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Autore: Roscoe24    10/12/2020    4 recensioni
"Arthur sapeva essere estremamente premuroso, quando non si comportava come un totale babbeo.
E questo pensiero fece sfarfallare il cuore di Merlin, in un modo che lui decise volutamente di ignorare per tutta una serie di innumerevoli motivi (...). Non poteva innamorarsi del suo capo. Sarebbe stato poco professionale, decisamente poco etico, e oltraggiosamente scontato."
Genere: Commedia, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Gwen, Merlino, Morgana, Principe Artù | Coppie: Gwen/Lancillotto, Merlino/Artù
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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I know it gets hard sometimes,
But I could never leave your side
 (…)
I can be obnoxious at times, but try and see my heart
‘Cause I need you now, so don’t let me down
You’re the only thing in this world, I would die without                 
                                                                                                                                                                           

                                                                                                                                          


                                                                                                 

                                                                                                   ◊





Merlin poteva dire di aver vissuto un’eternità di vite.
Nonostante avesse solamente ventott’anni, a volte gli sembrava di averne ottocento, se non mille, o millecinquecento. Il fatto era che stare dietro agli umori di Arthur Pendragon era più difficile che affrontare le fatiche di Ercole o essere l’unico mago in un regno in cui la magia era bandita, pena la morte. E sì, per chiunque se lo stia chiedendo: Merlin è decisamente influenzato dalle leggende che riguardano il mago di cui porta il nome. Senza contare, tra l’altro, che il suo destino, a quanto pareva, l’aveva voluto legare ad un babbeo di nome Arthur esattamente come era successo al Merlin delle leggende. Se nelle leggende, tuttavia, l’Arthur in questione era il re d’Inghilterra, nell’attuale contesto era solamente il Re dei Babbei, Sua Babbeosità in persona che tendeva a chiamare Merlin ogni trenta secondi, ritenendo ogni cosa che gli accada un’emergenza di cui, ovviamente, Merlin doveva occuparsi con la massima efficienza e urgenza.
E Merlin sapeva perfettamente che la sua laurea in giurisprudenza non serviva a fare da assistente – o forse era meglio dire servitore – ad Arthur Pendragon, tuttavia quello era il suo destino: essere l’assistente personale del figlio del fondatore dello studio legale che l’aveva assunto, tale Uther Pendragon.
Uther era un tipo piuttosto dispotico, che aveva cresciuto Arthur in modo che seguisse le sue orme. Arthur era un buon avvocato, un tantino arrogante, se lo si chiede a Merlin. Proveniva da una famiglia di avvocati, era ricco sfondato e aveva ricevuto la migliore educazione fin da bambino, frequentando tutte le scuole private più rinomate dell’Inghilterra.
A volte, Merlin aveva l’impressione che Uther avesse educato suo figlio come se dovesse essere lui il futuro sovrano del loro Paese, ma poi accantonava quel pensiero ridicolo.  
Ad ogni modo, essendo stato cresciuto come se fosse il principe ereditario di un qualche regno fantastico, Arthur era convinto che il suo unico destino fosse quello di comandare – in generale chiunque, in particolare Merlin
Il giovane avvocato sapeva che il suo capo non era cattivo, in fondo aveva anche un cuore buono e grande, era solamente, appunto, un babbeo. A volte la sua ingenuità faceva persino tenerezza.
“Merlin!” Lo chiamò dell’interfono del telefono, situato sulla sua scrivania, l’oggetto dei suoi rimugini. Il ragazzo si alzò dalla suddetta scrivania, situata davanti all’ufficio di Arthur e si diresse alla porta. L’aprì senza bussare.
Arthur Pendragon si trovava seduto alla sua scrivania in mogano. Il suo ufficio era, ovviamente, il più grande – fatta eccezione per quello di Uther, che era ancora più grande. Era tappezzato da qualsiasi attestato potesse mettere in mostra le doti e le capacità del giovane Pendragon: la sua laurea ad Oxford conseguita con un anno di anticipo rispetto al normale corso degli eventi era quella che spiccava maggiormente, ed era, probabilmente, quella di cui Arthur andava più fiero. La sua scrivania era sorprendentemente ordinata e questo, diceva sempre Arthur, non era merito di Merlin, disordinato per natura. Arthur aveva rinunciato a chiedere a Merlin di riordinarla perché sapeva che, immancabilmente, qualcuno dei suoi preziosi, costosissimi, oggetti sarebbe finito inevitabilmente in frantumi, o danneggiato in modo irrimediabile, come quella volta che l’assistente aveva versato il caffè bollente di Arthur sul pc nuovo di pacca del suo capo. Quel povero Mac aveva avuto solamente qualche ora di vita, prima di andare in contro ad una morte fulminante.
“Ti scalerò questo danno dal tuo stipendio, Merlin.”
“Quel computer costa più dell’affitto del mio appartamento, Arthur.”

