Storie originali > Thriller
Segui la storia  |       
Autore: Imperfectworld01    11/12/2020    0 recensioni
Megan è ormai fuori pericolo, non è più indagata per l'omicidio di Emily Walsh, ha ripreso in mano la sua vita e ha ritrovato se stessa, sebbene tutti la vedano diversa e la accusino di essere cambiata. Ciò che non vedono, è che quella è la vera lei: forte, sicura, determinata.
Ma i suoi problemi non sono finiti.
Si era posta un obiettivo: scovare il vero colpevole e ottenere giustizia per la sua amica, ed è ciò che ha intenzione di fare. Non si fermerà finché non ci sarà riuscita, costi quel che costi.
Ma desiderare una cosa con tutta se stessi e combattere per averla, è sempre la cosa giusta da fare?
//SEQUEL DI CAUSE IT'S RIGHT. PER CAPIRE QUESTA STORIA È NECESSARIO AVER LETTO IL PREQUEL//
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
1. Contro di me

Dicono che la vita di una persona possa cambiare in un attimo. In meglio, in peggio, non ha importanza. Perché nessuno ci crede veramente, finché non succede. 
Ed è allora che gli amici diventano nemici, le brave persone diventano cattive, quelle di cui ci fidiamo ci tradiscono, e altre muoiono.

Era ciò che era successo a me, io ne ero la prova. La mia migliore amica, Emily Walsh, era stata assassinata per Dio sa quale motivo, da uno dei miei amici più stretti, Herman Waldorf, coperto da quella che consideravo l'altra mia migliore amica, Tracey Gomez, ma fino all'ultimo io non ero stata in grado di capirlo e la mia impazienza di scovare il colpevole e porre una fine a tutto quell'incubo era stata tale dall'avermi portato a spedire in carcere un innocente, vale a dire il mio ex ragazzo, Dylan Walker, che avevo erroneamente reputato l'artefice di tutto.

Era trascorso poco più di un mese dalla conclusione della mia udienza preliminare. Dopo di essa, la polizia distrettuale aveva dovuto riprendere le indagini aprendo una nuova pista, che, grazie ai sospetti che si erano insinuati grazie al lavoro del mio avvocato, vedeva come nuovo indiziato Dylan. A differenza della mia, l'udienza di Dylan non si era conclusa bene: le prove a suo carico erano sembrate sufficienti per arrestarlo, nell'attesa di arrivare al processo.

Avrei dovuto esserne contenta, era ciò che bramavo da quando ci eravamo parlati l'ultima volta, quando mi aveva praticamente aggredita, invece non facevo che trascorrere le mie giornate sentendomi soffocare sempre di più dal senso di colpa. Perché, nonostante la sua natura violenta, gli scatti d'ira, la sua passata relazione con Emily, non era stato lui a ucciderla.

Sembrava impossibile da credere, considerando che ogni pezzo combaciava (il suo DNA sotto le unghia di Emily, la discussione avuta prima che lei scomparisse), eppure al momento era una delle poche certezze che avevo.

Se non l'unica.

Perché non sapevo cos'avesse spinto Herman a uccidere Emily come fosse un animale da caccia, non sapevo perché Tracey avesse deciso di appoggiarlo, non sapevo perché entrambi mi avessero ripetutamente fatto del male, ma sapevo che Dylan era innocente.

E sapevo anche che mi ero comportata da vera stronza con lui. Un'altra volta.

«Prego, appoggi pure la borsa qui.» La voce di una guardia carceraria mi distolse dai miei pensieri, invitandomi ad appoggiare la mia borsa in una cesta che sarebbe poi stata esaminata all'interno di una macchina a raggi x, come quella dei controlli di sicurezza degli aeroporti. Dopodiché passai sotto il metal detector dopo aver ricevuto il segnale apposito dalla guardia e, dopo che la guardia in servizio davanti al computer sul quale venivano proiettati i contenuti della mia borsa si accertò che fosse tutto nella norma, ripresi la borsa e me la misi a tracolla. «Prego, mi segua» disse la guardia in piedi, scortandomi nella stanza addetta alle visite.

Con il cuore in gola, le mani sudate e la pelle d'oca, mi addentrai nella stanza, che emanava esattamente la stessa desolatezza e tristezza che si avvertono nelle scene dei film. Iniziai a cercare Dylan con lo sguardo.

