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Autore: Carme93    01/12/2020    6 recensioni
Samir è solo un bambino quando compie il suo primo viaggio in barca, ma, nonostante la paura, troverà il modo di non abbattersi e di sperare in una vita migliore.
[Questa storia partecipa all'iniziativa "Prompts, our wires" indetto da Soul Dolmayan sul sito di EFP]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di un anno scolastico'
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Memorie di una nuova alba
 
 
 


 
“E il mio maestro mi insegnò com’è difficile
trovare l’alba dentro l’imbrunire”
(Prospettiva Nevski di Franco Battiato)
 
 
 


Freddo. Non ne aveva mai provato così tanto, s’insinuava fin dentro le ossa e a nulla valevano i tentativi di scaldarsi. D’altronde era bagnato sia per la pioggia sia per le onde del mare; persino il fondo del barcone dov’era seduto era pieno d’acqua. La maglia, ormai sudicia, gli si era appiccicata addosso, tanto da divenire una seconda pelle.
Strinse i denti perché la smettessero di battere, abbracciò le ginocchia veementemente e si fissò le scarpe consunte.
Chiuse gli occhi e pregò Allah con tutto il cuore, sperando che quel suo primo viaggio in mare non si rivelasse anche l’ultimo.
Il barcone malandato, però, sembrava ormai in balia delle onde.
Represse un conato di vomito e ricacciò indietro le lacrime: non voleva unirsi ai gemiti, che, a volte, neanche il rombo del mare riusciva a sovrastare e tormentavano i suoi brevi sonni.
Prese un bel respiro e affrontò la sorellina che frignava. Non che fosse l’unica, ma i proprietari del barcone mal sopportavano e reagivano violentemente. Si chinò verso di lei e tentò di distrarla. Piangeva per la fame e la paura, ma lui non aveva soluzioni per questo.
La mamma dormiva per quasi tutto il tempo: il suo respiro era affannoso e, a volte, sembrava più un rantolo. Le sfiorò la fronte con delicatezza e costatò che scottava. Ancora. Aveva provato a chiedere aiuto, ma aveva ottenuto in risposta occhi vitrei e febbricitanti.
Alcune persone dormivano per giorni, ma a differenza della madre non rantolavano e non si svegliavano mai; i proprietari del barcone li gettavano a mare. Era terrorizzato all’idea di addormentarsi e vegliava la madre, attento che nessuno le si avvicinasse.
Quando erano partiti, il mare non era così tanto mosso, anzi era una distesa blu e il suo cuore si era riempito di speranza: in fondo suo padre aveva promesso che sarebbero andati in un posto migliore, che sarebbero stati felici.  
Abbracciò ancora la sorellina e scacciò il pensiero del padre, in attesa di un’alba che quel giorno non avrebbe visto sorgere.
Sembrava un viaggio infinito, eppure non avrebbe dovuto essere così. A volte si chiedeva se si stessero muovendo nella direzione giusta o se venissero sballottati da una parte all’altra senza più una meta. L’angoscia gli artigliava il petto quando ci pensava, ma poi tentava di convincersi che erano nel mar Mediterraneo, non nell’Oceano Atlantico. Suo padre gli aveva comprato delle cartine. Doveva apparire la terra, per forza. Una qualsiasi. Anche se avevano sbagliato strada.
Dalla sua posizione sul fondo della barca, però, non scorgeva nulla se non i volti spaventati dei compagni di viaggio e il cielo cupo. Non avrebbe osato affacciarsi per la troppa paura di cadere in acqua ˗ ne aveva visti fin troppi fare quella fine.