Ma Arthur non si era fatto impietosire – non che fosse l’intenzione di Merlin, comunque. La sua risposta era stata data più come a titolo informativo, come un dato di fatto inconfutabile.
“Che ti serva di lezione.  In questo modo, magari, la prossima volta farai più attenzione, mh?”
E su una cosa Arthur aveva avuto ragione: la prossima volta si era verificata. La vittima non era più stata un computer che costava quanto un organo, ma era successo per tante cose che Arthur teneva sulla sua scrivania e che, purtroppo, avevano finito con l’essere vittime inconsapevoli della sbadataggine di Merlin.
Merlin aveva tante doti, la precisione non era una di queste. Era maldestro e questo aveva comportato un problema più di quanto ad entrambi piacesse ammettere.
“Merlin. Devi. Bussare.” Scandì Arthur, parlando come se si trovasse davanti a qualcuno particolarmente lento mentalmente. “Sei l’unico che non lo fa, lo sai?”
“Sono anche l’unico che ti sopporta giorno e notte.”
“Merlin!” Esclamò, scioccato dalla sua sfacciataggine. In realtà, Arthur avrebbe dovuto essere scioccato dal fatto che ancora si scioccava per le risposte irriverenti del suo assistente. Lui e Merlin lavoravano insieme da un anno, ormai. Avrebbe dovuto essere abituato ai suoi modi di fare. E alla sua faccetta sarcastica.
“Arthur!”
Soprattutto a quella che metteva su quando gli rispondeva in quel modo impertinente.
“Sei tu che mi hai chiamato, comunque. Che senso avrebbe bussare?”
Arthur resistette all’impulso di mettersi le mani nei capelli, ma alzò esageratamente gli occhi al cielo, di proposito, per mostrare al suo assistente quanto sapeva essere fastidioso, a volte.
“Bussare implica chiedere il permesso, che a sua volta implica la consapevolezza che ci si sta per rivolgere ad un’autorità.”
Merlin dovette fare ricorso a tutte le sue forze per non imitare il suo capo e roteare gli occhi così tanto da farli girare nel retro del cranio. Arthur era così plateale, a volte.
“Volete anche un inchino, Sire?”
“Merlin.” Lo fulminò Arthur, “Non tirare troppo la corda.”
Erano diventati amici, in quell’anno. Ma Arthur rimaneva pur sempre il suo capo. Tuttavia, nonostante ricoprisse una carica elevata – era il più giovane socio senior, colui che avrebbe ereditato lo studio legale una volta che Uther avesse deciso di ritirarsi dalle scene – era estremamente diverso da suo padre: Uther era dispotico, quasi devoto all’idea di separare sé stesso dai suoi dipendenti. Lui era il capo e tutti dovevano essere consapevoli di ciò. Sembrava quasi che avesse fondato tutto il suo lavoro sull’essere temuto, quasi come se la paura portasse automaticamente rispetto e non un celato disprezzo.
Arthur, invece, era diverso. Era un capo, sì, ma si era guadagnato il rispetto dei suoi dipendenti lavorando al loro fianco, rimanendo fino a tardi come chiunque altro, passando le nottate in ufficio – e Merlin con lui – per cercare di risolvere casi che si erano dimostrati particolarmente ostici. Pretendeva, da coloro che lavoravano con lui, ma era anche disposto ad ascoltare i loro bisogni e fare in modo, per quanto fosse in suo potere, di cercare di assecondarli.
“Loro hanno bisogno di me, per lavorare, ma io ho bisogno di loro per far sì che lo studio vada avanti. Hai mai visto uno studio legale senza dipendenti?”
“No,” aveva risposto Merlin. E Arthur gli aveva lanciato un’occhiata, alzando le sopracciglia, come se quell’espressione bastasse a fargli capire il suo punto di vista. E come se bastasse per far capire a Merlin quanto Arthur si sentisse a disagio ogni volta che doveva ripetere quel concetto al vecchio Uther, che non approvava per niente la politica del capo/amico con cui suo figlio si poneva ai dipendenti.
“Scusa,” Disse Merlin, facendosi serio. “Di cosa hai bisogno?”
“Dei documenti del caso pro-bono che stavamo esaminando due giorni fa.”
Merlin aggrottò le sopracciglia, una ruga d’espressione si formò in mezzo ad esse, come spia della sua confusione. “Ma tuo padre ha detto–”
“So cosa ha detto.” Lo interruppe Arthur. “E non l’ho contraddetto in pubblico perché non gli piace. Ma non voglio abbandonare quel caso.”
Merlin riuscì a stento a trattenere un sorriso. Arthur era buono. Ed era particolarmente orgoglioso di lui, quando lasciava che il cavaliere senza macchia che albergava in lui venisse fuori, pronto a difendere chi non poteva farlo da solo. 
“Abbiamo raggiunto il numero massimo di casi pro-bono, per questo trimestre.” Gli ricordò, giusto perché era la prassi che lo imponeva, non perché volesse dissuaderlo.
“Lo so, e non mi importa. Ora, vai a fare ciò che ti ho chiesto.”
“Dire per favore ogni tanto non ti ucciderebbe, sai?”
Arthur gli riservò un’occhiataccia tagliente. “Muoviti, Merlin. E non farti vedere da nessuno degli assistenti di mio padre. Voglio lavorare a questo caso in pace.”
E Merlin sapeva che per lavorare a quel caso in tutta tranquillità dovevano farlo alle spalle di Uther, altrimenti si sarebbe scatenato l’Inferno.
“Sì, capo.”
Arthur annuì e Merlin uscì dal suo ufficio, diretto agli archivi.



*



Sulla strada verso gli archivi – che si trovavano al piano inferiore rispetto agli uffici – Merlin incrociò Gwen.
La ragazza gli sorrise, amichevole. Merlin ricordava con assoluto affetto il comportamento che aveva avuto nei suoi riguardi appena era approdato in quello studio. Gwen era stata l’unica a prendersi la briga di informarlo sulle informazioni basilari che l’avrebbero aiutato a sopravvivere in quel mondo di squali.
Erano diventati amici fin da subito.
“Ehi,” Lo salutò, un sorriso a tenderle le labbra. “Dove corri?”
“Non dovrei dirlo a nessuno.” Merlin socchiuse un occhio, alzò un angolo della bocca in un mezzo sorriso e la guardò come a volerle chiedere scusa in anticipo. Era perfettamente consapevole che Gwen era l’assistente personale di Morgana, la sorella di Arthur, ed era altrettanto conscio del fatto che quelle due non si nascondessero nulla e se per caso Morgana fosse venuta a conoscenza dei piani del fratello alle spalle del padre… una guerra si sarebbe scatenata in casa Pendragon.
Merlin sapeva che Gwen non era cattiva, e sapeva anche che, di norma, non avrebbe mai fatto nulla per danneggiarlo, ma sapeva anche che in quanto assistente di Morgana, aveva dei doveri nei suoi confronti e se le avesse chiesto cosa stavano combinando Merlin ed Arthur, lei avrebbe dovuto rispondere.
E dal momento che tutti in quello studio erano consapevoli delle varie litigate – frivole o pesanti che fossero – in cui si ritrovavano coinvolti i fratelli Pendragon un giorno sì e l’altro pure, pur di farsi dispetti a vicenda – nemmeno fossero ancora due bambini cocciuti e non due adulti – Merlin preferì evitare di dare spiegazioni di qualsiasi genere.
“Capisco. Tu e la tua cieca fedeltà ad Arthur. Non ti ringrazia abbastanza.”
“Non mi sono mai aspettato che lo facesse.” Borbottò Merlin, cercando di camuffare il rossore sulle sue guance. Perché stava arrossendo, poi?
Gwen gli lanciò un’occhiata piena di consapevolezza, che tuttavia Merlin non colse del tutto. Sembrava quasi che l’amica sapesse qualcosa che a lui sfuggiva, nonostante fosse – dalla faccia che aveva messo su Gwen – terribilmente ovvio.
Che la vicinanza prolungata con Arthur, l’avesse influenzato a tal punto da rendere anche i propri neuroni lenti e idioti?
“Devo andare.” Aggiunse sbrigativo Merlin con tutta l’intenzione di togliersi d’impiccio.
“Ma certo. Ci vediamo stasera?”
“Ad un’unica condizione.”
Gwen sorrise divertita. “Quale?”
“Nessun Pendragon dovrà essere nominato.”
Il sorriso di Gwen divenne una risata. “Ci sto.”



