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Autore: Relie Diadamat    09/12/2020    2 recensioni
[Post S2 | Johnlock | rating variabile | Raccolta di OS collegate]
Sherlock ha dovuto fingersi morto per salvare John, lasciare Londra e stanare la rete criminale di Moriarty.
Sono di nuovo soli, di nuovo separati, incompleti. John immerso nel lutto, Sherlock divorato dalla malinconia.
Quanto saranno dolorosi questi due anni?
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Un Buco Nell'Anima
 



IV. Violino



 
Piangeva disperato. Si lamentava e continuava a singhiozzare. 
Sherlock rimase in ascolto come imbambolato, la faccia ben coperta da un cappuccio di cui avrebbe volentieri fatto a meno. 
Nell'aria c'era odore di salsiccia grigliata, curry e patatine fritte, ma Sherlock non riuscì a concentrarsi sugli odori. La sua attenzione era polarizzata sulla melodia prodotta dal violino, nell'imbrunire delle strade di Amburgo. 
L'artista di strada pizzicava le corde con l'archetto, ad occhi chiusi. Sherlock riconobbe la musica. 
L'aveva suonata anche lui, tempo addietro, in una serata tediosa nel salotto del 221b di Baker Street. 
 



Sherlock si immobilizzò, stroncando l'esecuzione con una nota stridula. 
«Perché ti sei fermato?»
Sollevò pian piano le palpebre, come chi si risveglia di malavoglia da un sogno bellissimo. Sapeva di avere John alle spalle, ma sapeva anche che era in vestaglia e i suoi capelli erano ancora umidi. 
«Dovresti asciugarli», fu la risposta laconica che gli riservò. 
«Sai, è buffo che tu lo dica a me» controbattè John con un pizzico di ironia. «Se fosse per te, gireresti per casa con l'accappatoio.»
«C'è una prima volta per tutto» sospirò con teatrale stoicismo Sherlock, abbassando l'archetto lungo il fianco come un'arma scarica. «E per tutti».
John restò in silenzio per un po'. Ciondolò leggermente sul posto, prima di buttare fuori: «Volevo solo sapere cosa stessi suonando. Era… Piacevole». 
 



Era ilare ai limiti del fastidio come alcuni ricordi si presentassero alle porte della sua mente, saltando fuori dal nulla. Era sconcertante e doloroso come una semplice immagine, una semplice azione potesse riportarlo da John. 
Una bambina stringeva la mano di sua madre, infagottata nel suo giubbotto rosa. Saltellava allegra, puntando l’indice verso l’esibizione. Sherlock scoccò una rapida e superficiale occhiata alla scena, giusto il tempo per osservare e dedurre l’ovvio: nessun anello al dito, una busta contenente una spesa settimanale per due persone - cereali zuccherosi e colorati per la bambina, verdura e carne preconfezionata e frutta fresca. Ragazza madre e la sua unica figlia.
Una vita in due. Una quotidianità che Sherlock non sentiva vicina al suo essere. Niente di meno affine con la sua persona; eppure - per un brevissimo periodo - aveva sperimentato qualcosa di simile: due tazze di tè, latte per due, suonare il violino in compagnia di un’altra persona. 
Sherlock non seppe quale scenario gli provocasse quel senso di vuoto in mezzo al petto. L’unica inconfutabile certezza era una sola: avrebbe venduto anche l’anima per stringere tra le mani il suo violino e suonare qualcosa di piacevole. Mattina o sera che fosse; annoiato o meno. 
«Buona interpretazione» commentò a sguardo basso, lanciando una monetina nella custodia aperta ai piedi dell’artista. Non attese nemmeno la risposta della ragazza. Nascose le mani nelle tasche e diede le spalle a quella musica, al tramonto cobalto della città tedesca nella quale si nascondeva e ai momenti impressi nella sua memoria come un tatuaggio indelebile. Una ferita che sanguinava ogni dannato giorno.