Ormai temeva che il barcone si sarebbe capovolto da un momento all’altro e lui non era bravo a nuotare, figuriamoci se avesse potuto aiutare la madre e la sorellina. Suo padre gliel’aveva raccomandato: avrebbe dovuto proteggerle.
Ore dopo, le urla della madre lo riscossero dal sonno agitato in cui era piombato. La barca non dondolava più come prima, ma il cielo era ancora scuro. Si accostò alla madre, ma ella si contorceva premendosi le mani sul ventre prominente. Si chiese se il fratellino avesse deciso di nascere in mezzo al mare.
Supplicò le donne più vicine, ma quelle si limitarono a scuotere la testa sconsolate. Sconfortato, si accorse che stava albeggiando e dal nulla era apparso un motoscafo di medie dimensioni e dal bianco brillante, che aveva attirato l’attenzione degli altri viaggiatori. Uomini in divisa bianca urlavano parole incomprensibili nella loro direzione. Sicuramente non parlavano né l’inglese né il francese.
Gli scafisti provarono ad allontanarsi, ma gli uomini in bianco spararono.
Il suo grido si unì a quello degli altri. Si tappò le orecchie terrorizzato: non potevano essere tornati indietro, no. Si costrinse a tranquillizzarsi e non lasciarsi trascinare dalla paura: abbracciò la sorellina in lacrime e si guardò intorno. Erano tutti agitati e spaventati, ma nessuno sembrava ferito. Come avevano fatto a sbagliare da così vicino?
Gli scafisti si gettarono in acqua e qualcuno spaventato li imitò.
Per conto suo, lui rimase il più possibile immobile sul fondo del barcone. Suo padre gli aveva detto un milione di volte che avrebbero trovato un posto migliore, un posto senza la guerra. Non aveva senso buttarsi in acqua se erano ancora una volta in balia di militari.
Uno degli uomini in bianco, intanto, probabilmente il capo, gridava ordini e gli altri eseguivano. Dalla sua posizione lui non poteva vedere, ma comprese che stavano ripescando coloro che avevano tentato la fuga.
Dopo un po’, quando ormai era già giorno, sopraggiunse una nave, molto più grande del motoscafo.
Lui mantenne la sua posizione e osservò con attenzione i gesti degli uomini in divisa bianca, sicuro che avrebbero gettato in acqua quelli che dormivano tanto profondamente da non aver percepito lo sparo; ma non fu così: gli uomini in bianco li coprirono con delle cerate e li trasportarono sulla nave.
Distolse lo sguardo e si mise in posizione di difesa quando si accorse che una donna in bianco l’aveva raggiunto: non avrebbe toccato sua madre. La donna, però, alzò le mani in segna di resa o forse di pace.
Il ragazzino si mordicchiò il labbro, ma le permise d’inginocchiarsi ed esaminare la madre, che ancora gemeva e accolse con sollievo una coperta calda che gli fu consegnata. La donna, però, non fu in grado di far nulla per la madre e gesticolò verso i colleghi: poco dopo tre uomini in giubbotto arancione con una croce bianca sulla schiena si avvicinarono e deposero sua madre su una barella. Solo allora lui si rese conto della macchia di sangue sul fondo del barcone.
Il viaggio sulla nave fu molto breve e, appena attraccati, nel porto gli uomini in divisa cominciarono a far scendere tutti i passeggeri.

