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Autore: Lolimik    26/12/2020    6 recensioni
•"Io ho sempre pensato che nessuno aveva la voglia di dirselo, ma la verità era che le chiamavamo così, con quel generico “medicine”, perché in realtà non sapevamo cosa cazzo stavamo curando."•
E se Akito non fosse mai riuscito a guarire Sana dalla malattia della bambola?
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Hisae/Margareth, Naozumi Kamura/Charles Lones, Sana Kurata/Rossana Smith | Coppie: Naozumi/Sana, Sana/Akito
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 4 • Intermittenza




“…Ho conosciuto la felicità,
so cos’è,
posso parlarne con competenza,
e conosco anche la sua fine,
ciò che ne deriva di solito.
Un solo essere ti manca e tutto è spopolato,
come diceva quell’altro,
ma il termine ‘spopolato’ è proprio debole,
vi si sente ancora un po’ del suo XVIII secolo del cavolo,
non vi si trova ancora la sana violenza del romanticismo nascente.
La verità è che
 solo un essere ti manca e tutto è morto,
 il mondo è morto e sei morto tu stesso,
 oppure trasformato in una figurina di ceramica,
e anche gli altri sono figurine di ceramica,
isolante perfetto dal punto di vista termico ed elettrico,
a quel punto non può più succederti assolutamente niente,
 a parte i dolori interni
 provocati dallo sfaldamento del tuo corpo indipendente…”

Serotonina – Michel Houellebecq

 

 

 

 


 

 

Com’è che si mettevano in fila i pensieri? L’uno dopo l’altro, concatenati da logiche e associazioni precise o alla rinfusa?

Soprattutto cosa li muoveva? La curiosità o l’interesse?

Com’è che avveniva che di punto in bianco si pensava a qualcosa o a qualcuno? Serviva un oggetto che riaccendesse un’emozione? O forse un odore? O anche un ricordo, uno che magari arrivava così, mentre fai altro.

Mi resi conto che non lo sapevo più com’è che avveniva la cosa più elementare al mondo.

Dov’era la logica? La motivazione? Qual era la ratio?

Me lo domandai più volte mentre mi stringevo al cuscino su cui aveva dormito Hayama.

Soprattutto quand’è che io avevo smesso di farlo? Quando avevo cominciato a lasciarmi scorrere le cose?

Mi venne da dire che lasciarmi scorrere le cose era ciò che in quegli anni mi era riuscito meglio.

Era ciò che facevo per ogni cosa mi capitasse e con ogni persona che incontrassi.

Forse era per quello che avevo dimenticato cosa significasse pensare, soprattutto a cosa servisse.

Che poi a cosa serviva pensare?

Con Akito comunque non mi veniva, lasciarmi scorrere le cose, dico, o anche lui, perché, pur senza percepire, da quando era riapparso mi balenavano nella testa troppe domande, immagini senza logica né contesto.

Non ne venivo a capo, non me ne spiegavo il motivo.

Sbuffai un po’ e gettai sul pavimento il suo cuscino.

M’imposi di non pensare più ad Hayama, anche perché tutto quel pensare non portava a nessuna conclusione e soprattutto a nessuna sensazione.

Era solo un inutile spreco d’energie.

Forse aveva ragione lui, dovevo smetterla di pensare.

E forse aveva ragione Hisae, non dovevo lasciarmi scorrere le cose, ma dovevo rispondere a queste sul momento, vivere la vita così come veniva, senza rimuginarci troppo dopo.

Anche se si trattava di Akito Hayama.

Il punto era che dovevo riuscirci, soprattutto se il punto era l’unico punto che mi spingeva a non farlo.

Akito, quello ormai era assodato, avrei dovuto spedirlo lontano dalla mia testa e dalla mia vita, solo, mi resi conto, non era così semplice, dato che si divertiva a irrompermi in casa ogni volta in cui ne avesse voglia e il mio stupido corpo non collaborava affatto quando si trattava di rispedirlo lì da dov’era venuto.

Anche lui, poi… Perché faceva così?

Perché quella repentina fissazione con me quando erano trascorsi tutti quegli anni di morte apparente?

Io, poi, mica lo conoscevo più?

Perché chi era realmente non lo sapevo mica più, soprattutto, il fatto che avesse deciso di scegliere quella perversa maniera di sedare il suo senso di colpa, -ammesso che di quello si trattasse -  perché doveva essere un problema che riguardava me?

Quante cose gli erano capitate in quei quindici anni? Possibile che avevano tutte a che fare con me?

Lo trovai improbabile.

E poi, tra l’altro, fosse stato davvero così, non provavo neanche uno straccio di senso di colpa nel vederglielo fare. Solo disagio, quindi non avrei saputo certo aiutarlo.

C’era solo il buon senso che mi comunicava di tenerlo alla larga, ma di fatto la mia mente e il mio corpo se ne fregavano bellamente del buon senso e ogni volta che lui compariva il mio corpo lo voleva e quando lui non c’era la mia mente me lo riproponeva.

Quello poi, a onor del vero, la mia mente non si era mai stancata di farlo in quei quindici anni, però ecco, era molto più timida e compassata, agiva nell’intimo dei sogni, non mi assillava così come stava facendo negli ultimi tempi, così come stava facendo da quando Hayama aveva sentito un certo prurito e non aveva potuto fare a meno di comunicarmelo… Molto apertamente, con quella irruenza che chissà da quanto tempo era diventata una sua caratteristica.

E poi, a quel punto, mi chiesi, perché diamine pensavo così tanto a uno sconosciuto? Perché a conti fatti l’Akito Hayama che stavo rivedendo era a tutti gli effetti uno sconosciuto. Lui non aveva niente – o comunque molto poco – del mio Akito Hayama dodicenne.

C’era più sicurezza nei suoi modi di fare, più desolazione nei suoi occhi, ma certo, quel parlare per enigmi senza mai lasciarsi leggere gli era rimasto.

Immutato e fastidioso come innata caratteristica.

E io! Perché diamine gli avevo quasi aperto le gambe? Come mi era venuto in mente di dormirci insieme?

Ma soprattutto… Perché non l’avevo trovato così sconveniente, ma anzi non vedendolo accanto a me avevo quasi avvertito un inspiegabile senso di solitudine?

Quando ero diventata così malata? Ma poi, potevo ancora definire tutti quei miei atteggiamenti involontari, tutte quelle domande, malattia?

Se fosse stata malattia, comunque, mi parve chiaro che non doveva essere la mia, piuttosto qualcosa che mi aveva attaccato lui.

Maledetto.

Sbuffai sonoramente archiviando la questione in un punto tra la mia apatia e il mio vuoto interiore e mi tirai giù dal letto perché per la vigilia avevo promesso a mia madre che non mi sarei negata.

Mi aveva chiesto di pranzare insieme a casa sua, in quella stessa casa che un tempo definivo nostra, mia, della mamma, di Rei e della Signora Shimura e che col tempo, col lento scorrere degli anni e il lento ristagnare della mia malattia, aveva rimpicciolito sempre più il senso stesso di quell’aggettivo.

Ora che in quella grossa casa rimaneva solo mia madre, ora che era diventata solo casa sua, entrarci mi metteva addosso uno strano senso d’inappartenenza.

Forse perché mia madre, negli anni, aveva perso il brio dei suoi colori, i suoi copricapi strampalati, le sue risate chiassose, l’armonia della sua casa e la vitalità di quelli che la popolavano e aveva sostituito tutto con un grigio plumbeo che se l’era divorata a poco a poco.

Non saprei dire con esattezza quando successe, a me parve di ritrovarmela così, sola e grigia in una grande casa, di punto in bianco.

Eppure doveva esser stata una cosa lenta, covata dentro, e giorno dopo giorno, lentamente, era venuto giù tutto, pezzo per pezzo, come intonaco colorato raschiato via da della muffa.

Mia madre era sola. Aveva escluso dal suo mondo tutto e tutti eccetto me, il mio problema e il suo lavoro.

La sua solitudine, però, era diversa dalla mia.

La mia era volontà, non conosceva né disagi né sofferenze.

La sua era conseguenza, conseguenza di quel mio problema che ormai invadeva la sua mente come un’indomita ossessione che l’accecava, che le raschiava da dentro rendendola ruvida e impenetrabile all’esterno.

Certe volte, quando ricordavo la mia infanzia, quando ricordavo quella che era stata la mia mamma profumata di colori e la confrontavo con quel che mi restituiva la sua immagine da adulta, mi convincevo del fatto che fosse partita una notte in gran segreto per un viaggio intorno al mondo alla ricerca di un antidoto portentoso da consegnarmi come un graal, lasciandomi un suo clone maldestro nell’attesa del suo ritorno.

Presto o tardi tornerà con il suo antidoto, mi dicevo, e nel frattempo mi ero limitata ad essere condiscendente con quel clone che aveva l’aspetto di mia madre.

Nevicava quella mattina e i mezzi pubblici erano in tilt, così le inviai un messaggio chiedendole di spostare il nostro appuntamento da casa sua a casa mia, in fondo lei aveva un auto e un autista, ma rifiutò categoricamente dicendomi che sarebbe stato meglio un ristorante che era a metà strada tra le nostre abitazioni.

Lei non amava casa mia e non ne faceva mistero, mi aveva sempre detto che le metteva addosso disagio e tristezza, così come mi aveva detto che avrebbe voluto tornassi a vivere con lei perché sapermi sola in un appartamento lugubre e spoglio, pieno zeppo di condomini eccentrici come il mio, non la faceva stare tranquilla.

Io, ovviamente non commentavo, erano ormai tre anni che vivevo lì e avevo sempre pensato che quella fosse stata la scelta più saggia che avessi fatto negli ultimi quindici anni.

A me casa mia andava bene, spoglia o no. Era una dimensione solo mia che mi tranquillizzava, saperla sudicia, inappetibile e invalicabile mi metteva addosso anche una maggiore serenità.

Mi chiesi perché Akito o la stessa Hisae non l’avessero mai considerato un limite quel mio barricarmi in un posto simile, ma poi lasciai perdere, quella mattina non volevo più avere altri pensieri per la testa, già bastava mia madre.

Mi diede appuntamento al “Kodocha” un posto che entrambe conoscevamo molto bene perché mi ci portava spessissimo da bambina, soprattutto quando dovevamo festeggiare qualcosa d’importante per la sua carriera o la mia.

Mi ricordo che da piccola amavo quel posto perché era colorato e aveva l’odore dello zucchero filato e quell’odore io l’avevo sempre associato a lei.

Quando arrivai lì mia madre non c’era ancora, pensai di aspettarla all’interno perché quel giorno la neve gelava le strade e imbiancava le auto e gli ombrelli della gente che trafficava per strada, rendendo il panorama cittadino molto simile a come avrei voluto che fossero i miei pensieri.

Mi misi comoda e pensai che nonostante il passare degli anni, tutto lì sembrava rimasto fermo alla fine della mia infanzia, erano cambiate solo le facce dei gestori.

Mentre una cameriera mi salutò in un sorriso, sperai che per quel giorno, da quella porta, entrasse la mia vera mamma, anche senza quell’inutile antidoto.

«Aspetti da molto, tesoro?»

La guardai per un istante nel suo cappotto rosso, quasi mi convinsi fosse lei, poi se lo sfilò di dosso e si mise a sedere difronte a me. Mi restituì il solito sorriso nervoso nel suo solito abito grigio, più grigio del suo viso, e capii che la vera lei doveva essere ancora in viaggio.

«Sono appena arrivata…»

«Ma lo sai che sei molto bella oggi, tesoro?»

Mi riguardai un po’ seduta su quella sedia, non vidi qualcosa di particolare nel mio look, avevo i soliti piatti capelli castani, un semplice maglioncino verde e dei pantaloni neri.

«No, no, parlavo del viso, sei radiosa, sai?»

Mi strinsi nelle spalle, pensai che molto probabilmente era merito di tutte quelle cremine con cui Hisae m’impiastricciava la faccia ogni sera.

«Bene, sono contenta.» Commentò prima d’inforcare gli occhiali e sprofondare nel menù.

