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Autore: Dira_    06/12/2020    5 recensioni
[Seguito de "Nella Selva Oscura"]
Castiglioscuro non è più un problema per le Silvani. Lo è il bosco, e ciò che contiene.
Un mostro si è risvegliato tra gli alberi e una barista di paese si è resa conto che non più essere soltanto quello.
Rosi deve tornare nell'Altrove, un mondo popolato da spettri, criptidi e mostri; deve trovare il coraggio di affrontarli e forse affrontare sé stessa.
Nell'Altrove è facile smarrirsi: puoi dimenticare di essere un mostro per scoprire il primo amore, puoi cominciare a dubitare che obbedire agli ordini sia sempre giusto. Puoi scoprire che no, non lo è.
Perché nell'Altrove vi è una sola certezza: una volta che lasci il sentiero, è allora che la storia comincia davvero.
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2.
 
 
 
Ci sono dei confini al di là dei quali non è permesso andare.
Dio ha voluto che su certe carte fosse scritto: hic sunt leones
(Il Nome della Rosa, Umberto Eco)
 
 
Roísín non aveva dormito: era una conseguenza piuttosto ovvia quando il proprio mondo finiva a testa in giù.
Dopo che Tobia l’aveva lasciata sulla soglia di casa aveva dribblato le domande di sua sorella, così come le vocianti richieste di mangiare assieme di Michele Russo e si era infilata in camera di sua madre; era lì infatti che Marina teneva i Bestiari.
Rosi li ricordava; così come ricordava le tante agende impilate nella libreria, all’apparenza anonime ma che invece nascondevano formule per creare quelle sue tisane tanto buone, ma anche un bel po’ magiche.
L’odore di erba medica in camera di sua madre era quasi asfissiante, forse per i tanti mazzetti di fiori e pianticelle appese alle travi nude del soffitto; non aveva mai trovato strano quell’odore, come non lo trovava Caterina, ma quale madre teneva un’erboristeria appesa al soffitto?
Una madre che trafficava con erbe che solitamente venivano lasciate a bordo dei campi, o dei fossi, o a marcire nella terra del bosco, ecco quale.
Sua madre quando usava la frase “lo sai che son strega”, lo intendeva sul serio.
Sua madre era una strega. Lo erano state tutte le donne Silvani prima di lei, ognuna con le sue capacità, ognuna nata inesorabilmente in un’assolata giornata di Domenica.
Rosi aveva trovato i Bestiari nella libreria, accanto alle agende: avevano copertine foderate di carta colorata come si faceva una volta. Un’ulteriore misura contro la curiosità di Cate, che comunque non era mai stata una gran lettrice.
Le pagine erano ingiallite e la rilegatura a colla aveva lasciato qualche foglio libero, che Marina aveva re-incollato con un po’ di scotch; i Bestiari erano testi di apprendimento, ma potevano trascorrere diverse generazioni prima che venissero aggiornati. L’ultima volta doveva essere stato al tempo di suo nonno Virgilio. Quei libri sarebbero dovuti appartenere a lui, ma dovevano essere stati sfogliati unicamente da sua madre. Odoravano di bosco esattamente come il resto della camera.
 
Aveva passato tutta la notte a leggere, e come un fiume straripato dagli argini, i ricordi dell’addestramento erano tornati ad ogni pagina che sfogliava e ad ogni disegno ingiallito di qualche Creatura che riconosceva.
Non ricordava il giorno esatto in cui aveva deciso che non voleva diventare una Sorvegliante, ma non era accaduto subito; prima c’era stata la magia del bosco, le storie di veglia sussurrate da sua madre per farla addormentare e le notti passate a Castiglioscuro ad ascoltare gli alberi con Tobia.
In tutto quel tempo aveva voluto esser Sorvegliante.
Poi però era arrivata la morte di suo nonno, il dover crescere una Caterina sempre più ribelle e infine – il vero motivo – voler sembrare normale agli occhi di una Malacena talmente immersa nel Chiaro da quasi non credere ai santi, figurarsi ai diavoli.
Abbandonare Tobia era stata solo la summa finale di quella decisione.
Tobia che però non era impazzito. Aveva avuto soltanto paura, la stessa paura che quel pomeriggio l’aveva bloccata sul ponte della Manolonga e l’aveva quasi fatta ingollare dal serpente con il volto umano.
Rosi aveva passato tutta la notte a leggere, interrompendosi solo per guardare il soffitto, ma per pochi attimi; quelli necessari a ricordare che rinunciare a quel ruolo l’aveva resa cieca e sorda e per poco non l’aveva uccisa.
 
L’alba illuminava i tetti di Malacena, posando una luce rosata su ogni cosa; Malacena, era un paese delle fiabe dimenticato, il luogo dove era nata, cresciuta e dove sarebbe un giorno stata seppellita. Era come se ogni pietra, tegola o interstizio le appartenesse, come se ogni persona fosse un po’ sotto la sua responsabilità.
Non poteva più limitarsi a servire caffè, doveva tornare ad aprire gli occhi e fare quello che la sua famiglia aveva fatto per generazioni.
Sorvegliare.
Proteggendo così la sua gente e, più nell’immediato, impedendo a Caterina e i suoi siciliani di salire al castello.
Finché il terreno non si fosse asciugato sarebbe stato facile dissuaderli; a nessuno piaceva dormire nel fango, ma se il sole avesse continuato a splendere senza una nuvola come quella mattina, sarebbe stata questione di un paio di giorni, non di più.
Tobia ha detto che troverà un modo …
Avrebbe dovuto fidarsi? Doveva, non aveva scelta, era a corto di idee che non fosse metterli in una collettiva punizione, cosa che avrebbe fermato a malapena sua sorella, figuriamoci tre estranei maggiorenni.
Rosi si accese l’ennesima sigaretta mentre la mattina entrava gloriosamente dalla finestra. Il posacenere accanto al comodino ormai traboccava di mozziconi e sentiva la gola secca come se ci avesse strofinato della carta vetrata.
Era spaventata. Spaventata, ma non terrorizzata, perché  aveva un obiettivo e leggere quei libri le dava l’illusione di poterlo raggiungere. Forse.
Lo schermo del suo cellulare si illuminò.
 
