C'era una
volta l’Oltre, il regno delle anime. A quel tempo non vi era
alcuna giustizia
in esso: accoglieva imparziale tutti, senza tenere conto delle azioni
compiute
in vita. Così, i malvagi si mischiarono ai virtuosi,
burlandosi di quest'ultimi
per aver seguito un’esistenza retta ed essere morti
immacolati, mentre loro
gioivano nell'essere impuniti per tutti i crimini commessi.
I puri di
cuore si sentirono mortificati da tale insolenza, tanto da rivolgere il
loro
pianto al Cielo Infinito, pregando che qualcuno li ascoltasse: il Dio,
quello
che avevano sempre venerato. Il loro lamento non fu mai consolato da
divinità
alcuna, ma qualcun altro condivise quelle lacrime e le fece proprie,
addolorato.
C'era una
volta un povero dannato: conduceva una vita triste e vuota nella sua
vecchia
città metropolitana. Era un uomo come tanti altri,
incattivito dalla realtà che
lo aveva cresciuto nel suo arido abbraccio.
Le favole
che ascoltava da bambino nulla poterono per fermare l'egoismo del
giovane, il
quale non sapeva distinguere il bene dal male ma, al contrario, tutto
era
dovuto a lui soltanto.
Voleva
avere tutto per sé: prima solo le favole, poi volle sempre
di più, e di più e
di più, fino ad infliggere atroci sofferenze a chi non
cedeva ciò che aveva di
più prezioso.
Aveva
ormai dimenticato da tempo quelle storie che tanto adorava, non
avendone mai
capito fino in fondo il significato: era troppo accecato dal desiderio
di
essere l'unico a poterle ascoltare per cogliere i loro insegnamenti. E
se è
vero che l'albero che nasce storto non può che crescere
altrimenti, il ragazzo
egoista diventò un uomo egoista, votando la sua vita a
sé stesso.
Gli anni
passarono: il suo corpo divenne maturo, ma non i suoi ideali. Ormai su
un
sentiero costellato di puro ego, l'uomo non tornò mai
indietro sui suoi passi,
fermamente convinto di non star facendo niente di male.
D'altronde,
era poi così terribile togliere qualcosa di poco valore a
tante persone? Ne
avrebbero fatto a meno tranquillamente. Almeno, questo era
ciò che si ripeteva
di continuo.
Un giorno
uguale agli altri, egli si preparò ad affrontare la sua
sporca monotonia. Ciò
che non poteva sapere, tuttavia, era che loro
lo stavano osservando. Loro, le
favole di quando era bambino. Dimenticate nel lontano passato e
infangate dal
suo comportamento, esse tornarono in questo mondo per giudicarlo.
Non appena
uscì di casa, un lurido e piccolo appartamento della
periferia urbana, l'uomo
si accorse fin da subito di essere seguito dalle ombre: correvano leste
dietro
di lui, impercettibili e chiare allo stesso tempo, forme animalesche
facevano
dei suoi passi i loro.
Urlò
di
terrore quando il Lupo balenò davanti a lui. Era uno spirito
bianco come la
neve, con le fauci rabbiose e gli occhi scarlatti; delle rune nerissime
e
brillanti di una cultura sconosciuta solcavano la superficie come se
fossero
scolpite nella sua carne.
Sul dorso
della belva, il Corvo sussurrava parole pietose verso lo sventurato,
come se
avesse emesso una sentenza. Speculare al compagno, le sue piume erano
scure
come la pece ed era grande quanto un’aquila; il suo corpo
riproponeva le stesse
incisioni dell’essere candido, bianche come pittura fresca.
Senza che
nessuno potesse sentirlo, l'uomo fu sbranato dal Lupo fino a perdere i
sensi,
in un mare di dolore e cremisi.
Quando
riaprì gli occhi si alzò di scatto sul suo letto,
portandosi istintivamente le mani al volto per sentire le ferite,
ansimante e madido di
sudore come se avesse appena smesso di correre. Con suo stupore,
tuttavia, era
del tutto illeso: non una cicatrice solcava la sua pelle.
