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Autore: Soul of Paper    27/12/2020    3 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
I Natali del rapporto tra Imma e Calogiuri. Com'è nata la loro collaborazione per come l'abbiamo vista all'inizio della fiction? Come ha fatto Calogiuri a conquistarsi la fiducia della Tataranni? Lo scopriamo in due momenti nel tempo: pochi mesi dopo che si sono conosciuti e un anno dopo, nel natale che va collocato tra la seconda e terza puntata della fiction. Fanfiction in due capitoli. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri - Prequel, Missing Moments
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Natali


Capitolo 1 - Lento


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Imma, il dottor Taccardi ha mandato i risultati dell’autopsia sulla donna trovata nella Gravina.”

 

“Alla buon’ora! Che tra poco li ricevevo mentre mi mangiavo le strazzat’. Lascia pure qua, Diana.”

 

La cancelliera annuì e mollò la cartellina che aveva in mano, tornandosene rapidamente nel suo ufficio.

 

La donna era stata rinvenuta qualche giorno prima, sul greto del fiume. Si presumeva che fosse morta affogata o per ipotermia, scivolando incautamente nelle acque durante una gita in famiglia. Il marito aveva dato l’allarme sulla sua scomparsa il sabato precedente.

 

Sta gente che manco con il ghiaccio che c’era ovunque riusciva a starsene a casa, invece di cacciarsi nei guai!

 

Fece scorrere rapidamente il dito sul rapporto ed una cosa la colpì immediatamente: nei polmoni non c’era acqua. La causa primaria di morte pareva essere un colpo alla base della nuca, causato da un oggetto irregolare, presumibilmente una pietra, che aveva causato incoscienza ed un’emorragia cerebrale, si presumeva che dopo fossero sopraggiunti assideramento e quindi il decesso, senza che riprendesse conoscenza.

 

Taccardi, come al suo solito, non aveva aggiunto altri commenti personali, ma Imma immaginava di trovarsi al posto della donna - Bruna si chiamava, una delle poche ancora con quel nome nelle generazioni nate dopo gli anni Sessanta - e di finire in un fiume come il Gravina, venire trascinata via, incosciente… com’era possibile che non avesse respirato acqua, vista la forza delle correnti?

 

Compose immediatamente il numero di Taccardi, per confermare la sua ipotesi.


“Dottoressa! Buon natale pure a lei!” rispose lui, sarcastico, dopo troppi squilli.

 

“Non grazie a lei, dottore, che con questa benedetta autopsia fino all’ultimo mi ha fatta penare! Ascolti, secondo lei è possibile che la donna, cadendo nel fiume ancora viva e picchiando la testa su una delle rocce a pelo d’acqua, possa poi aver percorso tutta quella distanza senza mai respirare o bere acqua?”

 

“Dottoressa… al mondo tutto è possibile o quasi, lo sa. Potrebbe aver galleggiato di schiena fino a morire di ipotermia e poi il corpo essere finito a riva. Tuttavia lo ritengo altamente improbabile, conoscendo la Gravina e le sue correnti, ma questo non è compito mio stabilirlo. Ad ognuno il suo mestiere, dottoressa, pure se non sarebbe nemmeno compito suo, a voler ben vedere.”

 

Chiuse la chiamata, senza stare a perdere tempo in cerimonie, tanto con Taccardi era inutile.

 

Con il marito c’era stata pure la figlia in quella gita fatale. Una ragazzina quindicenne ed un poco brufolosa che pareva sotto shock e che aveva confermato con un cenno del capo la versione del padre.

 

Guardò l’ora. Le tre di pomeriggio. Cercò il nome del marito della vittima e scoprì che lavorava in uno studio di revisione contabile - a quanto pare era un Senior, qualsiasi cosa volesse dire.

 

A quell’ora, con le chiusure e le conte di magazzino in corso in molte attività, era probabile che fosse ancora al lavoro. E la ragazzina a quindici anni quasi sicuramente era a casa da sola. Difficile fosse andata a scuola, improbabile che avesse ancora una babysitter.

 

Non c’era un minuto da perdere: convocarla in procura avrebbe messo in allerta il padre, sarebbero intervenuti stuoli di avvocati e la ragazzina sarebbe molto probabilmente stata terrorizzata e profondamente condizionata nel rispondere.

 

Si alzò di scatto dalla scrivania e con un “Diana, io esco!” afferrò borsa e cappotto e scese di corsa le scale verso la PG. Non poteva andarci da sola, serviva almeno un testimone.

 

Entrò in PG, senza bussare, ma la trovò deserta, tranne per un’unica testa che fece un sobbalzo, prima che il suo proprietario si tirasse subito in piedi.

 

“Dottoressa!” esclamò, sull’attenti come un soldatino, sembrando un poco spaventato.

 

“Comodo, appuntato, comodo,” sospirò, ma il ragazzo rimase comunque rigido come un palo.

 

Tanta formalità non era una cosa così usuale, nemmeno tra le nuove leve, che pure erano ancora un minimo più rispettose dei tromboni - tipo il brigadiere Capozza - con i quali le toccava avere a che fare quotidianamente. Ma l’appuntato… Calo... Calogiuri, le pareva si chiamasse, era lì da giusto un paio di mesi e si vedeva chiaramente che fosse al primo incarico, fresco fresco di accademia.

 

“Gli altri dove stanno, appuntato?” gli chiese poi, dicendosi che forse il ragazzo avrebbe fatto meglio a fare il corazziere, vista l’altezza e l’attitudine a stare fermo e muto.

 

“So- sono tutti usciti. Il brigadiere Capozza è con la dottoressa D’Antonio, mentre con il dottor Diodato ci stanno-”

 

“Va beh, appuntato, ho capito. E immagino che non torneranno a breve?”

 

“No, no, non credo torneranno per oggi.”

 

Eh beh, certo: erano già le tre del pomeriggio, da lì a due giorni sarebbero stati tutti in ferie, figuriamoci se quei lavativi sarebbero rientrati!

 

“Ho bisogno di fare un sopralluogo. Lei è disponibile?” gli domandò, guardandolo in modo tale da fargli capire che no non era una risposta accettabile.

 

Non sarebbe stato la sua prima scelta e nemmeno la seconda o la terza, ma alla fine doveva giusto accompagnarla in auto e fare la bella statuina - cosa che sembrava riuscirgli bene - e prendere nota, cosa che sperava sapesse fare, anche se non ci contava troppo.

 

“Io?” domandò, indicando se stesso e guardandosi in giro, con la bocca mezza spalancata in un’espressione da pesce lesso.

 

“Appuntato, mi pare che ci stia solo lei qui! Che pensa, che parlo coi fantasmi?! Non mi faccia perdere tempo con domande stupide!” lo redarguì, sentendo che stava per perdere del tutto la pazienza.

 

L’appuntato, per tutta risposta, divenne di un colore che manco il naso dell’orrida renna di Babbo Natale che sua suocera aveva messo in giardino, convinta che fosse molto chic.

 

“Scu- scusatemi, dottoressa, io non intendevo… non mi permetterei mai! Scusatemi!” balbettò lui, con un’aria talmente mortificata che, stranamente, l’irritazione si calmò un poco, sostituita da una lieve incredulità nel sentirsi dare del voi, che erano ormai anni che nessuno usava più.

 

Giusto lei con quella simpaticona di sua suocera, che le toccava, per tradizione.

 

“Va beh… senta… vada a preparare la macchina. Tra cinque minuti al massimo la voglio qua fuori!”

 

“Certamente, dottoressa, va- vado subito!” bofonchiò lui, spegnendo il computer e afferrando un giaccone blu un po’ slavato dall’attaccapanni.

 

“Veloce, appuntato, veloce!” sospirò, finché lo vide uscire di corsa dalla porta.

 

Stava uscendo pure lei, dopo aver richiuso la porta della PG, quando venne bloccata da un “dottoressa Tataranni!” che non prometteva niente di buono.