 
Rosi lo anticipò e non dovette attendere che uno squillo perché le venisse risposto. “Buongiorno,” sospirò Ettore. “Neanche tu hai dormito, eh?”
“Per me è normale, non lo è per te caro il mio Brigadiè.” ribatté ironica. “A quanto mi ricordo, tocchi il cuscino e dormi.”
“Lascia fare, se dormivo facevo solo incubi.” borbottò. “I Bestiari?”
“Li ho letti, ma preferisco parlarvene a voce.”
“Hai trovato qualcosa?”
Rosi diede un tiro alla sigaretta, ringraziando il pugno di nicotina che le colpì la gola e le diede il tempo di concentrarsi su altro che non il nodo di panico che le stringeva le viscere. Aveva trovato qualcosa? Aveva passato tutta la notte a leggere, incerta se fosse meglio avere conferme terribili oppure rimanere nell’incertezza data dall’ignoranza. Nell’ora più buia aveva avuto la sua risposta. “Sì,” disse, “ma non è una buona notizia.”
Ettore rimase in silenzio, senza tempestarla di domanda come si sarebbe aspettata. Forse era così che diventava sul lavoro. “Aspettiamo che ci stia anche Tobia allora.” disse infine.
“Va bene.”
Il momento professionale durò poco. “’Sta cosa che non tiene manco ‘nu cellulare scrauso per poterlo avvisare è assurdo!” sbottò lamentoso. “Potremo fare una chat di gruppo degli Investigatori dell’Altrove, ma no, lui deve fare quello fuori dalla rete!”
“Degli investigatori di che…?” decise di glissare per la sua stessa sanità mentale. “Abita nel bosco,” gli fece invece notare, “lì dentro non prende.”
“Ah … già.” Rosi se lo immaginò a passarsi una mano tra i capelli corti e abbozzò un sorriso. “Sto un poco preoccupato per lui, tu no?”
Sempre, pensò, ma ripeterlo per l’ennesima volta le parse trito. “Vive accanto al cimitero,” rispose invece, “le Creature lì non entrano.”
“E perché?”
Perché il Mondo Altro aveva le sue regole per quanto ad un abitante del mondo normale risultassero prive di senso. Una di esse, e Rosi lo ricordava dalle parole di Bruno Neri, l’uomo dei morti prima che lo diventasse Tobia, era che i morti non andavano disturbati. Il regno delle Creature era un regno vivo, fatto della stessa linfa che scorreva nei tronchi degli alberi, e non si mischiava bene con l’Oltretomba. E infatti, gli alberi del bosco si fermavano alle mura del cimitero: solo l’edera selvatica e il cipresso avevano il permesso di crescervi.
Tutto il resto, semplicemente, moriva.
Quando finì la spiegazione dall’altra parte del telefono Ettore rimase in silenzio.
“Ci credi che mi sono venuti i brividi, Rosì?” mormorò. “Io ci sono stato, quando c’erano … insomma, quando ci stavano pure i fuochi fatui! Non è che mo’ se la prendono con me?”
Rosi sorrise. “È stato Tobia a farti entrare, e chiunque porti con sé è al sicuro. Cosa diversa è se entri per conto tuo, soprattutto di notte o magari il trentuno d’Ottobre.”
Ca’ succèd o' trentun d’Ottobre?” fece un brevissimo respiro. “No, ja, lascia fare, non dirmelo!”
Rosi sbuffò una risata; per quanto Tobia le avesse detto che Ettore era come loro, era palese che non fosse abituato all’Altrove. Le sue reazioni genuine paradossalmente la rassicuravano, rendendo quella faccenda un po’ meno fuori di testa. 
“Il cimitero protegge il suo custode, come il custode protegge il cimitero. È sempre stato così, basta che non vada a passeggiare nel bosco e non dovrebbe correre rischi.”
Conoscendolo, non era del tutto sicura che il Nero se ne sarebbe stato con le mani in mano a lungo. Confidava però che non fosse diventato completamente scemo e che li avrebbe chiamati prima di agire. O almeno, avrebbe chiamato il buon Brigadiere.
Di certo non te. Con te non vuole avere più niente a che fare.
“Quindi di cose ne sai…” la riportò all’ordine Ettore.
Era un’affermazione tranciante e Rosi vi percepì accusa, ma anche sollievo. Non era male avere un alleato in più in quella faccenda; questo lo poteva capire.
“Avrei dovuto prendere il posto di mia madre come Sorvegliante … le ho studiate.” confermò suo malgrado. “Però finita questa storia torno alla mia vita. Torno al Chiaro.”
“Puoi davvero farlo?” domandò Ettore perplesso.
Rosi non rispose. 
 