*


Merlin raggiunse gli archivi con tutta la discrezione di cui era capace. Avrebbe voluto dire che tutta questa segretezza lo rendeva nervoso, ma la verità era che non lo era per niente – non in quel preciso istante, almeno.
Ed era pienamente consapevole di quanto suonasse irresponsabile, ma ormai era abituato ad obbedire a qualsiasi richiesta di Arthur.
Ed era capitato, qualche volta, che Arthur gli chiedesse di fare anche cose che potevano risultare scomode. Merlin si era semplicemente abituato, si era adattato alla situazione come aveva imparato ad adeguarsi al caratteraccio di Arthur, che odiava sentirsi dire di no. Era testardo come un mulo e il più delle volte Merlin si era trovato a discutere con lui, fino a quando non aveva dovuto cedere e assecondarlo.
Merlin sospirò e si guardò intorno. Nessuno, in quel momento, gli stava prestando attenzione. Come avrebbero potuto, dopotutto? Se qualcuno si trovava negli archivi, spesso era un assistente, o un apprendista, o un giovane avvocato che doveva imparare il mestiere – come lui, anche se poi era stato relegato ad assistere Sua Maestà – e che non aveva tempo da perdere. Laggiù, segregati negli archivi, i vari dipendenti si muovevano come tante api operaie, lige al loro dovere.
Merlin sospirò di nuovo, sentendosi a sua volta una piccola ape, e si diresse verso il fondo di quella stanza, dove sapeva venivano tenuti i vari fascicoli.
Sapeva che tutto questo era una follia. Sapeva che Uther, o prima o dopo, sarebbe venuto a conoscenza del fattaccio, e che probabilmente avrebbe voluto la sua testa su una picca, o l’avrebbe arso vivo sul rogo. Era impossibile che non lo venisse a sapere, dal momento che per prelevare una qualsiasi fascicolo bisognava lasciare il badge di riconoscimento al vecchio Geoffrey, che era particolarmente puntiglioso e devoto alle regole, nonché allo stesso Uther.
Merlin sentiva già l’odore di carne bruciata – la sua – nell’aria. Deglutì, cercando di mandare giù quel boccone amaro.
Le cose che faccio per te, Arthur Pendragon, stupido idiota ingrato.
“Buongiorno, Geoffrey.”
Il vecchio archivista guardò il giovane con la solita sufficienza che riservava a tutti. “Di cosa hai bisogno?”
“Del fascicolo 82-47-5b.” Recitò a memoria Merlin, che conosceva i codici di tutti i fascicoli di Arthur, perché il signorino era ossessionato dalla precisione. E, ovviamente, se li aveva imparati lui, Merlin, di certo, non poteva essere esentato da una tale tortura.
Geoffrey consultò la lista dei fascicoli. Probabilmente era l’unico archivista ad usare ancora mezzi cartacei per la catalogazione di documenti importanti, ma non era questo il momento di pensarci.
“Perché ti serve il fascicolo di un caso che risulta chiuso?”
Beh, merda. E adesso?
“Perché…” Merlin si guardò intorno, quasi come se gli oggetti circostanti avessero potuto suggerirgli una risposta adeguata. E in realtà, lo fecero, quasi come se potessero magicamente parlargli. Osservò il grosso libro che Geoffrey aveva davanti a sé ed ebbe l’illuminazione. “…Perché Arthur vorrebbe provare un approccio più… tecnologico ai metodi di archiviazione e vuole cominciare dai casi chiusi, in modo da non danneggiare il lavoro di nessuno. Non può prendere fascicoli che servono agli altri, giusto?”
Merlin sapeva che era una scusa fiacca ed estremamente campata in aria. E sapeva anche se che non avesse usato il nome del suo capo, Geoffrey l’avrebbe liquidato in mezzo secondo, ma a quanto pare, quella scusa funzionò. Geoffrey si limitò ad alzare impercettibilmente un sopracciglio, prima di fargli cenno di consegnargli il badge. Merlin obbedì e rimase ad osservare l’archivista che trascriveva i suoi dati sul grosso libro, accanto al codice del fascicolo. Quando ebbe finito, sparì nelle retrovie dell’archivio per qualche istante, prima di tornare con il fascicolo richiesto. Lo consegnò a Merlin, il quale lo afferrò e resistette all’impulso di nasconderlo sotto la propria giacca. Sarebbe stato un comportamento decisamente sospetto.
“Grazie, Geoffrey.”
L’anziano fece un cenno con il capo e Merlin capì che quello era il segnale per togliersi di torno. Non che avesse voluto rimanere lì un secondo di più, che sia ben inteso, quindi assecondò l’archivista e si diresse verso l’uscita, con l’intenzione di tornare al piano di sopra.






*




“Approccio tecnologico ai metodi di archiviazione? Sul serio?” Lo scimmiottò Arthur, senza provare nemmeno un po’ a celare il suo disappunto.
“Ero nel panico. Come avrei potuto giustificarmi, altrimenti?”
“Sei un idiota. Non avresti dovuto giustificarti in nessun modo.”
Merlin sgranò gli occhi cerulei nella maniera più eloquente possibile. “Non so se ti sia sfuggito, ma non tutti hanno i tuoi privilegi qua dentro! Non basta entrare in una stanza, ragliare qualche ordine e aspettare che gli altri lo eseguano senza emettere un fiato.”
Arthur alzò le sopracciglia, offeso. “Ragliare? Mi stai dando dell’asino?”
“L’hai detto tu, non io.”
“Merlin!” Esclamò Arthur, calcando esageratamente – come faceva sempre, del resto, quando lo chiamava – sulla E e sulla R, arrotondando specialmente quest’ultima. Non che Merlin ci avesse fatto caso. In realtà sì, ci aveva fatto caso, chi voleva prendere in giro?
Era impossibile non notarlo, d’altronde. E Merlin tendeva a notare tutto ciò che riguardasse Arthur. Sapeva come prendeva il caffè: nero e con un cucchiaino di zucchero; sapeva che il the, invece, gli piaceva senza zucchero e con un po’ di latte. Sapeva che scansava le olive verdi dall’insalata, quando catastroficamente finivano nel suo piatto. Preferiva le uova sbattute a quelle sode, la birra al vino – contrariamente a quanto chiunque si sarebbe aspettato, visto quanto appariva snob – anche se il suo preferito rimaneva il bourbon. Sapeva che Arthur prediligeva libri storici a qualsiasi altro genere di libro e aveva una conoscenza che rasentava l’inquietante riguardo le armi medievali e i loro utilizzi, in particolare spada e mazza chiodata. Sapeva che era testardo e cocciuto, un po’ troppo orgoglioso, ma era anche propenso a capire i propri errori per poi trovare un modo per rimediare. Gli piaceva la quiete della sua casa e la sua serata ideale comprendeva film e qualche genere di cibo spazzatura che si concedeva solo nel fine settimana, perché era ossessionato dal rimanere in forma. Non che ce ne fosse davvero bisogno. Arthur era bellissimo. Ma Merlin scacciò quel pensiero quasi potesse avere il potere di scottarlo.   
Lo conosceva bene e a volte ancora si stupiva di quanto il loro rapporto fosse diventato così saldo in così poco tempo.
“D’accordo, scusa.” Lo assecondò. “Ad ogni modo, abbiamo il fascicolo. Possiamo usarlo, prima che tuo padre scopra che l’ho preso e mi tagli la testa.”
Arthur piantò i propri occhi azzurri in quelli cerulei di Merlin. “Non gli permetterei mai di farti nulla.” E lo disse con così tanta sicurezza che, per un momento, Merlin si sentì protetto da qualsiasi tipo di ripercussione. Tuttavia, sapeva che Uther poteva essere irremovibile e aveva la tendenza a manipolare il figlio, facendo leva sulla sua sete di approvazione paterna, per ottenere da lui ciò che voleva.
Merlin apprezzava davvero molto quelle parole, ma sapeva che rimanevano solo, appunto, belle parole. Tuttavia, si trovò a sorridere. Arthur sapeva essere estremamente premuroso, quando non si comportava come un totale babbeo.
E questo pensiero fece sfarfallare il cuore di Merlin, in un modo che lui decise volutamente di ignorare per tutta una serie di innumerevoli motivi, che si era ripetuto nei vari mesi in cui il dubbio che potesse provare qualcosa per il suo capo che andasse al di là dell’amicizia si era fatto strada in lui. Primo fra tutti: Arthur era etero; secondo: era il suo capo. Non poteva innamorarsi del suo capo. Sarebbe stato poco professionale, decisamente poco etico, e oltraggiosamente scontato. Il peggior cliché nella storia dei cliché.
No, grazie.
Gli bastava la sua amicizia.
Davvero, Merlin? Gli sussurrò una parte pungente di sé che il giovane soppresse con estrema convinzione.
“Comunque,” Cominciò, ignorando tutte le sue sensazioni, “Adesso come ci muoviamo?”
“Non possiamo lavorarci qui. Stasera vieni a casa mia e cominciamo.”
“Stasera?”
“Sì. Abbiamo poco tempo a disposizione, prima che qualcuno venga inevitabilmente a scoprire il nostro segreto.”
“Veramente io avrei un impegno, stasera.”
Arthur appoggiò i gomiti alla propria scrivania, intrecciò le dita delle mani e le usò per appoggiarci il mento. Lanciò a Merlin una lunga occhiata saccente. “Lo so. Sei impegnato. Con me. Ad eseguire il lavoro per cui ti pago.”
Merlin non riuscì a trattenere uno sbuffo frustrato. Aveva promesso a Gwen una serata fuori da settimane e inevitabilmente si era ritrovato a rimandare ogni dannata volta perché Arthur aveva bisogno di lui, per una cosa o per l’altra.
Come faceva a coltivarsi una vita all’infuori di Arthur, se Arthur rimaneva sempre l’unico essere umano con cui aveva contatti?
“Va bene.” Si arrese, lanciando le mani in aria e facendo ricadere poi le braccia lungo i fianchi. “Despota.”
“Ti ho sentito.” Lo ammonì Arthur.
“Lo so, altrimenti oltre che despota saresti anche sordo.”
“Merlin!” lo rimbeccò.
L’assistente serrò le labbra all’interno della bocca. “A che ora, stasera?”
“Quando hai finito il tuo lavoro, vieni qui. Andiamo a casa mia insieme.”
Merlin avrebbe voluto ribattere che sarebbe stato sospetto, ma la verità era che era successo così tante volte da essere diventata un’abitudine. Quindi non ribatté nulla. Si limitò semplicemente ad annuire e a congedarsi da Arthur.
Quando fu fuori dal suo ufficio, mandò un messaggio a Gwen, chiedendole se potevano vedersi per pranzo. Quando lei gli rispose affermativamente, Merlin si sedette nuovamente alla sua scrivania e continuò il suo lavoro.




