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Autore: Relie Diadamat    12/12/2020    2 recensioni
[Johnlock| Post s4 | Fluff e Daddy Holmes che non sa farsi i fatti suoi]
Natale è alle porte. Mr Holmes chiede a Mycroft di velocizzare le pratiche per l'adozione di Rosie.
Questo porta scompiglio nelle vite di Sherlock e John - o, per meglio dire, ad una dolcissima svolta.
Dal testo:
«Quindi mi stai gentilmente chiedendo di intercedere con tutta quella burocrazia che rallenta le pratiche di adozione. Hai mai preso in considerazione che questo tuo pregevole pensiero possa non esser benaccetto?»
Sigel Holmes sgranò gli occhi azzurri. «Perché mai non dovrebbero accettare una cosa del genere?»
«Il motivo mi appare evidente.» Mycroft si aprì in un piccolo sorrisetto forzato, le dita a sfiorarsi gli angoli della bocca sottile.
«Tanto per cominciare, papà, quei due non sono una coppia».
Mr. Holmes – come in ogni commedia americana di serie b che si rispetti – fu costretto ad aggrapparsi alla sedia di legno, mettendosi a sedere di fronte al figlio con cautela. La mano destra gli volò al papillon rosso, quasi si sentisse soffocare, e mentre il suo cuore si distruggeva in mille pezzi soffiò le uniche parole che trovò nel palato improvvisamente asciutto: «Oh, buon cielo. E perché mai?»
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mr Holmes, Mycroft Holmes, Rosamund Mary Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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A Causa Del Tè 