"Avrò
fatto un incubo" disse tra sé e sé l'uomo, grato
di non avere più quelle
fauci sul suo collo.
Riprese le
attività quotidiane: fece colazione, si preparò
per raggiungere il suo posto di
lavoro e uscì di casa, con una tale pesantezza nel cuore da
farlo sentire fuori
posto in mezzo agli altri.
La
già
poco curata città in cui viveva sembrò come
spenta al suo passaggio, tanto che
ognuno si muoveva pigramente come se il tempo avesse perso di
significato. Quasi
nessuno correva verso le proprie occupazioni come era solito vedere,
mentre
quelle poche persone che lo facevano sembravano così stanche
e abbattute.
Gli altri no.
Sorridevano felici guardando in giro, parlavano tra loro con una gioia
aliena.
"Devo
essere davvero in ritardo. Forse, questa gente esce quando io sono
occupato"
pensò l'uomo stralunato.
Si
fermò a
scrutare attentamente il suo orologio da polso: le lancette erano
immobili,
imprecò a bassa voce per essersi scordato di caricarlo.
Continuò
quindi a camminare, sempre più disturbato da ciò
che accadeva intorno a lui;
quelle persone così strane si voltavano per guardarlo,
alcuni scuotendo la
testa, altri intonando parole di misericordia.
«Ma
che
diavolo avete da guardare?» urlò seccato, ma gli
altri non risposero.
Non tutti,
però, sembravano attratti dalla sua figura. Molti non si
accorsero nemmeno
della sua presenza, continuavano le loro attività come se
niente fosse.
Alterato
da quella situazione così assurda, decise di andare da uno
di questi per
chiedere cosa stesse succedendo, per sapere chi fossero quegli
individui così
molesti.
Provò
a
chiamare un ragazzo, ma quello sembrò non aver sentito.
Pensò che, forse, aveva
le cuffiette nelle orecchie, così mise la mano sulla sua
spalla e lo scosse. Il
giovane si girò, scocciato: guardò dritto negli
occhi l'uomo, sbuffò
sonoramente e ricominciò a camminare, non degnandolo
minimamente di attenzione.
Egli si
arrabbiò, bestemmiando furioso: cosa stava succedendo quella
mattina? Perché
erano diventati tutti così assenti? Sull'orlo della
disperazione e confuso,
decise che era meglio tornare a casa.
“Forse
mi
sono ammalato e sto delirando, succede di frequente in questo quartiere
inquinato dallo smog”.
Ebbe
l’impressione che la città si fosse divisa in due
parti: Quelli che Fissavano, e i Ciechi. L'ansia e il senso di alienazione
crebbero sempre di
più, l'uomo iniziò a essere paranoico: che fosse
tutto un complotto nei suoi
riguardi? Che fosse qualcuno in cerca di vendetta? Terrorizzato al
limite
dell'ossessione, iniziò a correre verso casa, evitando
accuratamente gli occhi
indagatori degli strani figuri.
Ciò
che
non riusciva a capire era che, come la maggior parte degli umani, egli
peccava
di presunzione nella sua illusione di essere intoccabile dagli eventi
della
vita terrena. 'Se non ha conseguenze immediate, non mi riguarda'
pensava sempre
prima di portare dolore a un suo fratello. La sua mente offuscata
dall'ego non
poteva vedere cosa c'era oltre.
All’improvviso,
qualcosa di familiare attirò la sua attenzione: proprio come
nel sogno,
qualcosa lo stava seguendo nelle ombre, di nuovo. Si voltò
freneticamente in
tutte le direzioni cercando di intercettare la minaccia, ma le presenze
erano
in nessun posto e ovunque allo stesso tempo. Non poteva scappare.
Rimase
quindi immobile e si lasciò cadere in ginocchio con le
lacrime agli occhi,
chiedendo disperatamente perché gli stessero succedendo
tutte quelle cose senza
senso. Il suo cuore ebbe un sussulto quando ricevette la risposta da
una voce
ruvida e gutturale, così profonda da far accapponare la
pelle.