Quando era diventata così cieca da aver bisogno di lenti per la presbiopia? Da qualche parte avevo letto che cominciasse a colpire dopo i 40 anni e mi resi conto di non essermi mai accorta che anche lei avesse cominciato ad usarle.

«Da quando porti gli occhiali?»

«Mi servono solo per leggere. Ormai non metto più a fuoco le cose vicine. La tua mamma non è più così giovane, sai?» Fece e scoppiò a ridere, ma non era la sua vera risata.

Era a disagio con me, quella era una cosa che io avevo a fuoco da tempo ormai e con cui convivevo senza pormi troppe domande.

Mangiammo ramen e bevemmo acqua frizzante, le chiesi del suo libro e lei mi chiese dei miei incontri con la dottoressa Naoki, le chiesi del dei suoi programmi per capodanno e lei mi chiese perché non avessi voglia di trascorrerlo con lei piuttosto che perdere tempo dietro alle stramberie di Hisae, poi le parlai del mio lavoro e lei mi chiese di quello di Naozumi.

«Non ti ha mai chiesto di ricominciare?»

«Lo sai che lo fa.»

«Bravo ragazzo.» Commentò, attirando poi l’attenzione di una cameriera. «L’attrice, sei nata per fare l’attrice.» Concluse.

«Ordiniamo altro, ti va?» Me lo chiese quando ormai aveva già considerato l’idea di farlo a prescindere da una mia qualsiasi risposta e sospirai lievemente. Volevo solo che quel pranzo finisse alla svelta.

Avrei mangiato senza fare troppe storie qualsiasi cosa e sarei tornata a casa mia, sotto le coperte.

La vidi ordinare un tonkatsu per me e un chashu per lei, una diet coke per me e del vino rosso per lei e mi venne da pensare ad Akito.

«Ho rivisto Akito.» Le dissi guardando la cameriera allontanarsi.

Lei mi guardò stirandosi un po’ troppo il tovagliolo sulle gambe. «Sì… Me l’avevi detto. Com’è? Carino?»

Me lo chiese, ma mi sembrò poco desiderosa di ricevere una vera risposta, si limitò a guardarsi un po’ intorno senza prestarmi troppa attenzione.

Io, da canto mio, mi strinsi nelle spalle, pensai che in effetti se fosse carino ancora non me l’ero chiesto. Certo il mio corpo lo trovava irresistibile.

«Ho rivisto ancora Akito.» Precisai.

«Quando?» Mi parve irrigidirsi, si tolse gli occhiali e li poggiò su un lato del tavolo.

«Tre settimane fa, è venuto a casa mia e mi ha preparato la cena… E poi stanotte…»

«Stanotte?»

«Già. Ha dormito da me.»

A quel punto mia madre –o forse il suo clone- mi sembrò ingrigirsi più di quanto già lo fosse, mi chiesi se qualche circuito difettato non le stesse spuntando fuori dagli occhi perché mi accorsi che mi fissarono intermittenti, come se di tanto in tanto emettessero dei segnali di scarsa ricezione.

La cameriera arrivò al tavolo con le nostre bibite e mia madre si versò da bere senza lasciar andare una parola.

«Ce l’ho costantemente nella testa… Non sono sicura, forse non è saggio per lui, però… Penso che mi faccia piacere vederlo.»

«Io penso che sia una perdita di tempo.»

«Dici?»

«Dico.»

«Beh, io…»

«E’ duro di comprendonio quello là. Lascialo perdere.» Me lo disse quasi come se stesse dandomi un ordine, con un tono fermo, intransigete, guardandomi dritta in faccia senza alcuna intermittenza negli occhi.

«Buono questo ramen, vero?»

Quelle sue parole mi parvero stridere con la volontà che io avvertivo di parlargliene, corrugai la fronte fissandomi il ramen nel piatto, avrei voluto aggiungere altro ma mi limitai ad abbozzare un cenno poco convinto e non parlai più.

Per quanto ne avvertissi un oscuro bisogno, mi resi conto che non avrei dovuto parlare di lui a nessuno che non fosse Hisae, ma lei non era con me e io sentivo la testa scoppiare, dovevo pur dirlo a qualcuno che lui mi rombava nella mente come un motore fastidioso che m’impediva di sentire altro.

Non seppi dire se quel bisogno avesse a che fare con la paura. Lui non mi spaventava affatto, forse però tutto quel pensare a lui stava cominciando a spaventare me, altrimenti perché quella strana esigenza?

Mi concentrai sull’aspetto di alcuni clienti, sperai di trovare qualche dettaglio interessante su cui soffermare la mia attenzione, ma non c’era nulla di così potente da assorbirmi e reimmettermi al centro della mia apatia, neanche il copricapo storto che indossava la cameriera che ci svolazzava di fianco a ritmi regolari.

Lasciai andare un lungo sospiro e puntai ancora l’attenzione su mia madre che mangiava fissandomi il piatto ancora pieno di ramen.

«Devi mangiare.» Mi disse e io pensai che l’unica cosa che sentivo di dover fare era sapere cosa intendeva lei con quelle strane parole.

«Che vuol dire?»

«Che hai bisogno di nutrirti, mi sembra ovvio.»

«No. Che intendi con è duro di comprendonio?»

Mia madre mi guardò rigirandosi il calice di vino tra le mani, si mise meglio sulla sedia e ne mandò giù appena un sorso.

«Due anni e mezzo fa, quando è tornato da Los Angeles, è venuto a cercarti a casa nostra, sai? Penso sia la prima cosa che ha fatto dopo aver rimesso piede in questa dannata città.»

Quella notizia mi destabilizzò, fissai la mano anellata di mia madre stringere il calice con una certa intensità. Le erano sempre piaciuti gli anelli con le pietre turchesi o i rubini, mi chiesi quand’è che aveva cominciato a mettere le fasce dorate.

«Ho chiesto ad Hayama di tenersi alla larga da te.»

«E perché?»

«Era malconcio… Tu stavi frequentando Naozumi da poco e dopo tutti quegli anni avevi cominciato ad avere una sorta di stabilità.»

«Ma… Che gli hai detto?»

«Ma niente di che… Che avevi passato un periodo difficile ma che ora stavi bene ed eri felice al fianco di un’altra persona.» Lo disse come se stesse sciorinando la lista della spesa, mentre si riguardava il vino nel bicchiere con aria di sufficienza, quasi come se stesse parlando di un cencio vecchio, una faccenda che meritava meno attenzione delle caratteristiche di un vino rosso. «Un tempo qui il vino era migliore.» Commentò.

«Cos’altro gli hai detto?»

«Che sbucare così all’improvviso non sarebbe stato corretto da parte sua… Considerando anche il modo in cui se n’è andato.»

Sentii un lieve contraccolpo, come se per un istante l’aria non mi arrivasse ai polmoni. Pensai a Hisae, a Fuka, al fatto che con ogni probabilità lei non avesse affatto parlato ad Akito di me.

«Mamma ma perché mi hai fatto una cosa simile?»

«Andiamo Sana, eravate solo due ragazzini.»

«E allora perché gli hai mentito?»

«Per quanto sia certa delle mie convinzioni, era un’incognita che dovevo arginare, mi dispiace.»

«Un’incognita? Mamma è di Akito che stiamo parlando, non è un’incognita, lo hai sempre saputo chi era per me!»

Mi resi conto che quel discorso, cominciato con voce tremante, quasi incerta, si era indurito non appena le mie labbra avevano pronunciato il suo nome, non me ne accorsi neanche, ma di fatto le urlai addosso attirando l’attenzione di alcuni commensali.

«Abbassa la voce…» Disse, e finalmente mise in tavola quel bicchiere, guardandosi intorno in un risolino colmo di disagio. «Non gli ho mentito.»

«Non gli hai mentito?»

«Oh senti! L’ho fatto per il tuo bene e poi mi sembra che tu abbia una tua vita tranquilla e una relazione stabile con un uomo che ti ama.»

Io non dovevo avere percezione dei miei sentimenti, né delle mie emozioni, ma a quel punto mi parve chiaro che mia madre non aveva alcuna percezione di me.

Mi portai una mano ad accarezzarmi il collo, quella situazione, quella conversazione mi stavano agitando, mi sembrava di non riuscire a incamerare aria dalle narici, sentivo il mio respiro nella bocca e cercai di acciuffare una certa padronanza in un sorso d’acqua, mentre mia madre seguitava a guardarmi con l’aria di chi aveva una visione molto più lucida su un piano che andava ben al di là della mia comprensione.

«Mamma, rispondimi onestamente, pensi che io sia felice?»

«Hai una stabilità, mi pare, no?»

«Mi rimpinzo di farmaci, riempio alla rinfusa degli inutili questionari per una terapeuta e ho una relazione con uomo egocentrico e distratto che mi nasconde al mondo intero per non avere rogne. Ti sembra una stabilità questa?»

«La Dottoressa Aoki non piace neanche a me, la cambieremo. Quanto a Naozumi lo fa per il tuo bene, abbiamo pensato che non è positivo esporti ai media così.»

M’immobilizzai del tutto a quelle parole. Ma gli occhi sembravano schizzarmi ovunque, la studiarono attenti come mai avevano fatto prima di quel momento e registrarono frenetici ogni suo micromovimento. Beveva ancora quel vino rosso costoso che strideva con la diet coke che per quella volta mi aveva concesso, forse solo perché era un giorno di festa.

«Lo sai che non sono più la tua bambina?»

«Sana, piantala, stai facendo una scenata! Noi ti vogliamo bene, ti proteggiamo e sappiamo cosa sia giusto per te! Caspita! Io lo so, sono tua madre.»

Piegai un po’ la testa su un lato e strizzai gli occhi, come se stessi cercando di vedere anche io quel piano senza macchie né incognite che mia madre e il mio fidanzato avevano orchestrato per me, povera stupida vittima di un’apatia da cui loro volevano solo salvarmi. Ma non ci riuscii. Lessi solo del terrore negli occhi vitrei di mia madre che mi scrutavano con qualcosa di oscuro e incomprensibile, con quel possesso morboso e ingombrante che fino a quel punto non ci avevo mai riconosciuto dentro.

«E cos’altro avete deciso insieme tu e Naozumi per il mio bene, sentiamo?» Glielo chiesi senza neanche guardarla in faccia, con lo sguardo vuoto, fermo chissà dove su qualcosa alle sue spalle, come in trance.

«Non voglio che tu lo veda più, ci siamo intese?»

«Certo, poi che altro?»

Forse ci lesse dentro del sarcasmo in quelle mie parole, e forse c’era davvero, ma a quel punto non controllavo più nulla, avevo lasciato andare mente e corpo, vedevo solo una donna che non era mia madre muovere le labbra in un tremolio nervoso.

«Esamino io i tuoi medici a uno a uno, so io cosa hai attraversato a causa sua e soprattutto so io quanto è stato duro passare questi ultimi quindici anni a guardarti sprofondare e ridurti sempre peggio! Quindi adesso non permetto a nessuno di arrivare dalla preistoria e fare il bello e cattivo tempo! Ora fai quel che dico io, intesi?»

Ancora quella parola, schiusi un po’ le labbra nel sentirglielo dire. «Preistoria…» Mormorai. «Anche Hisae l’ha chiamata così.»

«Bene, per una volta io e quella strana ragazza sembriamo esser d’accordo.»

Non mi venne neanche da dirle che Hisae ormai non sarebbe stata affatto d’accordo con lei, non avrebbe capito, avrebbe frainteso e forse neanche m’importava capisse.

A quel punto, come se fossi tornata in quel posto, difronte a lei, a quel tavolo ricolmo di cose che non avrei voluto, la guardai dritta in faccia ricordandomi il viso di Akito, il suo sorrisetto furbo, la sua bocca sulla mia e le sorrisi reggendomi il viso con una mano.

«Avrei tanto voluto fare l’amore con lui stanotte…» Sussurrai.