*





All’ora di pranzo, Merlin si alzò dalla sua scrivania, a cui era stato seduto per più di un’ora, dopo aver portato a termine la sua missione segreta per Arthur.
Sentiva il bisogno di sgranchirsi le gambe e dal momento che da quell’istante fino all’ora successiva Merlin poteva ritenersi un uomo libero – salvo una chiamata improvvisa di Arthur che gridava all’emergenza apocalittica – si diresse fino alla scrivania di Gwen, situata esattamente davanti all’ufficio di Morgana.
L’amica gli sorrise non appena lo vide comparire nel suo campo visivo. “Hai fame?”
Merlin annuì. “Hai finito?”
“Sì.” Gwen si alzò dalla sedia e circumnavigò la sua scrivania per raggiungere l’amico. Insieme si diressero verso l’ascensore che li avrebbe portati al piano terra. Quando Arthur non lo costringeva a saltare la pausa pranzo con i suoi ritmi incessanti da stacanovista maniaco del controllo, Merlin passava quell’ora insieme a Gwen nella tavola calda situata vicino all’edificio dove si trovava lo studio legale.
Era in quel piccolo posto, caldo e accogliente, che era nata la loro amicizia e Merlin ci teneva che continuassero a coltivarla attraverso queste piccole cose, visto che Arthur si prendeva tutto il suo tempo.
E, a proposito di Arthur che si prendeva tutto il suo tempo…
“Gwen, devo dirti una cosa.” Cominciò, quando entrambi furono davanti all’ascensore. Le porte si aprirono e poterono entrare. Gwen premette il pulsante del piano terra e rimase in attesa che l’amico continuasse.
“Devo lavorare, stasera.”
“Ma che sorpresa.” Gli rispose, senza nessuna accusa nella voce, quanto piuttosto una punta di sarcasmo nell’ampio sorriso e quell’espressione che le aveva visto mettere su quella mattina stessa. Se avesse dovuto descriverla, Merlin avrebbe usato aggettivi come malandrina, o maliziosa, ma non vedeva perché la sua amica dovesse riservargli un’espressione simile.
Davvero? Gesù, l’idiozia di Arthur ti ha proprio contagiato! Magari fai solo schifo a nascondere i tuoi sentimenti.
Lui non ha sentimenti! Per nessuno! Men che meno per quella testa di fagiolo di Arthur!
Perché quella specifica mattina, la sua coscienza sembrava così determinata a remargli contro? E perché, dopo mesi di assopito e gradito silenzio, si era risvegliata per ricordargli sentimenti che si era impegnato diligentemente a soffocare, sopprimere, relegare in profondità, uccidere, dal momento che erano assolutamente off-limits?
Sul cuore di Merlin doveva esserci un metaforico cartello che recitava a caratteri cubitali: vietato l’ingresso a qualsiasi sentimento romantico rivolto ad una regal testa di fagiolo, nota all’anagrafe come Arthur Pendragon.
E invece, quella mattina, la sua coscienza si faceva abbondantemente beffa di lui, insieme alle insinuazioni nemmeno troppo velate di Gwen.
Merlin avrebbe volentieri liberato un sospiro amareggiato e un tantino frustrato. Anche la prospettiva di lanciare un urlo stridulo stile Mandragora non gli sembrava male. Ma si trattenne.
“Mi dispiace.” Si limitò a dire, fingendo di non cogliere qualsiasi fosse l’insinuazione che l’amica gli stesse lanciando. Le porte dell’ascensore si aprirono ed entrambi uscirono, diretti verso l’uscita del palazzo.
“Non preoccuparti.” Lo rincuorò Gwen, prendendolo sottobraccio. “Ma davvero, Merlin, Arthur non ti ringrazia abbastanza per la tua devozione.”
“Non è devozione. È il mio capo. Non sono né devoto, né mi aspetto dei ringraziamenti per svolgere un lavoro per cui vengo pagato.” Borbottò Merlin, sulla difensiva. Non voleva che Gwen o altri si facessero strane idee.
Gwen annuì comprensiva e gli appoggiò una guancia sulla spalla, ponendo fine a quell’argomento.
“Muoviamoci ad entrare. Ho fame.”
Merlin sorrise, felice che l’amica avesse deviato l’argomento, e spinse la porta del locale per aprirla. Lasciò entrare Gwen per prima e poi la seguì, prendendo posto al solito tavolo che occupavano sempre.