«Tu
lo sai
il perché».
Di nuovo,
il Lupo e il Corvo apparirono dal nulla come miraggi nel deserto, senza
possibilità d'appello; come un crudele
déjà-vu, la belva saltò alla gola
dell'uomo, devastando la sua carne e il suo spirito con zanne
affilatissime.
E, come la
prima volta, egli si svegliò di soprassalto, urlando con la
morte negli occhi.
Stavolta, però, con le ferite che pulsavano ancora.
Disperato, corse in bagno
per pulirle con acqua fresca: più lavava via il sangue,
più il bruciore si
faceva intenso, a tratti quasi insopportabile. In preda al panico,
decise di
lasciarle così com'erano per evitare di morire di dolore,
insozzando la sua
casa di cremisi.
L'uomo si
rassegnò all'inevitabile, conscio del fatto che non si
trattava più di un
sogno, ma del crudele scherzo di qualche divinità: solo un
essere superiore
poteva prendersela con uno come lui o, almeno, era quello che la sua
testa gli
diceva per non cadere nella follia.
Uscì
di
casa grondando sangue come un animale sgozzato; si incamminò
lungo il
marciapiede, il quale dava sulla piccola strada secondaria che divideva
due
palazzine del complesso in cui abitava.
Apparentemente,
intorno a lui niente era cambiato: i Ciechi e Quelli che Fissavano
erano ancora
lì. Sostavano tutti sulla grande strada principale che
portava in centro,
quest'ultimi ancora più insistenti per via delle ferite
aperte. Nonostante ciò,
egli pensò che l'unica cosa che potesse fare era esplorare i
dintorni, pregando
di capire qualcosa di più sulle sue condizioni.
I Ciechi,
sostanzialmente, non avevano cambiato i loro atteggiamenti: nonostante
la scia
scarlatta che l'uomo lasciava dietro di sé, infatti,
continuavano comunque a
ignorarlo, alcuni venivano disgustati dalla sua presenza.
Provò a richiamare la
loro attenzione in tutti i modi, perfino bloccandogli la strada, ma
quelli lo
scansavano con violenza.
Sconsolato,
si rimise in piedi dopo l'ennesimo strattone e osservò colui
che lo aveva
respinto. La faccia gli era familiare e, infine, rimembrò:
era uno di quelli
che aveva truffato, uno dei tanti.
Nel
momento in cui la consapevolezza attraversò la sua mente, fu
folgorato da un
dolore intenso alla testa: una cascata di pensieri, emozioni e ricordi
che non
gli appartenevano corsero veloci davanti ai suoi occhi, lasciandolo
stremato e
ansimante.
Non fu
difficile capire che quella povera anima in pena gli stava facendo
provare il
dolore che egli aveva inflitto. Se per l'uomo non era altro che un
piccolo furto
senza importanza, per il derubato fu una mancanza terribile, tanto che
spese
molto del suo tempo nel cercare di rimpiazzare il vuoto lasciato.
Senza
nemmeno rendersene conto, iniziò a piangere. Quanti ne
esistevano come quella
persona? Quanti versavano nelle stesse condizioni?
Percepì
le
ombre che lo stavano tediando, era come un brivido gelido sulla schiena
che lo
avvertiva del pericolo imminente: il Lupo e il Corvo erano nei paraggi,
ne era
ormai terrorizzato.
Si fece
coraggio e scappò, ignaro perfino della direzione da
prendere, l'importante era
correre in cerca della salvezza.
Ciò
che
fece, invece, era esattamente quello che non doveva fare: il Lupo si
sentì
stuzzicato dall'idea della caccia spietata, tanto che ignorò
il suo compagno e
iniziò l'inseguimento, famelico e felice.
L'uomo
poteva sentire il respiro dell'essere dietro di sé: non
esisteva modo alcuno di
seminarlo e far perdere le sue tracce. Il Lupo si beò di
tale dolore, non c'era
niente di più bello per un cacciatore di sentire la sua
preda rantolare.