Sembrava così surreale.

Cosa ci faceva Megan Sinclair nel Juvenile Justice Intervention Center di New Orleans, il centro di detenzione minorile dove era stato rinchiuso Dylan? Cosa ci faceva Dylan stesso lì dentro? Avrebbe dovuto essere a scuola, a studiare e allenarsi per la prossima partita di football, a vivere con spensieratezza i suoi sedici anni.

Ma per colpa mia non gli era stato più possibile già da due settimane.

«Mi raccomando: mani bene in vista» mi ripeté un'ultima volta la guardia. Subito fui invasa da una sensazione di inquietudine nell'attraversare la sala. Era spoglia, pareti grigie e insignificanti, una dozzina di tavoli sparsi qua e là tristemente, quattro guardie poste ognuna a un angolo della stanza, e poi lacrime su lacrime: dei detenuti, dei genitori, o dei fratelli e sorelle in visita.

Tentai il più possibile di non farci caso e mi avviai in direzione di Dylan. Era voltato di spalle e si guardava intorno smarrito, quasi come non capisse cosa ci facesse lì. Deglutii e poi mi piazzai davanti a lui, prendendo posto nella sedia di fronte alla sua. Mi lasciai quasi sprofondare, dal momento che quel luogo mi metteva così in suggestione da farmi mancare tutte le forze. Tuttavia, neanche l'essermi seduta mi fu d'aiuto nel momento in cui incrociai lo sguardo di Dylan. Mi si formò subito un groppo in gola nel vederlo dopo più di un mese.

Aveva i capelli notevolmente più lunghi, tanto che i riccioli corvini che erano soliti ricadergli sulla fronte, ora gli incorniciavano tutto il viso. Era anche dimagrito, tanto. Forse troppo. Il volto appariva scavato e pallido. Solo gli occhi sembravano quasi gli stessi di prima. Quasi, perché la radiosità che li contraddistingueva, specialmente quando mi guardava, si era spenta. Mi riconobbi in lui in quel momento: entrambi avevamo gli occhi lucidi, ma lo sguardo era vacuo.

«C-ciao» dissi, ma mi uscì solo un sibilo, mentre lui distolse lo sguardo, posandolo sul tavolino al quale eravamo seduti.

Rimase impassibile, in un primo momento. In seguito lo vidi allargare le narici e serrare i pugni. «Vattene via, Megan» disse con severità, eppure non mi passò inosservato il tremolio delle sue labbra nel momento in cui pronunciò il mio nome.

Ignorai ciò che mi disse e cominciai a parlare a manetta: «Perché all'udienza ti sei dichiarato colpevole? Non avresti dovuto ascoltare il tuo avvocato quando ti ha detto che avresti ottenuto uno sconto della pena, com'è che ti sei praticamente già dato per spacciato? Be', non lo sei! Avresti potuto lottare, anzi, avresti dovuto perché... perché sei innocente. Lo so che non sei stato tu, ora lo so, io ho sbagliato, ma... prima io...»

Mi interruppe prontamente, scaldandosi non poco: «Tu cosa, Megan? Tu hai usato una mia difficoltà personale, ti sei servita di un mio problema grave e l'hai usato contro di me, per distruggermi. È questo il tipo di persona che vuoi essere? Una che sfrutta le debolezze degli altri per ottenere ciò che vuole? Mi fai schifo, Megan. E pensare... e pensare che sei stata la prima e unica ragazza che io abbia mai amato... Ora hai mandato tutto a puttane e hai rovinato la mia vita».

Rimasi in silenzio, senza sapere cosa dire. Aveva ragione. Su ogni punto.

Quindi riprese la parola. «Non te n'è mai importato un bel niente di me, ammettilo.»

«Non è vero, e tu lo sai» ribattei.

Roteò gli occhi e mi rivolse un sorriso di scherno, gelandomi il sangue nelle vene. «Ah no? Guardami, Megan! Guarda cosa mi hai fatto!» esclamò, facendo cenno alla tuta arancione che indossava. Poi ricevette un'occhiataccia dalla guardia posta contro l'angolo della parete a pochi metri da noi, così si ritrovò costretto a moderare il tono della voce. «L'amore non funziona così, Megan. Amarsi significa collaborare, aiutarsi a vicenda, nonostante tutto. Sapevi benissimo che ho un problema, e invece che starmi vicino, darmi il sostegno e il supporto che mi serviva per affrontarlo, come io ho sempre fatto con te, mi hai voltato le spalle. Anzi, peggio. L'hai usato contro di me. E io non potrò mai perdonarti per questo.»