Quella notizia proprio non le andò giù, la vidi perdere il suo aplomb, sbarrare gli occhi mettendo a tacere un improperio che una donna come lei non poteva lasciarsi sfuggire in un luogo pubblico e mi pizzicò con forza la mano che poggiavo sul tavolo, ma io neanche mi mossi, neanche provai dolore o fastidio.

Ormai, la pellicola che tanto amavo mettere addosso agli altri, l’avvolsi anche su di lei.

Non mi arrivava.

«La sai una cosa, mamma? Quando io e Naozumi facciamo l’amore non sento niente e l’unica cosa che penso è “Quando finisce tutto questo?” Però, quando stanotte Akito mi toccava, quando mi baciava e io non provavo nient’altro che il piacere di sentirglielo fare, mi sono scansata perché non potevo stare con lui senza sentirlo come avrei voluto.»

«Smettila, mi stai solo provocando.»

«Per ogni volta in cui l’ho visto, non ho saputo acciuffare neanche uno straccio di emozione, e mi ha disturbata. Lo capisci questo cosa significa, mamma?»

«L’unica cosa che capisco è che da quando mi sono seduta mi sto chiedendo per quale motivo mia figlia ha delle bende sul polso e ora mi sto chiedendo come la donna che ho cresciuto possa tradire gli altri senza neanche mostrarsi pentita.»

«Chi sarebbero gli altri, spiegati meglio.»

«Come chi sarebbero? Naozumi e me! Ti rendi conto che ti è bastato rivederlo solo tre volte per peggiorare in questa maniera?»

«Quattro…» La corressi e mi venne da sorridere, soprattutto mi vennero in mente le parole della Dottoressa Aoki. Se quel mio tacere nel suo studio era stata una reazione, ora che parlavo così a mia madre, ora che finalmente guardavo qualsiasi cosa mi stesse capitando -per merito, o a causa, di Akito- da una diversa angolazione, con quella prorompente indolenza, potevo ritenerla una reazione?

«Ti rendi conto che dopo quindici anni sto reagendo a qualcosa?»

«Nel peggiore dei modi!»

«Può darsi…» Le dissi, eppure, seduta a quel tavolo difronte a lei, per la prima volta dovetti ammettere a me stessa che rivedere Akito era stata l’unica cosa che mi aveva bombardato la mente dopo un sonno di quindici lunghi anni.

«Ma mi sto ponendo delle domande.»

«Dunque, mi stai dicendo che la risposta è Akito Hayama?» C’era astio e ironia nella sua voce, nell’increspatura che la bocca fece per fissarsi sulla emme del cognome di Akito e ancora a me venne da sorridere.

«Non avrei saputo dirlo con parole migliori, mamma.»

Non sapevo onestamente se fosse così, non lo sentivo chiaro quanto meno, perché nonostante le domande io non avevo né risposte né percezioni, ma volevo che lei comprendesse l’ampiezza di quel discorso, a prescindere da Akito. Era più una cosa che riguardava me e lei. Lei e quell’irrispettoso e ingombrante amore che mi gettava addosso e che rendeva quel legame una colpa.

A spezzare quell’assurdo gioco di sguardi, ci pensò la cameriera con l’ordinazione di mia madre. La ragazza si chinò al tavolo in un sorriso che presto, incrociando l’aria tesa che intercorreva tra me e il clone di mia madre, si dipinse di disagio.

«Da oggi ti trasferisci da me. Tornerai a casa tua quando Naozumi rientrerà da New York.» Concluse, affondando una bacchetta nel suo chashu. «Ora mangia.»

Neanche le risposi, mi riguardai con disgusto quel tonkatsu nel piatto, erano anni ormai che non riuscivo più a mandare giù il maiale, ma non avevo mai ritenuto necessario informarla.

Così non lo feci neanche quella volta, a cosa sarebbe servito? Era chiaro che non avrebbe ascoltato, che non le sarebbe importato.

Mi alzai di scatto e m’infilai il cappotto. Mia madre mi fissò impreparata, senza riuscire a connettere parole e ragionamento.

«Ciao, mamma.» Le dissi semplicemente quello, prima di prendere la porta e uscire da quel posto.

Mia madre non si mosse dalla sua sedia, non la vidi varcare la soglia di quel locale, ma seguirono innumerevoli telefonate a cui risposi secca con un unico stentoreo messaggio.

“Mi faccio sentire io, ho bisogno di tempo per riflettere su alcune cose.”

Pensai che quel verbo, riflettere, non lo usavo da parecchio tempo.

Vidi passare un taxi, mi venne in mente di chiamarne uno, così, quando arrivò, mi ci infilai alla svelta e sparì nel gelo di quella città.

 

*****

 

Quando scesi dal taxi e feci per bussare al campanello di quell’appartamento incastrato in un lussuosissimo complesso residenziale, stentai a credere che fossi proprio la stessa Sana che quel mattino aveva lasciato casa mia.

L’alterco con mia madre mi aveva galvanizzata, mi aveva addirittura spinta a inviare quel messaggio a Hisae solo per ricevere quell’indirizzo, consegnarlo al tassista e arrivare lì.

Non sapevo neanche se in quell’appartamento ci avrei trovato realmente qualcuno ma lasciai correre, affidai tutto al caso, ai movimenti del mio corpo guidati precisamente dal confluire dei miei pensieri su quell’unica ingombrante sagoma.

“Che hai intenzione di fare?”

Guardai la notifica di quel messaggio della mia migliore amica e scelsi d’ignorarlo, mi sentivo addosso una frenesia che non avevo intenzione di sprecare.

Quando quella porta si aprì i suoi occhi si sollevarono in una scia luminosa seguiti istantaneamente dal suo sorriso.

«Dio mio! Che piacere!» Urlò vedendomi su quella porta. «Qual buon vento?»

«Scusami… Io… Devo parlarti, posso entrare?»

Fuka si guardò l’orologio al polso. «Certo, tra un ora però devo uscire.» Così mi disse e mi fece cenno di seguirla.

Il suo appartamento era ampio e luminoso, ma freddo.

Pieno zeppo di quadri con uomini con le facce da animali incastrati in decori geometrici alle pareti, trovai quasi grottesca tutta quella perfezione.

Mi fece accomodare sul divano in pelle scura del salotto e s’avviò in quella che ipotizzai fosse la cucina. Io persi buona parte del mio tempo a fissare quei quadri.

Uno che raffigurava una donna opulenta con la faccia da piccione mi catturò davvero tanto, mi chiesi quale delle due parti avesse insidiato l’altra, era un piccione o una donna? Era la natura umana o quella animale a scimmiottare l’altra?

Mi persi in quel ragionamento per un po’ quando la vidi entrare nel salotto con dei biscotti e del tè servito in porcellane pregiate, sicuramente appartenenti a un antico servizio di famiglia.

«Non dovevi scomodarti, io non mi tratterrò molto.»

«Ma no! E’ che stanno arrivando i miei da Osaka, devo andare a prenderli in stazione, comunque il tempo per bere un tè insieme c’è, tranquilla.» Spiegò, mentre io mi chiesi quando questi fossero tornati nella loro città d’origine, io non ne sapevo assolutamente nulla.

A conti fatti non sapevo nulla della vita di Fuka, ma in quel momento non m’interessò poi molto scoprirne i particolari.

Particolari che sicuramente lei non reputava tali, dal momento che a quel punto cominciò a darmene notizia con un certo tono d’importanza.

«I miei sono tornati a Osaka cinque anni fa perché l’azienda per cui lavora mio padre l’ha richiamato in sede, io invece sono rimasta a Tokyo… Sai con l’università…»

«Immagino…»

«Beh lo so che domani è Natale e avrei anche potuto raggiungerli, ma sai, col mio lavoro il tempo non basta mai, tra un paio di giorni ho una causa importante e… Dio! Spero andrà bene, sono così agitata.»

Non lo so se era la mia frenesia, ma lessi in quelle parole una volontà d’importanza che non avevano, come se stesse informandomi che la sua vita, a dispetto della mia, le dava delle soddisfazioni, la mantenesse attiva e impegnata.

Le regalai un sorrisetto di circostanza. «Sei sempre la stessa, non sei cambiata di una virgola.»

«Già, sempre piena d’interessi, piena di cose da fare, piena d’impegni ma anche di soddisfazioni, ho una vita piena, sì, lo ammetto.»

Mi sembrò stesse rimarcando quel “piena” volutamente, continuai a notare nel suo parlare un fastidioso sottotesto che sapeva di rivalsa. E in effetti, presentandomi lì da lei così, nel giorno del suo compleanno, il sapore di quella rivalsa, che a conti fatti non sapevo neanche su quali basi sussistesse, un po’ dovevo averglielo dato.

«Beh… Vado subito al sodo, allora.»

«Oh, sì, dimmi pure… Mi ha fatto così strano vederti arrivare all’improvviso, non che mi dispiaccia, figuriamoci, però sì… Ecco… In genere, da quando hai smesso di fare la star, te ne stai sempre per conto tuo… Al massimo senti Hisae… Quindi…» Fuka lasciò cadere il discorso lasciando che traessi io le lecite conclusioni, mi sorrise con aria innocente e si mise comoda sul divano. La vidi sorseggiare del tè e rimase in attesa delle mie parole.

«Sei andata a letto con Akito un anno fa.»

La sua espressione a quel punto cambiò, sbarrò gli occhi e quello sciocco risolino le si cancellò dalla faccia. «Beh…» Sussurrò cercando di acchiappare un’espressione da appiccicarsi in faccia. «Io veramente…»

«Non è una domanda, sta tranquilla. La domanda è perché?» Glielo chiesi inespressiva, senza alzare il tono e senza nessun nervosismo, non era quello che mi aveva spinto fino a lei, anzi, a conti fatti non provavo niente, né gelosia, né delusione, neanche un senso di tradimento, era altro il motivo che mi aveva spinto in quella casa.

Fuka era evidentemente a disagio, in effetti, provando a mettermi nei suoi panni, non doveva essere una situazione facile neanche per una come lei. Si chinò in avanti dandosi del tempo, con una certa flemme posò la tazza di tè sul vassoio senza mai guardarmi in faccia. «Beh… Sana… E’ successo una sera e non eravamo propriamente…»

Stava cercando nervosamente di trovare le parole, una linea di difesa preventiva e io pensai non fosse un avvocato poi così brillante.

«Te lo ripeto. Perché?»

«Ma…ma perché… Non lo so… E’ capitato. E poi senti, ancora con questa faccenda Sana Kurata e Akito Hayama? Andiamo… Eravate dei ragazzini! Non pensavo mica di farti torto?»

«Non mi hai fatto torto per questo, per me ti puoi scopare chi ti pare.»

Quella mia risposta dovette farle guadagnare terreno, infatti mi guardò dall’alto in basso in un’espressione sarcastica. «E allora per cosa? Sei venuta fin qui per dirmi che non ti dispiace?»

«No, affatto. Sono venuta qui per chiederti perché, anche dopo quindici anni.»

«Ah… Quindi vuoi sapere perché a 27 anni mi sono portata a letto il nostro fidanzatino delle medie? O perché sono stata ancora una volta più sveglia di te?»

Pensò di certo di avermi colpita, in realtà, da canto mio, ero imperturbabile, me ne rimasi lì seduta sul suo divano a fissarla inespressiva, come un automa. «Sei veramente fuori strada, ti ripeto che di Akito non m’importa affatto.»

«E allora che cazzo vuoi?»

La rabbia, eccola che le apparve sulla faccia, nel tono della voce, nel corpo così proteso in avanti.

Mi chiesi da dove le arrivasse e pensai fosse una sorta di logica difesa delle menti deboli.

Poi però pensai ad Hayama, volli convincermi che non ci fosse realmente della rabbia nella sua strana perversione.

Non avrei mai saputo immaginargli in faccia l’espressione che Fuka aveva in quel momento.

«Allora?»

«In questi anni, per ogni volta in cui ci siamo riviste, non hai fatto altro che guardarmi dal tuo piedistallo e sbattermi in faccia quanto fosse sgradevole l’immagine che restituivo di me stessa, quanto fossi stupida nell’accettare lavori così poco edificanti, lavori per cui a tuo dire “ero sprecata”.»