Lui si alzò di scatto non perdendo di vista la madre, ma le gambe cedettero, per fortuna, qualcuno lo sostenne. Nonostante la stanchezza, tallonò gli uomini che trasportavano la barella e trascinò con sé la sorellina; dopo molte proteste, fu anche concesso loro di salire sull’ambulanza. All’ospedale, però, furono separati e lui non riuscì a impedirlo. Lasciò che si prendessero cura della sorellina – senza perderla d’occhio un solo istante ˗, ma non volle che qualcuno si avvicinasse a lui.
Le infermerie insistettero per visitarlo, ma lui si agitò tanto finché urtò una bottiglia di disinfettante, che cadde a terra e si ruppe. Quelle seccate ed esasperate si limitarono a lanciargli occhiatacce, ma riferirono l’accaduto a un dottore che entrò poco dopo.  
L’espressione di quest’ultimo non prometteva nulla di buono e lo turbò non poco. Il ragazzino provò a indietreggiare, ma l’uomo lo prese per un braccio e lo costrinse a sedersi su un lettino, poi lo visitò proprio come le infermiere avevano fatto con la sua sorellina. Non ebbe il coraggio di lamentarsi.


Ore dopo, sazio e con indosso vestiti puliti, era dispiaciuto per il suo comportamento. Sua sorella riposava in un letto dalle lenzuola pulite e a lui era stato permesso di farle compagnia.
Improvvisamente un uomo giovane e dai tratti orientali entrò nella camera.
«Ciao» disse l’uomo in arabo.
In arabo! Finalmente aveva trovato qualcuno a cui chiedere della madre.
«Ciao» rispose lui automaticamente.
«Mi chiamo Alex» si presentò l’uomo. «Tu e tua sorella come vi chiamate?».
«Mi chiamo Samir. Mia sorella Jasmine».
«Piacere, Samir».
«Dove siamo?» si affrettò a chiedergli.
«In Italia. Tu da dove vieni?».
In Italia! Proprio dove volevano arrivare! Suo padre aveva detto che sarebbero stati meglio.
«Dalla Libia. Mia madre come sta?».
«Meglio» rispose lui.
Samir si sentì più sollevato. «Vorrei vederla»
«Tra poco».
Alex gli spiegò che sarebbe dovuto andare con lui e Samir protestò: non voleva essere diviso da Jasmine e dalla madre; o almeno protestò finché non sopraggiunse il medico di qualche ora prima, che gli lanciò un’occhiata indagatrice.
Gli adulti si scambiarono poche parole in italiano, poi Alex gli disse: «Vedi, Samir, lui è il dottor Pasini ed è stato lui a curare la tua mamma».

Il ragazzino deglutì e scrutò l’uomo solo per un secondo, poi chinò il capo: era stato irrispettoso e ingrato. Gli dispiacque.
Gli fu permesso di vedere la madre per qualche minuto, poi seguì Alex al campo d’accoglienza senza lamentarsi, ma la prima impressione fu pessima: sembrava una gabbia per uomini o almeno gli altri ospiti sembravano animali feriti e in gabbia.

Quella notte Samir riposò in un letto vero, ma ebbe difficoltà a dormire: doveva trovare una soluzione per la sua famiglia. Come si sarebbe comportato suo padre? Rimuginò a lungo sulle loro ultime conversazioni: suo padre l’aveva preso più volte in disparte raccontandogli dell’Europa, dell’importanza di preservare le proprie radici ma, al medesimo tempo, di andar via da una terra in cui non erano più i benvenuti. Più volte gli aveva chiesto perché non potessero vivere in pace a casa loro, ma ogni volta suo padre aveva scosso la testa e aveva ricominciato a confidargli i suoi progetti perché, se fosse accaduto qualcosa, sarebbe toccato a lui prendersi cura della madre e della sorella. E fino a quel momento aveva obbedito, ma adesso sembrava ancor più difficile. Suo padre aveva detto che il primo passo sarebbe stato trovare un lavoro in Italia e guadagnare qualcosa, solo dopo avrebbero potuto trasferirsi in Francia: si sarebbe accontentato di un qualunque lavoretto, anche il più umile. L’importante era che fosse onesto. Nel frattempo Samir avrebbe potuto migliorare il suo francese. A questo punto, in assenza del padre, sarebbe toccato a lui trovare un lavoro.  
La mattina successiva, dopo la colazione, cercò e ottenne un colloquio con Alex.
«Per favore, aiutami a trovare un lavoro» gli disse serio e preoccupato. «Qualunque cosa purché sia onesta» aggiunse immediatamente.
Alex lo fissò tristemente e scosse la testa.
«Perché no?».
«Sei piccolo».
«Ho dieci anni e mezzo. Ho lavorato già più volte nei campi e imparo in fretta».
«Non dubito che ne avresti le capacità, ma in Italia non è ammesso il lavoro minorile».
«In che senso?».
«Devi andare a scuola, Samir. In Italia funziona così».
«Ma…».
«Non ti devi preoccupare di nulla, se non di studiare».
Come non doveva preoccuparsi? Era una sua responsabilità badare alla madre e alla sorellina! Nelle settimane successive ripeté la richiesta anche a Beatrice, la psicologa del centro, ma ottenne la stessa risposta. In compenso gli fu permesso di andare a trovare la madre e la sorellina quasi tutti i giorni. Inoltre, iniziò le lezioni d’italiano e s’impegnò duramente: senza conoscere almeno un po’ la lingua, non avrebbe avuto senso tentare la fuga.