 

“Dottore…” sospirò, voltandosi verso il procuratore capo: più curvo del solito, con i capelli tinti in modo improbabile e quei lineamenti che lo facevano sembrare una di quelle caricature dei carri di carnevale.


“Dove starebbe andando, dottoressa? Uno dei suoi soliti… sopralluoghi?” le chiese con un tono dispregiativo che dovette contare fino a dieci prima di rispondere, se voleva tenersi il lavoro.


“Dottore, sono emersi nuovi elementi. Devo parlare con una giovane donna e penso che fuori dalla procura potrebbe aprirsi di più. Come lei sa, domani è l’ultimo giorno e poi col natale di mezzo… rischiamo che la pista si freddi.”

 

“Non so se la pista si fredderà, dottoressa, ma sicuramente è fredda la mia scrivania, che ancora attende i suoi ultimi rapporti. Lo sa che la parte burocratica è fondamentale, se non vogliamo rischiare che venga invalidato tutto il resto. Quindi mi aspetto tutti gli incartamenti sulla mia scrivania per domani.”

 

“Naturalmente, dottore,” le toccò assentire, perché non aveva alternative.

 

Il dottore rimase per un attimo in silenzio e lei ne approfittò per pronunciare un “con permesso!” e sgusciare fuori dal portoncino, prima che lui cambiasse idea.

 

Per fortuna l’auto di servizio era subito lì fuori e Calogiuri la aspettava in piedi lì accanto. Le aprì la porta posteriore, per farla salire, in un modo che le ricordò per un attimo il maggiordomo di una famosa pubblicità di cioccolatini.

 

E poi, finalmente, si mise al volante, si allacciò la cintura e partì, dopo aver inserito indirizzo sul navigatore, con una lentezza esasperante, la mano che gli tremava un poco.

 

L’inizio della guida la stupì: l’appuntato non guidava come un forsennato, come la maggior parte degli altri della PG, che le veniva sempre da vomitare pure il cenone del natale precedente.

 

Era prudente, cauto, fin troppo.

 

“Su, appuntato, su, veloce! Che qua prima arriviamo e meglio è!”

 

“S- sì, dottoressa!” le rispose, accelerando leggermente e guardando ogni tanto nello specchietto.

 

Lei invece, più di ogni tanto, doveva ribadirgli di aumentare un poco la velocità, rassegnandosi all’idea che sarebbe stato un lungo viaggio e un lungo pomeriggio.

 

Provò a spiegargli per sommi capi che cosa aveva scoperto, e a fargli le raccomandazioni su come comportarsi, sperando che non facesse casini con la ragazza.

 

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Suonò di nuovo il campanello. Era la terza volta, ma vedeva dalle luci che c’era qualcuno in casa e quindi non demorse.

 

Alla fine, la porta si aprì di una fessura e due occhi scuri, cerchiati di nero, la fissarono.

 

“Rebecca? Sono Imma Tataranni, il sostituto procuratore che si occupa del… caso di tua madre. Ti ricordi? Ci siamo viste qualche giorno fa. Ho bisogno di parlarti, ci fai entrare?”

 

Gli occhi si strinsero e la ragazza chiese, “ci chi?”

 

“A me e all’appuntato Calogiuri,” rispose, facendogli segno di avvicinarsi alla porta, sperando capisse.

 

Per fortuna, almeno su quello, non pareva essere troppo lento e si avvicinò alla porta - e pure a lei in effetti - salutando la ragazza con un, “ciao Rebecca, ci fai entrare?” che le suonò gentilissimo e stranamente non balbettante.

 

Gli occhi stavolta si spalancarono e, dopo poco, la porta fu sbloccata e si spalancò.

 

Entrarono e la ragazza domandò, un poco intimorita, “dove… dove volete andare?”

 

“Che ne dici di camera tua?” domandò Imma, sapendo per esperienza che per una ragazza di quell’età era il luogo più intimo e quindi sia quello in cui si sarebbe sentita più a suo agio, sia quello in cui avrebbero potuto cogliere più informazioni su di lei.

 

Rebecca sembrò sull’orlo di protestare, ma alla fine annuì e li accompagnò verso una delle porte in legno bianco della casa, la aprì ed Imma fu subito colpita dal contrasto tra quel candore e l’interno: i muri erano dipinti di un rosso molto scuro, la camera era tappezzata di poster di band, soprattutto metallari, a giudicare dai look e dalle facce da spavento che facevano. Persino le lenzuola erano nere. C’era un che di opprimente in quella stanza e si chiese come la ragazza potesse dormirci tranquilla.

 

Rebecca si accomodò sul letto, mentre lei si sedette sull’unica poltrona disponibile, anche se mezza sommersa di vestiti - neri pure quelli - e Calogiuri rimase in piedi, intento ad estrarre un taccuino in tinta con il resto dell’atmosfera ed una penna dalla tasca interna del giaccone.

 

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Era passata quasi mezz’ora ed Imma stava per gettare la spugna: aveva provato più volte a chiedere la ragazza cosa ricordasse esattamente del momento in cui la madre era scivolata nel fiume, ma lei continuava a rispondere a monosillabi e con dei “non mi ricordo!” che la lasciavano un poco dubbiosa, al di là del trauma subito.

 

“Stavate guadando il fiume? Come mai?” le domandò, ma la ragazza si limitò ad annuire e non disse niente, prima di lanciare uno sguardo all’appuntato, l’ennesimo.

 

Era una richiesta d’aiuto, indubbiamente, ma c’era anche qualcos’altro: il modo in cui se lo guardava le ricordava molto come Valentina fissava quella band di cretinetti inglesi dalle pettinature improbabili che, per disperazione della figlia, si era sciolta l’anno prima, lasciandola in una valle di lacrime.

 

“Senti, Rebecca, c’ho la bocca un poco secca. Che mi porteresti un bicchiere d’acqua?” le chiese, ma la ragazzina si guardò in giro, preoccupata, “tranquilla, noi stiamo fermi qui e non ci muoviamo, né tocchiamo niente.”


Rebecca esitò per un secondo, ma poi annuì e sparì dietro la porta, lasciata però aperta. Aveva solo pochi secondi.

 

Si sporse verso l’appuntato e gli sussurrò, “quando torna, le faccia lei le domande. Dobbiamo capire cosa è successo esattamente alla Gravina.”

 

L’appuntato spalancò gli occhi e disse un, “io?!” impanicato, ma poi si corresse subito con un “s- sì, dottoressa!”

 

Almeno su certe cose imparava in fretta, anche nel panico.

 

“Deve metterla a suo agio e poi farle più o meno le domande che le ho fatto io,” specificò, intuendo probabilmente che il ragazzo, fino a quel momento, si era al massimo occupato di fare l’autista e l’amanuense. Lui annuì proprio mentre la ragazza tornò con un bicchiere d’acqua, che le piazzò in mano con così tanta ostilità che Imma si chiese se fosse avvelenata.

 

“A- allora, Rebecca, davvero non ti ricordi proprio niente? Ma niente niente?” le chiese l’appuntato, balbettando un poco all’inizio, ma poi sembrando più tranquillo.

 

La ragazza scosse il capo ma aggiunse un, “niente niente, mi dispiace!” un poco timido che era già meglio dei monosillabi sentiti fino a quel momento.

 

Gli occhi azzurri dell’appuntato rotearono intorno alla stanza e poi li vide illuminarsi.


Fece un sorriso, di fronte al quale la ragazza sorrise di rimando, in modo quasi ebete, e le chiese, “ma ti piacciono gli Slipknot?”

 

Rebecca si sorprese ma lui indicò un poster alle sue spalle, con dei tizi con addosso delle maschere orrende, che manco Freddy Krueger.