«Dylan, io...»

«Qui abbiamo finito, riportatemi in cella» mi interruppe, facendo cenno alla guardia di avvicinarsi. «Ah, e dica a chiunque sia l'addetto alle visite, che non ho intenzione di vedere Megan Sinclair mai più.»

«D'accordo, ora alzati» ordinò la guardia, afferrando Dylan per un braccio e tirandolo su. Non mi passò affatto inosservata la piccola smorfia che emise a quel contatto. Come non mi passò inosservata la sua andatura lenta e a tratti zoppicante, mentre lo vedevo allontanarsi per ritornare in cella scortato dalla guardia.

Troverò un modo, mi dissi, troverò un modo, Dylan.

•••

New Orleans, e in generale tutta la Louisiana, diventava molto piovosa durante i mesi invernali. Eravamo quasi a metà dicembre, e quella era un'altra giornata uggiosa che, se non altro, si sposava bene con il mio stato d'animo. Ma la pioggia torrenziale non era comunque in grado di distrarmi e di farmi scordare della visita fatta a Dylan.

Il vero uragano ce l'avevo dentro di me, e stava pian piano distruggendo e spazzando via tutto ciò che c'era della vecchia Megan Sinclair, lasciandomi sempre più in frantumi. Prima dell'incontro con Dylan, ero orgogliosa della persona che stavo diventando. Ero più forte, sicura di me, meno manipolabile. Ma solo perché mi ero trasformata in ciò che mi aveva sempre ostacolata: ero diventata io la manipolatrice, che sfruttava le situazioni e le persone per raggiungere i propri scopi.

Come avevo fatto con lui mandandolo in carcere per impedire che ci finissi io.

Certo, ero convinta che fosse stato lui a uccidere Emily, ma crederlo e farlo credere a tutti gli altri mi era anche servito come scappatoia per evitare di essere condannata come era poi successo a lui.

Mi riscossi non appena sentii il cellulare vibrarmi nella tasca dei jeans. Lo tirai fuori e lessi il messaggio: "Al City Park fra mezz'ora va bene?".

Risposi al messaggio e successivamente tirai le chiavi della macchina fuori dalla borsa. Mi diressi verso il parcheggio e salii in auto, avviandomi verso la destinazione stabilita.

Impiegai meno di una decina di minuti ad arrivare, ma approfittai del largo anticipo per fare un giro del parco, nel quale non ero mai stata. Fin da subito constatai che mi piaceva molto, per via della vastità del verde che lo caratterizzava e lo distingueva dal centro della città, pieno di costruzioni. A causa della pioggia non era molto pieno, anzi era quasi del tutto vuoto, se non per qualche coppia che girovagava stando abbracciata sotto l'ombrello. 

Praticamente ogni dieci o venti passi si poteva trovare una statua, una scultura o una fontana. Erano davvero tante e di ogni tipo: vi era un cavallo formato da tanti tronchi di albero intrecciati e incastrati fra loro, la scultura di una catena umana in verticale, che si estendeva verso l'alto per almeno una quindicina di metri, una sagoma umana formata da tante lettere dell'alfabeto unite fra di loro, la statua di una donna che suonava un flauto traverso, un'altra che tendeva l'arco e la freccia, e tante altre.

Dopodiché individuai il piccolo ponte dove mi aveva detto di incontrarci. Il ponte ad arco, di pietra, attraversava il lago Pontchartrain, che avevo già visto qualche mese prima al Bayou St. John.

Mi appoggiai al bordo del ponte, godendomi la vista di qualche piccolo anatroccolo che seguiva la madre dentro l'acqua.

A un certo punto sentii la pioggia smettere di picchiettarmi sul cappuccio del giubbotto e di conseguenza sollevai lo sguardo, credendo avesse finalmente smesso di piovere. Invece era solo un ombrello che adesso aleggiava sopra la mia testa. A sorreggerlo, a meno di un metro da me, si trovava David.

Sussultai nel vederlo, ma la mia reazione non aveva niente a che fare con lo spavento.