*




Arthur Pendragon era un idiota.
Ma questo Merlin, ormai, lo sapeva. Era la persona meno paziente del mondo, e quando perdeva la poca pazienza che l’Onnipotente gli aveva donato, diventava particolarmente molesto e fastidioso.
Merlin catalogava quel comportamento nella sfera di comportamenti che rientravano nel più grande schema che l’assistente aveva rinominato: Arthur che fa l’idiota solamente con il senso pratico di semplificare le cose, altrimenti avrebbe dovuto stilare una lista dei vari appellativi e Merlin non aveva così tanto tempo. Come aveva già notato, l’idiota gli prendeva tutto il tempo a disposizione.
“Hai finito?” Gli domandò, un molesto Arthur, appoggiandosi alla sua scrivania – appoggiando una chiappa alla sua scrivania. Non che Merlin l’avesse notato.
Sporco bugiardo. Certo che l’aveva notato. Se doveva essere onesto con sé stesso – e a quanto pare, quella era la giornata del remiamo contro il buonsenso di Merlin – i suoi occhi erano caduti sul sedere di Arthur più volte di quanto gli piacesse ammettere.
E ogni volta si era reso conto di quanto le ore passate in palestra avessero portato i loro buoni frutti.
Dio benedica i personal trainer.
Ma ancora non che ne volesse parlare apertamente.
Ancora, quello era un territorio off-limits.
Di nuovo, per l’ennesima volta in quella estenuante ed infinita giornata, Merlin ponderò l’idea di lasciarsi andare ad un grido in pieno stile Mandragora, o Nazgul.
“No.” Rispose, tenendo gli occhi incollati allo schermo del pc a cui stava scrivendo pur di non guardare Arthur. Aveva imparato a scrivere senza guardare la tastiera, a continuare a lavorare ad importanti relazioni dei casi, mentre Arthur gli parlava di tutt’altra cosa – fossero altri casi, o le sue paturnie del momento – senza mai perdere la concentrazione. Ma in quello specifico momento, con il profumo deciso di Arthur che gli invadeva le narici, il fatto che ci fosse una misera distanza a separarli, e la consapevolezza che il suo cuore aveva passato l’intera giornata a gridare all’ammutinamento rispetto alle regole che il suo cervello aveva imposto riguardo a non provare niente per Arthur in quel senso, la concentrazione di Merlin era andata davvero a farsi un giro in lidi in cui la follia regnava sovrana.
Aveva davvero perso il conto dei sospiri affranti a cui si era lasciato andare quel giorno.
Doveva. Tornare. In. Sé.
“Sei lento, Merlin.”
“Forse mi dai troppo lavoro. Magari potresti assumere un assistente anche per me.”
Arthur gli rivolse un sorrisetto pungente e un tantino arrogante. “Magari potrei licenziarti, invece, e trovare qualcuno di più competente, che non si lamenti e che sia sbrigativo a portare a termine i propri compiti.”
Merlin ignorò quelle minacce che sapeva fossero prive di fondamento. Arthur non avrebbe trovato nessun altro disposto a sopportarlo come lo sopportava lui. E lo sapevano entrambi. “Lance potrebbe essere un ottimo assistente, per me.”
Arthur accantonò per un attimo la sensazione di disagio che gli provocava l’essere così bellamente ignorato e alzò un sopracciglio, stupito e oltraggiato. “Lance? Intendi Lancelot?”
Merlin continuò a digitare qualcosa sulla tastiera e annuì.
“E perché lo chiami Lance?” Pretese di sapere, la testa di fagiolo, con un’inflessione nella voce che avrebbe fatto pensare alla gelosia, se non fosse stato Arthur il soggetto in questione. Sicuramente lo infastidiva che non fosse a conoscenza della cosa. Arthur era un tantino abituato ad essere al centro dell’attenzione. Giusto un tantino.
“Perché è mio amico, ad esempio?” Ribatté Merlin, sarcastico. “Funziona così, quando hai confidenza con qualcuno. Gli dai un soprannome.”
Arthur si adombrò per qualche istante, ma non aggiunse nient’altro. “Vedi di sbrigarti, abbiamo altro lavoro da fare.”
Merlin gli lanciò un’occhiata in tralice. “Schiavista.”
Arthur si chinò sulla sua scrivania, avvicinandosi così tanto al viso di Merlin che l’assistente poteva sentire il suo respiro su di sé. “Un giorno o l’altro la tua linguaccia ti metterà nei guai, Merlin.”
“La mia vita è un intero guaio da quando lavoro per te. Non credo che le cose possano peggiorare.” Ribatté, distogliendo lo sguardo dal viso incredibilmente vicino dell’uomo per cui non provava qualcosa e dai suoi dannatissimi, profondissimi, meravigliosi occhi azzurri.
Si affrettò a terminare il documento che stava scrivendo e a salvare il tutto, prima di chiudere programma e computer. “Ho finito.” Informò, tornando finalmente a guardare il Despota, che continuava a stare seduto in quel modo distraente alla sua scrivania, vicino a lui in un modo che Merlin avrebbe potuto tranquillamente definire pericoloso, completamente ignaro dell’effetto che quella misera distanza aveva sul povero Merlin.
Arthur non conosceva la definizione di spazio personale e ciò lo mandava in crisi. Soprattutto in quella giornata dove i nervi di Merlin erano davvero a fior di pelle. Era sicuro che se Arthur l’avesse anche solo sfiorato accidentalmente, lui sarebbe saltato come un capretto, convinto che quel tocco potesse dargli la scossa.
Doveva. Tornare. In. Sé.
Tutta quell’assurda giornata lo stava prosciugando di tutte le sue energie. Avrebbe solo voluto andare a casa, farsi una lunga doccia, avvolgersi in una coperta come un burrito umano, cenare vergognosamente davanti alla tivù e poi buttarsi senza ritegno a letto.
“Allora andiamo.”
Invece lo aspettava una lunga nottata insonne a studiare un nuovo caso di cui lui e Arthur si sarebbero occupati clandestinamente.
Merlin si alzò dalla sua scrivania, recuperò il giubbotto appeso allo schienale della sua sedia girevole e si avviò con Arthur verso l’ascensore.
“Hai fame?” Gli domandò Arthur, mentre attendevano che le porte si aprissero, ma non aspettò risposta perché un sorriso pieno di consapevolezza si formò sul suo viso. “Che domande, certo che hai fame. Tu hai sempre fame.”
“A quest’ora è ovvio, sarebbe strano il contrario, ti pare?” Ribatté piccato Merlin, un tantino risentito dell’accusa di essere una specie di ingordo aspira-tutto quando era più che noto ad entrambi che era Arthur quello tra i due che tendeva sempre a mangiarsi l’ultimo pezzo di qualsiasi cosa avessero ordinato per cena, se era qualcosa che piaceva ad entrambi.
Arthur lo liquidò con un gesto della mano. “Cosa vuoi mangiare?”
“Non lo so, scegli tu.”
“Andiamo, Merlin, non farti pregare. Sai che non mi piace.” Gli riservò un’amichevole gomitata che andò a conficcarsi con una precisione letale tra le costole di Merlin, che si massaggiò la parte lesa d’istinto. Gli riservò un’occhiataccia a cui Arthur rispose con un sorriso soddisfatto.
Dannata faccia da schiaffi.
Dannata bellissima faccia da schiaffi.
Le porte dell’ascensore si aprirono e Merlin sospirò di sollievo, avendo qualcosa da fare che non fosse notare quanto i lineamenti di Arthur fossero perfetti. Entrò per primo, seguito subito a ruota da Arthur.
“Allora, vuoi rispondermi o no?” Domandò Mr. Non Ho La Minima Pazienza Pendragon.
“Andiamo in quel posto che ti piace tanto, dove hanno anche il menù vegetariano.”
“D’accordo. Tu mangerai cibo per conigli, mentre io mangerò qualcosa che può essere degno di essere chiamato cibo. Non capirò mai perché hai deciso di torturarti tutta la vita privandoti dei piaceri della carne.”
Merlin per un pelo non morì di crepacuore in quel preciso istante.
Con la giornata estenuante e stressante che aveva avuto, gli ci mancava solo sentire la voce profonda di Arthur e guardare le sue labbra peccaminose pronunciare piaceri della carne.
Che aveva fatto di male, lui, in una vita precedente? Aveva per caso ucciso un unicorno? No, perché altrimenti non si spiegava.
Era piuttosto sicuro di non aver mai fatto nulla del genere, ma chissà forse nella sua vita precedente era stato Voldermort e lui non se lo ricordava.
Stava vaneggiando.
Si ricompose, per quanto il suo stato mentale glielo permettesse.
“Detesto l’idea di altri esseri viventi che muoiono per nutrire me. Non hanno meno diritti alla vita.”
“Si chiama catena alimentare, Merlin. È il corso naturale degli eventi: animale più grande mangia animale più piccolo.”
“Sì beh, non sono d’accordo.” Borbottò. “E comunque non devi mangiare quello che mangio io, quindi perché ti lamenti?”
Arthur scosse la testa, un sorriso a tendergli le labbra. Non c’era derisione nel suo volto, quanto piuttosto… tenerezza. Ma Merlin scacciò quell’assurda ipotesi, convincendosi che lo stress della giornata lo stesse danneggiando a tal punto da provocargli le allucinazioni.
“Non mi lamento…”
“Su questo avrei da ridire.”
Arthur lo incenerì con lo sguardo per essere stato interrotto. “…riguardo a quello che mangi. Su altre cose, mi lamento perché ne ho il diritto: sei un disastro.”
Merlin gli riservò una maturissima e sicuramente appropriata linguaccia, per uno della sua età.
Arthur rise.
Era uno di quei momenti dove non erano capo e dipendente, ma erano Arthur e Merlin gli amici.
Amici era quello che sarebbero sempre stati. Perché Arthur era etero e Merlin era la definizione letterale di quello che il web definisce disaster gay. Non c’era futuro, per loro, non in quella direzione. Quindi perché rischiare di frantumarsi il cuore, o peggio, perdere Arthur?
Merlin sospirò e relegò la tristezza in fondo al suo cuore. Non doveva ricascare nella tentazione di lasciare crescere i suoi sentimenti per Arthur. Non dovevano categoricamente svilupparsi in altro che non fosse amicizia.
Immerso com’era nei suoi pensieri non si era nemmeno reso conto che erano arrivati alla macchina di Arthur. Merlin attese di sentire la serratura scattare e aprì la portiera del passeggero, poi osservò Arthur posizionarsi al posto di guida.
“Andiamo?”
Merlin si limitò ad annuire. Con lui sarebbe andato anche in capo al mondo.