 

“Piacciono pure a te?” chiese di rimando la ragazza, con un altro sorriso, ed Imma non seppe se sperare che la risposta fosse no - perché fidarsi lavorativamente di uno che idolatrava quei cosi sarebbe stato quantomeno azzardato - o che fosse sì, perché si immaginava l’appuntato, più timido delle damine dei romanzi inglesi dell’Ottocento, ad un concerto di quei cosi e quasi le veniva da ridere.

 

“Diciamo che li conosco: mia sorella li ascoltava sempre, quindi ho passato qualche anno con la loro musica a tutto volume quando i miei erano fuori casa.”

 

Visualizzò una versione femminile dell’appuntato, con gli occhi pesti, il viso ancora più pallido e le labbra nere o rosso sangue, vestita da metallara, e dovette scacciare a forza la visione per restare seria.

 

“Ma avevi un album preferito?” chiese invece la ragazza, rilassandosi visibilmente, anche con le spalle e il busto.

 

“Iowa era il mio preferito e pure quello di mia sorella.”

 

“Sì, è il migliore!” concordò Rebecca ed, improvvisamente, le sembrò di vederla come doveva essere normalmente, prima che succedesse quello che era successo, in quella stanza, con le amiche - che chissà se erano metallare pure loro - a discutere di musica e altro.

 

Continuarono a parlare dei cosi e di un’altra band metal tedesca dal nome impronunciabile e, dopo un po’, quando la ragazza sembrò a suo agio, seduta comodamente appoggiata al muro accanto al suo letto, Calogiuri la guardò in quello che le parve un chiederle conferma se tornare sull’argomento principale, e lei gli fece un cenno d’assenso.

 

Non era proprio stupido il ragazzo, almeno con le persone sembrava abbastanza intuitivo. Sicuramente, a differenza sua, era più capace di conquistarsi le persone.

 

“Senti, Rebecca, lo so che… che certe cose si vuole solo dimenticarle, ma… ma vorrei veramente sapere se ti viene in mente qualcosa, qualunque cosa dei momenti prima che… succedesse quello che è successo a tua mamma. Noi vogliamo solo che lei abbia giustizia e… e soprattutto assicurarci che tu sia al sicuro.”

 

Imma trattenne il respiro: l’appuntato ci era andato giù diretto e… e poteva essere il disastro definitivo.

 

Ma gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime e disse “è colpa mia, è tutta colpa mia!” mentre scoppiava in un pianto disperato.

 

L’appuntato le lanciò lo sguardo appanicato tipico degli uomini di fronte ad una donna piangente e decise di intervenire lei con un “in che senso è colpa tua?”

 

“Mamma… mamma e papà litigavano… litigavano spesso. Quel giorno stavano litigando per me, perché… mamma qualche giorno prima gli aveva detto che voleva separarsi e… io l’avevo sentito ma non avevo detto niente. Ma quel giorno papà ha voluto fare quella maledetta gita e… e gliel’ho chiesto, che senso aveva essere lì a fare finta di niente se si volevano separare. Lui l’ha… l’ha accusata di avermelo detto, di volermi fare il lavaggio del cervello e di metterglielo contro e… e lei ha detto di no, che dovevo averlo scoperto da sola. E poi hanno litigato e poi… e poi lui le ha detto che non mi avrebbe portata via e… e poi… e poi l’ha spinta ed è… è caduta e ha sbattuto la testa su una roccia. C’era rosso, rosso ovunque… io… pensavo di essere abituata al sangue ma… ma ho vomitato e poi… e poi lui mi ha detto che avrebbe messo tutto a posto, che dovevo solo confermare quello che diceva lui, che se no ci avrebbero divisi e io sarei finita in… in un istituto e poi… dopo un po’ ho sentito un rumore come… come un tonfo nell’acqua e….”

 

La ragazza si interruppe, continuando a singhiozzare, ma non era necessario andare avanti, aveva già capito tutto.

 

Presa da un impulso, si alzò e le si sedette accanto, stringendola in un abbraccio: in fondo, anche se faceva la dura, era ancora una bambina.

 

“Stai tranquilla, ci prenderemo noi cura di te,” la rassicurò, cercando di calmarla, per quanto fosse possibile in quelle circostanze, “hai un parente, magari della mamma, da cui stare?”

 

“Mia zia ma… vive a Bari.”

 

“E che problema c’è? Bari mica è in capo al mondo. Mo faccio una telefonata. Tu riesci a fare un borsone con le cose che ti servono? Giusto per qualche giorno?”

 

“Ma… ma che succederà a papà? Lo arresterete?”

 

“Non possiamo evitarlo, ma non è colpa tua, hai capito? Ha scelto lui di fare quello che ha fatto e… come ha detto l’appuntato, dobbiamo assicurarci che tu sia al sicuro e che non sia pericoloso pure per te stare qua con lui.”

 

La ragazza annuì, tra i singhiozzi, e lei le chiese, “io mo devo fare una telefonata, se vuoi l’appuntato qua ti dà una mano a fare il borsone, se no se sei più a tuo agio con me, aspettate cinque minuti e lo prepariamo insieme, va bene?”

 

La ragazza di nuovo mosse la testa in alto e in basso e gli occhi azzurri dell’appuntato incrociarono i suoi: erano un po’ troppo lucidi e preoccupati, ma poi fece anche lui un cenno d’assenso.


Doveva sentire il procuratore capo: bisognava andare ad arrestare il padre di Rebecca e subito!

 

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“Ma dove porterete Rebecca ora?”

 

“In un luogo sicuro, stia tranquillo. Calogiuri, mi chiama gli agenti che dovrebbero essere qua fuori?”

 

L’appuntato smise di scrivere su quel taccuino in cui si era pure annotato tutta la confessione dell’uomo che, per fortuna, messo alle strette, aveva ceduto praticamente subito: un interrogatorio rapido, anche se non di certo indolore. Il ragazzo si alzò dalla scrivania d’angolo ed aprì la porta, da cui fecero ingresso i due agenti di polizia penitenziaria che Diana aveva già provveduto ad allertare.

 

“Dite… dite a Rebecca che le voglio bene e che… che l’ho fatto per lei! Quella non poteva portarla via! Non poteva!” gridò l’uomo, come ultime parole, ed Imma pensò che no, a Rebecca ci mancava solo quel senso di colpa.

 

“Lei lo ha fatto per se stesso, solo per se stesso!” gli rispose, anche se non era certa che l’uomo, nel suo delirio, l’avesse sentita.

 

E poi la porta si richiuse e si trovò con due paia di occhi azzurri - Diana e l’appuntato - che la guardavano abbastanza sconvolti.

 

“Un altro che ammazza la moglie, a quanti siamo quest’anno?!” sospirò Diana, scuotendo il capo.

 

“Troppi, Diana, troppi!”

 

“Che se penso a Cleo, quella povera figlia! Chissà chi si troverà lei, che ci manca che trova uno così! Che poi sembrava tanto tranquillo, una persona così perbene!”

 

Ad Imma toccò ammettere che era vero: l’uomo non aveva precedenti, nessuno scatto d’ira o di violenza testimoniato da chi lo conosceva. Ma soprattutto la moglie, a differenza di altre donne vittime dei mariti, non aveva mai avuto ferite sospette, visite al pronto soccorso per cadute dalle scale o altro.

 

E aveva quasi fregato pure a lei, la prima volta che lo aveva visto: sembrava veramente sconvolto, né troppo freddo, né troppo esagerato nel dolore.

 

Ma l’idea di possesso era purtroppo radicata nel maschio, soprattutto quello italiano, più di quanto avrebbe potuto anche solo immaginare, e continuava a mietere vittime. Vittime di uomini che semplicemente non accettavano che moglie e figli, che vedevano come di loro proprietà, potessero decidere di allontanarsi.

 

Pensò inevitabilmente pure lei a Valentina, che cominciava ad interessarsi ai ragazzi, con quella smorfiosa dell’amica sua, e le venne un brivido, ripromettendosi di marcarla stretta finché avesse potuto.

 

“Imma?”