«E te lo ribadisco!»

«Mi hai dato dell’involuta semplicemente perché non ti andava di vedere che sono depressa?»

«Credi che io ti abbia detto quelle cose per un senso di rivalsa su di te?»

«Sarebbe meschino, ma lo stai dicendo tu.»

«Io cercavo solo di aiutarti!»

«E come? Evidenziando l’ovvio e ignorando l’evidenza?»

«Non ho mai evidenziato né ignorato un bel niente, e lo sai!» Urlò e ancora le lessi in viso quella rabbia.

«Dimmi, Fuka, tu che scusa hai per non esser riuscita ad andare avanti? O… parafrasandoti… Che scusa hai per esserti involuta tanto?»

A quel punto, Fuka alzò le mani in segno di resa scuotendo un po’ il capo con fare disgustato.

«Tu sei molto malata, Sana. Veramente.»

Negazione dell’accusa e offesa della controparte. Procedura logica per una mente debole… O per un avvocato mediocre.

O forse ero io che avevo visto troppi psichiatri o troppi polizieschi.

«Certo, sono malata, mica dico il contrario. Il fatto è che però mi sento anche stupida se penso che a 12 anni sono caduta in un sorta di catalessi per dei sensi di colpa nati dall’assurda convinzione di aver rubato il ragazzo alla mia migliore amica.»

«Questo è ridicolo! Ora vuoi farmi credere che hai perso le espressioni per colpa mia? Rinfrescati la memoria, cara mia, sei caduta in catalessi perché Akito ti stava lasciando per trasferirsi a Los Angeles!»

Arringa d’effetto con prove schiaccianti. La rabbia era sparita, ora semplicemente gongolava nel farmelo notare e si vedeva nel suo sorriso sfacciato, nel rigonfiamento creatosi sotto le palpebre mentre atteggiava l’espressione soddisfatta di chi sapeva di non poter subire alcuna replica.

«Certo, ma molti dei miei sensi di colpa nascevano anche da te. Io mi ero innamorata del ragazzo della mia migliore amica, o meglio, mi hai fatto credere che te lo stavo rubando, ma è giusto dire così?»

«Beh… Se non fosse stato per Tsu… Mica sapevo cosa avevate passato prima del mio arrivo?»

«Perché tu avevi bisogno di Tsuyoshi? Vuoi farmi credere che la mia migliore amica, quella sveglia, molto più sveglia di me, non era stata sveglia al punto da rendersi conto anche senza le parole di Tsu che tra me e Akito ci fosse qualcosa?»

«Ovvio che lo avevo intuito, ma poi mi sembra di esser stata chiara, mi sembra che alla fine di tutto “non devi sentirti in colpa” è proprio quello che ti ho detto in quel parco.»

«No, è quello che hai sotteso, perché in verità mi hai solo rimbalzato con una domanda…»

«Già, ma è la stessa cosa comunque...»

Avevamo parlato a raffica, senza mai sovrapporci, immobili nelle nostre posizioni. Io lievemente rivolta a lei, nel fondo del divano, con le braccia che mi ricadevano inermi ai lati delle gambe, lei totalmente spostata in avanti, sul bordo, con le mani incrociate strette alla vita.

Però, pur nella nostra simile immobilità, c’era una differenza tra noi che forse a me parve irrilevante, ma che lei percepiva silente e che doveva agitarla.

Rimase ferma, rivolta a me senza però mai protendersi verso di me, i miei occhi non le restituivano nessuno sguardo di rimprovero, non le chiedevano niente se non di guardarla, i suoi viaggiavano inquieti, pronti a scovarmi dentro un impercettibile movimento, mi parve quasi lo stessero elemosinando.

Ma non mi mossi, neanche assecondai il prurito che il maglione stava cominciando a suscitarmi attorno al collo.

«Te lo ricordi in quel parco, sulle altalene? Io volevo scusarmi, tu però mi hai guardata in faccia e mi hai chiesto “Hai fatto qualcosa di sbagliato?”»

«E’ la stessa cosa.» Ripeté.

«Allora puoi davvero ammettere che neanche una parte di te abbia formulato quella frase senza il punto di domanda?»

 E a quel punto la vidi sprofondare sul divano in un gran sospiro, mi fissò con uno sguardo fermo, denso di collera.

«No.» Ammise.

Abbozzai un lieve cenno soddisfatto e mi passai una mano sul collo ad allargarmi il maglione, mi accorsi che ero fredda e al contempo sudata e mi chiesi se il mio corpo stesse tentando di dirmi qualcosa.

«Ecco... Allora cosa volevi dirmi per davvero?»

«Bene… Se la metti così… A me lui piaceva, lo avevo capito che eravate cotti l’uno dell’altra, ma non volevo vederlo, non volevo ammetterlo... E quando ti ho vista ritornare, quando ho capito che te lo saresti ripresa… Ti ho odiata, perché tu non te lo meritavi.»

«Ti è uscito, finalmente.»

«Già, non te lo meritavi... Tu non te lo meritavi e non lo meriti. Dio mio! Non sai che soddisfazione stia provando nel dirtelo.»

Avrebbe anche potuto evitare di sottolinearlo, perché si vedeva. Pensai che per la prima volta da quando avevo messo piede lì dentro stesse sentendo il pavimento di casa sua mantenerle il divano.

Mi chiesi quanto le fosse pesato addosso quel sentimento covato per quindici lunghi anni e che le veniva fuori stonato solo attraverso quelle umiliazioni pregne di un significativo sotteso che di tanto in tanto mi dedicava.

Forse a quel punto un po’ la capii e al contempo mi fece tenerezza.

«Lo immagino e sono contenta, in fondo.»

«Ah sei contenta? L’ho detto e lo ribadisco, sei da neuro!»

«Vedi, Fuka, io lo so, non ho mai capito niente con chiarezza, non c’entra solo la malattia. Io… Sono confusa di natura e anche da ragazzina, quando ancora non ero malata, se non fosse stato per te, non avrei mai capito neanche i miei sentimenti per Akito.»

«Esatto, per quello non lo meritavi. Io invece lo sapevo quello che provavo, sono sempre stata più sveglia di te, ed è per questo che ho agito, prima ancora che tu capissi, perché non volevo sentirmi in colpa.»

«E allora, perché… Perché non mi hai semplicemente detto che non c’era nessuna colpa nell’essere confusi? Perché non mi hai mai detto che il mio senso di colpa era immotivato perché eri tu quell’amica sveglia che non avrebbe dovuto approfittare della mia sbadataggine e della mia assenza per agire?»

«Andiamo… C’erano tutte quelle notizie su te e Kamura…»

«Avresti dovuto aspettarmi, soprattutto per te stessa.»

«Sana… Ma veramente? Ero solo una ragazzina… Ma poi, che cazzo serve rivangare così il passato?»

«Perché non mi hai mai scagionata da questo senso di colpa?»

«Perché non mi piaceva l’idea di uscirne così sconfitta, ecco. E perché ero solo una sciocca ragazzina di 12 anni e perché non capisco neanche perché ne stiamo riparlando a 27!»

«Perché io sto aspettando queste parole da quindici anni… Ma tu fino ad oggi hai preferito umiliarmi anziché dirmele.»

«Questo cosa c’entra con oggi? E tra l’altro, non so cosa ti abbiano riferito, ma io e Akito siamo stati insieme una sola volta un anno fa durante una festa.»

«Già… Mentre io ero altrove. Di nuovo.»

«Piantala! Tu non hai l’esclusiva su una persona che non vedi da quindici anni, sei veramente fuori luogo, tu e questa ridicola scenata di gelosia!»

«Non è affatto una scenata di gelosia, dovevo solo saldare un conto. Per quanto mi riguarda adesso puoi farti chi ti pare.»

A quel punto mi alzai e lei mi fissò interdetta, era chiaro che, nonostante avessimo parlato, non avesse capito a pieno il senso della mia presenza lì.

Ancora una volta quella volontà di affermarsi come donna migliore di me però, le si presentò prepotente sulla bocca.

«Penso che lo farò, sai? E’ stata una scopata indimenticabile.» Tuonò.

E a quel punto, senza neanche capire come, le mollai un violento schiaffo.

Mi venne da ridere nel guardare la sua faccia sorpresa, i suoi capelli rivoltati su un fianco. Mi venne da ridere perché pensai che quello schiaffo avrei dovuto darglielo molti anni prima.

E mi sentii stupida.

Poi, come se niente fosse, scrollai le spalle e fissai ancora i suoi quadri.

Erano animali vestiti da uomini, la natura animale dominava sempre su quella umana, pensai fosse quello il senso di quei quadri.

Le regalai un sorrisetto di circostanza e mi avviai verso l’uscita, lasciandola lì, in piedi davanti al suo divano in pelle a reggersi la faccia.

«Ah… Buon compleanno.» Le dissi voltandomi a guardarla dalla porta. Poi, finalmente, uscii da quell’appartamento.

Quello schiaffo, pensai, era stato come una botta istantanea di serotonina.

Mi sentivo molto stanca, ma inspiegabilmente felice.

Leggera.

 

*****

 

Quando rimisi piede nel mio appartamento, tutta la frenesia che avevo avvertito sembrò scendermi lungo gli arti intorpidendoli. Mi parve che qualcosa di simile alla melma mi stesse ristagnando nel petto, come se tutta la stanchezza che avvertivo si stesse concentrando lì, addensandosi e ammassandosi, bloccandomi l’aria alla gola.

Ansimai divisa dal desiderio di fiondarmi a letto o di trascinarmi verso il bagno.

Accadde però che mi accorsi di uno strano bruciore lungo il polso, le bende che ci avevo avvolto attorno, benché coperte dal maglione, erano zuppe di sangue. Mi chiesi come fosse possibile che quelli che a me erano sembrati solo tre graffi stentassero a rimarginarsi. Mi tirai via il maglione di dosso e mi sfilai pian piano le fasce, lasciando che ricadessero a mo’ di spirale sul pavimento.

Mi colpì il colore rosso intenso che colorava il bianco delle bende, me ne rimasi un po’ ingobbita a fissare quella spirale fatta di me più qualche fibra aperta sul pavimento, l’idea di avere dentro qualcosa di così vivo mi restituì una sensazione strana, quasi rincuorante.

Così, per averne conferma, mi guardai il polso, con l’altra mano scacciai via il sangue come se stessi pulendo un vetro appannato e cominciai a muoverlo, provando una incomprensibile soddisfazione nel notare che quel sangue vivido e caldo stesse fuoriuscendo dalla mia pelle a ogni movimento.

Quanti strati aveva attraversato per venir fuori?

Me lo chiesi stringendo la mano in un pugno più e più volte, con lentezza, continuando a guardarlo sgorgare da me. Mi accorsi che benché sottili, due dei tre tagli erano abbastanza profondi e che il sangue mi colava di lato.

Forse gocciolò un po’ sul pavimento grigio.

Sanguinavo, eppure ero fredda, come se in corpo non avessi avuto neanche un goccio di sangue, e al contempo sudavo. Pensai fosse strano, ma poi la testa cominciò a girare, così lasciai perdere e mi trascinai verso il bagno.

Ravvisai la mia immagine allo specchio e mi accorsi di essere pallida come un lenzuolo.

Dovevo prendere le medicine.

E lo feci, considerando che in quella giornata di fuori controllo, probabilmente, erano successe troppe cose che mi avevano sconvolto ma che quel mantello d’adrenalina doveva avermi nascosto.

Ora che, tornata a casa, mi era sembrato di riacciuffare la mia dimensione, tutto quel che ero stata fino a poche ore prima mi arrivò come sgradevole e insensato.

Mi ero ribellata alle cure di mia madre e avevo schiaffeggiato Fuka.

Mi chiesi cosa diavolo mi era preso, cosa mi aveva fagocitato così tanto.

Mi risposi mandando giù un'altra pillola.

Cominciai a sentirmi a disagio nel mio stesso corpo, il sangue che ora mi colava dal polso non mi evocava nessuna considerazione, come se me ne fossi accorta solo in quel momento lo tirai sotto il getto dell’acqua e lo avvolsi con delle bende nuove.