*



Arthur viveva in una specie di castello in uno dei quartieri che Merlin preferiva in assoluto di Londra.
Gli piaceva andare in quella casa perché oltre ad essere dotata di ogni comfort possibile ed immaginabile, si trovava in una posizione perfetta che permetteva di raggiungere in poco tempo sia il centro brulicante di abitanti, sia la zona collinare, verde e più tranquilla.
Merlin non voleva nemmeno immaginare quanto ad Arthur fosse costata quella casa. Al solo pensiero sentiva piangere il suo conto corrente per almeno una decina di vite.
“Non stare sulla porta, andiamo. Ti comporti come se non avessi mai visto questa casa!” Lo rimbeccò Arthur, che aveva lasciato il cappotto sull’attaccapanni vicino alla porta e si era già inoltrato nella sua dimora. Merlin sapeva già dove si sarebbe diretto. E infatti, dopo aver lasciato il suo giubbotto vicino a quello di Arthur, trovò il padrone di casa esattamente dove si sarebbe aspettato di trovarlo: nel salotto, intento ad accendere il fuoco nel camino.
L’assistente si sedette sul pavimento a gambe incrociate, accanto ad Arthur che se ne stava piegato sulle ginocchia ad armeggiare con i vari attrezzi per fare in modo che il fuoco attecchisse bene cui ceppi.
Chiunque l’avesse osservato, non l’avrebbe mai detto, ma Arthur era un tipo decisamente manuale. Sapeva fare una moltitudine di cose che non ci si sarebbe mai aspettati, da uno con il suo background, abituato ad avere qualcuno che si occupasse per lui di ogni cosa. E invece, Arthur si era rimboccato le maniche e aveva fatto in modo di rendersi autonomo, indipendente. E questa era un’altra delle cose che piacevano tanto a Merlin. Arthur lasciava che la vita lo sporcasse, immergeva le mani nei problemi e ne usciva sempre pieno di fango, ma vittorioso. Sapeva affrontare le situazioni di petto, mettendosi sempre in prima linea, affrontandole apertamente.
Era coraggioso e disposto ad aiutare chiunque ne avesse bisogno. Anche se per arrivare a capire cosa celasse davvero il suo cuore buono, bisognava passare attraverso una corazza protettiva d’acciaio spesso dieci centimetri costruita a suon di sarcasmo, arroganza e spavalderia.
Era difficile arrivare a conoscere il cuore di Arthur, o il suo animo. Ma una volta che lasciava pieno accesso a sé stesso, si scopriva una persona meravigliosa.
“Merlin?”
Il ragazzo sentì le guance andare a fuoco in seguito ai suoi pensieri da cui venne destato proprio dall’oggetto di quei pensieri.
“Sì?”
“Va bene, così? Senti abbastanza caldo?”
Merlin annuì e si avvicinò un po’ di più al camino, dove il fuoco trasmetteva un piacevole calore.
Arthur si trovò a sorridere. “Sei sempre così freddoloso.” Affermò, come se fosse un dato di fatto. “Scommetto che avresti freddo anche se ti gettassero nella bocca di un vulcano.”
“Potrei buttare te nella bocca di un vulcano, così per vedere se avresti ancora voglia di prendermi in giro.”
Arthur gli diede una spintarella giocosa, appena accennata, e gli rivolse un sorriso che andò a coinvolgere anche i suoi occhi.
Era così bello da fare male, assemblato per rappresentare perfettamente l’ideale principesco delle favole. Arthur era alto, ben fatto, con spalle ampie e braccia forti. Aveva delle mani bellissime, sempre calde. Era biondo e con gli occhi azzurri più belli ed espressivi che Merlin avesse mai incrociato.
Distolse lo sguardo, incapace di sostenere ciò che quella visione andava ad alimentare: la consapevolezza che non avrebbe mai potuto averlo, la certezza che non avrebbe mai potuto concedersi di amarlo ed essere amato.
Sospirò, per l’ennesima volta in quella lunga giornata. “Abbiamo del lavoro da fare.” Disse, improvvisamente desideroso di avere qualcosa diverso dai pensieri su Arthur che gli occupasse la mente.
L’avvocato annuì e si alzò per andare a recuperare il fascicolo che avevano furtivamente sottratto dall’archivio quella mattina. Quando tornò in salotto, Merlin era seduto sul divano. Arthur si sedette al suo fianco e cominciarono a studiare il caso.




