Raccontino
“lampo” che m’è venuto in
mente osservando le cime
innevate dalla finestra.
Per la
precisione: per “tedeschi” s’intendeva
all’epoca di questa
storia gli “imperiali”, ossia tutti i sudditi del
SRI. Ai potenziali lettori germanofili: il comportamento degli imperiali nel seguente racconto NON è frutto della mia fantasia, né di generalizzazioni da fiction di bassa lega dove "tedeschi = unni" perché? Perché in Cadore i "todeschi" si comportarono proprio da Unni, le cronache del Sanudo sono lapidarie a riguardo. Ricordiamo inoltre che Sanudo non indorava mai la pillola e le testimonianze che raccoglieva erano dirette, provenienti dalle lettere e rapporti che i capitani e provveditori inviavano alla Signoria.
V’auguro
una buona lettura,
H.
*************************************************************************************************************
Homo homini lupus
Val
di Zoldo, tra il 29 febbraio e il 1 marzo 1508
I.
Vittore
spazzava la neve mentre i compagni spingevano i buoi per sgomberare
la strada all’esercito, il viso bruciante dalle sferzate
della tormenta e dal
ricordo della casa in fiamme.
“Prendete
il Passo Cibiana: è nascosto, veloce, li sorprenderete
alle spalle!”
Allora il
Generale, compiaciuto, così aveva arringato i soldati:
“Mai
arretrare, nessun prigioniero; una testa, un ducato!”
Anche
Vittore avrebbe decollato qualche imperiale e non solo per
danaro. Questi diavoli incarnati gli avevano tolto la moglie e la roba, ma
il Dio
dei Poveri l’avrebbe risarcito. Dammi la loro vita, pregava,
dammi
un’Enrosadira di sangue.
Il Boite,
infine, e poi Venas: li stavano raggiungendo.
II.
Una volta
c’era un lupo.
Ogni
inverno stragi di pecore e pollame, di boscaioli e minatori,
cercava prede facili, indifese. Vittore ancora sognava quei corpi
mangiucchiati,
gli occhi vitrei, atterriti, supplicanti il Padreterno.
Un
giorno, mentre stava legando alcuni tronchi d’albero alla
slitta, legname per la Signoria, il lupo l’attaccò
all’improvviso. Rapidissimo Vittore
indietreggiò voltandosi, il morente sole vespertino oscurato
dall’ombra di tal
creatura infernale, che balzando a fauci spalancate puntava alla sua
gola.
“Dio
soccorso!” gridò, protendendo di riflesso il
bastone contro la
bestia, confidando nella forza dei suoi vent’anni.
“Non oggi, Signore!”
Tai
di Cadore, 2 marzo 1508
III.
Tetti di
paglia in fiamme e tanfo di carne bruciata: incominciava
la battaglia improvvisata.
Accerchiati,
gli invasori si strinsero in formazione: vincere o
morire, nessuna via di fuga. I Veneziani l’assediarono
impetuosi, pressando da
ogni lato onde sfondare il quadrilatero. I denti ben in mostra,
l’alito caldo
sui rispettivi volti, ringhiando, infilzando e fendendo, colava il
sangue bollente
sulla neve unendosi all’acqua del Rusecco.
Il
Comandante nemico si gettò temerario sull’Alfiere,
lo ferì al
viso, rubandogli un urlo di dolore e rabbia. Sorrise
all’umiliazione
dell’italiano, incurante della pericolosa vicinanza.
“Sulla mia vita, non avrai
il vessillo!”, contraccambiò l’Alfiere,
affondando la picca nel collo del
tedesco. Cadde disarcionato l’avversario nella rossastra
fanghiglia in un sinistro
scricchiolio d’ossa ed armatura.
Un guaito
acutissimo sovrastò il rimbombo delle schioppettate e il
digrignare di lance: senza il loro Comandante, una folle paura aveva
sconvolto gli
imperiali. Allo sbaraglio ruppero la formazione, scapparono, si
dispersero e
se n’approfittò il nemico, braccandoli
animalescamente.
In
ginocchio i Tedeschi implorarono pietà ai sordi Veneziani.
Gocciolanti
teste spiccate esibite a trofeo; cadaveri depredati; artiglierie
incamerate: un’atroce pugna lunga un’ora
d’inferno.
Pochi
fortunati scamparono a quel mattatoio.
IV.
Vittore
non sentiva né fame né stanchezza,
dall’infanzia rotto ad
ogni fatica, specie camminare per ore affondando nella neve alta.
Poteva quasi
annusare l’odore della preda: polvere da sparo, sudore misto
a paura.
Cacciava
sicuro nel suo territorio.
Il lupo
da lui stordito gli era scappato, rifugiandosi ferito nella
foresta. Il cadorino allora l’aveva inseguito per
infliggergli il colpo di
grazia, la ruvida pelliccia un degno dono di nozze per la sua donna.
