la sua anima intanto veniva sondata pezzo per pezzo. Possibile fosse così facile per Aya scavarle dentro, toccarla ovunque e cogliere ogni sfumatura? La loro amicizia aiutava, sì, ne era sicura: il rapporto che avevano instaurato tempo prima aveva raggiunto uno step successivo, una consapevolezza maggiore. Annuì, staccandosi a malincuore stringendo ancora tra le dita il telefono, trovando una seconda chiamata a scuoterla; lo infilò in tasca, sentendo gli occhi pizzicare.
Maledire ancora una volta la propria emotività non rientrava nei programmi, ma così era stato: sentiva un impulso pesante a riversare un indefinito quantitativo di lacrime e di insulti a caso, ma non era certo il luogo adatto. L’imponente ingresso della vecchia biblioteca comunale si stagliava su di loro con una certa opulenza.
«Dai, andiamo. Sappi che ne hai di cose da recuperare, e ti ho portato tutti gli appunti. Non è un grazie che voglio…»
Che carina. Raon si sentiva grata di averla accanto.
«Una cena sarà più che sufficiente.»
«Come, scusa?»
«Certo, dovremo pur risolvere questa faccenda di quel pagliaccio triste di Åsli, no? So che lo hai visto, non fai altro che pensare a lui, vero?»
La ragazza strinse gli occhi e socchiuse le labbra nel vano tentativo di parlare, fallendo miseramente. L’altra non faceva affatto riferimento alla madre o all’accaduto in casa Lee, anzi, aveva ricondotto il tutto all’antipatico cantautore, vigliacco senza palle incapace di intervenire al momento giusto – e ci era andata leggera con i pensieri, stavolta.
«Visto? Ti ho detto che ormai so leggerti dentro. Sei come un libro aperto, tesoro, e sai che non potrai sfuggirmi. Dai dai, letteratura non si studia da sola. Preparati, chiederanno tutti gli autori che abbiamo studiato finora.»
Alla parola “tutti” le cedettero le ginocchia.


«Taci.»
«Dai, guardalo.»
«Aya, cazzo, siamo dentro, non si può parlare…» sussurrava Raon, spazientita e svenata di tutta la buona volontà che si era portata appresso. Si stava già pentendo di aver ricominciato ad uscire.
Così, senza motivo apparente.
«Raon? Psss, Raon
Sbuffò sbattendo il volume di letteratura di quasi cinquecento pagine contro la superficie liscia del grande tavolo verde oliva su cui si erano accomodate per studiare. Mezza aula si voltò, osservando le due in cagnesco.
«Che cazzo vuoi? Me lo potresti dire, per favore?» il bisbiglio si stava tramutando in un rantolo di pura follia omicida.
«Da quando non vi vedete?»
Lei si alzò, recuperò cellulare, libro e quaderno per gli appunti – svuotato di ogni aspettativa di inchiostro – e li scaraventò in malo modo all’interno della borsa. Squadrò lo stanzone per intero, cercando di calmarsi senza insultare l’amica che la stava osservando con un’aria contrariata. Le grandi librerie di legno consunto accoglievano innumerevoli volumi per serie di quattro livelli, seguendosi una con l’altra fino all’accesso alla stanza successiva; alzò lo sguardo  al soffitto, bianco pallido, completamente vuoto. Qualsiasi decorazione fosse stata presente in passato sbiadiva al ricordo, le luci al neon appiattivano ogni sensazione di calore e intima ricercatezza di quiete. Stonavano terribilmente con le decorazioni esterne, sapore d’antico che lasciava spazio al bisogno di modernità. Raon tagliò corto e si trasferì di fretta alla stanzetta laterale, un piccolo spazio dedicato a tomi di un certo spessore e volume, un ritaglio appartato in quel susseguirsi di banali sedie in plastica bianche e computer in standby. Strattonò senza troppi complimenti una di esse verso di sé per accasciarvisi sopra con impazienza, rovesciando il contenuto della tracolla su un tavolo ruvido, liso dal tempo e dall’utilizzo costante; l’illuminazione meno impattante rendeva in un certo qual modo l’ambiente più intimo, silenzioso. Scribacchiò un paio di frasi a caso ma non riusciva a concentrarsi poi più di tanto: era tentata, le prudeva la mano all’idea di recuperare lo smartphone, collegarsi nuovamente su Youtube e scrivere ciò che pensava in pubblico, sotto all’ultima pubblicazione di quello youtuber che le stava dando i nervi per il solo semplice fatto di esistere. Gliene avrebbe dette di ogni sorta, avrebbe scritto ben bene in caps lock e l’avrebbe fatto pure in inglese, giusto per farsi capire da chiunque avrebbe scorso l’elenco di interazioni sotto al video del giorno stesso.