 

La voce di Diana la ridestò e le lanciò un’occhiataccia, come sempre faceva quando la chiamava per nome di fronte ai sottoposti.

 

“Cioè… dottoressa, che facciamo ora? Perché sono quasi le sei e…”

 

“Se vuoi andare vai, Diana, qua abbiamo finito. Calogiuri, può farmi avere la trascrizione dei due interrogatori entro domani a mezzogiorno?”

 

L’appuntato spalancò gli occhioni azzurri e le sembrò nuovamente agitatissimo ma poi annuì vigorosamente, “certo dottoressa: domattina saranno sulla sua scrivania!”

 

“Bene,” gli rispose e lui rimase lì impalato. Imma sospirò, “può andare, appuntato, può andare!”

 

Lui non perse tempo e sparì oltre la soglia.

 

“Imma, allora io vado!” la chiamò Diana, che pure lei manco un secondo aveva perso, e si era infilata il cappotto, il cappello e i guanti.

 

“A domani, Diana, puntuale!” si raccomandò, decidendo però poi di uscire pure lei dall’ufficio: doveva andare in bagno, dopo tutte quelle ore senza un attimo di tregua.

 

Ci entrò e ci trovò Maria Moliterni, che si lavava lentamente le mani, senza fretta. Le sue pause in bagno erano notoriamente infinite.

 

“Imma!” la salutò con uno di quei sorrisetti che le davano sui nervi.

 

“Maria,” rispose, secca, cercando di andare verso uno degli sgabbiotti.

 

“Ho saputo che eri in giro con l’appuntato nuovo. Dov’è che siete andati?”

 

“Ma niente, Maria, soltanto a fare un sopralluogo e poi un arresto. Mo abbiamo pure ottenuto una confessione e chiuso un caso, probabilmente nel tempo che tu stavi qua in bagno ad incipriarti il naso!”

 

“E dai, Imma! Non ammazzarsi di lavoro come fai tu non vuol dire non lavorare,” rispose la Moliterni, con uno sbuffo d’aria che le sollevò il ciuffo biondo, “anche se… su certe cose… mica scema!”

 

“Che vuoi dire?”

 

“Beh… che se bisogna lavorare duramente… è meglio farlo in buona compagnia! Il nuovo appuntato è proprio un bel ragazzo ed ogni tanto rifarsi gli occhi non fa male, anzi!”

 

“Sì, magari ti fossi rifatta solo quelli, Maria!” rispose, piccata, non potendo credere che la Moliterni potesse cadere così in basso, a commentare in quel modo uno che poteva essere suo figlio, “e comunque, Maria, ti ricordo che mi devi ancora procurare il fascicolo sul processo del ‘97, che ti avevo chiesto. O vuoi farmelo giungere incartato sotto l’albero di natale?”

 

Non attese la risposta dell’altra ed uscì dal bagno, rendendosi conto solo dopo che ancora ne aveva un’estrema urgenza e che le sarebbe toccato scendere a quello del bar della procura.

 

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Cercò di rileggere per la terza volta quella pagina ma si arrese. La vista le si stava appannando: erano ore che leggeva e scriveva per completare i rapporti per lo stimatissimo procuratore capo.

 

L’unica consolazione era sapere che quel trombone, di lì a qualche mese, sarebbe andato in pensione. Ma, lo sapeva per esperienza, non c’era mai limite al peggio, quindi non confidava molto sul sostituto o sostituta.

 

Guardò l’orologio: erano quasi le dieci di sera, aveva perso completamente il senso del tempo.

 

Prese il cellulare, stranita che Pietro non l’avesse chiamata, preoccupato - anche se ormai conosceva bene lei e i suoi orari - ma vide solo un messaggio con su scritto:

 

Noi ceniamo che Valentina ha fame. Vieni appena puoi. Un bacio.

 

Risaliva a più di un’ora prima. Sospirando, si stiracchiò le braccia ed il collo, si infilò il cappotto, ben richiuso - che a quell’ora il gelo non perdonava - afferrò la borsa e si avviò verso l’uscita della procura.

 

Si bloccò di colpo, arrivata quasi al portone, perché c’era una luce bluastra che veniva dall’ufficio della PG.

 

Come minimo qualche fenomeno che s’era dimenticato il computer acceso, che tanto l’elettricità la pagavano i contribuenti e non lui!

 

E pure la porta aperta avevano lasciato!

 

Si avvicinò e sì, c’era un monitor acceso, ma con una macchia scura di fronte. Gli occhi si aggiustarono alla penombra e riconobbe i capelli e i lineamenti del nuovo appuntato, che chissà perché stava ancora in ufficio, picchiettando con la sua solita, proverbiale lentezza, i tasti del computer.

 

Rimase per un attimo a fissarlo: i lineamenti fanciulleschi resi azzurri dalla luce dello schermo, le labbra serrate e gli occhi mezzi chiusi in un’espressione concentratissima.

 

Sentì un qualcosa al petto che non sapeva bene come definire, come una specie di tenerezza: era giovanissimo e con quell’espressione lo sembrava ancora di più.

 

Il nuovo appuntato è proprio un bel ragazzo ed ogni tanto rifarsi gli occhi non fa male, anzi!

 

La vocetta irritante di Maria le risuonò in testa. Per carità, nel suo genere l’appuntato per essere bello era bello - e meno male, visto l’effetto che aveva fatto a Rebecca! - ma un conto era una quindicenne, un conto era che gli sbavasse dietro una dell’età di Maria, a uno che a volte pareva un bambino col carattere che aveva.

 

Ma, del resto, la Moliterni aveva un’idea della moralità tutta sua.

 

“Che ci fa ancora qui?” gli domandò e il carabiniere fece un salto tale che per poco non si ribaltò con tutta la sedia: lo vide chiaramente reggersi alla scrivania.

 

E poi si tirò in piedi. Era lampante pure nella penombra e con la luce blu che era di nuovo rosso come un peperone crusco.


“Scu- scusatemi, non vi avevo sentita arrivare e….”

 

“Appuntato, è il primo che mi contesta di essere troppo silenziosa!” scherzò, ma lui, di nuovo, le parve agitatissimo.


“Scu- scusatemi, io… io non volevo… cioè non intendevo, non era un appunto e-”

 

Le venne da ridere, senza potersi trattenere, e le fece ancora più tenerezza, stranamente. 

 

Ma da dove era uscito? Da qualche romanzo in costume, forse.


Lui si zittì, parendole confuso.

 

“Allora, che ci fa ancora qui a quest’ora?” gli chiese nuovamente.

 

“Sto… sto finendo un lavoro ma… tra poco tornerò in caserma, dottoressa.”

 

Si avvicinò, per spiare lo schermo, e capì immediatamente dai nomi che era la trascrizione dell’interrogatorio al padre di Rebecca.

 

“Appuntato, se non ce la faceva coi tempi doveva soltanto dirmelo!” lo rimproverò, anche perché odiava sentirsi in colpa per qualcuno, “e non stare qua fino a quest’ora, che già mi danno della schiavista e-”

 

“N- no, dottoressa!” la interruppe lui a sorpresa, rimanendo poi un attimo con l’aria di chi attendeva un’esplosione, ma proseguì, grattandosi il collo e poi la nuca, “è tutta colpa mia che… sono ancora troppo lento a scrivere a computer e lo so. Ma sto cercando di migliorare. Non vi preoccupate, il rapporto lo avrete entro mezzogiorno, come promesso.”

 

“Ma è per quello che ti segni tutto a penna?” gli chiese, senza accorgersi di essere passata al tu, ma le venne spontaneo, perché le sembrava quasi un cucciolo di quelli delle pubblicità sull’abbandono, con quegli occhioni enormi e un po’ impauriti, mentre annuiva.

 

Certo che sull’incutere timore... manco la divisa sarebbe potuta bastare: proprio un bel lavoro si era scelto!

 

“L’unico giovane che conosco che scrive meglio a mano che al computer!”