 
A John non fregava un cazzo della musica classica.
Mai provato interesse, mai ascoltata per puro sfizio personale. La musica classica esisteva e a John non importava un bel niente. Poi aveva conosciuto Sherlock - il pazzo psicopatico che pizzicava le corde del violino in piena notte, in preda alla noia, a un pensiero insistente, a un ragionamento arzigogolato noto solo a lui.
E allora John l’aveva ascoltata per davvero, quella benedetta musica classica. Si era lasciato riempire le orecchie con Vivaldi e Paganini; si era addormentato cullato dal pianto strozzato di un violino, e aveva letto romanzi - nei pomeriggi che trasudavano pigrizia - accompagnato dal sottofondo musicale che Sherlock gli offriva. A volte dolce, a volte amaro, a volte aggressivo.
Adesso la musica era finita. La quiete regnava sovrana nel 221b di Baker Street - e John sentiva di impazzire. 
Quel maledetto violino era ancora lì, però. In bella mostra, dormiente nella sua custodia scura. Spento, inanimato, morto - com’erano morte le mani che sapevano dargli un suono. 
John ci fece caso una sera, preparandosi del tè e facendo zapping davanti al televisore. Aveva distolto gli occhi dallo schermo, il fumo a sfiorargli il naso, e aveva incontrato con lo sguardo quella stupida custodia ai piedi della sua poltrona.
I morti vanno via, ma lasciano ogni cosa ai vivi. Di loro non resta nulla, ma non si portano via niente.
Il desiderio di spaccarlo in due non arrivò subito. John si perse a contemplare quell’oggetto statico per una manciata di secondi - la mente altrove e nello stesso posto in cui si trovava adesso; distante anni luce e appollaiata in un salotto simile a quello dove l’ex medico militare se ne stava seduto, ma non del tutto. 
La sua mente era ferma in un momento che aveva smesso di esistere. Qualcosa che non sarebbe più tornato indietro. Una serata banale - sciatta, semplice - che aveva trascorso facendosi una doccia calda, a ritmo di una melodia piacevole.
John rammentava i dettagli più inutili.
Sherlock era rivolto alle finestre, il violino sapientemente posizionato sulla spalla e l’archetto che si muoveva e muoveva… 
John era rimasto in piedi, accanto al muro, a osservarlo. I capelli erano ancora umidi e delle goccioline gli ricadevano sul collo. Era uscito dal bagno con una certa fretta, raggiungendo il suo assurdo coinquilino - ammaliato dalla melodia che stava suonando. 
Avrebbe voluto che Sherlock non si fosse mai fermato. Avrebbe voluto marcire incantato lì, ad ascoltarlo, almeno per un milione di anni. Perché un sorriso gli aveva incurvato le labbra crespe senza alcun motivo e John si era sentito stranamente in pace col mondo.
Fu in quel momento che capì qualcosa che sapeva già: adorava condividere la sua vita con Sherlock - per quanto impossibile, esasperante e pericolosa potesse essere. John la adorava e sentiva di aver trovato una ragione per sollevare le palpebre ogni mattina. Fosse stato per strozzarlo, per rimproverarlo o semplicemente per allungargli il giornale. 
Ma la musica era finita. Sherlock aveva deciso di buttarsi giù da un tetto e a John restavano le briciole di una quotidianità perduta.


 
Sbuffò risentito aria dal naso. Poi tornò a cambiare canale. 
Tornò alla sua meravigliosa vita di merda.




 
Nuovo capitolo di questa Raccolta Deprimente.
Il pezzo in questione non viene mai menzionato, ma non è una scelta dettata dalla pigrizia: volevo lanciare un po' un messaggio, del tipo "non è la melodia, ma il momento".
John che osserva Sherlock suonare il violino resterà sempre uno dei miei headcanon fav.

Ammetto che stavolta - però - il capitolo fa più schifo del solito. Probabilmente non ero nel giusto mood per scrivere.

Intanto, ringrazio chiunque sia arrivato fin qui. Ringrazio chi continua ad aggiungere la storia nelle preferite/ricordate/seguite. E grazie a chi continua a recensire, dandomi supporto e pareri.
   
 
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