***
 
“Dov’è Cate?” 
Maddalena aveva da ore quella domanda insensata in testa. Insensata perché quando era tornata dalla sua caccia, a Malacena erano le quattro del mattino, e Caterina era presumibilmente in camera sua a dormire. Non aveva quindi potuto pronunciarla ad alta voce quando aveva dato la buonanotte ad un assonnatissimo Stefano. Si era invece fatta qualche scarna ora di sonno in attesa che fosse un’ora decente per scendere al Bar e sperare di trovarla a far colazione con gli altri.
Caterina non era al Bar.
“Starà ancora dormendo.” le rispose Rosi affaccendata a servire caffè e cappuccini. Stefano, Michele e Pietro stavano facendo colazione ad uno dei tavoli fuori. Ridevano, scherzavano e avevano lasciato due sedie libere al tavolo già ingombro di tazze e rimasugli di cornetti. Maddalena si permise un piccolo sospiro di sollievo: la vânător non c’era.
“Pensavo fosse scesa. Allora vado a svegliarla.” propose e Rosi le rivolse un cenno distratto. 
“Se ci riesci, ti offro la colazione.”
“Non era già offerta?”
Il tono ironico non sfuggì all’altra, che le restituì un ghignetto divertito. “Direi di no. Ci manca solo che cominciate a costarmi.”
Maddalena ridacchiò: Rosi le piaceva. Non era il suo tipo, era troppo magra e puzzava di sigaretta, ma le era simpatica con quei suoi modi bruschi ma franchi. In entrambe le Silvani, seppure in modo diverso, si percepiva un’aria sincera, di quelle che capivi al volo che non ti avrebbero mai fatto una cattiveria per il gusto di farla. 
Marina, la madre, invece non l’aveva ancora inquadrata. L’aveva sentita rientrare la sera prima, ma non era ancora uscita dalla propria camera. 
Meglio così. Rimane pur sempre una Sorvegliante.
Perché da Sorvegliante si sarebbe di certo allarmata se una succuba fosse entrata di soppiatto nella camera di sua figlia minore; stesa sul letto come una stella marina, con le coperte aggrovigliate attorno ai piedi, Cate non dava segno di aver notato il suo ingresso, continuando invece a ronfare nonostante avesse il sole in faccia. Maddalena si sedette in fondo al letto non potendo fare a meno di spendere qualche istante a contemplarla.
Cate non era solo bella, era interessante. Aveva gli occhi pieni di luce, i lineamenti gentili, e una pelle liscia dal buonissimo profumo. Girava conciata con roba di almeno una o due taglie più grande, ma era una dichiarazione pensata, un modo di presentarsi al mondo. Anche i capelli lo erano, lasciati al naturale, ma curatissimi; nel bagno erano disseminate oli e balsami per capelli in ogni angolo, e dubitava fossero di Rosi, dato che la donna portava una crocchia strettissima e perenne.  
Cate era la ragazza più bella e interessante – fuori e dentro – che avesse mai conosciuto e non aveva la minima idea di come gestire quello che provava per lei.
Il buonsenso le diceva di rimangiarsi baci che si erano scambiate; ma era facile farlo parlare quando era lontana da Caterina. Quando era così vicina e quando questa, peraltro, cominciava a svegliarsi, Maddalena non udiva che un brusio di sottofondo.
Il suo buon senso diceva qualcosa? Non ne aveva idea. 
“Buongiorno,” la salutò Cate con un sorriso pigro, “ è tardi, eh?”
“Sono le dieci. Più che altro le dieci e mezzo … quasi le undici in realtà.” rispose un po’ stupidamente, rimediando un sorrisetto divertito.
“Precisissima.” si stiracchiò, posandole i piedi in grembo con pestifera intenzione. Maddalena, rapida, gliene afferrò uno per farle il solletico sotto la pianta dei piedi.
Caterina scoppiò nella risata che aveva sperato facesse, tirandosi indietro. “Diobono, no, m’ammazzi! Lo soffro da morì!”
“E allora non mettermi i piedi in faccia.” rispose divertita. Poi tornò seria, perché se era venuta a svegliarla, non era per rimanere sole.
Cioè, non soltanto per quello. 
Dormisti bono?” le chiese in tono discorsivo, ma la domanda le metteva ansia; se aveva cominciato ad ammaliarla, Caterina avrebbe già esibito i primi sintomi.
Il fatto che non le si fosse infilata nel letto la notte prima era confortante, ma doveva fare attenzione ad ogni piccolo dettaglio.
Aivoglia!” le rispose mettendosi seduta. “Un’so’ mica la mi’ sorella … dormo appena tocco cuscino, io. Poi d’estate non devo svegliarmi presto … quindi figurati.” concluse togliendosi l’elastico che le legava i capelli per ravvivarli con attenti colpi di dita. Un meraviglioso mare color cioccolato fondente le oscurò il viso per un attimo.
“Che c’è?” le domandò, probabilmente notando la sua aria imbambolata. 
“Sei ossessionata dai tuoi capelli.” borbottò per darsi un contegno.
Caterina scrollò le spalle. “Devo, se un’li curo diventano ingestibili … da piccina parevano un nido d’uccelli.” 
“Sono bellissimi.” mormorò e Cate le restituì un’espressione sorpresa. “Te li invidio, davvero,” ed era sincera. Poteva sembrare un controsenso, ma nulla del suo aspetto fisico era frutto di cura da parte sua. Il suo aspetto era come quello di un fiore velenoso; viveva con un unico compito, quello di attirare prede. 
Non c’era molto orgoglio nell’essere bella a quella maniera.
Cate sorrise imbarazzata.  “Che c’hai da invidiammi te?” 
“Il carattere?” 
Cate sogghignò. “Vorrei ditti di no, ma su questo hai proprio ragione!”
“Anche sul resto.”
Caterina decise di gattonare fino a lei per mettere il viso all’altezza del suo. “Quando non ti girano in realtà sei abbastanza simpatica.”
Babba…”
Cate la baciò. La cosa che la stupiva era, non tanto che l’altra prendesse l’iniziativa – c’era abituata, era difficile che le sue prede se ne stessero buone ad attendere il primo bacio. Era stupita dal fatto che aspettasse sempre un momento, un secondo in cui le prendeva il viso tra le mani, ma senza trattenerla. Se avesse voluto, Maddalena lo intuiva, avrebbe potuto tirarsi indietro.
Non che avesse intenzione di farlo. Ricambiò il bacio e cercò di farlo rimanere in superficie, di non approfondirlo come avrebbe voluto. Erano su un letto, era un rischio che non poteva permettersi, neppure se era mattina e i suoi bisogni erano stati soddisfatti la sera prima.
E verranno soddisfatti anche stasera. Portali altrove, lontani da lei.
Strinse Caterina a sé, spostando il viso per seppellirlo nei suoi capelli. Erano morbidi e profumavano di cocco. 
Accussì vogghiu murìri …
“Dobbiamo scendere.” disse con pochissima convinzione. 
Cate sospirò di rimando. “Purtroppo sì. Se non lo facciamo, Rosi trova il modo di sgridarmi. Già che non mi abbia messo in punizione per essere entrati nel castello iersera è grassa…”
Maddalena si scostò preoccupata. “Non può farlo, non potevamo rimanere a prenderci l’acqua, né scinniri!”
Se Rosi avesse deciso di metterla in punizione, non avrebbe potuto stare con loro … e con lei.
Mancavano due settimane alla partenza. Erano poche, soprattutto se ci fosse stata una punizione di mezzo.
Cate scosse la testa. “Un’credo che lo farà. Però non vi lascerà tornare su a breve. Magari ha paura che scivoliate, battiate il capo e v’ammazzate, boh. Comunque ha ragione, su sarà pieno di fango.”
Maddalena si strinse nelle spalle. “A me non dispiace rimanere in paese, a te?”
Caterina si avvicinò di nuovo, strofinandole la punta del naso contro la sua. Bacio da eschimese, così si chiamava, una roba sdolcinata che avrebbe odiato se glielo avesse rifilato chiunque altro.
“Per niente!”
Non lo odiava affatto. 
 
