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Autore: _Fruscio_di_Anime_    21/12/2020    0 recensioni
[Killing Eve]
[Killing Eve]AU. Eve è una cameriera, lavora in Piazza di Spagna. Un giorno torrido d'estate, una ragazza passa davanti al suo ristorante.
Ed Eve esplode dentro.
Genere: Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Roma a Luglio è calda. Torrida.
Il centro è vuoto, Piazza di Spagna si scioglie sotto un sole cocente. I pochi turisti camminano assorti,  disorientati dall’afa e dalla magnificenza. Le ragazze hanno vestiti corti, larghi, che lasciano scoperte le gambe nude. I ragazzi, in camicia e shorts, ammirano Roma con passi lenti, misurati, guardandosi intorno – ma finendo sempre con lo sguardo sui gesti ampi e gentili delle loro compagne.
Lavorare in un ristorante a Piazza di Spagna ti da la possibilità di osservare, conoscere, riconoscere e innamorarti dell’umanità – nonostante tutto.
I tavoli, sulla strada, sono quasi tutti vuoti. L’orologio canta le tre del pomeriggio, ci sono solo due coppie di tedeschi, ai tavoli in fondo, riparati all’ombra della tenda sopra di loro. Hanno finito di mangiare, si gustano il caffè, parlano e ridono con il loro accento duro, quasi grezzo.
Mi appoggio allo stipite della porta: l’aria condizionata dentro il locale mi rinfresca la schiena, la nuca, mentre ammiro, a braccia conserte, la piazza semi deserta.
Sorrido.
Roma a Luglio è torrida, ma è così sensuale. E’ calda, si spoglia dei passi di turisti affamati, si lascia carezzare con calma, con cura. Sospira tra le strade acciottolate, mentre rivoli di vento scorrono ardenti tra le vie come sangue nelle vene.
Respiro.
Roma d’estate mi spinge la vita in bocca, nei polmoni, tra le costole. Tiro fuori un pacchetto di marlboro dalla tasca, portandomi la sigaretta alla bocca. L’accendo. Inspiro. Espiro.
E’ questa la libertà?

All’improvviso, da Via dei Condotti, sento una risata. Una risata femmina, cristallina. Giro la testa, trovandomi davanti una scena… strana. C’è una ragazza – vestito blu a fiori, sandali, cappello a tesa larga, occhiali da sole, capelli biondi – che cammina circondata da due uomini, in maglietta e pantaloni neri.
Lei sembra bella, nonostante gli occhiali che le coprono metà volto. Il passo elegante, leggero. Loro sembrano due scimmioni del circo, imponenti.
Camminano, dirigendosi verso la strada dove sta il ristorante per cui lavoro, probabilmente diretti verso Via di Propaganda.
Mi passano davanti, vicino – arriva, trascinato da quel vento erotico che sbatte contro i muri della città, un profumo di limoni.
Viene da lei.
La guardo, le braccia conserte, la sigaretta ormai spenta in bocca.
Cristo, è bellissima.
Il collo lungo, le mani affusolate, cammina per Roma come un’Imperatrice.
Lei sposta lo sguardo – i suoi grandi occhiali riflettono, per un momento, i contorni della mia figura.
Li solleva dal viso.

E’ un attimo – infinito, eterno, così forte da colpirmi dritto nel petto. Bruciano, bruciano, i suoi occhi su di me.

“Eve? I signori hanno finito. Porta loro il conto.”
La voce del mio capo ci distrae – a me e a lei, che con grazia gira il volto e cammina via, lontana da me.
Sospiro.
E’ andata.
Butto la sigaretta, inserisco il mio miglior sorriso finto, e mi avvicino al tavolo di tedeschi.


Profumo di limoni nell’aria.





 
La sera romana è calata sul tetti, le finestre aperte degli hotel del centro lasciano scivolare sulle vie i rumori attutiti di conversazioni in lingue diverse, di docce scroscianti su corpi accaldati, di vestiti nuovi messi apposta per l’occasione.
Il ristorante è pieno. Rimbalzo tra i tavoli come un robot, prendendo gli ordini col mio inglese americano, portando pietanze, vino, scherzando con qualche cliente gentile.
Cucina – sala – tavoli all’esterno – sala – cucina. Un percorso dettato, solito, classico.
Camicia bianca, pantaloni neri, bilinguismo pronto all’uso. Lavorare in un ristorante nel centro di Roma ti porta ad essere ciò che vesti e ciò che parli.
Mi piace molto, in realtà: primo, perché sono costantemente benedetta dalla magnificenza della città, che mi culla lo sguardo mentre lavoro a ritmi serrati.
Secondo, per la gente.
Persone provenienti da tutto il mondo si fermano a mangiare da noi, e a volte ti ritrovi dentro le loro storie, nelle loro vite – quando il vino e l’ebrezza della vacanza li portano a sciogliersi, a raccontarsi. Di solito sono gli ultimi avventori, quando si appoggiano allo schienale e iniziano a narrare la loro esistenza, mentre noi sparecchiamo i tavoli e iniziamo a pulire il locale.
Ho sentito storie incredibili, in quattro anni che lavoro qui.
A volte bellissime, altre volte tragiche. Alcune palesemente inventate, ma va bene così.
Sorrido, ricordando uno di quei racconti assurdi, mentre verso il vino a una coppia di signori asiatici seduti in uno dei tavoli esterni.
La signora, sulla settantina, mi sorride di rimando, facendomi cenno con la mano che basta, il vino va bene così.
Annuisco, riprendendo in mano la bottiglia.
Faccio per tornare dentro il ristorante, e lei è lì.