Dopo un
lasso di tempo interminabile, la belva decise di essersi divertito
abbastanza:
saltò alla schiena dell'uomo, atterrandolo, per poi
azzannarlo di nuovo, ancora
e ancora. Dopo ogni assalto le ferite diventavano più
profonde, il dolore diveniva
sempre più intenso.
Quella
volta, egli riaprì gli occhi lentamente, stanco ed esausto:
ormai non c'era più
niente di pulito nel suo appartamento. Si alzò barcollando
senza più nemmeno
struggersi per l'accaduto; tornò anzi in centro
città, l'unico posto in cui
poteva avere risposte.
Era come
se, dopo ogni aggressione, lui acquisisse sempre più
consapevolezza della volta
precedente, tanto che iniziò a notare stranezze
già fuori la sua abitazione:
cortei lunghissimi formati da Quelli che Fissavano sfilavano per le
strade,
indisturbati da tutti. Non facevano che cantare lodi al Corvo dalle
rune
bianche, ringraziavano di essere stati benedetti dall’animale.
"Forse
stavolta parleranno con me" pensò il malridotto dannato.
Provò ad
avvicinare uno di loro con parole gentili, come non aveva mai fatto con
nessuno.
«Scusami,
tu
riesci a vedermi?»
«Certo,
ho
pietà per te» disse sorridendo il vecchietto a cui
si era rivolto. L'uomo sentì
di nuovo la speranza rinascere.
«Quindi,
gli
altri non mi parlano perché non ne hanno?»
L'anziano
mise una mano sulla spalla del più giovane, con espressione
amara sul volto.
«Non
puoi biasimarli
per questo, figliolo».
«Perché?
Cosa ho fatto?»
«Tu
lo sai
il perché» disse duramente il vetusto signore.
Per un
secondo, l'uomo ebbe l'impressione di aver sentito il Lupo parlare con
quella
voce terribile. Nonostante tutto, non poteva farsi sfuggire quell'unica
occasione
di avere delle spiegazioni, anche se ciò voleva dire
scendere a patti con i
suoi peccati.
«Ho
fatto
cose terribili, me ne sto rendendo conto. Posso capire che i tuoi
compagni non
vogliano parlarmi. Ma gli altri? Loro nemmeno mi vedono, e il Lupo mi
dà
continuamente la caccia. Puoi aiutarmi a capire cosa succede?»
«Conoscere
la verità significa affrontarla. Credi di essere pronto a
farlo?»
In cuor
suo, l'uomo non conosceva la risposta a quella domanda. In preda al
panico avrebbe
voluto gridare di sì, tutto per fermare l'agonia che stava
vivendo, ma un
dubbio si insinuò nel suo cuore: e se la verità
fosse stata più terribile? Se
averci a che fare avesse causato più dolore?
Rifletté
a
lungo sulla questione, confuso sul da farsi: poteva non rischiare e
rimanere in
quel limbo, oppure poteva farsi coraggio e provare a salvarsi con tutte
le sue forze.
Terrorizzato, prese la sua decisione.
«Dimmi
cosa devo fare» chiese al vecchietto, il quale sorrise felice
nel vedere un
reietto provare a diventare migliore di quello che era.
«Devi
andare dalla Cantastorie. Vivi qui, no? Conoscerai sicuramente il
teatrino del
parco dove i bambini vanno a sentire le favole».
Le favole,
quelle stesse storie che voleva avere tutte per sé. In
qualche modo, l'uomo
sentì il cerchio chiudersi intorno a lui, come se tutta
quella follia fosse
diventata improvvisamente un'ovvietà. L'anziano riprese la
sua marcia insieme
ai compagni, cantando con più vigore e gioia nel cuore.
«Sia
lodato il Corvo della Misericordia! Che il suo canto possa aver
pietà di te!»
Egli si
mise quindi in moto, verso il centro della città. Era
lì che, da bambino,
andava a sentire le favole di una giovane donna, ormai non ne ricordava
più
nemmeno il volto.