***
 
“È un serpe regolo.”
Ettore quando Rosi parlò rimase in silenzio, aspettando di vedere la reazione di Tobia per capire quanto quella rivelazione fosse grave.
L’uomo però aveva la brutta abitudine di far trapelare pochissime emozioni, e quindi tutto quello che fece fu stringere le labbra, rimanendo seduto immobile sul divano.
“… e cosa sarebbe?” si arrischiò, vinto, a domandare. “Un serpente, va bene, ma regolo che vuol dire?”
Rosi era in piedi di fronte a loro e dava le spalle alla cartina della Montagnola che avevano appeso al muro del salotto della casina nel bosco, assieme alla lavagna e alle decine di post-it. Quando era entrata Rosi non aveva detto niente, ma non era servito lo facesse.
Era arrivata all’appuntamento come un fascio di nervi e continuava ad essere un fascio di nervi. “Regolo in questo caso viene dalla radice regulus, piccolo re.” rispose. “Il nome è dovuto alle dimensioni.”
“Una specie di re dei serpenti.” commentò Tobia. “Ha senso, non credevo ne esistessero di così grossi nell’Altrove.”
“Non è esattamente un serpente …” Rosi si voltò, andando al tavolo da pranzo ed afferrando uno dei libri che si era portata dietro, sfogliandolo rapida per aprirlo ad una pagina, che mostrò loro. Raffigurava un disegno medievale, che a Ettore parve quello di un grosso serpente dotato di due arti superiori.
“Così è come nel Medioevo raffiguravano i draghi.” spiegò la ragazza. “I draghi nelle tradizioni germaniche venivano chiamati anche lindworm. Ormr è la radice protonorrena della parola serpente. Quindi… usiamo nomi del Chiaro diversi per intendere la stessa Creatura dell’Altrove.”
“È un drago?!” esclamò incredulo. “Abbiamo a che fare con nu’ drago?!”
“Classificarlo non serve a molto, ma sì, la famiglia è quella dei draghi, sottogenere serpentiforme.” gli rispose con piglio sicuro.
Per aver abbandonato il suo compito di Sorvegliante da anni, Rosi se la cavava decisamente bene in quella faccenda delle ricerche.
“Non aveva le zampe però,” osservò Tobia. “Almeno io non le ho notate.”
Ettore sbuffò: “Sì, perché noti le zampe in un serpente gigante con la faccia da cristiano!”
Rosi li ignorò, pescando un altro libro dalla grossa borsa informe che si era portata dietro, facendola sembrare come se non pesasse nulla. Era il quarto libro che vi tirava fuori, spesso e dalla copertina rigida di quelle di una volta. “Sì, è vero … perché quello che abbiamo incontrato è una variante della specie appenninica, vive soprattutto dentro le grotte di origine carsica, dove si sposta più agevolmente strisciando. Le zampe non gli servono.”
Rosi sfogliò il libro ed Ettore non si sbagliò, esitò e trattenne un brivido quando trovò quel che cercava. “Ditemi voi se non è lo stesso.” e parlato, girò le pagine nella loro direzione.
Anche stavolta era un’illustrazione: in bianco e nero, sgranata e resa quasi indecifrabile da una scannerizzazione fatta in tempi dove la tecnologia era agli esordi, ma gli elementi erano comunque chiari. Illustrava un serpente coperto da fitte scaglie di colore chiaro, ma dove la testa sarebbe dovuta finire piatta e lunga si storceva invece in una forma umana. Il volto d’uomo era una maschera da teatro greco deformata in una smorfia di dolore.
Era repellente ed era esattamente ciò che li aveva attaccati il giorno prima.
“Potrebbero essercene altri?” sussurrò terrificato, e stavolta non riuscì a nascondere la paura.
I due toscani si scambiarono un’occhiata, poi Rosi scosse la testa. “In teoria è una Creatura classificata come estinta. L’ultimo avvistamento, almeno a quanto scritto qui, è stato nell’Alto Medioevo. E non in queste zone.”
“Però adesso è vivo, vegeto e decisamente in queste zone! Come la mettiamo?”
Tobia si alzò, facendosi passare il libro da Rosi e scorrendo qualche riga. “La mettiamo che c’è, e tornerebbe con quanto abbiamo letto nel diario di Matilde.”
“Cosa avete letto?”