Trascorremmo qualche istante in silenzio, a guardarci, o meglio, ammirarci a vicenda. Sembravano passati secoli. Entrambi avevamo cambiato acconciatura. Io avevo deciso di lasciarmi crescere i capelli e mi ero fatta la frangia, lui invece li aveva accorciati, specie ai lati.

Fu lui il primo a parlare. «Non hai mai risposto ai miei messaggi, per più di un mese. Perché oggi sì?» chiese.

Mi era mancato da impazzire il suono della sua voce, anche se con quel tono arrogante e inquisitore. Ma in fondo era il suo tono il più delle volte.

Scrollai le spalle. «È più importante sapere questo o è più importante parlare?»

Roteò gli occhi indispettito. «Quindi è questo? Vuoi parlare?» Emise uno dei suoi soliti ghigni sprezzanti.

«Non è quello che vuoi tu?»

«Infatti. E dopo l'udienza ho cercato il modo di farlo, senza pressarti troppo, ma limitandomi a scriverti un messaggio al giorno, per trentasei giorni, senza mai ricevere risposta. Tu invece sei rimasta coerente con la tua decisione, fino ad adesso. Quindi perché?»

Non ne potevo più di tutte quelle domande. Forse perché la risposta non la sapevo nemmeno io. 

Ero convinta delle parole che gli avevo rivolto l'ultima volta che ci eravamo parlati all'udienza. «L'udienza è conclusa. Io non avrò più bisogno dell'aiuto di tuo padre. E noi non ci vedremo più» gli avevo detto.

Sì, gliel'avevo detto perché ero ferita e impaurita dall'idea di ricevere un altro rifiuto, ma col passare del tempo mi ero anche resa conto che, in un periodo in cui non facevo che commettere sbagli, quella era stata l'unica scelta giusta che avevo fatto. Lui aveva ventidue anni e io sedici. Inoltre avevo già troppi problemi, non avevo bisogno di sommarne un altro. E poi ero rotta. Stare da sola era ciò che più mi sarebbe servito per guarire.

Fino a quel momento ero stata fermamente convinta di quella mia decisione, infatti ero riuscita ad avere la forza di non rispondere mai a nessuno dei suoi messaggi e resistere alla tentazione di recarmi a casa dell'avvocato Finnston insieme ai miei nella speranza di incontrarlo. Avevo resistito per più di un mese, ma mi era bastato guardarlo negli occhi per un singolo istante affinché le mie convinzioni cominciassero a vacillare.

Dal momento che non lo degnai di una risposta, David prese ancora una volta la parola. «Pensavo che quando mi avevi detto quella cosa, non la pensassi davvero, che volessi solo farmela pesare per ciò che ti avevo detto la settimana prima. Poi però hai continuato a non reagire, nonostante io mi fossi rimangiato tutto. Ed è lì che ho capito il reale motivo per cui non mi rispondessi. E sono certo che l'abbia capito anche tu: io non ti piaccio davvero. Ti ho salvato la vita, e questo ha fatto sì che tu abbia iniziato a vedermi sotto un'altra luce. Ma stavi soltanto confondendo la gratitudine che provi verso di me con qualcos'altro. E questo è anche merito dello stato in cui ti trovavi per via del trauma che hai subìto: ti ha resa vulnerabile, confusa e anche facilmente condizionabile.»

Scossi la testa, pronta a fargli cambiare idea. «Non è così» fu l'unica cosa che riuscii a dire. Avevo come un blocco. Avevo le parole pronte sulla punta della lingua, ma non riuscivo a farle uscire. O forse non volevo farle uscire. Avevo paura di farlo. Paura di un altro rifiuto.

Eppure, non appena incrociai nuovamente il suo sguardo, mi sentii come l'acqua che viene risucchiata dentro il buco del lavello quando si toglie il tappo, e ripresi a parlare apertamente: «È vero, ero vulnerabile, confusa e facilmente condizionabile, ma adesso non lo sono più. E anche quando lo ero, non ho mai confuso i sentimenti che provo per te. Se così fosse, a quest'ora sarebbero già svaniti».

E, sebbene prima di quell'incontro credevo che i miei sentimenti per David si fossero pian piano dissolsi col passare dei giorni, in quel momento capii che non se n'erano mai andati, ma erano soltanto stati tappati. Da me.

David emise uno dei soliti ghigni divertiti, che si spense poco dopo. Mi sfiorò la guancia con la punta delle dita, procurandomi brividi ovunque. Il suo sguardo era triste, deluso, amareggiato. Se prima erano tutte scuse per respingermi quelle che si inventava, in quel momento capii che pensava davvero quanto mi aveva detto. E la cosa sembrava ferirlo.