Il fumo galleggiava in aria come una nuvola calda, portandosi dietro l’odore fruttato del tè nella teiera di porcellana, quando Mr. Holmes pronunciò la sentenza che avrebbe stravolto, da lì a poco, la vita del suo ultimogenito, del rispettabile dottor Watson e della piccola, innocente e graziosa Rosie – la luce dei suoi occhi, il latte nel suo Earl Grey, il puntale a forma di stella sull’albero:   «Dovresti fare qualcosa, Mycroft».
Il sottile e curato sopracciglio del maggiore degli Holmes si arcuò verso l’alto, lo sguardo composto e indecifrabile rivolto al viso glabro del padre. «In merito a cosa, questa volta?»
Mr. Holmes si versò del tè fumante nella tazzina dinanzi a sé, con un fare impacciato che lo aveva sempre contraddistinto dal perfezionismo della moglie. Qualche goccia ambrata cadde sul panno bianco, ma nessuno dei due sembrò farci caso. «Natale è quasi alle porte, si tratta solo di una settimana. Non bisognerebbe mai procrastinare quando si tratta di regali, ma trovare qualcosa che calzi a pennello per un Holmes non è di certo una passeggiata e-».
«Quindi mi stai gentilmente chiedendo di intercedere con tutta quella burocrazia che rallenta le pratiche di adozione.» Mycroft si passò la mano gelida sulla fronte, come se da lì a qualche minuto avesse dovuto affrontare una conferenza che avrebbe determinato le sorti dell’intera nazione. «Hai mai preso in considerazione che questo tuo pregevole pensiero possa non esser benaccetto?»
Sigel Holmes sgranò gli occhi azzurri. «Perché mai non dovrebbero accettare una cosa del genere?»
«Il motivo mi appare evidente.» Mycroft si aprì in un piccolo sorrisetto forzato, le dita a sfiorarsi gli angoli della bocca sottile.
Ma a Mr. Holmes non era evidente per niente: i sorrisi genuini di Rosie rischiaravano le loro vite da ben quattro anni. Quattro anni passati sotto il tetto del 221b di Baker Street con una routine che era tutto un programma, quattro anni di Halloween bizzarri, foto ricordo particolari, pranzi di Natale intorno alla tavolata di casa Holmes e nuovi casi trascritti sul blog. Cosa ci sarebbe stato di sbagliato nel voler rendere burocraticamente ufficiale la loro famiglia?
Sigel ne aveva bisogno. Necessitava di poter comprare i grandi classici e regalarli alla sua adorata nipotina, pagare una parte delle spese del college e affermare commosso al tizio seduto al suo fianco “Quella è mia nipote”, nel momento della sua laurea. Avrebbe applaudito fiero di lei quando Rosie avesse pubblicato il suo primo romanzo.
L’uomo stava ancora sognando ad occhi aperti quando domandò a suo figlio: «Quale sarebbe?»
«Tanto per cominciare, papà, quei due non sono una coppia».
Quella notizia arrivò come un fulmine a ciel sereno. Mr. Holmes – come in ogni commedia americana di serie b che si rispetti – fu costretto ad aggrapparsi alla sedia di legno, mettendosi a sedere di fronte al figlio con cautela. La mano destra gli volò al papillon rosso, quasi si sentisse soffocare, e mentre il suo cuore si distruggeva in mille pezzi soffiò le uniche parole che trovò nel palato improvvisamente asciutto: «Oh, buon cielo. E perché mai?»
Quel piccolo particolare rovinava tutto, caspiterina!
Avrebbe dovuto dire addio al costume da Babbo Natale che aveva comprato con tanto entusiasmo, pregustandosi la felicità genuina che avrebbe letto nei bellissimi occhi di Rosie la mattina di Natale, lasciandolo a marcire nello sgabuzzino finché quei due capoccioni idioti non avessero aperto gli occhi, schiaffandosi una mano sulla fronte, per esclamare in coro “Ma certo, sei tu! Sei sempre stato tu!”. E mancava solo una settimana a Natale. UNA SETTIMANA.
No, no, no.
Rosie quel Natale sarebbe stata ufficialmente sua nipote, il caso era chiuso. John e Sherlock dovevano farsene una ragione: avevano bisogno l’uno dell’altro per vivere serenamente; condividevano lo stesso tetto con quella meravigliosa creatura da ben quattro anni, ormai. Cosa li faceva rimanere ancorati nell’insicurezza e nella paura di esplicitare tutti i sentimenti che si portavano dentro?
Vediamo un po’ caro. Forse, in cima alla lista, potrebbe esserci  il fantasma di Mary. Senza contare il ritrovamento di Eurus e la consapevolezza della perdita di Victor. Gli ricordò la voce intelligente e premurosa di sua moglie. Santa donna, aveva sempre ragione.
Ma il passato era passato e tale doveva rimanere. Quei due avrebbero dovuto accantonare i fantasmi del loro passato in un angolo del loro cervello, chiudere la porta di quella stanza immaginaria con più mandate e affidare la chiave nelle mani dell’altro. È così che funziona, si ripeteva Sigel. È così che si inizia ad andare avanti.
Erano le cinque di un qualsiasi pomeriggio di Dicembre. Fuori dalla confortevole casa Holmes, la neve imperava maestosa col suo bianco gelido, preannunciando l’avvento sempre più prossimo della Vigilia. Sul tavolo, il tè riposava ancora fumante nella teiera di porcellana e nelle tazzine cobalto. Erano le cinque di un qualsiasi pomeriggio di Dicembre, quando Mr. Holmes si schiarì la voce, puntando le proprie  iridi cerulee in quelle penetranti e argute del suo primogenito. «Dobbiamo assolutamente fare qualcosa, Mycroft».
Divertito, il Governo Inglese si lasciò sfuggire una breve risatina. «Cosa possiamo fare?» chiese retorico. «Li rinchiudiamo in una stanza finché non faranno il grande passo?»
Mr. Holmes non aveva pensato ad una cosa del genere, ma la strana luce che lesse nel suo sguardo sembrò mettere in allarme Mycroft. Quella volta, fu il suo turno di implorare. «Oh buon cielo».






**






Sarebbe stata la nottata più lunga della sua vita.
Era questa la frase che si ripeteva senza sosta nella mente di John da quando era uscito di casa – ovvero, un bel po’ di orette addietro -, piegandolo ad un’emicrania terribile. Rosie, gli occhi azzurri incantati dal mantello di neve che ricopriva la città, sembrava non averlo notato.
È solo una bambina, come avrebbe potuto?
 



Lei non è come tutte le altre bambine, John.
Lei è speciale.