Poi a quel punto, non mi ricordo cosa successe, mi parve solo che tutto prese la forma di un loop che aveva a che fare con il mio letto, la spirale fibrosa sul pavimento, l’armadietto delle medicine e il lavandino.

Un loop continuo e frenetico dilatato in un tempo così lungo che sembrava declinarsi nell’eterno.

 

*****

 

La luce intermittente del neon del mio bagno che traballava.

Sì, mi parve fu proprio quella la prima cosa che vidi.

Poi un flebile colpo di tosse, la sensazione di avere altre due mani che mi reggessero all’in piedi difronte al lavandino e poi dell’acqua, tanta, che mi colava dal viso e dai capelli.

Un rantolio e poi un ansimo prolungato, simile a un’inspiegabile ripresa d’aria dopo una lunga apnea.

«Cristo!»

Delle parole e poi quelle mani ancora me le sentii addosso, capii che forse non erano le mie quando mi strinsero le spalle e mi trascinarono via dal lavandino.

Persi l’equilibrio, ma quelle mani mi sorressero, mi spinsero a piegarmi sul pavimento difronte alla tazza del water.

«Cazzo, Kurata! Devi vomitare! Ce la fai?»

Non riuscii neanche a capire se stessi pensando a voce alta o se quelle parole così urgenti arrivassero al di fuori di me, nemmeno riuscii ad acciuffare un contesto che sentii delle dita solleticarmi la gola e subito un vomito violento mi travolse la bocca.

Mi parve che gli occhi mi stessero schizzando dalle orbite, volevo smettere di starmene lì, con la faccia stravolta rivolta al gabinetto, mi sentivo una specie di Mark Renton, anche se per me non c’era niente di così eccitante da raccogliere lì dentro.

Provai a scostarmi da lì, ma sentii qualcosa mantenermi la schiena, una mano sorreggermi la fronte.

Tentando di strozzare i conati, roteai un po’ gli occhi di lato, mi accorsi che qualcosa alle mie spalle bloccava i miei movimenti e che una mano stringeva forte il bordo della tazza del water facendo bella mostra di alcuni tagli vividi sulle nocche sbiancate.

A quel punto, ebbi la totale consapevolezza che non fossi più sola e il vomito mi si fermò in gola.

Mi tirai un po’ indietro e la mano che prima mi manteneva la fronte si affrettò a scivolarmi sulla spalla, l’altra, quella che stringeva veemente il bordo della tazza, mi volò su un fianco.

«Cazzo, Kurata…»

Quando mi voltai, tirando un po’ su col naso, quando incrociai i suoi occhi, avrei voluto fargli tante domande, ma riuscii solo a boccheggiare qualche suono simile agli spasmi di un conato strabuzzando gli occhi.

Di tutta risposta lui si lasciò andare sul pavimento stropicciandosi la faccia e i capelli con una mano. «Cazzo! Cazzo! Cazzo!» Lo ripeté a lungo, come se volesse staccarsi la faccia dal viso, mentre io me ne rimasi lì in ginocchio a guardarlo, strozzando un conato sul dorso della mano.

Poi, d’improvviso, mi sembrò di non percepirmi più, né in me, né in quello spazio.

L’immagine di Hayama divenne come un grande mosaico colorato, i cui contorni sembravano distorcersi e precipitare verso il basso, mi sembrò di chinarmi in avanti, come desiderosa di rimetterglieli in sesto, sperando che non scivolassero sul pavimento, ma poi, tutti i colori che emanava, mi parvero accecanti, così tanto che chiusi gli occhi e tutto si tinse di nero.

«Kurata! Cazzo Kurata, no!» Perché diamine mi stava schiaffeggiando?

Stavo per rispondergli male, ma mi acciuffò il viso e mi strinse le guance con una mano. «Ehi! Resta, ok?»

«Sono stanca...»

«No, Kurata, sei solo strafatta come una pigna!»

Mi sembrò di non riuscire a tenere gli occhi aperti, ero così stanca, ma Hayama non capiva, proprio non mi permetteva di lasciarmi andare, mi tirò tra le sue braccia e muovendosi all’indietro si parò sotto al muro.

«Ti prego, Kurata, guardami!» Lo urlò e il suono della sua voce mi arrivò quasi come una supplica, ma io forse ero troppo persa per ascoltarla.

O forse lontana.

Già altrove.

«Lasciami andare…» Biascicai e forse addirittura mi ribellai ai suoi modi dispotici, ma lui parve infischiarsene, come se fossi un corpo senza vita, mi fece voltare verso di lui e mi mantenne su dritta sorreggendomi le spalle, mentre tutto il resto di me sembrava scivolarmi sul pavimento.

Mi parve tutto così freddo, nonostante sentissi il calore delle sue mani sulla pelle.

Pensai che fosse strano.

Stridente.

Parlò ancora poi, mi scosse e mi afferrò il viso tra le mani obbligandomi di fatto a restare.

Lo guardai storcendo un po’ la testa, c’era la sua bocca che si muoveva, incastrata in un’espressione un po’ troppo preoccupata per appartenergli sul serio e poi i suoi occhi.

Un tempo mi sarebbero bastati quelli e io li avrei trovati sempre una valida motivazione per restare, ma in quel momento, pensai che forse non bastavano più.

«Ehi! Non te la faccio fare la vigliacca questa volta, Kurata!»

A quelle parole sussultai, gli occhi mi si spalancarono e s’incollarono inspiegabilmente ai suoi.

Era quello che pensava di me? Che ero una vigliacca?

Non so cosa mi prese a quel punto, ma sentii divamparmi dentro un fuoco rabbioso che mi risalì dal fondo delle viscere per fermarsi di colpo al centro dello stomaco, una bomba di calore che ebbe come logica conseguenza un’intensa necessità di vomitare tutto quel che era rimasto.

«Sei tu il vigliacco…» Così gli risposi, anche se la rabbia con cui glielo urlai di fatto gli dava ragione.

Ero una vigliacca e mi ero arrabbiata perché lui lo aveva visto.

La rabbia, la logica difesa delle menti deboli.

Lo pensai in quel preciso istante e mi chiesi se la mia faccia fosse simile a quella di Fuka.

Poi sentii la saliva aumentarmi nella bocca, cominciai a deglutire, boccheggiare e Hayama mi afferrò di fretta e mi spinse verso la tazza.

Mentre vomitavo lo sentii lasciarsi andare a un lungo e intenso sospiro.

Per quella volta, pensai, era rimasto.

 

*****

 

Rasente alla parete era seduto lui, il suo maglione blu doveva fare un brutto contrasto con il marrone sbiadito dei miei capelli che gli si aprivano umidi e spettinati tra il petto e la spalla, lì dove io poggiavo la testa.

Il petto di Hayama si sollevava e abbassava lentamente, il cuore, invece, gli batteva esasperato, come se avesse appena finito di correre una maratona.

Non disse neanche una parola su quanto era appena successo, si limitò a riorganizzarsi il respiro mentre mi sfregava le mani sulle braccia nude cercando di darmi calore.

Perché io, me ne accorsi solo in quel momento, stavo tremando.

«Hayama… Ma tu perché sei sempre qui?» Biascicai dopo un po’.

Lui non rispose, mi parve solo molto agitato quando mi avvicinò una mano al collo e mi costrinse a guardarlo sollevandomi il mento.

Mi sembrò che schiuse le labbra come per dire qualcosa, ma poi lasciò perdere e ridusse tutto a uno sbuffo.

A quel punto, mentre ancora tremavo, sentii la sua mano accarezzarmi il collo, vidi i suoi occhi fissare intensamente lo scivolare delle sue dita fino alla mia guancia, e non potei fare a meno di chiedermi da dove mi arrivasse quell’assurdo tremare perché non avevo mai sentito tanto calore in vita mia.

Non saprei dirlo con molte parole, ma ecco, ebbi come la sensazione che il suo corpo era caldo come qualcosa che sedava e al contempo mi rassicurava.

Non glielo dissi che lì con lui cominciavo a star bene e lui non mi fece alcuna domanda, neanche quando smisi di tremargli addosso.

Non so quanto tempo passò, so solo che ce ne rimanemmo lì immobili ed era come se entrambi, in quel silenzio, stessimo cercando di acciuffare dei pezzi mal disposti e nascosti in lungo e in largo.

Era una ricerca disturbata, resa forse più difficile da quel neon allo specchio che sembrava impazzito.

Doveva essere lui a non farci vedere niente con chiarezza.

Se ne stava lì, appeso ad uno specchio, alternando psichedelico l’intensità della luce, dilatandola e strozzandola a intervalli irregolari.

Pensai che dovevo sostituirlo presto o tardi perché mi sembrava di volteggiare.

Prima di spegnersi del tutto, illuminò per un lungo istante le gambe di Hayama e una mia mano sulla sua coscia.

Mi chiesi perché, nonostante gli fossi addosso, avevo un intimo bisogno di toccarlo o forse di trattenerlo.

Come un desiderio inconscio, una specie di paura.

O forse non ero io, ma il mio corpo.

Poi però tutto sembrò farsi più buio.

Nella stanza fece il suo ingresso solo una luce fioca, annunciata dal suono del corto circuito del neon.

Il bagno di fatto rimase in penombra, illuminato solo grazie alla luce calda che proveniva dalla mia stanza.

Mi sembrò di poter riuscire a mantenere gli occhi aperti, finalmente.

Così lo realizzai davvero che ero proprio nel mio bagno, seduta sul pavimento, o per meglio dire rannicchiata sul pavimento, tra le braccia di Hayama. Soprattutto realizzai che indosso avevo solo i miei pantaloni neri, un reggiseno color carne e delle bende al polso.

Quelle in effetti mi imbarazzarono più di tutto il resto, mi nascosi il polso tra le gambe pensando al contempo quanto fosse stupido da parte mia sperare che non se ne fosse accorto.

Sussurrai il suo nome un po’ a disagio, ma lui parve non badarci.

Poggiato al muro sembrò non badare neanche alle luci, al fatto che fossimo rimasti lì in penombra, praticamente immobili.

Come sotto ipnosi faceva sfilare lentamente le dita di una mano tra i miei capelli, mentre con l’altra mi manteneva sul suo petto.

Pensai che a quel punto, se fosse crollato il mondo, non avrebbe fatto poi molta differenza.

Quello stesso pensiero, però, mi riportò alla realtà come uno schiaffo.

Allora scattai su dritta come una molla, o almeno ci provai.

Mi allontanai dal quel calore e mi voltai a guardarlo, lui corrugò un po’ la fronte e mi fissò quasi infastidito, con l’espressione imbronciata di un bambino a cui era stato strappato un regalo dalle mani.

«Ciao, Kurata.» Mugugnò, prima di riacciuffarmi e farmi poggiare ancora contro di lui. «Bentornata…»

Anche se eravamo quasi al buio, continuai a immaginarmi mezza nuda tra le sue braccia e sentii l’esigenza di muovermi da lì alla svelta, prima che il mio corpo potesse commettere una qualsiasi impudenza.

«Devo…» Farfugliai e ancora mi liberai da quella posizione, feci per alzarmi in piedi, ma mi accorsi di non avere la forza nelle gambe, mi sembrò di annaspare nel vuoto e di nuovo lui mi afferrò riposizionandomi lì, questa volta in ginocchio, tra le sue braccia.

«Kurata, dove vorresti andare?»

«Io… Gira tutto…» Farfugliai.

«Ma non mi dire.» Fece con una punta di sarcasmo sulla lingua e io mi rassegnai a rimanere lì, o almeno così mi sembrò perché a quel punto ricordo solo che schiacciai il viso sul suo petto e mi rannicchiai in posizione fetale tra le sue braccia.

Lui forse sospirò, almeno così mi parve, e mi strinse più forte.

Mi ritrovai a riflettere sul fatto che il mio corpo doveva sembrare estremamente piccolo sotto le sue mani, quasi inconsistente.

Sperai non avvertisse l’idea delle mie forme, che addirittura neanche ci pensasse.