“Non te lo ricordi?” le domandò. 
“Me lo leggeva mia madre prima di andare a letto, tu ricordi le fiabe che ti raccontava tuo nonno prima di dormire?” il tono con cui la rossa si rivolse a Tobia era la rappresentazione vocale di un morso.
Ettore intuì che c’era molto più sottotesto che dichiarato in quello scambio di battute, ma essendo un tipo intelligente, decise che non erano affari suoi. “C’è scritto che nel milleduecento una tua antenata, credo, si scontrò con un mostro che veniva da sotto il castello!” intervenne “Ammazzò un bel po’ di persone prima che questa Bice riuscisse a fermarlo.”
Rosi voltò bruscamente la testa nella sua direzione, mentre prima era completamente assorta nel compito di fulminare Tobia. “Bice?” domandò brusca. “Si chiamava Bice?”
“La conosci?”
“Come faccio a conoscerla, è morta secoli fa…” mormorò a mezza bocca, voltandosi verso la propria borsa per prendere un pacchetto di sigarette e accendersene una. “Non la conosco.” ripeté. “Però l’ho sognata.”
“Cioè?”
Rosi non gli rispose, andando alla finestra per soffiare fuori il fumo. Tobia, dopo essersi forse assicurato che l’altra non avesse intenzione di dare spiegazioni, continuò per lei. “È quello che Rosi è in grado di fare. Sogna il passato accaduto e il futuro che deve ancora accadere. È una chiaroveggente.”
“Ma per favore…” mormorò questa dando un altro tiro secco alla propria sigaretta. “Non chiamarmi a quel modo.”
“Però è quello che sei.” ribatté pacato. Attese un altro momento, poi continuò. “In questo caso hai visioni dal passato … sulla strega che è riuscita a avere la meglio sul mostro di allora, no? Pensi che possa essere lo stesso mostro?”
L’altra scrollò le spalle. “Dubito. Però…” e qui esitò, “le regole dell’Altrove sono diverse da quello del Chiaro … anche il tempo scorre in modo diverso. Non c’è una sola roba normale.” 
Parla Vanna Marchi …
Ettore, che ormai prendeva quelle rivelazioni allucinanti con una serenità di cui lui stesso era il primo a preoccuparsi, decise di andare sul pratico: “Bice non lo aveva ucciso?” 
“Sì, ma nel diario di Matilde non viene spiegato come.” disse Tobia. “Credo che non sia riuscita a scoprirlo.” ci rifletté qualche attimo. “Lo chiamiamo diario, ma era più una ricerca abbozzata. Ti ricordi come un mostro o un avvistamento entrano nei Bestiari Rosi?”
Questa si strinse nelle spalle. “Portando le prove di fronte ad una Confraternita immagino.”
Tobia annuì. “Matilde forse non riuscì a farla accettare come ufficiale, quindi la pubblicò privatamente e ne tenne una copia a casa e una in biblioteca. Anche se credo fosse vietato metterle a disposizione del pubblico …”
Rosi suo malgrado stiracchiò un sorriso. “Per quello che mio nonno mi raccontava, penso che non le sarebbe importato di cosa era vietato e cosa no.” Sospirò “Quindi zia Matilde dice che Bice era una nostra antenata?” domandò quasi parlasse tra sé e sé. “Forse è per questo che la sogno…”
“Forse è per questo che la sogni adesso, che il pericolo è tornato nella Montagnola.” intervenne Tobia. “Puoi dirci cosa sogni?”
Rosi ciccò fuori dalla finestra con un colpetto nervoso. L’altra mano tamburellava sul davanzale. Sembrava che l’ansia che la attraversava come una corrente elettrica aumentasse di voltaggio ogni minuto che passava.
Però non li aveva ancora mandati al diavolo e non era scappata; era un passo avanti rispetto ai giorni precedenti.
“Ho scelta?”
“Ce l’hai sempre,” commentò piano Tobia. “Cosa farai stavolta?”
Ettore trattenne il respiro mentre tra i due correva tanta di quella tensione che avrebbero potuto illuminare mezzo paese. O forse tutto.
Rosi sbuffò. “Dammi un posacenere o ti riempio il davanzale di mozziconi. Ne avremo per un po’.”
Tobia annuì e si diresse in cucina. Rosi non poteva vederlo, perché era voltata verso il cimitero, ma un lento, inesorabile, enorme sorriso si stampò sul volto del Nero.
 