 
Arricciò le labbra screpolate dal freddo in un sorriso, carezzando con dolcezza il dorso liscio della piccola mano di sua figlia che stringeva nella propria, pensando che – come sempre – Mary aveva ragione. O meglio, la Mary che si ostinava a rispuntare ogni tanto nella sua mente; la Mary del loro primo incontro, la Mary a cui aveva raccontato di Sherlock e del vuoto che aveva lasciato nella propria vita; la Mary che rideva di cuore e non come un’assassina. La Mary che forse desiderava sposare davvero, la Mary migliore.
La Mary che compariva tutte le volte che lui e Sherlock si allontanavano. La stessa Mary che rivedeva nei boccoli dorati di Rosie. John li osservò distrattamente, come richiamato dai quei pensieri, arrivando alla conclusione che la piccola Watson avesse ereditato il meglio dai suoi genitori: i capelli perfetti e l’intelligenza di sua madre; la pazienza e le iridi chiare di suo padre… E infine aveva assimilato tanti altri comportamenti tipici né di John, né di Mary.
Rosie era una bambina riflessiva, affamata di curiosità, innamorata dell’ignoto. Amava il suono che un archetto mosso con sapienza poteva provocare a contatto con le corde di un violino – il violino di Chellock, come ormai era stato soprannominato da sua figlia; osservava con vivido interesse i volumi ammucchiati sugli scaffali del salotto, tentando di raggiungerli con la punta delle dita, allungando il braccio esile il più possibile, finché uno dei due uomini la notava.
John avrebbe potuto negarlo fino allo sfinimento, ma in Rosie c’era anche molto di Sherlock. La parte che amava di più. E in tutta franchezza, al dottor Watson non dispiaceva per niente.
Esattamente come neve al sole, quella piccola ammissione si sciolse nel suo cervello una volta varcato il portone del 221b. Dal piano superiore provenivano rumori terrificanti – manco si trattasse del leggendario incontro tra “La Sposa” e O-Ren! – e John dovette prendere un bel respiro per calmare la rabbia nascente.
Erano passati ormai giorni dalla visita inaspettata di Mycroft Holmes nella loro umile e risaputa dimora, dalla prima lite e dalla guerra del silenzio. Tutto per uno stupidissimo pezzo di carta da firmare.
Mycroft l’aveva mostrato ai due chiamandolo “un regalo di Natale in anticipo”. E che bel regalo!
Che fosse ben chiaro: John non aveva nulla in contrario nel rendere Sherlock ufficialmente papà di Rosie, ma… l’idea non gli era mai passata neanche per l’anticamera del cervello. Vivevano insieme, sotto lo stesso tetto, e a John bastava così.



Ti preoccupi che possa sentirmi rimpiazzata.
 




E sì, anche quella volta, la Mary immaginaria aveva ragione.
Ma comunque non era stato questo particolare a scatenare il pandemonio, nossignore: Mr. Holmes aveva già pensato a tutto, stando alle parole di Mycroft. Aveva già deciso cosa Rosie sarebbe diventata, le scuole che avrebbe frequentato e i voti che avrebbe avuto.
“Non mi va che mia figlia venga plagiata in questo modo. Non voglio che impazzisca al punto da dare fuoco alla casa”, aveva contestato irritato dopo che Mycroft avesse tolto il disturbo, mordendosi la lingua solo in un secondo momento, comprendendo di essere andato troppo oltre. Che Eurus era una ferita ancora aperta.
La risposta di Sherlock era arrivata alle sue orecchie più pungente di quanto non fosse. “No, certo. Tu preferiresti vederla alcolizzata”.
E poi avevano cominciato ad urlare, senza pensare a Rosie. Senza accorgersi che la bambina si era nascosta sui gradini che portavano alla stanza del padre, rannicchiandosi come una gattina infreddolita e spaventata.
I giorni erano passati, ma la situazione non era migliorata: entrambi si erano rinchiusi in un silenzio infantile, limitandosi a rispondere alle domande laconiche dell’altro – quelle rare volte che si rivolgevano domande laconiche – con semplici monosillabi. Sherlock l’aveva così estromesso da ogni caso e John aveva finto di non importarsene.
Ma accidenti, se gliene importava!
Quei rumori erano più fastidiosi di uno sciame di un milioni di api lasciate libere di scorrazzare in una stanza chiusa.



 
O fastidiosi come l’idea che lui non ti abbia voluto al suo fianco.
 