La ragazza di oggi. E’ qui.

Davanti all’entrata del ristorante. E’ sola.
Indossa pantaloni grigi, camicia bianca, Church nere. I capelli biondi sono sciolti.
E sta guardando proprio me.

Boccheggio.
Cazzo, quanto è bella.

“Eve… Eve... EVE!”
Qualcuno mi scuote la spalla. E’ uno dei camerieri che lavora con me. Sorride.
“Sei sveglia? C’è quella ragazza che ha chiesto espressamente di te.” Dice, facendo un cenno col mento verso lei. Mi volto di nuovo – non sta più guardando me, ma osserva il cielo sopra i tetti di Piazza di Spagna.
“Come fai a sapere che voleva proprio me?”
“Ha detto ‘an asian girl with amazing hair’. Più chiaro di così.” ridacchia. Tira fuori il taccuino degli ordini.
“Stasera sbanchiamo. Credo sia russa, e i russi sono ricchi sfondati, lasciano discrete mance. Lavoratela bene, Don Giovanni.” Mi batte un’ultima volta sulla spalla prima di allontanarsi.

Respiro. Inspiro.

Dai, Eve. E’ solo una cliente. Puoi farcela.
E con questo slancio di finta, fintissima spavalderia, mi dirigo verso di lei. Che è lì, meravigliosa, le mani in tasca, gli occhi fissi su di me. Le labbra increspate in un ghigno appena percettibile.
Senza quasi rendermene conto mi ritrovo di fronte a lei, la bottiglia ancora in mano – goccioline di condensa a scivolarmi tra le dita.
“Buonasera.” Dico, in italiano - la voce ferma, il cuore un tamburo. Lei sorride.
“Buonasera. Ti stavo cercando.”
Il suo italiano è perfetto, indurito solo leggermente sulla R. Sbatto le palpebre, colpita.
“Vuole mangiare fuori o dentro?” domando, inserendo la modalità cameriera. Meccanismo di difesa automatico.
Ha due occhi talmente intensi che ho paura di venirne risucchiata da un momento all’altro.
“Non sono qui per mangiare. Sono qui per te. Quando finisci il turno?”
Deglutisco. Sorrido, imbarazzata.
“Non prima dell’una di notte.” Rispondo, stavolta in inglese.
Lei ghigna.
“Ho tutto il tempo del mondo.” passa all’inglese anche lei, e, senza preoccuparsi minimanente, prende la prima sedia che le capita a tiro e si siede, così, davanti alla porta del ristorante.
La guardo, basita.
“Non puoi stare qui.” dico, il tono monocorde.
“Non dovresti stare qui nemmeno tu. Molla tutto, ora. Vieni con me.” Sussurra, e la sua voce è roca, e dura, e intensa, e io mi sento bruciare – la nuca tesa, le vene piene di sangue che pompano, forti, strattonandomi verso l’inevitabile.
Scuoto la testa, respirando. Sono stordita, affascinata, trascinata – dalle sue parole, il suo profumo, il suo collo lungo, la sua bocca piena. Quegli occhi a metà – verde, marrone – Dio, quanta vita c’è dentro questa donna?
“Sto… Sto lavorando. Non so nemmeno come ti chiami.”
Lei sorride. No, non sorride: ghigna. Posa le mani sulle ginocchia, aggraziata.
“Mi chiamo Villanelle.”
Villanelle – scivola nella lingua il suo nome, sinuoso, contorcendosi sulla punta.
Sento il cuore che crolla giù, oscuro, gonfio
– i miei pensieri sono sciolti -
Dio, la sua voce
– col suo accento russo, violento, basso, talmente roco da corrodere.
Mi sento esplodere. Questa donna è la persona più sensuale che abbia mai visto in tutta la mia intera esistenza.
Cerco di resistere. Scuoto di nuovo la testa. Sorrido.
“Villanelle.” Assaggio il suo nome tra i miei denti – come vorrei fare con la sua gola, piano, lasciando segni e incertezze a definire la carotide. “Sto lavorando, e non posso venire via con te. Potresti essere chiunque, per me, anche un’assassina.” Dico, la bottiglia di vino ancora tra le mani – forse l’unico ancoraggio alla realtà, alla razionalità. O avrei già ceduto alle lusinghe di questa straniera che ha l’accento russo, il nome francese e le parole così piene di erotismo da sembrare mediterranea.
Si alza, improvvisamente. Mi viene vicino. Posso sentire i limoni – mi gira la testa, mentre lei posa le sue dita lunghe sul mio polso, accostando le sue labbra al mio orecchio: “Forse lo sono. Ho intenzione di farti venire così forte, stasera, da spezzarti la vita.” Fruscìo – sorride, e io mi sento morire. Non si allontana. “Del resto, i francesi chiamano gli orgasmi ‘la petite morte’”.
E si scosta, lo sguardo indecifrabile – un sorriso arrogante.
Io tremo. Fiamme tra le mie gambe. Respiro.
Poso la bottiglia sul primo tavolo libero – gli occhi ancora agganciati ai suoi, che sono così intensi, vividi – bestiali, così… così pieni.
Porto le mani dietro la schiena. Sciolgo il nodo del grembiule. Poso anche quello sul tavolo.
Il suo sguardo non si scosta dal mio – e vedo esplodere la fame tra le sue iridi.
Senza dire una parola, intreccia le sue dita con le mie, portandomi via.
I nostri passi rimbombano sull’acciottolato di queste strade eterne – eterne come le nostre mani, strette, spasmodiche, in attesa – di toccarci, sfinirci, spingerci, affondarci. Ucciderci.
  
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