***
 
Elia era strano.
Dalla sera prima per essere precisi: da quando aveva avuto la stupidissima idea di portarsi dietro Maddalena Russo.
Selene non era stata d’accordo, ovviamente, ma come al solito suo cugino l’aveva ignorata, e quei due scemi di Filippo e Vanni si erano comportati nello stesso modo non appena il culo tornito della siciliana si era posato sui sedili della macchina di zio Carlo.
Selene era consapevole che avrebbe potuto imporsi ed evitare così che venisse con loro: ma era rimasta così infastidita che aveva preferito sparire nella folla della festa che controllare che Elia non si cacciasse nei guai.
Zio Carlo aveva detto di non farci amicizia …
Ma quando mai suo cugino ubbidiva ad un ordine diretto?
L’aveva ritrovato a sera inoltrata, senza la siciliana: aveva cercato di parlargli ma l’altro era parso più interessato a vincere una gara di bevute che a darle spiegazioni. Si era ubriacato così tanto che avevano dovuto dormire lì.
Erano tornati quella mattina, e da allora Elia era chiuso in camera propria.
Non aveva ancora allertato gli zii perché forse l’altro era semplicemente in dopo sbronza, tuttavia non era sicura fosse soltanto quello.
Selene stava giocando con i cani; plurale perché una delle passioni in cui Carlo la lasciava indulgere, oltre all’equitazione, era curare due bellissimi levrieri irlandesi, dal pelo ispido ma dalla fedeltà incontrastata, tanto che alla fine persino zia Giulia, che li riteneva troppo grandi e puzzolenti, aveva finito per trovarli utili, almeno come guardiani della villa.
Specialmente quando Elia vuole uscire durante il plenilunio … cioè sempre.
Spesso le due imponenti bestie riuscivano a tenerlo confinato in giardino, ma quando diventava troppo esuberante, Selene era costretta a richiamarli per evitare che li uccidesse. A quel punto, era lei a doverlo seguire nel bosco.
A Selene piacevano gli animali, quelli veri: erano affidabili, a differenza delle persone.
Furono infatti i cani ad accorgersi per primi dell’arrivo di un visitatore. Alzarono i testoni lanciando lunghi latrati e, ignorando la palla che stava loro lanciando, scattarono all’ingresso, facendo zig zag tra i cespugli di ginestre.
Qualche attimo dopo risuonò il trillo sgraziato del campanello del cancello. Selene attese, ma quando fu chiaro che dalla villa nessuno aveva sentito, andò di malavoglia a controllare.
Le telecamere di sorveglianza non avevano registrato una macchina, ecco perché solo i cani se ne erano accorti; Alina Radu era arrivata a piedi dalla grande strada sterrata che collegava villa Ghini al paese. Nonostante il caldo torrido di quel pomeriggio la rumena non aveva una goccia di sudore addosso, né il suo orrido vestito color tortora era impolverato.
Era arrivata lì volando?
“Ciao,” la salutò ignorando l’abbaiare feroce. “Tuo zio è in casa?”
Era una domanda stupida; se era venuta fin lì era ovvio che conoscesse già la risposta. “Sei venuta a piedi?”
“Avevo voglia di camminare.” fece una pausa e poi come un robot, ripeté: “Tuo zio è in casa?”
“Sì, sì … c’è.” A Selene non restò che ordinare ai cani di stare buoni e premere il pulsante di apertura del grande cancello; non c’era un passaggio pedonale, nessuno sano di mente percorreva quella lunga strada a piedi. 
Tranne la Radu.
“Ti potevi prendere un’insolazione.” disse tanto per spezzare il silenzio mentre l’accompagnava lungo il giardino.
L’altra non rispose, guardandosi invece attorno, soffermandosi sui fitti cespugli di ginestre per poi passare alla fila di cipressi che, snelli, costeggiavano i muri perimetrali.
“Sono passata dal bosco.” le rispose mentre salivano una delle due scalinate che portavano al portoncino d’ingresso. “Usate qualche barriera per tenerlo fuori?”
Selene ci mise qualche attimo a capire la domanda; era la prima volta che Alina le parlava come vânător e non come semplice coetanea. 
E non è che come compaesane si fossero fatte delle gran chiacchierate.
“Dovresti chiedere a zio Carlo.” rispose confusa, ma si infastidì quando l’altra le sorrise con l’indulgenza riservata ad una ragazzina ignorante. 
“I muri servono per i ladri,” le disse, “ma anche per il bosco.”
Selene si morse un labbro, incerta se risponderle male o capitolare di fronte all’evidenza che avrebbe al massimo potuto insultarla. “Sì, lo sapevo.” mentì aprendo il portone ed entrando in casa. I cani si sdraiarono docili sul pianerottolo, gli occhi attenti che tenevano d’occhio la figura della Radu.
Nessuna bestia entra in casa mia, diceva sempre zia Giulia, e Selene non poteva fare a meno di trovare quell’affermazione piuttosto ironica.
La Radu la seguì, continuando nell’analisi disagiante di ogni singolo dettaglio della villa. Non commentò gli affreschi ormai deboli di colore sui soffitti, né i quadri, invece brillanti e ben tenuti alle pareti del corridoio – sembravano non interessarle – ma si soffermò a gettare un’occhiata ad ogni stanza aperta.
E considerando che la villa ne aveva parecchie e zia Giulia amava tenere le finestre aperte d’estate, il percorso fu più lungo del previsto.
“Se devi mandare un messaggio ad un bosco dell’Altrove, devi farlo nella sua lingua,” continuò. “Il tuo giardino è a forma pentagonale e circonda tutta la casa. Non ti sei mai chiesta perché?”
“No…”
Non sono tanto le mura che tengono fuori il bosco, è la forma con cui sono state costruite. Anche la pianta di Malacena è pentagonale. Un poliedro di cinque lati nell’esoterismo ha funzione di forza che può essere usata sia per l’attacco che per la difesa. In questo caso, difesa.”
“Grazie per la lezioncina.” non poté fare a meno di ironizzare. Zio Carlo aveva detto a e lei ed Elia detto di non andarci in conflitto e di evitarla quanto più possibile, ed era forse l’unica raccomandazione che anche suo cugino aveva seguito alla lettera.
Però non le piaceva essere trattata come una cittina scema.
“Mi sorprende che tu non lo sappia.” ribatté inarcando le sopracciglia in falsissima sorpresa. Era una gara a chi era più stronza?
In quel caso poteva vincere a mani basse.
La Radu non le diede però il tempo di ribattere: “Un giorno dovrai sostituire tuo zio nel compito di Sorvegliante. Dovresti cominciare a studiare.”