Prima che ritraesse la mano, appoggiai la mia sulla sua, mentre l'altra la posai a mia volta sulla sua guancia.

«So quello che provo» affermai decisa.

«Come sapevi quello che provavi con Dylan?» chiese, con tono quasi infastidito, ritraendosi.

«È grazie a te se ho imparato cosa significhi davvero provare qualcosa di autentico per qualcuno. È vero, su Dylan mi ero sbagliata, ma ora non farò più quell'errore.» Feci una piccola pausa e un profondo respiro, per prepararmi ad aprirgli il mio cuore ancora una volta. Smise persino di importarmi l'idea di un altro rifiuto, che fino ad allora mi aveva frenata. «Tu una volta hai detto che è un insieme di piccole cose e io so quali sono quelle che mi piacciono di te. Mi piace che sei determinato, ambizioso e che non ti fermi mai davanti a nulla, che difendi a spada tratta ciò in cui credi. Mi piace sentirti parlare delle cose che ti appassionano, resterei ad ascoltarti interessata anche se dovessi ripetermi a memoria la nostra Costituzione o il codice di diritto tributario oppure quello di diritto amministrativo, perché ti brillano gli occhi quando parli dei tuoi studi. Mi piace non conoscere quasi niente di te perché sei riservato, perché poi è ancora più bello quando decidi di aprirti con me. Mi piace anche quel tuo fastidiosissimo ghigno, che ogni volta spunta sul tuo viso per un motivo diverso: a volte perché sei divertito, altre perché sei in imbarazzo, altre perché sei nervoso, altre perché sei compiaciuto, allegro o che ne so. Mi piaci perché sei maturo, intelligente e arguto più di chiunque altro io conosca, mi piaci perché, sebbene io sia un libro aperto, sei tu l'unico che riesca davvero a leggermi. Ma c'è una cosa che detesto di te, ed è il fatto che tu sia così tanto razionale da non permettere mai ai tuoi veri sentimenti di venire fuori, e...»

«Maggie, io non ce la faccio più» mi interruppe David, chiudendo l'ombrello che teneva in mano per proteggerci dalla pioggia e gettandolo a terra, prima di fiondarsi con impeto sulle mie labbra.

Dopo qualche secondo in cui feci fatica a realizzare ciò che stesse davvero accadendo, gli avvolsi le mani intorno alla nuca, mentre lui mi attirò a sé afferrandomi per i fianchi. Fuori faceva freddo, specie perché eravamo entrambi bagnati fradici a causa della pioggia, eppure dentro mi sentivo avvampare. Spostai lentamente le mani dalla sua nuca alle sue spalle, mentre lui ne portò una sulla mia guancia, carezzandola con leggerezza con il pollice. Le nostre lingue si rincorsero a lungo alternando un ritmo lento e sensuale ad uno più deciso e impetuoso, finché, a malincuore, non fummo costretti a separarci per riprendere fiato. Mantenne la mano sulla mia guancia, dandomi poi un piccolo buffetto e sorridendo.

«Non ce la facevo più» ripeté, avvicinandosi quel poco che bastava per far toccare le nostre fronti.

«Tu non ce la facevi più?»

«Be', tu non hai mai nascosto nulla. Io ho dovuto tenermelo dentro per tutto questo tempo» rispose, prima di prendermi una mano e lasciando un piccolo bacio sul dorso.

Sorrisi, ma sorrisi davvero. Come accadeva ormai sempre più raramente dalla morte di Emily.

Ancora non riuscivo a credere a ciò che era appena successo.

Poi mi tornò in mente il vero motivo per cui avevo acconsentito a vederlo, così mi distanziai un po' per potergli parlare guardandolo bene negli occhi.

«Io avrei un favore da chiederti» ammisi, e il mio sguardo sembrò preoccuparlo notevolmente: «Che è successo?» chiese.

Scossi la testa. «No, niente. Non a me, almeno. Ma ho bisogno che tu mi faccia un piacere.» Non appena fui sicura di avere la sua completa attenzione, sganciai la bomba: «Devi convincere tuo padre a prendere Dylan come suo cliente».

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Thriller / Vai alla pagina dell'autore: Imperfectworld01