 

“Lo so, ma è che… non ho mai avuto bisogno di scrivere molto, soprattutto non a computer e… devo imparare.”

 

“E che facevi prima di arruolarti?”

 

L’appuntato si grattò di nuovo la nuca, pronunciando, con un po’ di vergogna, “mah… niente di che… lavoretti manuali, prevalentemente.”

 

Sospirò, immaginando che fossero lavori abbastanza umili.

 

“Senti, se pure il rapporto me lo fai avere entro domani sera non importa. Al limite, eccezionalmente, puoi fare una copia delle pagine del taccuino e portartela in caserma, almeno non stai qua e vai a mangiarti qualche cosa.”

 

“Io… io… vi ringrazio,” rispose lui, stupito quanto lo era lei stessa da quella concessione, “ma… in caserma non ho un computer e quindi….”

 

Pure senza computer, alla sua età!

 

Sì, era uscito decisamente da un film d’epoca.

 

“Non fa niente: vai in caserma, mo, è un ordine!”

 

“Ma, dottoressa, io… io inizio le ferie dopodomani e parto, non posso lasciarlo non trascritto fino a dopo le vacanze.”

 

“Torni dalla famiglia?” gli domandò, chiedendosi poi perché lo avesse fatto, per una volta che qualcuno non l’ammorbava con la sua cronistoria familiare.

 

O forse proprio per quello era curiosa.


“Sì, sì.”

 

“Di dove sei? Campania, giusto?”

 

“Sì, sono di Grottaminarda, in provincia di Avellino.”

 

Non l’aveva mai sentita nominare.

 

“Senti, stacca mo, domani ti dividi i fogli che ti mancano con un collega, che tanto la tua scrittura mi pare abbastanza leggibile, ed il problema è risolto.”

 

Invece di esserne felice, l’appuntato sembrò aver appena preso uno schiaffo, “do- dottoressa, è una questione di principio: se io prendo un impegno lo mantengo!”.

 

Il tono, deciso, decisissimo, la lasciò nuovamente stupita, insieme a questo strano senso del dovere e dell’onore che sembrava avere e che vinceva pure sulla timidezza.

 

“Appuntato, le ho già detto che è un ordine. Oserebbe trasgredire ad un ordine?” gli chiese, tornando volutamente al lei e tutta la decisione di lui si dissolse, sostituita nuovamente dal panico.

 

“N- no, no, dottoressa, non oserei mai, ma-”

 

“E allora usciamo, appuntato, che vorrei andarmene a casa pure io, prima di domattina, magari!”

 

Con l’aria di un bimbo appena messo in castigo, finalmente spense il computer, chiuse a chiave il taccuino nel cassetto della scrivania, ed uscirono insieme dalla procura.

 

Gli fece un cenno di congedo col capo e stava per avviarsi a piedi, quando la voce di lui alle sue spalle la bloccò, “mi… mi permettete di darvi un passaggio? Si è fatto tardi e… non è sicuro che siate in giro a piedi da sola a quest’ora.”

 

Si voltò, e dire che fosse una proposta inaspettata sarebbe stato dire poco. Sia la proposta in sé, sia il fatto che non fosse già fuggito da lì a gambe levate, per quanto sembrava intimorito da lei. Lo squadrò con un sopracciglio alzato.

 

“Poi riporto l’auto di servizio qua e tanto ci metto cinque minuti ad arrivare in caserma a piedi, veramente.”

 

“Non è necessario, so cavarmela da sola, grazie.”

 

Stava per rimettersi in cammino quando lui chiese, con un tono mortificato, “ma è perché guido troppo lentamente? Mi… mi dispiace ma….”

 

“Appuntato, se avessi un euro per tutte le volte che mi ha chiesto scusa oggi, sarei ricca,” gli rispose, ma poi, forse per l’espressione di lui, che pareva volersi sotterrare, forse perché alla fine faceva un freddo cane, si ritrovò a dirgli, “va bene, mi accompagni pure a casa. Ma poi se ne va subito in caserma e non si azzardi a provare a tornare a lavorare, chiaro?”

 

“Va bene…” rispose lui, facendole un sorriso amplissimo, che manco gli avesse appena concesso due settimane in più di ferie, invece di un’altra incombenza di lavoro.

 

Si avviarono insieme verso l’auto di servizio, lui di nuovo aprì la portiera posteriore e lei salì, con un sospiro.

 

*********************************************************************************************************

 

“Mo deve girare a destra.”

 

Sospirò: stava cercando di dargli le indicazioni per casa sua, che l’appuntato non l’aveva mai accompagnata, ma lui, ogni volta che lei parlava, oltre ad irrigidirsi, guardava nello specchietto e quindi, essendo prudente, rallentava terribilmente.

 

Di quel passo a casa ci sarebbe arrivata in tempo per il cenone natalizio, forse.

 

“Fermi la macchina qua,” gli ordinò e lui si guardò intorno stupito, probabilmente avendo notato che ci fossero soltanto negozi intorno a loro, “fermi la macchina, ho detto!”

 

“S- sì, sì,” bonfonchiò, facendo però come richiesto.

 

Scese dall’auto, senza attendere che lui le aprisse la portiera, ma lo vide uscirne lo stesso, con sguardo da cane bastonato ed un, “mi… mi dispiace, lo so che… che sono troppo lento, ma-”

 

Lei, per tutta risposta, aprì la portiera anteriore e si sedette accanto a lui.

 

“Dai, Calogiuri, forza, sali, veloce!” lo redarguì e lui obbedì, con un sorriso, ma il viso che era di nuovo bordeaux.

 

Ma, nonostante sembrasse tremendamente in imbarazzo - e pure per lei era un poco strano sedersi accanto ad un sottoposto - il metodo funzionò: Calogiuri guardava dritto davanti a sé, senza voltarsi verso di lei ed andava ad una velocità assolutamente perfetta.

 

Ed era pure delicato sulle curve, senza farla finire schiacciata contro la portiera come la maggior parte dei suoi colleghi.

 

Stranamente, a poco a poco, pure mentre gli dava gli ordini e lui rimaneva muto come un pesce, eseguendoli, l’atmosfera si fece più rilassata. Non solo vedeva che lui non era più teso come un fuso, ma si trovò quasi a dispiacersi quando arrivarono davanti a casa, perché forse per la guida, forse per il silenzio totale, ma quei minuti in auto erano stati quasi meglio di un calmante per lei.

 

Fermò la macchina e lo vide schizzare fuori dall’abitacolo, in uno scatto inatteso, per aprirle la portiera, sempre con quei modi che sembrava quasi un paggio che attendeva che la sua signora scendesse dalla carrozza.

 

O forse un cavaliere.

 

Scuotendo il capo di fronte a quel paragone assurdo, lo salutò con un laconico, “buonanotte!” a cui lui rispose con un “buonanotte!” un poco timido, prima di risalire in auto e ripartire con la sua solita prudenza, ma almeno senza la lentezza da bradipo.

 

Con un sospiro, cercò le chiavi in borsa e stava per infilarle nella toppa del portoncino quando un “Imma!” la fece voltare.

 

Sorrise alla vista di Pietro, che stava appoggiando i sacchetti della raccolta differenziata vicino all’ingresso, ma, essendo in ombra, non lo aveva neanche notato.

 

“Finalmente: cominciavo a preoccuparmi! Dove sei stata fino a quest’ora?”

 

“Eh… e dove vuoi che sono stata? In procura! Il procuratore capo mi ha dato una pila di carte da finire entro domani, e dovevo portarmi avanti. Ancora non ho terminato, figurati!”

 

Pietro sorrise, ma poi le chiese, con uno sguardo e tono curiosi, “ma con chi è che sei tornata?”

 

“L’appuntato Calogiuri,” rispose, mentre girava la chiave nella toppa: col freddo che faceva preferiva entrare in casa e non stare lì a fare salotto.