Ogni passo
in quella direzione era come una catena in più alle sue
caviglie. Man mano che
la sua unica speranza si faceva più vicina, il peso dei suoi
peccati si faceva
sempre più pesante: poteva sentirli tutti sulle sue spalle.
Le ombre
lo seguivano quiete, come se lo stessero scortando verso la sua meta.
Il Lupo
ringhiava sommesso, ma non attaccò mai durante il tragitto,
mentre il Corvo
sussurrava delicatamente parole di incoraggiamento, la sua voce era
cristallina
e soave.
Quando
arrivò a metà del percorso, sulla via principale
costeggiata da secchi arbusti,
l'uomo dovette avanzare carponi, tanta era la pesantezza che premeva
sul suo
corpo. I due esseri smisero perfino di nascondersi ai suoi occhi:
poteva infatti
vederli camminare sul ciglio della strada, oppure sostare in lontananza
sulle
panchine a scrutare tutti loro.
Sì,
loro.
Spezzati come lui, tutto intorno alla sua figura comparvero altri
uomini e
donne, altre anime azzannate dal Lupo e deformate dalla
gravità delle loro
colpe. In quel momento, capì che non era mai stato solo nel
suo tormento, ma il
suo ego tossico gli aveva impedito di vederli.
Essi
sgranarono gli occhi alla vista degli altri, tutti peccatori nella
medesima
situazione: come un corteo funebre, si stavano dirigendo affannati
verso il
centro della città.
Dopo tempo
incalcolabile, arrivarono presso il teatrino allestito in un parco
verde
coperto dagli alberi; i bambini correvano felici a prendere posto sulle
piccole
sedie colorate, impazienti di veder arrivare la Cantastorie e godersi
le loro
favole preferite.
I corrotti
si mischiarono ai puri, rimanendo comunque in disparte per non
contaminarli con
la loro sozzura. L'uomo non poté far a meno di ricordare
quando era lui uno di
quei pargoletti, quando era lui che giocava spensierato sull'erba
profumata e
aspettava smanioso l'ora dei racconti.
Giorni
lontani, ormai perduti. L'aria si riempì di un canto
lugubre, un pianto
sconsolato di anime che si erano rovinate con le loro mani. I bambini
non
sentivano minimamente i lamenti di coloro che avevano accanto, tanto
che
urlarono felici quando arrivò la giovane donna con in mano i
libri da loro
tanto adorati.
Sorridente,
la Cantastorie si sedette comoda osservata dalle facce sognanti dei
piccini,
ignara della presenza dei dannati piegati forzatamente sulle loro
ginocchia,
quasi in preghiera davanti alla sua figura.
Aprì
il
primo volume dalla copertina dipinta: un bellissimo disegno del Lupo e
del
Corvo ornava la filigrana, talmente suggestivo da attirare
inevitabilmente
l'attenzione dei presenti. Con espressione placida, iniziò a
leggere.
«C'era
una
volta l’Oltre, il regno delle anime. Allora non vi era
differenza tra l'essere
vivi o morti: tutti vivevano in egual modo, finché il sonno
inappellabile non
li metteva a riposo per sempre, in un dormiveglia infinito. La loro
esistenza
non aveva scopo, essi erano e basta, generando immensa tristezza. Al
Cielo essi
levarono i propri lamenti, e Lui ne fu impietosito.
C'erano
una volta due fratelli, generati dalla misericordia del Cielo Infinto:
uguali
ed opposti, essi portarono con loro il cambiamento, la differenziazione
di
tutte le cose. Vita e Morte iniziarono a plasmare il mondo secondo il
loro volere,
insegnando ai suoi abitanti cosa volesse dire vivere una vita propria,
ma
limitata. Così, gli uomini impararono a usare il tempo che
avevano per cercare
la propria felicità, trovando la loro ragione di esistere
nel mondo e
guadagnandosi il proprio posto nell'aldilà.