Forse, mi dissi, se mi stringessi ancora di più, se mi rimpicciolissi al punto di svanire, smetterebbe anche di sentirmi su di lui.

E soprattutto, mi dissi, se fossi scomparsa, anche il mio corpo finalmente avrebbe smesso di percepirlo così come faceva.

Non glielo dissi, non avrei saputo spiegarlo a chiare lettere neanche a me stessa, ma lì, su quel pavimento gelido, mentre Hayama mi stringeva a sé, avvertii un piacevole tepore nel basso ventre che intuii avesse a che fare con lui e che per un istante m’annebbio.

Non mi piaceva quella sensazione.

Hayama comunque, mi sembrava un po’ inquieto, percepivo nel suo corpo una certa frenesia, come se i muscoli gli si stessero dilatando insieme al respiro, e al contempo gli percepivo dentro una strana tensione.

Chinai un po’ lo sguardo sulle sue mani, la luce dalla mia camera sembrava fare capolino nel bagno solo per illuminargliele e mi fissai a guardarle. Sulle nocche gli ravvisai alcuni tratti violacei e tanti piccoli graffi. Da alcuni si vedeva del sangue un po’ rappreso, su altri, invece, c’era del sangue fresco, ma non era vivido come il mio, non sgorgava affatto dalle sue piccole ferite, rimaneva compatto all’interno.

Era contenuto.

Mi chiesi se fosse una questione di spessore o di profondità e m’imbambolai così tanto a guardarle che a stento mi accorsi che una mia mano era volata proprio lì.

«Va un po’ meglio?» Me lo chiese afferrandomi di colpo proprio quella mano, coprendomela con la sua.

«Mi brucia la gola…» Glielo dissi in un soffio, ancora imbambolata su quel punto in cui prima c’era la sua mano e ora la mia nella sua.

«Tu però sei come… Rigido ma anche… Elettrico… Credo… Dovresti provare una delle mie pillole.»

Lui allora buttò fuori uno strano mugugno, simile a uno sbuffo incazzato e sollevò la mano a toccarsi il viso. Non mi voltai a guardarlo, ma sentii come se si stesse stringendo la fronte con le dita.

«Sul serio... Sono nel mobiletto…»

«Piantala, Kurata.»

«Guarda che sono buone, sai?»

«Già, da morire…»

Disse solo quello, ma mi parve volesse quasi incolparmi di qualcosa.

Scosse un po’ la testa e ancora mi strinse, forse anche più forte di prima, sentii le sue dita sfilarmi sulla pelle e d’improvviso, come se fosse stata una strana e libera associazione, un’immagine mi tornò alla mente.

Mi parai in ginocchio difronte a lui e lo guardai perplessa. «Ma tu… Dio mio… Ma prima mi hai messo le dita in gola?»

«Cosa avrei dovuto fare?»

«Ma… ma che schifo, Hayama!»

«Dici?»

«Beh… Sì.»

Lui allora mi guardò abbozzando un impercettibile sorriso.

«C’è di peggio, Kurata.»

Così mi disse e mi avvicinò una mano alla guancia, come se mi stesse sorreggendo la faccia.

La luce che proveniva dalla mia stanza gli illuminava il viso.

Sentii i suoi occhi nei miei, il lento tocco della sua mano, il suo pollice muoversi lentamente in su e giù sulla mia guancia e per un attimo mi parve di avvertire dentro qualcosa, sembrava adagiata sul cuore, ma in realtà non aveva locazione precisa perché sembrò attraversarmi per intero e per un solo istante, come un’intermittenza.

Come il neon allo specchio.

Io lo guardavo, eravamo in penombra, ma forse per la prima volta lo stavo vedendo per davvero, riscoprendo nella forma della sua bocca, nei precisi lineamenti del suo viso, nell’intensità dei suoi occhi che continuavano a fissarmi enigmatici e profondi, tutte quelle caratteristiche che un tempo chiamavo motivazione.

O, più semplicemente, tutte quelle caratteristiche che un tempo avevo legato a ciò che a me piaceva di più al mondo.

Le dita di Hayama mi sfioravano una guancia e io lo guardavo sentendo dentro una strana intermittenza adagiata sul cuore.

Pensai potesse riassumersi tutto lì.

Eppure io, anche se mi sentivo così stordita, mi resi conto di essere al contempo lucida.

Perché, quello lo capii proprio chiaramente, lui mi piaceva ancora.

E lo faceva in una maniera così potente che non poteva che essere intermittenza.

Come una luce talmente accecante che il mio cuore non poteva contenere tutta insieme, e allora si limitava a irradiare potenti fasci intermittenti.

Anche se non avvertivo nulla di preciso nello stargli così accanto, anche se non sapevo darmene alcuna spiegazione diversa da quella intermittenza di percezioni, sentii che era proprio così.

Mi chiesi se tutta quella luce sarebbe mai esplosa del tutto, come un qualcosa che non voleva più essere contenuto, soprattutto se sarei stata in grado di accorgermene.

«Cosa c’è di peggio?» E non seppi dire se lo stessi chiedendo a me o a lui.

Le sue dita a quel punto si mossero sulle mie labbra, sentii il suo pollice imprimermi sul labbro inferiore una certa pressione. «Tante cose che non vorresti sapere.»

«Fammi un esempio.»

«Non sono il tuo burattino, Kurata. Fattelo bastare.»

«Ma lo sai che sei veramente antipatico?»

Glielo chiesi senza veramente provare interesse per la sua risposta, forse perché sapevo che non sarebbe arrivata, o forse perché mi ricordai che di fatto a me di lui era sempre piaciuto anche quello.

 

*****

 

«Ti porto a letto.» Me lo aveva detto rollandosi una sigaretta, senza sorrisini sbruffoni, mentre eravamo davanti al lavandino.

Io mi ero lavata la faccia e Hayama mi era rimasto alle spalle, impegnato a fare altro con gli occhi costantemente puntati addosso a me.

Era sempre stato molto più abile di me in quello, mi aveva sempre studiato facendo finta di occuparsi di altro.

Infatti non la fumò affatto.

Però a letto mi ci aveva portato per davvero e il mio corpo avvertii una strana delusione quando vidi che mi aveva rimboccato le coperte e si era limitato a sedersi sul pavimento difronte a me.

E io non glielo dissi che mi sarebbe piaciuto sentire addosso ancora un po’ di quel calore che emanava e che sedava.

«Va un po’ meglio, Kurata?»

Mugugnai un sì tirandomi ancora addosso la coperta, mentre lui si limitò a guardarmi poggiando la testa sul materasso. «Sono così…» Sbuffò qualcosa, forse un’imprecazione, e poi sfregò la faccia sul bordo del letto, strozzando di fatto il suo parlare tra le lenzuola.

Gli occhi allora mi caddero sulle sue mani che stringevano con forza i lembi della coperta, non potei fare a meno di chiedermi cosa le avesse ridotte così e poi mi chiesi se quella notte c’entrasse qualcosa.

Se io e il mio essere me c’entrasse qualcosa.

«Perché sei venuto qui?»

Lui, allora sollevò la testa, mi ritrovai il suo viso a pochi centimetri dal mio, soprattutto i suoi occhi che non facevano altro che fissarmi intensi e pieni di parole che a conti fatti non mi disse.

Mi regalò solo quelli, sperando fossero abbastanza, o forse, sperando che fossi ancora in grado di leggerli e capirli come un tempo.

Purtroppo però, l’avevo persa quell’abilità.

Loro però non avevano affatto perso quella di schiantarmi e immobilizzarmi facendomi sentire nervosa e al contempo coinvolta.

«Non volevi dormire, Kurata?» Me lo chiese in tono acido, prima d’incrociare le braccia sul bordo del letto e nasconderci dentro la testa.

Sembrava un bambino in castigo, di quelli costretti al gioco del silenzio.

Feci una strana associazione proprio su quello e mi parve di sorridere tra me e me.

Hayama era in castigo da una vita o forse era diventato un asso in quel gioco perverso di cui aveva finito col diventare unico incaponito giocatore.

C’era della spavalderia in quel suo buffo atteggiamento, pensai.

Poi però passò del tempo, lui non si mosse, ma mi parve fosse crollato in un sonno profondo.

Il suo respiro regolare, i suoi capelli biondi e le mani rotte.

Rimanendo su un fianco gli portai una mano tra i capelli, dormiva tutto, pensai.

Era tutto avvolto da un sonno profondo.

Lui, io, i miei sentimenti e la mia comprensione intermittente.

«Mi hai sfondato la porta ancora una volta…» Glielo sussurrai e lui non sentii, non avrebbe potuto in effetti, ma non lo considerai affatto un problema, perché tanto quelle parole erano più per me che per lui.

E non saprei dire se fosse una domanda, un’affermazione o una constatazione.

 

*****

 

Quando mi svegliai lui era lì, con le braccia conserte e la faccia rivolta su un fianco.

Aveva la guancia rossa, quella espressione un po’ imbronciata e impertinente.

Pensai fosse tenero e che anche da addormentato sembrava quel bambino abilissimo nel suo gioco del silenzio.

Mi chiesi perché era lì, poi però le immagini di quella notte mi balenarono confuse davanti agli occhi, ricordai un paio di cose e allora a quel punto mi chiesi perché era ancora lì.

Mi sentii così a disagio a starmene lì accanto a lui e a ricordare quel che era successo che mi trascinai seduta sul bordo opposto del letto.

Avvertivo la gola secca e una lieve difficoltà a respirare e rimettermi in piedi.

Perché non se n’era andato? Soprattutto perché la sera precedente era entrato in casa mia?

Massaggiandomi gli occhi mi ricordai dei tagli che gli avevo visto sulle mani, mi chiesi se fosse venuto per quelli.

In fondo non lo trovai strano, meno di 24 ore prima aveva bussato alla mia porta con le budella tra le mani.

Non era per niente leggibile il suo modo di fare, pensai, e istintivamente mi voltai a guardarlo.

Che diamine aveva in quella testa?

Chi era veramente? Che stava combinando?

Sbuffai esasperata fino ad imbambolarmi a guardarmi i polsi.

Lui aveva visto, mi parve chiaro, mi chiesi cosa ne aveva dedotto, se si fosse recriminato qualcosa e mi sforzai di cercarmi dentro un senso di colpa che non arrivò.

Così come non arrivò neanche la riconoscenza.

Se ero lì, se respiravo, se ancora potevo guardarlo, avrei dovuto realmente sentirmi riconoscente?

Anche se tutto, persino lui, mi arrivava a intermittenza?

Aveva senso vivere così o era semplicemente crudele?

Mi stropicciai la faccia con le mani.

Dovevo smetterla di farmi quelle domande, comunque.

La luce del giorno cominciava a investire persino il mio appartamento, lo considerai un motivo per tirarmi almeno fuori dal letto.

Scrollai le spalle, ma lo feci un po’ a disagio.

Perché quello scrollare per la prima volta mi parve più una difesa che una risposta.

Mi avviai in bagno, ignorai volutamente dei solchi sul muro che giurai di non aver mai visto, le bende colorate dal mio sangue ormai secco e marrone buttate in un angolo sul pavimento, proprio in corrispondenza di quei solchi e la porta d’ingresso sfondata.

Ignorai tutto e mi nascosi nel bagno.

Mi feci una doccia con la speranza che potessi lavarmi di dosso anche quella giornata appena trascorsa, mia madre, Fuka, Hayama, le domande, le comprensioni e le intermittenze.

 

*****

 

Fuori dal bagno avvertii un forte odore di caffè.

Hisae ne aveva comprato uno con un aroma e un profumo inconfondibile, per un istante pensai fosse tornata, che quella notte era stata solo un sogno o che forse quella doccia aveva lavato via davvero tutto.

Mi avviai in cucina quasi con quella speranza, ma poi ci ritrovai Hayama.

Lo vidi poggiato al mobile su cui Naozumi l’anno prima aveva installato il tostapane e a quel punto pensai anche a lui dall’altra parte dell’oceano.

Avrei dovuto chiamarlo, ma che diavolo di ore erano a New York?