“Ma è uno nuovo? Non credo di avertelo mai sentito nominare prima.”

 

“Sì… saranno un paio di mesi che lavora qua,” gli rispose, cominciando ad avviarsi per le scale.


“E com’è?” le domandò, e oltre alla curiosità c’era un qualcosa di strano nella voce.

 

Si chiese per un secondo se fosse geloso. Non lo era mai stato, a parte che di gente come Capozza c’era ben poco da ingelosirsi e comunque nessuno a parte lui si era mai interessato a lei in quel senso, quindi….

 

Ma forse, nella penombra, non aveva visto quanto fosse giovane l’appuntato, ed in effetti come altezza e fisico era leggermente meglio di Capozza.

 

“Lento,” gli rispose e Pietro immediatamente scoppiò a ridere, redarguendola con un “Imma!”

 

“E Pietro, che ti devo dire? Lento è lento. Ma almeno pare avere voglia di lavorare, fin troppa! Ha pure insistito perché non tornassi a casa da sola, dicendo che è pericoloso, manco Matera fosse il Bronx.”

 

“Non sarà il Bronx ma sto appuntato tutti i torti non li tiene. E sono felice che gli hai dato retta, visto che quando te lo dico io fai sempre storie e non ti vuoi mettere in testa la posizione che hai!”

 

“Mi ci mancava solo la predica, mo!” sospirò, ma poi si sentì abbracciare da dietro ed un bacio sulla guancia, che la fece esclamare, ridendo, “e dai, Pietro, che ci manca che cadiamo dalle scale!”

 

“Lo sai che mi preoccupo per te e per Valentina,” le sussurrò e c’era qualcosa, nel modo in cui lo disse, che le fece venire un nodo in gola.

 

Raggiunto il pianerottolo, si voltò e gli piantò un bel bacio.

 

“Allora, che cosa hai preparato di buono? Che sono affamata!”


“La pasta al forno che ti piace tanto. Se vuoi andare a cambiarti, io intanto te la scaldo,” le rispose, premuroso come sempre, ed Imma gli diede un altro bacio, prima di aprire la porta di casa, pensando a quanto fosse fortunata.

 

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“Pronto? Ma dov’eri finito?”

 

“Scusa, Maria Luì, ma sto in macchina, sto tornando in caserma, ho finito mo di lavorare.”

 

“Ma sono quasi le dieci! Ca’ stavi facendo?”

 

“Dovevo finire un rapporto e-”

 

“E non capisco che ci sei andato a fare lì, a fare lo schiavo! Quando è che torni?”

 

“Dopodomani,” rispose, anche se il tono scettico di Maria Luisa quando si trattava del suo lavoro un poco gli dispiaceva.

 

“Mi prendesti già il regalo?”

 

“Sì, sì.”

 

“Quello che ti chiesi io? Ca’ si no nun c’azzecchi mai!”

 

Sospirò, perché era l’unico regalo che aveva preso fino ad allora, ma sapeva com’era fatta Maria Luisa e non voleva rischiare di non trovarlo.

 

“Sì, sì, quello t’ho preso.”

 

“Bene! Vien’ ambress e fai il bravo!”

 

“E dai, Maria Luì, lo sai che ti amo!”

 

Ci fu un attimo di silenzio, tanto che pensò che fosse caduta la linea e poi sentì un “ci vediamo presto! Mo devo andare!” che gli lasciò un poco di amaro in bocca.

 

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Entrò di soppiatto, gli pareva di essere un ladro.

 

La dottoressa gli aveva ordinato di andarsene in caserma ma non aveva detto nulla su a che ora poteva tornarci in procura.


E così, alle sei di mattina, era fortunosamente riuscito a farsi aprire e mo stava di nuovo a lavorare a computer.

 

Già la dottoressa lo reputava lento, non voleva mancare alla parola data, doversi fare aiutare da un collega. Era la prima ad avergli dato la possibilità di fare qualcosa in più dell’autista o dello scribacchino. E, anche se il giorno prima, quando gli aveva chiesto di fare lui le domande, per poco non gli aveva preso un colpo, era già qualcosa e non voleva deluderla e fallire al primo incarico che gli aveva dato.

 

Pure se lo metteva in agitazione più di chiunque altro in procura, del resto aveva fama di essere severissima - e lo era - ma, allo stesso tempo, quando si era seduta accanto a lui in auto per dargli indicazioni, per qualche strano motivo, forse perché non poteva vedere gli occhi di lei nel retrovisore, che sembravano spiare ogni sua mossa, si era sentito stranamente tranquillo, a suo agio, anche se averla così vicino, in un modo così apparentemente informale, all’inizio lo aveva imbarazzato ancora di più.

 

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Salì le scale, con già un diavolo per capello: aveva visto la Moliterni e il procuratore capo parlottare vicino alla macchina del caffè.

 

Perché al procuratore capo se la signora Moliterni stava praticamente già in pausa natalizia - se mai aveva lavorato - non importava, mentre a lei toccava starsene sommersa dai faldoni fino all’ultimo.

 

Aprì la porta dell’ufficio, ci entrò e sbattè la porta dietro di sé.

 

“Ciao Imma! Sempre di buonumore, eh?!”

 

La voce sarcastica di Diana la accolse, mentre marciava verso la scrivania.

 

Si bloccò di colpo, perché c’era un faldone piazzato in mezzo alla scrivania, non impilato come gli altri.

 

Per un secondo si chiese se la Moliterni, miracolosamente, le avesse recuperato quello che le aveva chiesto prima di mettersi a fare il bar con il procuratore capo.

 

Roba quasi da ricominciare a credere a Babbo Natale.

 

Ma lo aprì e ci trovò un fascicolo, pure rilegato separatamente, scritto a computer, che non risaliva al ‘97, ma a poche ore prima.

 

La trascrizione degli interrogatori del giorno precedente.

 

La fece scorrere e c’erano parecchie pagine dopo il punto a cui era arrivato l’appuntato.

 

Chissà a che ora si era svegliato per finirla, o se aveva trasgredito all’ordine!

 

Però, stranamente, l’eventuale trasgressione non la irritò, anzi: il ragazzo c’aveva voglia di fare, una rarità in quella procura.

 

Sebbene avrebbe dovuto fare tutt’altro, si mise a rileggere la trascrizione e la trovò corretta, corrispondente a quanto ricordava, senza errori di battitura. Non come quel cretino di Capozza, che le infilava sempre uno strafalcione dietro l’altro.

 

Quasi in automatico, invece di proseguire con le carte che la attendevano, accese il computer ed accedette ad una di quelle banche dati sulle quali di solito lavoravano altri per lei.

 

Cercò per un poco, perché non ne sapeva il nome di battesimo, ma alla fine trovò lo stato di servizio dell’appuntato e la sua carta d’identità.


Calogiuri Ippazio.

 

Le venne da sorridere: ecco perché si era sempre e solo presentato col cognome.

 

Fece scorrere e trovò la data di nascita, avendo conferma di quanto fosse giovane - beato lui! - e scoprendo che aveva rischiato quasi di nascere a capodanno.

 

Seguirono l’indirizzo di residenza, che ancora stava nella sconosciuta Grottaminarda, ed un breve riassunto delle sue esperienze lavorative pregresse.

 

Ci vide citato operaio e meccanico, del resto aveva fatto scuole tecniche in proposito.

 

Una parte di lei si chiese perché stesse facendo quella ricerca, ma doveva essere prudente con il ragazzo, prima di affidargli nuovi incarichi. Sembrava tanto ingenuo, sì, ma sapeva per esperienza che a volte le acque chete erano le più pericolose.

 

E realizzò in quel momento che sì, salvo avesse scoperto particolari scheletri nell’armadio, se lo sarebbe portato con sé nel prossimo caso che le fosse capitato. Non fosse altro che perché sarebbe per una volta arrivata sulla scena del crimine senza lo stomaco sottosopra ed avrebbe avuto i rapporti per tempo, senza doverli sollecitare mille volte.