L’Oltre
venne scolpito ad immagine e somiglianza del mondo terreno: esso era
come un
velo che copriva la materia, una sola dimensione che conteneva due
realtà
separate, seppur simili. Fu nel momento in cui esalarono l'ultimo
respiro che gli
uomini capirono che non tutto era come doveva essere, che il paradiso
promesso
dai fratelli non era ciò che avevano chiesto.
Non vi era
alcuna giustizia in esso: accoglieva imparziale tutti, senza tenere
conto delle
azioni compiute in vita. Così, i malvagi si mischiarono ai
virtuosi, burlandosi
di quest'ultimi per aver seguito un’esistenza retta ed essere
morti immacolati,
mentre loro gioivano nell'essere impuniti per tutti i crimini commessi.
I puri di
cuore si sentirono mortificati da tale insolenza, tanto da rivolgere il
loro
pianto al Cielo Infinito, pregando che qualcuno li ascoltasse: il Dio,
quello
che avevano sempre venerato. Il loro lamento non fu mai consolato da
divinità
alcuna, ma qualcun altro condivise quelle lacrime e le fece proprie,
addolorato.
Morte vide
quella ingiustizia e non poté ignorarla, come invece stava
facendo il suo
genitore. Benedetto dalla sorella Vita, Egli decise quindi di mutare
forma,
diventando Morrigan.
Morrigan,
La Signora del Sonno Eterno; per amministrare la giustizia tanto
agognata, ella
divide il suo spirito in due parti autonome e distinte, pur rimanendo
cosciente
di essere una cosa soltanto.
Il Corvo
dona una morte rapida e indolore a coloro che hanno un’indole
buona,
raccogliendo le loro anime con le sue zampe delicate; il Lupo insegue e
prende
la vita dei malvagi, infliggendo grandi pene e sofferenze come
punizione per i
peccati più oscuri.
Essi sono
cacciatori immortali, traghettano le anime dal mondo terreno
all’Oltre,
incessantemente. Qui, i morti continuano la loro non vita accanto ai
vivi,
invisibili da quest'ultimi, senza avere mai la possibilità
di vedersi né
toccarsi.
Coloro
benedetti dalla misericordia del Corvo non sentono dolore, provano solo
felicità e beatitudine; le loro menti sono cullate per
sempre dai ricordi più
dolci, avendo anche la possibilità di vedere le loro opere
buone fruttare nel
mondo terreno, come degli spettatori in un teatro.
Coloro presi
dal Lupo, invece, vengono perseguitati fin quando non hanno espiato i
loro peccati.
Nel momento in cui avranno fatto proprio tutto il dolore che hanno
inferto,
allora saranno liberi dalla caccia incessante.
Sacrificando
la sua identità, Morte portò giustizia in questo
mondo e in quell'altro».
Finalmente,
l'uomo capì: la prima volta che fu aggredito,
morì tra le fauci del Lupo per
via delle sue cattive azioni, giudicato da entrambi gli esseri senza
possibilità di redenzione. Fu poi trasportato
nell’Oltre per essere punito, ove
si trovava dal tragico evento in poi.
Si
guardò
intorno, con l'animo devastato: i Ciechi non erano altro che i viventi,
impossibilitati nel vedere un morto nell'aldilà, mentre
Quelli che Fissavano
erano le anime benedette dal Corvo.
Fece un
profondo respiro, stanco, ma consapevole. Riconobbe di essere una
persona
ignobile e di meritare quella punizione. Il ragazzo di cui aveva visto
i
ricordi era solo uno dei tanti, tantissimi a cui aveva tolto qualcosa.
Doveva
trovarli tutti, e riprendere il dolore che aveva causato.
Si
girò pronto
ad andare, quando Morrigan si palesò davanti a lui. Sapeva
cosa lo aspettava: chiuse
gli occhi, aspettando le zanne del Lupo.
C'era
una
volta una favola della buona morte, priva di un finale: questo
è un ciclo
immortale in cui la storia si ripete senza tempo, dove il racconto di
un singolo
uomo è il racconto di tutti gli uomini, poiché la
caccia non avrà mai fine.