*



“Sei stanco.”
Arthur alzò lo sguardo dal fascicolo a Merlin, occhiaie grigiastre cominciavano a circondare i suoi occhi. “No, non lo sono.”
“Lo sei. Devi andare a risposare.”
“Riposerò da morto. Questo caso… nessuno lo risolverà, se non lo faremo noi.”
Merlin emise un sospiro di comprensione. Il caso in questione riguardava una donna incinta, che abitava in uno dei quartieri meno agiati di Londra, ed era vittima di violenza domestica. Il marito continuava a picchiarla nonostante la creatura che la moglie portasse in grembo e la donna si era rivolta segretamente allo studio per ottenere il divorzio. Non poteva permettersi un avvocato, ma aveva comunque tentato, con la speranza di finire nella lista dei casi pro-bono.
Si era rivolta ad altri, prima di loro, e tutti le avevano detto la stessa cosa, rifiutando il caso.
Merlin sapeva che Arthur aveva ragione. Nessun altro, a parte loro, se ne sarebbe occupato. E sapeva anche quanto l’argomento madri lo rendesse sensibile.
Igraine, sua madre, era morta dandolo alla luce e lui provava ancora i sensi di colpa, sebbene i vari psicologi a cui Uther si era rivolto avessero fatto di tutto per fargli capire il contrario.
Non era riuscito a salvare sua madre, avrebbe salvato tutte le altre. O quanto meno, ci avrebbe provato.
Merlin lo capiva, profondamente, ma era anche preoccupato per lui. Non dormire non gli faceva per niente bene. E lo rendeva particolarmente nervoso e distratto.
Per questo afferrò il fascicolo che Arthur teneva fra le mani e lo chiuse. “È notte fonda, Arthur. Devi riposare, se vuoi davvero essere produttivo per questo caso, domani.”
Arthur guardò l’orologio che portava al polso: segnava le 3.45 del mattino. Sapeva che Merlin aveva ragione. Lui aveva sempre ragione, non che comunque l’avrebbe mai ammesso ad alta voce o davanti a lui. L’idiota avrebbe gongolato per eoni, altrimenti.
“D’accordo. Riprendiamo domani.”
Merlin annuì soddisfatto e si alzò dal divano. “Allora, buonanotte.”
Arthur lo guardò perplesso, aggrottando le sopracciglia con confusione, quando lo vide dirigersi verso la porta. “Dove stai andando?”
“A casa?” Ribatté, come se fosse ovvio.
“Non dire idiozie, Merlin. È notte fonda. Non prenderai i mezzi pubblici a quest’ora. Dormirai qui.” Arthur alzò un indice per zittirlo ancora prima che Merlin riuscisse ad elaborare una vera protesta. “E non obiettare. Non contraddirmi, quando sono stanco, per favore. Accontentami.”
“Avevi detto che non eri stanco.” Obiettò Merlin, per non dargliela vinta.
Arthur gli riservò un’occhiataccia. “Vai a dormire, Merlin. La camera degli ospiti è pronta. Nel bagno troverai tutto ciò di cui hai bisogno. E se vuoi qualcosa per dormire, posso prestarti qualcosa di mio.”
No, decisamente non avrebbe dormito con addosso qualcosa che poteva avere impregnato l’odore di Arthur, nonostante i lavaggi. Perché altrimenti non avrebbe dormito.
“Sono a posto, non preoccuparti.”
Arthur annuì. “Buonanotte, Merlin.”
“’Notte, Arthur.”