 

Anche se forse avrebbe dovuto dargliene un poco più di tempo, la prossima volta.

 

Con un sospiro, aprì il sito delle mappe e cercò l’indirizzo di Grottaminarda. Si trovò davanti ad un puntolino circondato dal niente, anzi, dalle campagne, a giudicare dalla foto dal satellite, non troppo distante da un paesino al cui confronto Matera era una megalopoli.

 

L’indirizzo era intestato ad un’azienda agricola.

 

Insomma, un ragazzo di campagna.

 

Fece un’ultima ricerca, sul sito della camera di commercio e trovò i pochi dati disponibili sulla società, essendo una società in nome collettivo, e quindi non tenuta a depositare i bilanci.

 

Il capitale era minimo, c’erano due soci entrambi col cognome Calogiuri. A giudicare dall’età, presumibilmente il padre e forse un fratello o uno zio particolarmente giovane.

 

O erano evasori o erano poveri.

 

Le venne in mente il giubbotto un po’ scolorito dell’appuntato e pure il modello di cellulare, vecchio, e decise per la seconda.

 

Ecco perché non aveva nemmeno un computer personale e non lo sapeva usare bene: probabilmente, se pure la famiglia ne aveva uno, se lo era sempre diviso con i fratelli.

 

Ed ecco perché aveva così tanta voglia di lavorare: a differenza dei suoi coetanei - e di quella impunita di sua figlia, che alla sua età rompeva per avere il computer nuovo, come se quello che già teneva non bastasse! - aveva fame, quella fame che aveva spinto pure lei a fare la carriera che aveva fatto, nonostante i limiti e tutti gli ostacoli che le avevano piazzato sulla strada e-

 

In quel momento, un “Imma!” per poco non le fece pigliare un accidenti e chiuse in fretta le pagine aperte sul computer, mentre Diana si avvicinava a lei.

 

Si chiese perché si sentisse così in colpa a farsi beccare a cercare informazioni su un sottoposto, anche se era certa che Diana non avesse fatto in tempo a cogliere nulla.

 

E mentre la sua cancelliera le diceva di avere finalmente ricevuto la versione in file del documento del ‘97, Imma decise che, sì, al prossimo sopralluogo ci avrebbe portato l’appuntato Calogiuri.

 

Magari non al prossimo inseguimento.

 

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Solo a guardare la vetrina le prese un colpo.

 

I prezzi di quel negozio erano da rapina, ma purtroppo era il preferito di Valentina, ovviamente incitata da quella snob della sua amica Bea e dai genitori di quest’ultima, che pareva che i soldi crescessero loro sugli alberi, per quanto li spendevano.

 

Si voltò per avviarsi verso l’ingresso del negozio, rassegnata, quando si scontrò con qualcuno, che stava camminando sul marciapiede.

 

“E stia attento, porca miseria!”

 

“Scu- scusatemi….”

 

Lo riconobbe dalla voce e dal balbettio, oltre che dal voi, prima ancora di vederlo: l’appuntato Calogiuri, nuovamente paonazzo, che la guardava con aria mortificatissima, manco avesse appena ucciso qualcuno.

 

“Calogiuri? E che ci fai qui? Non dovevi stare già a Grottaminarda?”

 

“Sì, ma… devo ancora prendere gli ultimi regali e quindi partirò nel primo pomeriggio, che se no a Grottaminarda rischio di trovare poco o niente, così vicino al natale.”

 

“Non dirmi che ti sei ridotto all’ultimo con gli acquisti perché dovevi lavorare fino a tardi? Che mi vuoi far sentire in colpa?”

 

“No, no!” esclamò lui, con quella decisione che saltava fuori raramente ma che, proprio per questo, la faceva sobbalzare ogni volta, “è soltanto colpa mia che… ci metto troppo tempo a fare le cose. Ma migliorerò!”

 

Le venne da sorridere: in un mondo in cui i ragazzi della sua età si sentivano dei luminari già al primo giorno di lavoro e non accettavano correzioni, l’appuntato era consapevole dei suoi limiti ma faceva di tutto per superarli.

 

“Che devi comprare?” gli domandò, quasi senza nemmeno rendersene conto.

 

“Un regalo per mia sorella-”

 

“Quella appassionata di musica metal?”

 

“Sì, sì,” le rispose, toccandosi il collo, “ma ormai si sta per sposare e ha gusti più tranquilli. E poi pure un regalo per mia madre, uno per mio padre e uno per mio fratello.”

 

“Insomma… più che dover finire coi regali, diciamo pure che non li hai nemmeno cominciati,” sospirò, anche se lo capiva, perché lei detestava le feste comandate e si riduceva sempre in corner, “ascolta, cosa vorresti prendere?”


“Mah… non lo so… qualcosa da vestire magari. E qualche cosa tipico di Matera, che mamma era curiosa sulla cucina.”

 

“C’hai da prendere nota?” gli domandò e lui, manco a dirlo, estrasse un altro di quei taccuini, blu stavolta, e non nero.

 

Gli diede due nomi e due indirizzi e lui sembrò stupito ma segnò tutto.

 

“Il primo è un negozio che vende vestiti e accessori di ogni genere, magari non elegantissimi, ma a un buon prezzo e fa saldi ai clienti abituali già prima di natale. Il secondo è il mio pizzicagnolo di fiducia. Dì ad entrambi che stai facendo commissioni per me, e se il negozio di abbigliamento prova a non farti lo sconto, mi avvisi che mi sentono. Va bene?”

 

L’appuntato parve ancora più sorpreso ed in un imbarazzo quasi da fumetto, ma bofonchiò un, “va- va bene, vi ringrazio tantissimo!” di risposta.

 

“E dai, Calogiuri, che aspetti?! Veloce! Su!” lo congedò, facendo segno di andare.

 

L’appuntato balbettò un altro “sì!” e con un “tanti auguri, dottoressa!” sparì nella folla di ritardatari che li circondavano.

 

*********************************************************************************************************

 

“Grazie figliolo!”

 

Il sorriso soddisfatto di suo padre di fronte al maglione nuovo che gli aveva preso lo rassicurò.

 

Sembravano tutti aver gradito quello che aveva comprato loro, e aveva pure speso, per fortuna, assai meno del previsto.

 

Gli venne spontaneo pensare per un attimo alla dottoressa e si chiese come mai lo avesse aiutato, nonostante il carattere che teneva.

 

Ma, in fondo, a modo suo a volte era gentile, anche se continuava a fargli un poco paura. Tipo con Rebecca, quando l’aveva abbracciata, era stata molto... materna e quasi dolce.

 

“A che stai pensando?”

 

Sobbalzò quasi dalla sorpresa: Maria Luisa.

 

“Ai regali… ti è piaciuto il tuo?” le rispose e lei, mostrando il braccialetto che tanto le piaceva e che gli era costato mezzo stipendio da solo, se non pure di più, annuì.

 

“Sì, ma… magari la prossima volta… dal braccialetto puoi scendere un poco più in giù,” gli rispose, muovendo avanti e indietro il dito anulare della mano sinistra, in quello che era un chiaro messaggio, “il tempo passa, Ippà!”

 

“Lo so, lo so, ma… vorrei avere più soldi da parte, lo sai, avere una posizione più stabile e-”


“E aspetta e spera! Con il lavoro che fai!” sospirò lei, incrociando le braccia al petto, come faceva quando era delusa da qualcosa.


“Ma almeno ho uno stipendio fisso, Maria Luì, cosa che non ho avuto mai. Non sei contenta?”

 

“Però tu stai sempre lontano e ci possiamo bberè ‘na vota ogni morte ‘e papa! E poi, diciamoci la verità, Ippà, ma tu chisto lo vedi come un lavoro che tiene ‘na prospettiva futura?””