Il centro era triste. Tutti gli ospiti erano tristi. Perché? Samir proprio non capiva: quel posto non era bello, no, ma i volontari si prendevano cura di loro. Non era come a casa: non c’erano militari per le strade. O almeno era raro. Una volta ne aveva visti due e si era spaventato. Alex, però, gli aveva spiegato che non doveva preoccuparsi perché erano lì per proteggere un imprenditore in pericolo. Non aveva compreso quale rischio potesse mai correre quell’uomo vivendo in un paese in pace, ma quando Alex si era distratto, era passato più volte accanto ai due militari, ma quelli gli avevano lanciato solo qualche occhiata distratta.
Da quando era arrivato, Samir aveva preso l’abitudine di osservare la gente del posto e l’aveva sempre trovata felice e tranquilla. In più non c’erano macerie per strada.

A un certo punto, stanco di non essere ascoltato da Alex e Beatrice, Samir decise di rivolgersi al dottor Pasini. Nonostante l’impressione iniziale, non sembrava cattivo: il ragazzino aveva notato la delicatezza con cui l’uomo si prendeva cura di sua madre e degli altri pazienti, ma anche la sua stanchezza alla fine di un turno. Una mattina, dopo essersi assicurato che Jasmine e la madre stessero molto meglio, lo seguì in sala medici. Il dottore lo scrutò, ma non lo allontanò.
Samir non parlava ancora l’italiano, ma aveva imparato qualche parola. «Dispiace» esordì balbettante.
Pasini rispose qualcosa, che il ragazzino non comprese; il medico allora riprovò: «Perché?».
Voleva sapere perché? Per un attimo Samir pensò di non aver capito bene, poi adocchiò una bottiglia di vetro, la prese e finse di gettarla a terra; infine fissò Pasini eloquentemente.  
Quest’ultimo sorrise leggermente e scosse la testa, come a dire che non era importante.
Samir si sentì sollevato nel costatare che non ce l’avesse con lui, poi tirò fuori dalla tasca dei fogli: se non sapeva parlare, poteva almeno mostrare dei disegni per farsi comprendere. Si era impegnato molto.
La prima vignetta ritraeva lui che parlava con Pasini (un omino basso e un altro più alto con un camice bianco); la seconda, invece, sempre lui che stringeva la mano a Pasini: avevano appena concluso un accordo; la terza mostrava un campo coltivato e le ciminiere di una fabbrica; nella quarta Samir stringeva la mano di un uomo grande e grosso – sotto l’omino si leggeva difficoltosamente ‘capo’; infine, l’ultima rappresentava Samir al lavoro.
Pasini scrutò le vignette per un po’, palesemente stranito. Samir pregò che capisse. Era un medico! Salvava le persone! Doveva essere intelligente.
Infine Pasini spostò lo sguardo su di lui e sorrise leggermente.
«Quanti anni hai?» gli chiese.
Samir comprese la domanda perché l’avevano studiata.
«Dieci e mezzo» rispose balbettando leggermente.
Pasini disse qualcosa d’incomprensibile, poi lo indicò e segnò il numero 18 sul foglio.
Samir lo guardò male: la stessa risposta che gli avevano dato Alex e Beatrice! Preso dalla rabbia e sconfortato, scoppiò in lacrime, ma, punto nell’orgoglio, salutò e si allontanò senza dargli il tempo di aggiungere altro.
Nei giorni successivi sua madre fu dimessa, ma si mantenne silenziosa e a malapena considerò lui e Jasmine. Samir non sapeva come comportarsi: avrebbe voluto portarla via da lì, ma non trovava il modo. Fuggire sembrava una pessima mossa.
Così si limitò a impegnarsi nello studio, ma l’italiano non era per nulla semplice.
Qualche tempo dopo, inaspettatamente, il dottor Pasini andò a trovarli e volle parlare con la madre in privato. Che cosa si dissero con l’aiuto di Alex, Samir lo scoprì soltanto in seguito e fu profondamente grato ad Allah, perché finalmente, dopo tante sofferenze, avrebbe trovato un po’ di tranquillità.
 