*


Merlin si svegliò da un sonno tormentato, circa due ore dopo essersi coricato.
Non era riuscito a prendere sonno a dovere, complici tutti i pensieri che gli ronzavano per la testa e quel caso che sembrava davvero impegnativo. Era preoccupato anche lui per quella donna, Annabelle. Aveva un nome così delicato e una forza d’animo invidiabile. Merlin si chiese se quella forza che la donna si portava dentro sarebbe stata sufficiente a contrastare la brutalità furiosa dell’uomo che aveva sposato.
Lo sperò.
Merlin sperava con tutto sé stesso che riuscissero ad aiutarla prima che il peggio potesse arrivare. Non avrebbe sopportato un esito negativo per quella faccenda. Sospirò, consapevole che tra questi pensieri e quelli su Arthur non sarebbe riuscito ad addormentarsi – non che l’avesse fatto seriamente nelle ultime due ore. Scostò le coperte e si rivestì dei propri indumenti di cui si era privato prima di coricarsi – uno di quei completi economici che era stato costretto a comprare una volta che era stato ufficialmente assunto. Si avviò verso il bagno presente in quella stanza e si lavò velocemente viso e denti, scartando uno degli spazzolini nuovi di pacca che Arthur teneva appositamente nel mobiletto accanto al lavandino. Poi si diresse al piano di sotto. Merlin si mosse il più silenziosamente possibile, cercando di non fare nemmeno il minimo rumore che avrebbe potuto accidentalmente svegliare Arthur.
Con passo felpato, quindi, giunse al piano inferiore. Accese le luci, perché nonostante fuori fosse l’alba, le finestre erano ancora chiuse, scuri compresi, e non si vedeva nulla. Con fare un tantino assonnato, Merlin si diresse in cucina: era una stanza enorme, piena di elettrodomestici ultratecnologici che Arthur non sapeva ancora usare, trovandosi a litigare con essi un giorno sì e l’altro pure. Al centro era situata un’imponente isola di legno scuro, accompagnata da alcuni sgabelli. Merlin si sedeva sempre al solito, quando era lì, tant’è che Arthur gli diceva sempre siediti al tuo posto, faccio il caffè.
Era confortante e allo stesso tempo doloroso, per lui, sentirsi così a casa, in quel posto. Merlin era abituato a muoversi in casa di Arthur come se fosse in casa propria. Sapeva quale fosse il posto di ogni oggetto, sapeva dove trovare i pacchi di pasta e gli infusi per il thè, dove fossero le spezie e dove fossero nascoste le bottiglie di liquore che Arthur tirava fuori ogni tanto, quando voleva farsi un bicchiere in compagnia. Ed era una sensazione che gli trasmetteva sempre una certa quiete, ma allo stesso tempo aveva il potere di squarciargli il cuore in due: quella che lo legava ad Arthur era una familiarità che altri non avevano, con lui. Erano amici, ma nessun altro aveva le stesse libertà che aveva Merlin, in quella casa. E se in un altro contesto, tutto ciò poteva essere interpretato come una piccola speranza, Merlin sapeva che non era così.
A lui era permesso muoversi in quel modo perché la loro amicizia era profonda, perché Arthur più di una volta l’aveva definito il suo migliore amico, la persona di cui più si fidava al mondo.
Ed era fantastico e Merlin provava le stesse cose per lui, ma… sapeva che se avesse lasciato libero sfogo ai suoi sentimenti, essi si sarebbero inevitabilmente trasformati. E allora, se l’avessero fatto, l’abito dell’amicizia avrebbe cominciato a stargli stretto e non poteva permettersi una cosa simile.
Sospirò, consapevole che se quello era il modo in cui la sua giornata era cominciata sarebbe stata una lunga giornata, e si mise a preparare il caffè. In attesa che fosse pronto, andò in salotto e recuperò il fascicolo che Arthur aveva lasciato sul tavolo qualche ora prima. Con il plico in mano, si sedette al suo sgabello e aprì la cartellina, cominciando nuovamente a leggere i documenti del caso. Distolse la propria attenzione solo quando sentì la caffettiera brontolare, allora si alzò, spense il fuoco e si versò una generosa tazza di caffè caldo. Niente zucchero, niente latte. Solo caffè. Delizioso, rigenerante, caffè. Merlin tornò al suo posto e abbracciò la tazza con le dita. Annusò l’aroma, prima di portarsela alle labbra e bere il primo sorso. Tutto diventava migliore, dopo il caffè, anche le giornate apparentemente lunghissime.
“Per me niente?”
Merlin quasi sobbalzò, udendo quella voce. Non si sarebbe aspettato di vederlo per almeno un’altra ora, ma dalle occhiaie che circondavano i suoi occhi, probabilmente nemmeno Arthur era riuscito a riposare a dovere.
Merlin lo osservò: i capelli arruffati e lo sguardo assonnato, un sorriso accennato sulle labbra piene. Indossava ancora il pigiama, che per Arthur consisteva più che altro in una maglietta a maniche corte anche in pieno inverno e un paio di pantaloni di vecchie tute. Mentre lo osservava, Merlin ebbe un pensiero: era ingiusto che fosse bellissimo anche così nello stesso modo in cui lo era quando indossava completi di alta sartoria cuciti su misura e pagati un occhio della testa. Non faceva bene al suo povero cuore, trovarlo sempre perfetto, anche quando in realtà non lo era.
Probabilmente, il suo cuore era di parte.
Sì, decisamente lo era.
Probabilmente, nonostante avesse combattuto duramente negli ultimi mesi, i suoi sforzi erano stati vani e aveva inevitabilmente finito per innamorarsi di Arthur.
Con ogni probabilità, il suo cuore l’avrebbe visto bellissimo sempre solo perché riusciva a sua volta a percepire il cuore di Arthur – e Dio, se era bello, il suo cuore.
Merlin accantonò quel pensiero: non voleva focalizzarcisi, adesso. Avrebbe ignorato quella consapevolezza come aveva fatto negli ultimi mesi e si sarebbe comportato come sempre.
“Adesso devo prepararti il caffè anche fuori dall’ufficio?”
Arthur si diresse verso la caffettiera e se ne versò una tazza. Merlin lo guardò mentre ci versava un cucchiaino di zucchero e sorrise.
“Non lo prepari mai te, in ufficio. So che lo fa Gwen per tutti e tu ne approfitti.”
“Mi avvalgo della facoltà di non rispondere.” Merlin nascose un sorriso colpevole all’interno della sua tazza, bevendo un sorso di caffè.  “E converrai con me, comunque, che sono io a portartelo, quindi almeno fuori dall’ufficio vorrei evitare.”
Arthur, afferrata la propria tazza, si sedette sullo sgabello vicino a quello di Merlin. “Sai che rientra nelle mansioni per cui vieni pagato, vero?”
“Adesso non mi stai pagando, quindi posso avvalermi della facoltà di non portarti il caffè.”
Arthur rise e gli scompigliò i capelli corvini con la mano che non stringeva la tazza. “Sei un idiota.” Affermò e Merlin gli diede una leggera spallata, ma non ribatté. Avrebbe voluto dirgli che simile attira suo simile e che quindi, questo principio, per proprietà transitiva, rendeva un idiota anche lui, ma si trattenne. Se non altro perché aveva notato l’espressione di Arthur farsi improvvisamente seria dopo aver notato il fascicolo aperto davanti a Merlin.
“Stai riguardando il caso?”
Merlin annuì. “Dobbiamo trovare un modo, in fretta. Se il marito dovesse scoprire che è venuta da noi…” Si interruppe a metà frase, non volendo pensare all’eventualità in cui l’uomo scoprisse le intenzioni della moglie. “Dobbiamo trovare elementi solidi che portino la causa a suo favore. E trovare un modo per proteggerla una volta che la causa sarà avviata.”
“Lo so. Hai trovato niente?”
“Non ancora.”
Arthur si avvicinò maggiormente a lui. Spazio Personale, questo sconosciuto, parte diecimillesima. Erano così vicini che le loro spalle si toccavano. Arthur era concentrato sul foglio, Merlin sul suo profilo. Pure quello era principesco, dannazione. Sembrava di guardare il profilo di una di quelle statue greche plasmate nel marmo: il naso delineato, la linea perfettamente squadrata della mascella, la curva definita delle sue labbra piene.
Era una congiura contro di lui.
“Merlin?”
“Eh?” Rispose, consapevole di suonare come un completo idiota.
“Ho qualcosa sulla faccia?”
Sì, l’assoluta perfezione.
“No, perché?”
“Perché mi stai fissando.”
Beh, merda. Se n’è accorto. Com’è che a volte diventa perspicace?
“Non stavo fissando te, quanto potrai mai essere egocentrico?”
Arthur aggrottò le sopracciglia, piccato. “Ah, davvero? E allora cosa stavi guardando?” Volle sapere, pungente, per riabilitare il suo orgoglio ferito.
Merlin rimase un attimo in silenzio, preda del panico, per cercare una scusa plausibile. Non gliene venne in mente nessuna. “Perché invece di farmi domande, non ti concentri sul tuo lavoro?”
Arthur aprì la bocca in una O perfetta, un tantino risentito da quell’atteggiamento. “Da quando tu dai ordini?”
“Da quando tu ti deconcentri.”
Arthur gli riservò un sorrisetto. L’irriverenza di Merlin lo rendeva così spontaneo. Non aveva mai avuto paura di lui, non come gli altri. Lo rispettava, ma non lo temeva. E ad Arthur questo piaceva. Era convinto che rendesse vera la loro amicizia.
Merlin era sempre disposto ad aiutarlo, ma era anche disposto a cantargliele se lui si comportava da idiota.
“Se non vuoi che mi deconcentri, smetti di fissarmi.”
“Non stavo fissando te!” Esclamò Merlin, con un tono più acuto del normale.
Arthur scosse la testa e lasciò cadere l’argomento, tornando a leggere il caso. Merlin ringraziò la sua buona stella che aveva fatto sì che Arthur non si intestardisse per avere per forza ragione e cominciò a sua volta a leggere i documenti.





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Ciao a tutti! Come prima cosa, se siete arrivati fin qui vi ringrazio immensamente!
Entro in questo fandom un po’ in punta di piedi e con un ritardo di circa otto anni.
Questa storia era nata come una OS, ma visto che al momento ho superato le quaranta pagine Word ho pensato di dividerla in più capitoli. Non è niente di originale. È un AU che ho cominciato a scrivere solamente con lo scopo di riprendermi dal finale della quinta stagione che mi ha trasformata in un ammasso di lacrime e per scacciare un po’ l’amarezza ho pensato di scrivere qualcosa di assolutamente smielato e pieno di cliché dove tutti sono felici.
Spero comunque che possa essere di vostro gradimento.
I personaggi potrebbero risultare un tantino OOC. Anche se ci provo davvero a scriverli nel modo più IC possibile, se doveste notare qualcosa di troppo OOC fatemelo sapere!
Il titolo e la parte in corsivo all’inizio del capitolo sono presi da una canzone di Adam Lambert – Better than I know myself.
Se vi va, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate!

Ringrazio ancora chiunque abbia deciso di aprire questa storia e arrivare fino alla fine!
A presto! <3


 
   
 
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