 

Sentì come un colpo al cuore, una specie di delusione che gli saliva in gola. Non sapeva se sarebbe riuscito in quel lavoro, ma per lui era la prospettiva di una vita migliore e… e lei invece pensava che avrebbe fallito, come sempre.

 

Ma poi si sentì prendere per il viso ed il bacio di Maria Luisa cancellò quella brutta sensazione.

 

Almeno quasi del tutto.

 

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“Mà, ma questo è della collezione dell’anno scorso! Ormai nessuno lo mette più!”

 

Le bastò quella frase per farle andare di traverso il cenone.

 

Sì, il maglione che aveva regalato a Valentì stava già scontato ed era quindi probabilmente dell’anno prima. Ma era della marca che tanto le piaceva e non costava come uno stipendio.

 

“Se era buono l’anno scorso, è buono pure quest’anno! E quando ti guadagnerai i tuoi soldi, signorina, allora potrai permetterti di lavorare un mese per un maglione, se ci tieni tanto, ma-”

 

“Ma non era quello che ti avevo chiesto, mà! E non è un mese del tuo stipendio, ma manco dieci giorni!”

 

L’istinto di tirarle un ceffone, da sempre contenuto all’ultimo, era straripante, ma Pietro la bloccò abbracciandola da dietro.


“Valentì, un regalo è un regalo e bisogna ringraziare!” la redarguì, in uno dei rarissimi momenti di autorità paterna, prima di sussurrarle in un orecchio “e calmati dai! Che lo sai che mà non aspetta altro!”

 

Effettivamente sua suocera la guardava già dall’alto in basso, con il suo di pacchetto in mano, come la plebea che la riteneva.

 

Valentina lo scartò e ci trovò dei pantaloni costosissimi - l’altro regalo che aveva chiesto,- e pure il famoso maglione che aveva domandato a lei.

 

“Grazie nonna!! Sei la migliore!!” esclamò Valentina, baciandosela e abbracciandosela, mentre la suocera le lanciava un’occhiata trionfale.

 

“E menomale che ti dovevi raccomandare con tua madre sui regali troppo costosi,” sibilò a Pietro, che la mollò, con aria preoccupata.


“E dai, amò! I soldi sono di mia madre, mica posso impedirle di spenderli!”

 

“Sì, se è diseducativo, per sua nipote che è minorenne. E certe cose bisogna imparare a guadagnarsele!”

 

Pietro, per tutta risposta, le presentò un pacco, forse un tentativo in extremis di distrarla.


Lo aprì e ci trovò la borsa da lavoro leopardata che le piaceva tanto, ma che era troppo cara per il suo budget.

 

Un poco si sentì in colpa, rispetto al costo del maglione che gli aveva preso lei, come al solito, ma a lei i risvolti consumistici del natale erano sempre stati sul gozzo.

 

Gli diede un bacio per ringraziarlo e lui le sussurrò in un orecchio, “che ne dici se mo ce ne torniamo a casa? Valentì può passare la notte dai nonni, che tanto domani a pranzo di nuovo qua stiamo, e noi….”

 

“Che c’avresti in mente?” gli domandò, mordendosi il labbro.

“Tante cose, con la casa libera….”

 

Imma, ignorando l’occhiataccia di sua suocera e quella di Valentina, ringraziò molto fintamente per la cena e la bella serata e non perse tempo a congedarsi, trascinandolo con sé.

 

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“Non pensi che Valentina sia un po’ grande ormai?”

 

Pietro stava incartando religiosamente gli oggetti da mettere nella calza della befana, che avrebbe consegnato a Valentina di lì a due giorni. Mo era fuori con la cara Bea.

 

“Non si è mai troppo grandi per questo. Mi vuoi dare una mano?” le chiese con un sorriso ed Imma sospirò e si sedette accanto a lui, mettendosi ad impacchettare e incalzettare.

 

Stava incartando un pezzetto di carbone dolce - che Valentì si sarebbe meritata un ciocco di quello vero, si sarebbe! - quando il telefono di Pietro squillò insistentemente, in una serie di messaggi.

 

Lui prese il telefono ed iniziò a rispondere alacremente, dimenticandosi quasi delle decorazioni.

 

“Chi è che ti scrive in vacanza?” gli chiese, perché fidarsi era bene ma non fidarsi era meglio.

 

“Il mio collega Ridolfi. Sta organizzando un corso sull’utilizzo del computer, sai i software principali, finanziato dalla regione per i dipendenti pubblici, soprattutto quelli regionali.”

 

“Sì, e così poi ti lasciano senza lavoro?” scherzò lei, un poco sollevata.


“Ma figurati! Per quello altro che un corso ci vorrebbe, servirebbe un miracolo! Dovresti vedere come sono messi la maggior parte di quelli che mi chiedono assistenza: lentissimi, alcuni ancora un po’ non sono manco capaci di aprire un file. E vedessi che mail si scaricano, piene di virus, convinti che siano mail vere e-”

 

Ma Imma già non stava ascoltando più e non solo perché l’informatica la annoiava da morire ma perché, soprattutto, un’illuminazione le si era accesa come una lampadina in testa.

 

“Piè, ma il corso lo tiene solo Ridolfi o pure tu?”

 

“No, no, per carità, se lo becca Ridolfi, che io tengo già abbastanza lavori da fare!”

 

Eh, certo! - pensò lei, sarcasticamente, che Pietro di lavoro non si era mai ammazzato, anche se le dava una mano enorme con Valentina e quindi alla fine da fare ne aveva eccome.

 

“Ma possono partecipare tutti i dipendenti pubblici, hai detto?”

 

“Sì, sì. Forse saranno inclusi pure gli over sessantacinque e gli studenti, ma dipende dai posti liberi, sai, teniamo un numero limitato di computer. Ma perché ti interessa? Per caso vuoi iscriverti pure tu?”

 

“Non sfottere! E comunque no, ma certo servirebbe a parecchia gente in procura.”

 

Pietro rise ma poi le diede un bacio, a cui Imma si aggrappò più che volentieri.

 

“La calza di Valentì può aspettare ancora un poco?” gli sussurrò e lui rise di nuovo ed annuì.

 

Si tirò in piedi e lo trascinò verso la stanza da letto.

 

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Accese la luce: era il primo ad arrivare, come al solito.

 

Sbadigliando, avviò il computer, intenzionato a recuperare le mail arretrate durante le vacanze, pure se, per fortuna, ce n’erano poche.

 

Ma, tra tutte, una gli balzò agli occhi, spedita pochi giorni prima ed il mittente era la dottoressa.

 

Ci cliccò subito sopra, preoccupato di non aver fatto qualcosa correttamente, magari nei documenti che le aveva lasciato prima delle vacanze.

 

Se ti può interessare…

ps. Non è un ordine, ma solamente un consiglio per evitarti altre nottate in procura, che la corrente costa!

 

Aprì il link appena sotto e ci trovò una pagina per iscriversi ad un corso di computer gratuito.

 

Non sapeva bene cosa pensare o come prenderla, ma gli venne da sorridere, cliccò immediatamente sul modulo di iscrizione, per compilarlo, promettendosi che l’avrebbe poi ringraziata personalmente, non appena l’avesse rivista.




 

Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine del primo capitolo di questa sorpresa natalizia. Sarà una storia in due capitoli, nel prossimo vedremo come si evoluto il rapporto tra Imma e Calogiuri in un anno e quindi intorno al periodo di natale dell’anno che abbiamo “vissuto” con la prima stagione della fiction. Vi anticipo che vedremo un evento assai infausto per Calogiuri e pure per Imma, che ovviamente le festività le trascorrono in due luoghi geograficamente assai diversi.
Spero che vi possa piacere e tenervi compagnia in questo giorni così strani. Poiché domenica prossima ci sarà il nuovo capitolo di “Nessun Alibi”, l’ultimo capitolo di questa storia breve dovrebbe giungere o il 7 o il 10 di gennaio. Anzi, segnalatemi voi quando preferireste leggerla.

Grazie mille!

 
   
 
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