 
Epilogo.
 
Il cielo si stava rischiarando lentamente tra i palazzi.
Samir si strofinò le braccia e rabbrividì.
«Dobbiamo proprio tenere la finestra aperta?» si lamentò Cassy, la sua migliore amica.
Il ragazzo ispirò. «Non ti senti rinfrancare da quest’aria fresca?».
«È gelida» ribatté lei, stringendosi una coperta sulle spalle.
Samir roteò gli occhi. «Non ti ho costretto a venire… Ehi!».
Cassy gli aveva pizzicato il braccio. «Chiudi la finestra».
«Ok, ok» si arrese Samir.
Cassy iniziò a fargli il solletico e il ragazzo scoppiò a ridere, finirono per urtare alcuni scatoloni.
«Che fai?! Ci sentiranno tutti!» ridacchiò Samir, allontanandola da sé.
«Chissenefrega!».
«Siete voi due! Avrei dovuto immaginarlo» sbottò una voce severa.
Cassy e Samir si voltarono verso la porta.
«Papà!».
«Signor Pasini!».
«Abbassate la voce!» sibilò l’uomo, avvicinandosi. «Vi diverte farmi litigare con l’amministratore, vero?».
«No, volevamo solo veder sorgere l’alba» si affrettò a spiegare Samir prima che Cassy se ne uscisse con una delle sue rispostacce. Effettivamente il signor Pasini aveva litigato più volte con l’amministratore del condominio perché i ragazzi avevano trovato divertente scegliere il solaio come loro luogo di ritrovo, ma questo non era andato giù alla maggior parte degli adulti ed era stato vietato loro l’ingresso.
«La prossima volta andatevene in spiaggia, ma non salite qua sopra» borbottò il signor Pasini. Non era un caso che si arrabbiasse con Cassy, la figlia maggiore, ma a Samir dispiaceva sempre quando era coinvolto anche lui, specialmente se il padre dell’amica aveva anche il turno di notte alle spalle.
«Avanti, Cassy, scendi giù e non pensare nemmeno di tornartene a letto».
«Come no?» si lamentò indignata.
«Tra poco suonerà la sveglia, tanto vale che ti prepari per andare a scuola».
«Non possiamo saltare oggi? In fondo è un giorno speciale, te lo sei dimenticato?».
«Cassandra, non cominciare. Fila a casa» sbottò il dottor Pasini.
Cassy s’imbronciò, ma non replicò, in quanto suo padre la chiamava con il suo nome completo solo quando aveva già perso la pazienza.
«Mi dispiace» disse Samir appena rimasero soli.
Il dottor Pasini annuì, poi sorrise leggermente. «Buon compleanno, Samir».
Il ragazzo sorrise.
L’uomo gli mise un braccio intorno alle spalle, mentre si dirigevano verso le scale ancora semibuie. A Samir non incuteva più timore il buio: era insieme a chi gli aveva dato speranza nel momento più difficile della sua vita. Dovunque fosse in quel momento suo padre avrebbe dovuto essere fiero di lui: aveva seguito i suoi insegnamenti e non aveva perso la speranza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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