Quando si accorse di me abbozzò un cenno e mi squadrò da capo a piedi a lungo prima di sollevare la tazza di caffè a mezzaria come se fosse stata una coppa di champagne.

Non gli vidi nessuna particolare espressione sul viso, era indecifrabile come al solito.

Mi avvicinai alla moka e ne presi un po’ anche per me.

Per tutto il tempo non fece altro che studiarmi senza neanche regalarmi un cenno o una parola, nemmeno il suo laconico “Ciao, Kurata.”

Semplicemente mi tagliò il suo sguardo addosso, me lo sentii ovunque, come una lama rovente.

Forse non era stata una buona idea entrare lì con indosso solo il mio accappatoio, comunque, pensai mentre soffiavo sulla tazza, ormai era fatta.

Me ne rimasi accanto al lavello e concentrai tutte le mie attenzioni su quel liquido bruno evitando di guardarlo troppo.

«Stai meglio.» Mi disse, e non capì se fosse una domanda o una constatazione.

«Ho fatto una doccia…»

«Vedo…» Disse e mi si avvicinò, pensai volesse provocarmi, addirittura pensai volesse cogliermi in fallo e approfittare della situazione, così mi scansai un po’.

Lui però mi guardò inarcando un sopracciglio e poggiò la tazza nel lavandino. «Posso farla anche io?»

«Cosa?»

«Secondo te?»

Ero inspiegabilmente confusa e capii che i suoi occhi addosso non mi aiutavano affatto a rimettere ordine tra i miei pensieri troppo affollati, era come se, quell’intermittenza che avevo provato quella notte tra le sue braccia mi si stesse riproponendo anche più veloce e irregolare.

Tentavo di non farci caso ma proprio non ci riuscivo.

Che voleva Hayama? Forse fare una doccia? Lo capii solo in quel momento.

«Oh… Sì… certo.» Gli dissi. «Vieni, ti do qualcosa… Per… Insomma, qualcosa da usare per te…»

Mi accorsi di essere un po’ impacciata nel dirgli quelle cose che sapevano un po’ troppo d’intimità, così come mi accorsi che anche lui se ne accorse, lo vidi abbozzare un risolino a cui non volli dare troppa attenzione.

Così abbandonai la tazzina nel lavandino e mi avviai in camera mia lasciando che mi seguisse.

Spalancai il mio armadio e gli presi un accappatoio.

«Puoi usare questo…» Gli dissi e gli poggiai sul letto disfatto uno dei tanti accappatoi con le cifre ricamate di Naozumi.

Lui lo fissò per un po’, mi sembrò che con le mani ne stesse studiando la consistenza. «N… K…» Sussurrò arricciando un po’ lo sguardo e a quel punto afferrò l’accappatoio e lo lanciò tra le coperte. «Sul serio, Kurata? Kamura?»

«Volevi qualcosa per asciugarti, no?»

«Dio! Non ci credo! Ancora Kamura? Non sei per niente originale, Kurata.»

«Beh, mi pare che anche tu in quanto a originalità non sia andato poi così lontano!»

Non saprei dire se quella mia uscita spiazzò più lui o me, se ne rimase lì a guardarmi inarcando un sopracciglio, forse sperando che aggiungessi altro, ma poi fu più abile di me a nascondere tutto con un velo di strafottenza.

Mi si avvicinò in una maniera che avvertii pericolosa già dai primi movimenti. «Quindi sei andata in giro ad informarti sul mio conto?»

E a quel punto mi resi conto che lui non aveva fatto lo stesso con me, si era praticamente arreso alle parole di mia madre e me ne chiesi il perché.

«No, affatto, l’ho semplicemente saputo.»

Lo vidi annuire lievemente nascondendo un risolino sarcastico e soddisfatto.

«Sei libero di non crederci, Hayama.» Ribattei notando che a conti fatti quella situazione mi stesse dando parecchio fastidio e non solo per il suo modo di fare, ma anche perché mi tornò addosso quella insana frenesia di andare da Fuka e urlarle che a conti fatti aveva rubato anche quello.

E non c’entrava affatto il sesso, era quella intimità che mi aveva rubato a infastidirmi, il pensare che lei conoscesse di lui persino un dettaglio che io non avrei voluto condividere con nessun altro, figuriamoci con lei.

Era svilente.

Io, lui, lei, Naozumi.

Tutta la mia vita e il mio non sentire, non percepire, non capire o comunque farlo fino a un certo punto, con poca chiarezza, poca consistenza.

Vivevo una cazzo di vita svilente in cui mi arrivavano pensieri svilenti random.

Per un istante mi tornò alla mente il sogno che avevo fatto qualche sera prima, la terra mi si era squarciata tra le gambe e io ero scivolata giù, cercavo appigli ma tutto sembrava franarmi tra le mani, e a quel punto Akito era comparso e mi aveva detto “Se non lo sai, cadrai.”

Mi chiesi se quel suo parlare avesse a che fare con il modo in cui mi arrivavano quei pensieri, ci scivolavo dentro senza sapere né capire. Mi franava tutto tra le mani perché quella terra, quei pensieri sparsi, non avevano né appigli né consistenza.

«Beh comunque piuttosto che usare la roba di quello là mi asciugo col tappeto del cesso!»

«Non ce l’ho un tappeto…»

«Bene…» Sussurrò. «Vorrà dire che mi darai il tuo.»

«Il mio cosa?»

«Secondo te?»

«Non ti darò il mio accappatoio, Hayama.»

«Non userò la roba di quello là.»

A quel punto mi chiesi cosa ne avrebbe pensato Naozumi se avesse saputo che colui che a suo parere ormai non sarebbe più stato in grado di smuovermi niente, era proprio nel mio appartamento a rifiutare indignato la sua roba.

Mi sembrò una specie di realtà capovolta quella in cui il mio ragazzo non mostrava il benché minimo interesse per il mio ex e il mio ex riteneva uno scherzo la presenza del mio ragazzo nella mia vita.

«Allora vuoi farla a casa tua la doccia.» Constatai.

Lui non mi rispose, allungò una mano a mezzaria e mi mantenne addosso il suo sguardo inarcato.

Non riuscii a sentirmelo addosso a lungo, complici forse tutti quei pensieri che avevo nella testa.

Avrei solo voluto rimanere in silenzio, soprattutto in solitudine.

I suoi occhi però non davano scampo, parlavano troppo, facevano rumore.

Mi arresi all’evidenza e capii che se non avessi fatto quel che mi chiedeva non mi avrebbe dato scampo.

«Voltati.»

«Vuoi togliermi la parte migliore, Kurata?»

«Hayama? Vuoi il dannato accappatoio sì o no?»

Feci come gli avevo detto e lo sentii sbuffare, ma per fortuna non durò a lungo.

Presi dall’armadio una felpa bianca e dei jeans attillati e dal mio comodino delle mutande.

M’infilai prima quelle e poi i jeans, a quel punto mi feci scivolare di dosso l’accappatoio e infilai la felpa. Non persi neanche tempo a cercare un reggiseno, volevo solo che Hayama sparisse dalla mia stanza e mi lasciasse in pace, anche solo per un po’.

Poi, di punto in bianco, senza neanche aspettare un mio cenno, si voltò.

Gli riconobbi sulla faccia un risolino sfrontato. «Sei crudele…» Mi disse prima di raccattare dal pavimento il mio accappatoio.

Non capì il senso di quelle parole, poi però si avviò verso il bagno e il mio riflesso fece capolino nello specchio sull’anta aperta dell’armadio.

Aveva visto tutto.

 

*****

 

Avvolgere.

O forse riavvolgere.

Come il nastro di una vecchia MC, con la matita infilata dentro.

Mi chiesi se ficcandomene una nelle orecchie avrei potuto ruotarla e riavvolgere il nastro per riportare tutto indietro.

Poi però mi domandai fino a che punto avrei voluto riavvolgere quel nastro, sarebbe stato sufficiente un mese o avrei dovuto girare la matita e riavvolgere il nastro sbiadito fino a quindici anni prima?

Che strana cosa che era il tempo o forse strano era il modo che avevo io di percepirlo nella testa.

Sentivo l’acqua scorrere dalla doccia, la mia mente la immaginò infrangersi sui vetri, scivolare piano sulla pelle di Hayama, lambirlo, accarezzarlo… Sentirlo.

Come desiderosa di non pensarci mi voltai verso la finestra, il panorama era candido ma freddo.

Una nuvola bianca che copriva la città anestetizzandola e gelandola. Avrei voluto essere neve, avrei voluto sentire anche io quel bianco nella testa, quel gelo tra i pensieri.

Ma Hayama era così caldo…

Quasi come per darmi un impegno scostai le coperte e le lenzuola dal mio letto, le avvolsi tutte in un’unica palla variopinta e le lanciai in un angolo sul pavimento.

C’erano dentro troppi odori, troppe considerazioni che era arrivato il momento di accantonare.

Mi sfilai l’asciugamani dai capelli e ci lanciai dentro anche quella.

Fu a quel punto che lui arrivò, entrò nella stanza col mio accappatoio azzurro avvolto in vita e i suoi vestiti in una mano.

Mi chiesi perché non si fosse rivestito lì, comunque lasciai perdere tutte le motivazioni che si celavano dietro i suoi modi di fare e mi avviai verso la porta, pronta a lasciarlo solo, ma feci appena in tempo a fare qualche passo che si sfilò l’accappatoio dalla vita.

«Ma cazzo, Hayama! Non puoi neanche aspettare che esco?» Urlai voltandomi di spalle.

Lui di tutta risposta s’infilò i jeans, sentii pericolosamente il fruscio del tessuto sfregargli sulla pelle, il suono dei bottoni che sbattevano tra loro.

A quel punto lasciò andare un risolino. «T’imbarazza Kurata?»

«No, è semplicemente che sei fuori luogo!»

Ancora di spalle sentii i suoi passi sul pavimento, poi il suo respiro tra i capelli ancora umidi e le sue braccia avvolgermi i fianchi.

«Sciogliti, Kurata… Sei troppo ingessata.» Me lo sussurro sulla pelle, lentamente, scandendo ogni singola lettera come una carezza leggera, tanto che non capii se mi stesse sfiorando la pelle con le labbra o col respiro che scandiva quelle parole.

Non mi mossi, ero bloccata, come sotto un incantesimo, socchiusi gli occhi quando percepii le sue labbra muoversi tra il lobo e l’orecchio, la sua bocca schiudersi, la sua lingua confondersi tra la forma delle sue labbra che scivolavano lente ad accarezzarmi il collo.

Sussultai buttando fuori un ansimo, come un contraccolpo che cercava l’aria, mentre dentro mi sentii chiaramente ancora quell’intermittenza.

Come la sera precedente sembrò attraversarmi per intero, ma a differenza di quella notte, non durò un solo istante, anzi.

Senza neanche rendermene conto chinai la testa su un fianco offrendo un campo d’azione più ampio alla sua bocca, la sua mano, a quel punto, volò sul mio viso, mi bloccò, quasi come se avesse voluto fermare un mio repentino dietrofront.

Sentii le sue dita premermi le labbra, la mia lingua accarezzarle senza fretta.

Neanche mi chiesi cosa mi stesse guidando, né cosa diamine accadesse al mio stupido corpo quando se lo sentiva addosso.

Lasciai scorrere tutto e assecondai solo quello.

Per una volta, pensai, dovevo smetterla di sperare in emozioni e sensazioni che non sarebbero arrivate, perché mi sembrò solo di provare un frenetico bisogno di sentirmelo addosso, un bisogno così intenso che stava per esplodermi dentro.

C’era solo il desiderio, lo avvertii fin dentro le ossa, e sentii di volermi affidare a quello.

Mentre il suo petto nudo mi premeva dietro alla schiena, avvertii dentro le mani l’esigenza di toccarlo, volevo voltarmi, leccargli le labbra, toccargli il petto, ma lui fu più abile di me, una sua mano si mosse lentamente dal mio fianco alla pancia.

Ansimai stringendogli le dita tra i denti quando la sua mano mi scivolò verso il basso, tra le gambe.