“Quando finirò il Liceo.” rintuzzò irritata. “È così per tutti i Sorveglianti, non te l’hanno detto?”
“Entrare in una Confraternita non è come frequentare l’Università. Non c’è un’età per accedere. E forse, tu dovrai iniziare prima del previsto.”
“In che senso?”
La Radu non le rispose, sfilandole accanto in direzione delle voci di zio Carlo e zia Giulia. “Da qui posso proseguire da sola, grazie.”
Selene aprì bocca per ribattere, ma ancora una volta si trovò a corto di parole; Alina l’aveva sempre messa in soggezione, anche se era sicura di fare un pregevole lavoro nel non mostrarlo. Stavolta però era diverso: era come se stesse interagendo con una persona la cui vitalità era stata succhiata via in favore di qualcosa di freddo e determinato.
In che senso dovrò iniziare prima del previsto?
Non riuscì a chiederglielo, quindi non le restò che seguirla mentre entrava nel salotto centrale dove gli zii stavano prendendo il caffè del dopopranzo.
Zio Carlo fu il primo ad accorgersi del loro ingresso; il sorriso che stava rivolgendo a zia Giulia si spense, sostituito da un’espressione guardinga.
“Alina,” la salutò, “buon pomeriggio.” spostò l’attenzione su di lei, cercando forse di trovare un senso alla presenza della vânător che esulasse da motivi di lavoro.
Non poteva, perché Alina non era sua amica e non era venuta a trovare lei, né tantomeno Elia.
“Buonasera,” rispose questa di rimando. “Mi dispiace arrivare non annunciata, ma avrei bisogno di parlare con lei Sindaco.” E Selene non poteva sbagliarsi, su quel titolo la voce di Alina si indurì, come se contenesse un implicito rimprovero.
Zio Carlo serrò appena le labbra. Fu però zia Giulia a parlare: “Forse non sei stata informata tesoro, ma mio marito ha degli orari d’ufficio.”
Zia Giulia era come sempre seduta in punta di sedia, un ritratto mediterraneo e ingioiellato dell’inquietudine, persino in una pigra domenica d’Agosto passata in seno alla propria famiglia.
Selene supponeva che se non ci nascevi, finivi per diventare così, specialmente quando avevi un figlio che era braccato in un mondo che non prevedeva processo, ma soltanto una rapida esecuzione.
Per mano tra l’altro di una come la Radu.
Alina le rivolse un sorriso in cui mancava completamente emozione. “Mi dispiace disturbarvi fuori orario, ma è una questione che non può essere rimandata.”
“Non capisco perché…”
Zio Carlo sfiorò la mano serrata della zia per fermarla. L’espressione si ammorbidì quanto bastava per rivolgerle un sorriso, ma poi tornò serio. “Alina ha la fretta dei ragazzi,” scherzò, “ma ha ragione. Il lavoro di un Sindaco non si ferma tra le quattro mura del Comune. Amore, perché non vai a vedere dove si è cacciato Elia? Non vorrei fosse uscito prendendo la macchina senza dircelo come l’ultima volta.”
La zia inspirò leggermente, ma ubbidì e in poche magre falcate fu fuori dalla stanza.
A quel punto zio Carlo fece per rivolgersi a lei con una scusa simile, ma Alina lo precedette: “Vorrei che Selene restasse.” disse. “Devo chiedere delle cose ad entrambi.”
Zio Carlo serrò di nuovo le labbra, in quel modo tutto suo di segnalare che non era affatto contento della situazione. “Sedetevi allora,” indicò loro le poltroncine di fronte a sé. “Un caffè?”
“Grazie, no.” Alina si sedette con la rigidità di un soldatino di stagno e a Selene non restò che imitarla.
Avrebbe preferito esser congedata come zia Giulia.
Il silenzio calò nel salottino, tutto tappeti marocchini, quadri dalle cornici bordate di scuro e arazzi che appartenevano ai Ghini da generazioni; Selene non amava particolarmente quella stanza, la trovava troppo cupa. Le sembrava di essere perennemente osservata poi, forse per le tante fotografie d’epoca incorniciate d’argento sui pesanti mobili scuri, che raffiguravano una sfilza di membri della famiglia passati a miglior vita.
Osservata, soppesata e infine giudicata.
Essere una Ghini era un pacchetto di onore e onori, diceva sempre lo zio. Mai come in quel momento Selene pensò che avesse ragione.
“Allora Alina, come possiamo aiutarti?” domandò l’uomo stampandosi un sorriso da pubbliche relazioni in faccia.
“Lo scorso plenilunio sono stata aggredita nel bosco.”
“Aggredita? Non sei scivolata e ti sei fatta male?”
“No. Non ricordo nulla del mio incidente, ma mentre ero priva di sensi sembra che qualcosa sia entrato nell’accampamento dei siciliani e abbia distrutto una tenda … qualcosa che ha lasciato un forte odore ferino. Una Creatura.”
“Quindi pensi che il lupomanaio ti abbia attaccato?” domandò zio Carlo con quel tono stupito, come se non credesse ad una sola parola.
La Radu dovette accorgersene perché indurì l’espressione. “Se fosse stato un lupomanaio ad attaccarmi non sarei qui a raccontarlo.”
“Certamente.” convenne ragionevole. “È solo che non mi torna la progressione degli eventi. Qualcuno ti ha attaccato mentre stavi cacciando nel bosco e poi il lupomanaio è entrato nell’accampamento dei siciliani?”
“Piuttosto direi il contrario. Il Mannaro è entrato nell’accampamento e qualcuno mi ha impedito di raggiungerlo mettendomi fuori gioco.”
“E perché avrebbe dovuto farlo?”
Alina sorrise e Selene intuì che l’altra aveva appena teso una trappola in cui suo zio era caduto con tutte le scarpe. “Perché non voleva farmelo uccidere. Un lupomanaio non si limita a dare botte in testa e lasciare una persona esanime, Signor Sindaco. Quello lo fanno le persone.”
La mascella di zio Carlo si tese mentre taceva per qualche attimo. “Fammi capire. Pensi che sia una persona del paese?”
“Sì, e non ho molti posti dove guardare per trovare i colpevoli. Ho iniziato da quelli più ovvi. Dai Sorveglianti.”
Selene serrò le mani in grembo; avrebbe voluto alzarsi, urlare, oppure andare a cercare Elia e avvertirlo. Metterlo al sicuro.
Nessuna di quelle opzione era però fattibile. Doveva invece rimanere il più ferma possibile … limitandosi a respirare e pregare che suo zio sapesse come farli uscire da quella situazione.
Alina Radu aveva scoperto tutto; o se non l’aveva fatto, c’era maledettamente vicina.