Similmente,
i fuggiaschi stavano tentando di ricongiungersi al
grosso dell’esercito imperiale, ma per farlo dovevano
attraversare il Zoldano
o la Piave. Alcuni nell’impresa morirono assiderati; altri
annegarono nel
vorticoso e indomito fiume. Altri ...
“Trovato,
bestia!”
Vittore
calò la scure: uomo o lupo, sempre rosso sgorgava il
sangue.
Pieve
di Cadore, 4 marzo 1508
V.
“Cate!”
“Marito!”
“Torniamocene
a Selva. È finita.”
Tre ore
per riprendersi il Castello. Vittore non aveva recuperato
la sua roba, ma Deo gratias! sua moglie sì.
Pazienza.
Una
testa, un ducato. Vittore ne possedeva ora a sufficienza per
risarcirsi di ogni torto.
-
FINE
–
************************************************************************************************
Le
vicende qui narrate sono gli episodi salienti della Guerra del
Cadore, culminante il 2 marzo 1508 con la battaglia Tai di Cadore (o
Rusecco se
si considera il torrente) e l’espugnazione del Castello di
Pieve di Cadore il 4
marzo 1508, previamente occupato dalle truppe imperiali.
Bartolomeo
d'Alviano (il Generale) assieme ad altri condottieri e
provveditori guidò alla vittoria le truppe veneziane contro
quelle tedesche di
Sixt von Trautson (il Comandante), ucciso a singolar tenzone da Rinieri
della
Sassetta (l’Alfiere), condottiero e vessillifero. Fu una
battaglia
“improvvisata” perché degli stradioti,
contravvenendo all’ordine dell’Alviano,
avevano appiccato il fuoco ad alcune capanne di paglia a Tai, dove
s’erano
rifugiati dei soldati tedeschi. Scoperti, i veneziani ingaggiarono
battaglia
prima che gli imperiali trovassero una via di fuga.
La
battaglia di Tai / Rusecco arrestò definitivamente
l'invasione
tedesca nel Cadore, iniziata il 20 febbraio 1508, permettendo ai
veneziani sia
la riconquista di tutte le piazzeforti perdute sia
l’estensione dei propri
domini nel resto
della Val di Grestra,
Gorizia, Cividale, Cormons, il triestino e Fiume, in
un’imprevista contromossa
d’invasione, costringendo Massimiliano d’Asburgo a
rinunciare a quei suoi
territori in un umiliante trattato di pace – proprio lui che
voleva umiliare
Venezia per avergli negato ogni supporto contro la Francia
nonché di transitare
nei suoi territori per scendere a Roma. Ad aggiungere
l’insulto all’ingiuria,
Massimiliano dovette rinunciare, oltre alle sue terre e alle sue mire
espansionistiche, anche ad ogni pretesa d’incoronazione a Re
dei Romani – lo
sarà de facto ma non de iure.
L’asso
nella manica di Bartolomeo d’Alviano, che favorì
la
celerità con cui si mossero le truppe veneziane malgrado
fosse pieno inverno,
fu l’impagabile aiuto dei fedeli Cadorini i quali, per
vendicarsi dei saccheggi
subiti, fecero da guida all’Alviano, scortando
l’armata lungo gli impervi
sentieri del Passo Cibiana mentre spalavano coi buoi la neve altissima.
In
questo modo l’Alviano guadagnò tempo prezioso e
sbucò praticamente alle spalle
degli imperiali. La battaglia, durata un'ora, fu effettivamente cruentissima, soltanto alla fine e assicurata la vittoria l'Alviano permise di far prigionieri. Chi fuggì venne rincorso e ammazzato, tra gli stradioti e i Cadorini fecero a gara, neanche fossero a caccia di lepri. Durante l'assedio del Castello di Pieve ci si limitò a dimezzare solamente la guarnigione tedesca, mentre l'altra metà, spogliata di ogni loro avere, venne rispedita a Massimiliano. Nel Castello si ritrovarono gran parte dei beni rubati alla popolazione locale nonché 1500 ducati, che vennero subito distribuiti tra i soldati.
Ovviamente,
Massimiliano d’Asburgo non accettò lo schiaffo
ricevuto e nel dicembre del medesimo anno sponsorizzò in
nome della vendetta la
Lega di Cambrai, in funzione antiveneziana. Anche in quel frangente, i
Cadorini
respinsero nel 1509 una prima invasione tedesca e anche quando vennero
occupati
nel settembre/ottobre del 1511, si sollevarono con tale impeto che il
provveditore Gian Paolo Gradenigo scriveva come gli risultasse
difficile
tenerli disciplinati, perennemente costoro a caccia del
“todesco”. Finita la
guerra, il Cadore seguì fedelmente le sorti di Venezia fino
alla fine.
Vittore,
il protagonista, pur di fantasia può esser stato
verosimilmente uno di questi Cadorini che aiutò
l’Alviano. Poiché è una mia
creatura/figliolo, arbitrariamente ho deciso che è
sopravvissuto a questa
guerra e a quella di Cambrai, invecchiando sereno con la sua moglie
Cate e i
suoi pargoli, generi, nuore e nipoti.