Inspirò ed espirò. Dedicò un sorriso poco convinto alla piccola Rosie, cedendola alle amorevoli cure di Mrs. Hudson che intanto era sbucata dal suo appartamento, andandogli incontro. John aveva rassicurato entrambe, promettendo alla bambina: «Papà torna subito».
Effettivamente non sapeva cosa avrebbe trovato una volta entrato in salotto, ma lo spettacolo che le sue pupille incredule catturarono all’istante lo lasciarono senza parole. Letteralmente.
Accanto alle poltrone – le loro poltrone – riposava abbandonato un materasso e le lenzuola che lo coprivano; su di esso, pezzi di legno giacevano disordinati come legna accatastata fuori dall’abitazione rustica di un vecchio burbero di montagna. Sherlock comparve nel quadretto trascinando l’ennesimo rettangolo ligneo che John riconobbe come la spalliera del letto del consulente.
«Cosa. Diamine. Stai. Facendo. Per amor del cielo!» boccheggiò, seriamente in difficoltà. Che si fosse drogato ancora?




Lo sai benissimo che ha smesso per Rosie.



Sherlock, i ricci castani in disordine, non lo degnò neanche di uno sguardo. «Te l’avevo detto. Rosie ha dormito nel mio letto, l’altro giorno».


Questa poi!



John l’aveva quasi dimenticato. Prima che uscisse per andare a lavoro, la figura allampanata di Sherlock aveva fatto la sua comparsa in cucina, attendendo al tavolo la sua quotidiana tazza di tè. John l’avrebbe volentieri preso a pugni, ma le abitudini restano abitudini, e quindi lo aveva servito come ogni mattina.
L’altro l’aveva fissato per un po’, mandato giù qualche sorso, e poi aveva esordito con un: “Rosie si è addormentata nel mio letto, la scorsa notte.”
“Stai tranquillo. Farò in modo che non succederà più”, era stata la replica piccata di John, prima che decidesse di andarsene lasciando Sherlock solo col suo tè.
Adesso che si ritrovavano entrambi in salotto, col vecchio letto di Sherlock ormai ridotto in un cumulo di rifiuti, John pensò di sentirsi come la neve calpestata per strada. Lo aveva ferito, e molto.
Quel gesto, quell’allontanare Rosie dal suo mondo, non poteva accettarlo. Era la cosa peggiore che Sherlock potesse fargli, prima tra tutte nell’elenco delle pugnalate che gli aveva inferto. Per certi versi, era perfino peggio di quel dannato salto dal tetto del Bart’s.
Deglutì il dispiacere, incrociando le braccia al petto. «Cambiare le lenzuola non sarebbe stato sufficiente?»
Il disprezzo con cui il coinquilino aveva formulato quella domanda costrinse Sherlock a voltarsi. «No, John», gli rispose. «Non era abbastanza».
«Certo. Bell’antifona, Sherlock».
Holmes corrugò le sopracciglia folte, ergendosi in tutta la sua altezza. «In quel letto» cominciò indicando l’ammasso di roba, «c’è stata La Donna. Talvolta mi sembra ancora di sentire il suo profumo. Poi c’è stato lui, mentre tentavo di capire se si fosse realmente fatto saltare il cervello oppure no. Ma l’altra notte, è stata Rosie ad addormentarsi in questo letto. Questo letto, John! Proprio questo letto, John. Non m’importa cosa deciderà di diventare: se sceglierà la triste arte della scrittura o se si dedicherà nel campo della chimica. Se vuoi che Rosie non frequenti una scuola privata, a me sta bene, ma sappi che non me ne starò in disparte quando un suo compagno di classe diventerà un nostro cliente. Non resterò a guardare da lontano mentre un criminale tenta di intrappolarla. Lei sarà anche una ragazzina intelligente, ma un contesto emotivo rimane un contesto emotivo, John. E di certo non le permetterò di dormire nello stesso letto in cui hanno dormito degli assassini e-»
Blablabla.
Ormai lo sproloquio di Sherlock era passato in secondo piano. L’uomo parlava con la stessa intensità di una centrifuga al massimo della velocità, mentre John finalmente vedeva. Vedeva se stesso seduto sul letto di una squallida pensione, mentre il pensiero di puntarsi una pistola alla tempia era diventato un caro amico da cui non riusciva a separarsi; vedeva Mike Stamford riconoscerlo nel parco e condurlo nel laboratorio del Bart’s; vedeva un ragazzo solitario e saccente con una mente straordinaria che gli proponeva di divedere l’affitto; vedeva il salotto del 221b di Baker Street, Lestrade, la donna vestita di rosa, il colpo secco sparato dalla finestra del palazzo sbagliato. Vedeva il terrore negli occhi di Sherlock nel crederlo Moriarty; vedeva entrambi seduti sullo stesso divano a Buckingham Palace; mille e più flash dal misterioso mastino di Baskerville fino alla macchia di omogeneizzato sulla camicia di uno Sherlock alle prese con una piccola Rosie in lacrime, mentre John rincasava. Vedeva la prima volta che le aveva sussurrato una ninnananna, per poi giustificarsi con la scusa che tanto non sarebbe riuscito lo stesso a chiudere occhio. Vedeva tutto con una nitidezza impressionante, chiedendosi come avesse fatto, in tutti quegli anni, a non vedere.
Sherlock parlava ancora quando John cominciò ad avanzare verso di lui, poggiandogli le mani sulle braccia. La pelle del detective sembrò vibrare a quel tocco.  «Che cosa fai?»
E quelli erano tutti i loro ostacoli. Quel freno a mano tirato continuamente. Quel piccolo brivido, seguito da quella piccola domanda, era il fantasma di Mary che albergava ancora nelle loro vite, era la consapevolezza costante dell’esistenza di una sorella impazzita per la solitudine e per le mancate attenzioni. Era Victor Trevor, il salto giù dal Bart’s e la droga.
Ma soprattutto era il rifiuto di un sentimento che entrambi non avrebbero mai superato. Erano quelle tre magiche parole che nessuno dei due aveva mai avuto il coraggio di pronunciare.
«Potresti, per una volta, fare a modo mio?»  Un angolo della bocca di John si sollevò verso l’alto, come l’accenno di un sorriso, mentre i suoi occhi scivolarono sulle labbra piene dell’altro.
Sherlock si era congelato, a quel contatto, ma quando finalmente il suo fidato blogger si sporse verso di lui, annullando ogni distanza, i muscoli del suo corpo parvero rilassarsi. Fu delicato, lento e veloce.
Fu terrificante per un solo attimo e poi diventò la cosa più giusta. Senza neanche accorgersene, Sherlock risalì la schiena di John con i palmi gelidi delle proprie mani, fermandosi sulla mandibola per poi veder sparire le dita tra i capelli dell’altro. C’era urgenza, c’era delicatezza. In quel momento Sherlock sarebbe rimasto volentieri per tutta la vita.
Fu John a separare le loro bocche, solo per sussurrargli una frase ancora più perfetta del suo sapore. «Firma quel dannato pezzo di carta, Sherlock».
Una promessa. «Lo farò.»
«E, per favore, ripulisci questo disastro».