Era eccitante il modo che aveva di toccarmi, c’era una oscura sicurezza nelle sue mani, ma volevo sentire di più.

Volevo qualcosa di più intenso con cui stordirmi, intenso come la sua bocca sulla mia, il suo sapore nel mio.

Senza rendermene realmente conto, mentre lo pensavo, mi voltai verso di lui, incrociai la sua espressione in bilico tra l’eccitato e l’insoddisfatto e mi fiondai sulla sua bocca.

Avvertii un profondo senso di eccitazione quando mi accorsi che le labbra di Hayama sembravano anche più affamate delle mie, le dita gli s’incollarono ai lati del mio viso mantenendomi ferma su di lui in un bacio che mozzava il fiato e che sapeva di fame e urgenza.

La sua lingua lambiva la mia, le sue labbra me la succhiavano in un gioco erotico e seducente che afferrava e rincorreva e che sentii non avrebbe mai voluto fermare.

Eppure anche io mi sentivo così.

Ero come inarrestabile, fuori controllo.

Le mie mani volarono sul suo petto, le dita ne tastarono avide la consistenza per poi percorrere frenetiche una scia che sembravano conoscere bene e che portava verso il basso.

Ma fu proprio a quel punto che le mie mani persero il contatto con il centro esatto del loro desiderio e la sua bocca si allontanò pericolosamente dalla mia, lasciandomi ansimante e insoddisfatta.

«Cazzo, Kurata…» Sbuffò tirandomi a sé.

Sentii un bruciore irradiarsi dal suo tocco, e fu così che mi accorsi che con una mano mi reggeva il polso. «Credimi… Non farei altro che mangiarti così… Ma…»

Mangiarti.

Mi aveva detto proprio così, mentre lo guardavo passarsi freneticamente una mano tra il viso e i capelli pensai che non avrebbe potuto scegliere verbo migliore.

Mi sembrò volesse staccarsi via la faccia con le mani.

«Ho fatto qualcosa di sbagliato?»

«No… Anzi… Era tutto così…»

Mi sembrò avesse difficoltà a trovare le parole, io, da canto mio avevo difficoltà a trovarmi dentro dei pensieri da elaborare, delle ipotesi da vagliare.

Mi chiesi solo perché si fosse fermato tutto così, senza alcuna motivazione apparente.

Sbuffò sonoramente e s’infilò la maglietta raccattandola dal pavimento.

Poi continuò a guardarmi come se avesse voluto dilatare il tempo senza ammettersi che non sapeva cosa dire, perché quel suo sbuffare e muoversi senza riuscire a contenersi mi suggerì che ancora non riuscisse ad articolare pensieri in accordo con le parole.

Il suo corpo però mi parve stesse parlando in maniera ben più chiara e leggibile. Era agitato, teso, un fascio di nervi che si esprimeva con movimenti irruenti e scattosi.

Pensai che fosse molto diverso da quel corpo caldo e sicuro che neanche pochi minuti prima avevo sentito sotto le mani.

«Cazzo, Kurata! Dannazione!»

Akito in piedi davanti a me sembrava dannarsi l’anima, senza trovare parole diverse dalle imprecazioni da buttar fuori, io allora, sempre più confusa, mi voltai a guardare fuori dalla finestra.

«Sta nevicando, hai visto?»

Forse furono le mie parole, o magari il tono asettico che avevo usato, fatto sta che a quel punto Akito mi guardò lasciando andare un sospiro e mi tirò accanto al bordo del letto.

Mi spinse a sedermi e poi si chinò davanti a me, prendendomi le mani nelle sue.

«Scusa per prima… Io… Non so che mi è preso…»

Gli avrei voluto rispondere che non lo sapevo neanche io, ma mi piaceva.

«A quale prima ti riferisci?»

Lui a quel punto mi sorrise, ma era un sorriso strano, sapeva di qualcosa simile alla malinconia.

Mi passò una mano tra i capelli e me ne portò una ciocca dietro all’orecchio, mi accorsi chiaramente che i suoi occhi avevano inseguito i movimenti lenti della sua mano per tutto il tempo.

Non avevo idea di ciò che gli stesse passando per la testa, ma intuii che gli martellavano dentro delle cose che lo squarciavano in due.

«Che succede, Hayama?»

A quelle parole, lui non mi guardò, la sua mano però, mi scivolò piano dall’orecchio alla nuca e mi tirò a sé.

«Credo che dovremmo parlare di questa notte…»

Il buon senso.

Fu così che mi ricordai di lui, mentre strizzavo lo sguardo sul petto di Hayama e catturavo disperata il suo profumo.

Fece capolino come un ospite che non avrei voluto ma che sapevo di non poter mettere alla porta.

Scossi un po’ la testa sul petto di Hayama e mi strinsi tra le mani il suo maglione.

Perché il buon senso illuminava così bene le cose sbagliate da renderle affascinanti e desiderabili?

Quasi necessarie.

«Io… Penso che per il bene di entrambi sia meglio continuare ognuno per conto proprio…» Sussurrai.

Il buon senso si era posato sulla mia bocca.

Mi rendevo perfettamente conto che c’era solo quello nelle mie parole, così come mi rendevo perfettamente conto che per il bene di entrambi, avrei dovuto convincere anche il mio corpo ad allontanarsi da lui e da quella assurda volontà di sentirselo addosso.

Ma la mia volontà aveva una sua ragione che mi opprimeva.

Perché semplicemente non voleva vederlo andar via ancora una volta dalla mia vita.

La mia volontà, pensai, era debole, ma aveva delle ragioni così incaponite che se ne infischiavano del mio buon senso.

«Già…» Sussurrò solo quelle pesanti parole prima di sollevarmi il viso tra le mani.

Sicuramente sperò che bastasse quello per costringermi a guardarlo, invece gli occhi mi scivolarono giù, verso il basso, sulle sue gambe coperte dai jeans.

«Anche se in realtà non è ciò che voglio.» Aggiunse.

E a quel punto, persino i miei occhi risalirono verso i suoi.

Mi chiesi se Hayama ci stesse cercando dentro un appiglio, se stesse sperando anche lui che la volontà potesse avere la meglio sul buon senso.

“Nemmeno io.”

Così avrei voluto rispondergli, ma proprio in quel momento una mia mano volò sulla sua, sentii sotto le dita i tagli sulla sua pelle e forse mi bastò solo quello, perché anziché rispondergli come avrei voluto, gli allontanai le mani dal mio viso e gli risposi come avrei dovuto.

 

*****

 

Forse era passato troppo tempo da quando era andato via.

Distesa sul mio letto mi riconobbi addosso una stanchezza che non provavo da tempo.

Da almeno un mese, pensai.

Fu il vibrare eccessivo del mio cellulare a destarmi da quel pesante e apatico torpore.

Lo guardai vibrare e illuminarsi sul comodino a lungo prima di strisciare sul letto e raccoglierlo.

«Pronto…»

«Ehilà! Alla buon ora!» La voce di Naozumi m’investii i timpani. «Buon Natale, dormigliona!»

«Ehi… Buon Natale.»

Fu strana la sensazione che m’investii sentendolo parlare di tante cose messe insieme di cui non m’importava assolutamente niente.

Era come se la sua voce m’arrivasse da un'altra dimensione più che da un altro continente, soprattutto, ebbi come la sensazione che mi arrivasse come ovattata, avvolta da quella speciale pellicola.

«Non vedo l’ora di tornare, non sai quanto voglia fare l’amore con te...» Me lo disse in un tono quasi famelico, mentre io mi resi conto di faticare persino a ricordare la sua faccia.

Era come se davanti agli occhi avessi avuto solo Akito.

E allora mi morsi le labbra sperando di riacciuffare un po’ del suo sapore e fu proprio quando lo avvertii che mi sentii la terra mancare sotto i piedi, l’aria lasciare le pareti di casa mia.

Era giusto comportarmi così con Naozumi?

Avrei dovuto dirgli che non era più il caso di rimanere insieme, che era per il suo bene, ma le parole non mi vennero fuori.

Mi chiesi perché quel maledetto buon senso non mi facesse capolino sulla bocca.

Perché si metteva in moto solo con Hayama?

Tutto mi sembrò simile a quel sogno, dopo lo squarcio le pareti mi si stavano stringendo addosso e dovevo tirarmi fuori da lì.

Naozumi parlava di ciò che avrebbe voluto farmi al suo ritorno mentre io vagavo agitata nel mio appartamento in cerca di aria, di una via di fuga.

«Senti, Nao…» Ansimai. «Ci sono cose di cui dobbiamo parlare...» Gli dissi solo quello, neanche aspettai una sua risposta che gettai il telefono sul pavimento.

Mi lanciai fuori dal mio appartamento considerando il fatto che persino quella porta sfondata mi sembrò una crudeltà che non riuscivo più a tollerare.

Era come se improvvisamente tutto mi si stesse stringendo addosso, asfissiandomi e sollevandomi con una potenza dirompente.

Feci gli scalini a due a due presa da una foga che non avevo mai avvertito, mentre mi sembrava di correre fuori, verso la luce.

Riacciuffai l’aria quando il vento gelido della città mi tagliò la faccia.

Ero salva.

Mi chinai in avanti e inspirai profondamente, pensai di esser riuscita a mettermi in salvo, martoriata ma viva.

Restavo.

Così pensai, ma poi ci fu lo schianto.

Violento e improvviso.

Perché gli occhi mi si posarono in un punto e, nonostante fossero passati quindici anni da quella volta, io quel pupazzo di neve lo riconobbi immediatamente.

E allora mi rannicchiai al suolo senza neanche rendermene conto e mi nascosi il viso tra le mani.

Ero come sopraffatta.

Sopraffatta da quelle lacrime che a quel punto mi vennero fuori come una resa evidente.

«Sana?»

Sentii delle mani afferrarmi i gomiti, sollevarmi piano dal suolo.

«Che succede?»

La voce calma di Nobu mi arrivò quasi come un appiglio. Lo guardai incapace di riuscire a buttar fuori una parola, neanche un “Che ci fai tu qui?”

«Dio… Io… Stavo cercando proprio te, sai?»

«Me?»

«Si, ho preso il tuo indirizzo a lavoro ma… Perché stai piangendo?»

Mi guardava perplesso, forse si stava chiedendo che diamine ci facevo il giorno di Natale in lacrime fuori dal mio palazzo a piedi nudi sull’asfalto.

Poverino, pensai. Dovevo sembrargli una specie di fantasma.

«Ehi, Sana? Che succede? Perché stai così?»

Cosa avrei dovuto rispondergli?

Sarebbe bastato un non lo so?

Anche se a conti fatti era una bugia?

«Senti, Nobu… La sapresti riparare tu una porta sfondata?»

Buttai fuori solo quelle semplici parole e a quel punto sentii le sue braccia avvolgermi, il mio respiro riaccendersi.












Salve a tutte!!!
Spero abbiate passato un bel Natale, nonostante il periodo terrificante che stiamo attraversando.
Mi spiace non esser riuscita ad aggiornare prima e lasciarvi gli auguri, ma purtroppo sono stati giorni frenetici.
Cosa dire di questo capitolo?
Mi rendo conto che sia realmente l’apoteosi della disperazione… (O della rinascita? Boh… Chi lo sa!)
Però a me è piaciuto un sacco scriverlo, -se sa che con i drammi ci vado a nozze, insomma. X.D- e spero possiate apprezzarlo anche voi, nonostante la tragicità della situazione.
A questo proposito, mi piacerebbe tantissimo sapere a che conclusioni siete giunte, anche perché tutto è volutamente costruito per declinarsi verso più interpretazioni, quindi sul serio, fatemi sapere perché so troppo curiosa!

Come sempre un bacio speciale va alle mie amichette preferite <3
E vi ringrazio tantissimo per aver letto questa storia e per avermi fatto sapere cosa ne pensate <3

Sperando in un 2021 un po’ più sereno, vi bacio tutte e vi faccio tanti tanti auguri di buon anno, ragazze mie <3
A presto
Lolimik

 

 

 

 

 

 

  
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