«Sai che non dovresti usare il cellulare qui dentro, vero?»
Si voltò alzando le sopracciglia in un moto di stupore misto all’imbarazzo più totalizzante, all’ascolto di quel tono familiare.
«E tu che cavolo ci fai qui?»


Aya non si sarebbe arresa: sapeva, capiva, probabilmente tentava di far ammettere all’amica ciò che lei vedeva, e aveva visto fin dall’inizio. Strinse le dita a pugno masticandosi l’interno della guancia, da una parte così dall’altra, tornando con la mente al ricordo del primo incontro con Per Fredrik Åsli. Quel gesto del dito medio che Raon gli aveva dedicato all’udire una battuta decisamente di pessimo gusto, se l’era meritato pure, e senza alcuna remora. Quello che però Aya aveva pensato era chiaro: da tale romantica quale era, li aveva immaginati assieme fin da subito, stuzzicando l’amica in più di una occasione tra telefonate, messaggi ironici e frecciatine ben piazzate. Forse le tante storie lette in giro, i manga shojo aggiunti ad una già folta collezione presente in camera sua, oppure gli innumerevoli anime che aveva seguito per anni, l’avevano portata a rimescolare le due personalità contrastanti, unendole in un assurdo presunto rapporto. Un ipotetico amore nato dopo mille peripezie vissute dalla protagonista del suo film mentale. Rise coprendosi le labbra velate di un colore tenue, perfettamente intonato alla carnagione ed agli occhi chiari; rise ancora mentre seguiva la direzione presa da Raon, incurante della reazione non certo entusiasta che le aveva scatenato contro poco prima. Adorava vederla arrabbiata, era uno sfogo per lei ed una forma di intrattenimento per se stessa.
Si bloccò all’entrata della stanzetta, i pugni poggiati con vigore sui fianchi: Raon sorrideva paonazza, sfiorando l’avambraccio di un ragazzo di spalle. Era sicura di non conoscerlo, aveva buona memoria fotografica – soprattutto per il genere maschile, anche se non amava ammetterlo – e quello non rientrava certo nella cerchia di conoscenze che avevano in comune. Chi poteva essere? Una figura così particolare da riuscire a far arrossire l’amica, nota per il disinteresse palese verso i sentimenti e l’altro sesso, doveva essere straordinariamente bella. Interessante. Coinvolgente.
Doveva scoprirlo.
Era più forte di lei.
Si schiarì la voce attirando l’attenzione dei due.
«Ehi, credevo fossi di là.» Raon era visibilmente imbarazzata. Si allontanò istintivamente dal ragazzo che le sedeva accanto, ricreando una certa distanza.
«Siamo venute per studiare insieme, dobbiamo dare lo stesso esame e devi recuperare un sacco di lavoro.»
«Buongiorno.»
«Ah, certo, buongiorno. Comunque, Raon, sei indietro, tremendamente indietro, come pensi di fare se… ma aspetta, tu sei quello che mi ha guardata malissimo qui dentro, l’altro giorno!» Aya aveva riconosciuto il maleducato che l’aveva osservata dall’alto in basso qualche tempo prima. Era lui, non poteva sbagliarsi, anche perché vedendolo a fianco dell’altra, parevano cugini. Come dimenticarlo?
«Piacere, sono Tae. E tu? Oltre ad essere una gran casinista.»
La giovane si voltò indicandolo con un’espressione perplessa.
«Lei è Aya, una mia amica. Aya, lui è il ragazzo che mi ha accompagnata a casa quando mi sono fatta male.» Aveva omesso “è stato la causa della mia caduta”, non riteneva neppure necessario sottolinearlo più. Lei si scusò imbarazzata, chiedendo qualche secondo di privacy e scuotendo Raon per le spalle: era preoccupata, i suoi piani si stavano sgretolando. Le stava sussurrando all’orecchio domandandole se per caso ci fosse qualcosa tra loro: no, la risposta secca seguita da uno sguardo furente.
Certo che no, rincarata la dose con sospiro piccato.
Ovviamente no.
E allora perché si stava vergognando da morire alla sola idea di ciò che le era stato chiesto?
«E di quel Åsli? Non pensi a lui?»
Il sussurro s’era fatto più sommesso, non voleva farsi sentire.
«Ma che cazzo c’entra lui adesso? Che domanda è?»
La strattonò verso la stanza precedente, colpendola nell’orgoglio e allo stomaco con poche semplici parole. «Non vedi che sei persa di lui?»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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