 
**




La teiera fischiò sul fornello e dalla finestra la piccola Rosie poté vedere i fiocchi di neve fluttuare nel vento. Suo padre le aveva detto che quell’inverno sarebbe stato il più freddo che avesse mai ricordato. Rosie aveva sorriso entusiasta, battendo le mani. Amava la neve, l’amava quasi di più delle fiamme calde e vivaci nel camino del loro salotto.
«Ed ecco qui i biscotti, mia cara.» Mrs. Hudson aveva poggiato un piattino stracolmo di dolcetti sul tavolo, offrendoli con un sorriso affabile alla piccola Watson. Rosie aveva accettato l’offerta volentieri, addentandone uno con gusto.
«Me la racconti una storia?» Rosie aveva aspettato che la donna si versasse del latte nel suo tè e che avesse preso posto di fronte a lei, prima di specificare. «La storia di papà e di Sherlock».
Martha si aprì in un caldo sorriso. «Oh, tesorino mio. Come prima cosa, lascia che ti dica che io l’avevo sempre saputo che sarebbe finita in questa maniera…»





 
Questa storia è vecchissima. 
Mi son detta che non poteva restare nel pc a fare la muffa, quindi... eccola qui.
L'avevo scritta anni fa, per un evento natalizio di un gruppo fb "Aspettando Sherlock".
Non ricordo più il nome della ragazza a cui appartiene il prompt su cui si basa la storia - appena lo saprò, verrà citata, come giusto che sia.
Prompt: (Post s4, Johnlock) Daddy Holmes stravede per la sua nipotina Rosie, e come regalo di natale, chiede a Mycroft di velocizzare le pratiche per l'adozione per far diventare Sherlock ufficialmente il suo papa. In realtà le pratiche non esistono perché Sherlock è John non stanno ancora insieme; ma sarà questo a permettergli di fare il grande passo. 

Grazie per essere arrivati fin qui!
   
 
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