Non è possibile. La tenda è stata sostituita! Marina le ha fatto bere uno dei suoi intrugli per dimenticare! Perché è qui? Perché ha capito tutto?
Zio Carlo inspirò, passandosi una mano sul viso. “È un’accusa molto pesante quella che stai facendo.”
“Non sono qui per fare accuse. Sono qui per avere risposte e poi riportarle a mio padre. Sarà lui a farne, nel caso.”
“E allora che venga lui e non mandi sua figlia! Perché per ora tutto quello che ho sentito sono solo fantasie di una ragazzina!” sbottò zio Carlo, alzandosi in piedi. Un errore dare sfogo all’emozione? Selene non ne aveva idea: dopotutto, quell’esplosione di rabbia poteva anche essere indignazione giustificata. 
Alina sorrise di nuovo. “Forse.” ammise. “Ma ho parlato con la succuba, e lei l’odore di bestia l’ha sentito davvero. Sostiene che qualcuno le abbia sostituito la tenda perché non vi ha sentito neanche il suo, di odore che invece avrebbe dovuto esserci dopo ben due settimane di campeggio… e, ancora una volta, un Mannaro non ha certo la lucidità mentale per fare una cosa del genere, neppure il giorno dopo.”
La succuba?
Selene realizzò che stavano parlando della siciliana. 
… è un demone. La siciliana è un demone dell’Altrove e ce la siamo portata ad una festa piena di gente?!
“Non sono demoni della lussuria?” domandò piano, ottenendo l’attenzione della Radu. Avrebbe preferito evitarlo, ma zio Carlo era paonazzo e aveva paura che quella rivelazione fosse stata troppo per i suoi nervi.
Elia non era figlio naturale di suo zio, ma condividevano la stessa mancanza di controllo quando erano sotto pressione.
“Sì, vengono descritte solitamente come tali.”
“E tu credi alle parole di un mostro piuttosto che a quelle di un Sorvegliante?”
Alina la soppesò con attenzione prima di rispondere. “Non avrebbe motivo di mentirmi.”
“Passano il loro tempo ad accoppiarsi con qualunque cosa respiri e amano seminare scompiglio nella comunità in cui entrano … io mi chiederei invece se ha motivo di dirti qualcosa di vero.”
Alina aggrottò le sopracciglia, incrinando per un attimo la maschera da bambola assassina. Zio Carlo lo notò come lei, perché intervenne rapido. “La nostra famiglia sorveglia questa comunità da secoli, e con ottimi risultati considerando che la Montagnola è un luogo di pace e serena convivenza con le Creature. La sola accusa di coprire la presenza di una Creatura pericolosa è un insulto che potrei portare all’attenzione della Confraternita Maggiore di Siena. Sei sicura di voler continuare questa conversazione?”
Alina fece una smorfia. “Come ho detto, sto soltanto facendo domande.”
“Suonano molto come accuse.”
“Sto facendo il mio lavoro, Signor Sindaco. Mio padre ed io siamo stati chiamati qui per trovare il lupomanaio, e per garantire la sicurezza di questa comunità.”
“Allora forse dovreste pensare ad una vostra incapacità nel trovarlo, piuttosto che ad una nostra slealtà nel nasconderlo.”
L’intero corpo della Radu si irrigidì e Selene per un attimo ebbe paura che si sarebbe alzata per aggredire suo zio. Elia aveva paura della rumena e per un attimo, ne ebbe anche lei.
“Quindi non sapete nulla della tenda sostituita?” disse invece.
“Nulla. Come ha detto mia nipote, probabilmente la succuba vuole seminare zizzania.” Zio Carlo era rimasto in piedi e fece un chiaro cenno nell’invitarla ad uscire dalla stanza. “Mia moglie aveva ragione. Oggi è domenica e sorbirmi un interrogatorio non è il modo in cui voglio passarla. Tuo padre è il benvenuto se vuole tornare e fare queste domande in via ufficiale.”
Alina avvampò di rabbia e Selene trattenne un sorriso; era piacevole assistere a quella plateale umiliazione.
“Bene.” disse alzandosi in piedi. “Tolgo il disturbo allora. Mi saluti sua moglie ed Elia.”
Zio Carlo fece un rigido cenno di assenso. “Selene, accompagnala.”
Selene non avrebbe voluto, ma ubbidì comunque, sperando che l’altra fosse troppo furiosa con suo zio per concentrarsi su di lei.
Alina fortunatamente non le rivolse la parola. Almeno, fino a che non furono al cancello.
“Non sei digiuna dall’Altrove come pensavo.” le disse in tono neutro. “Conosci le succubi.”
“Qualche storia zio me l’ha raccontata.” non si sbilanciò. “Qualcuna me la sono cercata io.”
Alina annuì. “Tu non hai niente da dirmi?” le domandò.
“Cosa dovrei dirti?”
“La verità. Se state nascondendo un lupomanaio … ed ho le mie idee su chi potrebbe essere, non accuseranno te se ti farai avanti. Non sei ancora una Sorvegliante.”
Posso salvarmi?
Era quello che stava cercando di dirle? Forse la pensava l’elemento debole, una cittina spaventata che avrebbe sacrificato la famiglia per salvarsi dall’accusa di aver occultato una Creatura mortifera.
Selene sorrise. “La verità te l’ha già detta mio zio. Tu e tuo padre non siete capaci.”
Alina fece per dire qualcosa, ma decise altrimenti, anche se Selene poteva immaginarsi cosa fosse da quanto era diventata paonazza.
Abbiamo vinto. Fattene una ragione.
Alina le voltò le spalle e varcò il cancello senza voltarsi indietro.
Avevano vinto, certo, ma era una vittoria di breve durata. Mentre il cancello si chiudeva sferragliando, la figura della vânător diventava sempre più piccola e sfuocata nella calura estiva, ma non c’era da farsi illusioni: sarebbe tornata e per allora dovevano trovare qualcosa di meglio dell’indignazione per difendersi.
Quando tornò indietro, notò Elia affacciato alla finestra di camera sua; come l’altro capì che l’aveva beccato tirò le tende con un gesto secco.
Selene sospirò.
Una succuba … e una vânător che sospetta di noi.
Doveva parlare al più presto con quell’idiota di suo cugino.
 
***
 
 
Note:
 
Pubblicare il giorno del proprio compleanno è sempre speciale. <3
 
Comunque. Per la figura del “serpe regolo” devo ringraziare la trilogia di libri sul folklore del senese, purtroppo difficilmente reperibili fuori dal territorio, di Massimo Biliorsi.
In particolare “Al di là di Siena” di M. Biliorsi, Ist. Fotocromo Italiano, 1991
Le informazioni sul Serpe Regolo sono reperibili anche su internet.
Qui una fonte o qui la voce di Wikipedia che ne parla.
 
 
 
  
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