Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Evali    28/12/2020    0 recensioni
Un villaggio isolato, un popolo spezzato in due in seguito ad una terribile calamità, due divinità da servire, adorare e rispettare in egual modo: Dio e il Diavolo.
"- Io amo gli uomini.
- E perché mai io sono andato nella foresta e nel deserto? - replica il santo. – Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Adesso io amo Iddio: gli uomini io non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta.
- È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta che Dio è morto!"
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Carne della mia carne, sangue del mio sangue
 
Da qualche giorno, non nevicava più.
Faceva troppo freddo per nevicare e l’erba e il terreno erano ricoperti da una leggera patina di ghiaccio.
La grotta in cui avrebbero alloggiato quel giorno, per riprendersi dalla lunga camminata, era tanto profonda da ripararli dal freddo e da permettere al fuoco di rimanere acceso, se costantemente e adeguatamente alimentato.
Per assicurarsi che ciò avvenisse, Blake aveva quasi deforestato il boschetto a pochi metri da loro, tagliando e raccogliendo legna per una legione, fino a riempirne la grotta; mentre Selma era andata a caccia.
Quando la strega tornò nella grotta, con un coltello insanguinato che sporgeva dalla cintura, i quanti che le coprivano le mani tagliati sulle dita fradici e la pelliccia che indossava coperta di una sottile brina, lanciò la lepre senza vita e penzolante che stringeva per le zampe vicino al fuoco.
Trovò Blake impegnato ad intrecciare alcune corde, mentre alimentava il fuoco di tanto in tanto, sopra il quale aveva riposto un liquido dal buon odore a scaldare.
Selma aguzzò le narici e si accorse che il ragazzo avesse preparato un brodo, di radici, tuberi e altre erbe e spezie strane che aveva trovato nei dintorni.
Blake sapeva muoversi bene.
Selma glielo aveva riconosciuto già dopo poche ore che avevano messo piede fuori da Bliaint.
Il ragazzo osservò il corpo della lepre gettato accanto al fuoco, mentre Selma si sfilava la pelliccia e lo raggiungeva, sedendosi sull’altro tronco che circondava il focolare e riafferrando l’animale che aveva ammazzato poco prima.
- Non appena lo avrò spellato a dovere, lo abbrustoliremo e avremo una cena da re stasera – gli garantì.
In risposta, il ragazzo le indicò il coltello che ella aveva infilato nella cintola, facendole segno di darglielo.
Selma obbedì e lo vide iniziare ad affilarne adeguatamente la lama smussata, fin quando, una volta soddisfatto, glielo riconsegnò.
A ciò, la donna accennò un ghigno e cominciò a usare la lama per spellare l’animale.
Anche i cavalli sembravano godere del caldo provocato dal focolare, dentro la profonda grotta che sembrava senza fine.
- Non ti vengono i brividi nemmeno un po’ nel tenerla tra le mani, dopo che l’hanno usata per farti quello che hanno fatto? – gli domandò improvvisamente la donna, senza alzare lo sguardo dalla lepre.
Blake comprese che si stesse riferendo alla corda che egli stava intrecciando. Si portò una mano al collo istintivamente, sulla cui pelle liscia e tesa imperava una sporgente cicatrice circolare, con la ferita ancora fresca in alcuni punti. Non le rispose, continuando ad intrecciare la corda.
Selma era convinta non si sarebbe mai davvero abituata alla sensazione di star parlando da sola, nonostante avessero lasciato il villaggio di Carbrey oramai da qualche giorno.
La donna non aveva mai posseduto doti mediche, ma sapeva che, prima o poi, la voce del ragazzo avrebbe fatto la sua ricomparsa, ancor più dirompente e forte di prima.
Cercò di fare mente locale, per ricordarsela, per rimembrare il timbro, la musicalità, il ritmo, il tono e l’altezza della voce di Blake, nonostante le sembrasse quasi un secolo che non la udiva più.
Chiunque avrebbe pensato fosse un peccato, che una bella voce andasse sacrificata in quel modo, e che qualunque voce, a prescindere da chi ne fosse il proprietario, andava preservata e trattata preziosamente, poiché tutti meritavano da farla ascoltare, di far ascoltare cosa avevano da dire.
Tuttavia, Blake sapeva essere tagliente anche senza quella, e di ciò era grata.
Una volta terminato di spellare la lepre, le aprì la pancia in due, per sventrarla.
- Lo sai che, se ne fossi in grado e ne avessi il potere, te la farei tornare, vero? – gli disse improvvisamente la donna, alzando lo sguardo su di lui, il quale fece lo stesso, capendo immediatamente a cosa si riferisse.
Le rivolse un’espressione strana, a metà tra l’intenerita, il ghignante e un briciolo sprezzante, uno sguardo che a Selma trasmise una qualche sorta di  provocazione simile a un “non sei una strega abile come ti vanti di essere”.
Selma riprese a sventrare la lepre, sentendosi lievemente più leggera, mentre il calore del fuoco la scaldava gradualmente.
- Non mi hai ancora detto come sei riuscito a scappare da lui – riprese poi, facendosi prendere da una genuina curiosità, che sapeva non sarebbe stata colmata.
Il ragazzo lasciò perdere la corda, prese una radice e cominciò a masticarla lentamente, quasi come se non avesse nemmeno udito quella domanda implicita.
 - Ad ogni modo, sapevo che ce l’avresti fatta, ne ero certa – quelle parole, invece, sembrarono suscitare l’interesse di Blake, il quale volse le iridi su di lei. - Avresti fatto di tutto per tornare da lui, da tuo fratello – spiegò Selma, un’espressione di soddisfazione e di convinzione a plasmarle i lineamenti temprati dal tempo, ma pur sempre forti, duri e intriganti nella loro particolarità. – Anche io avevo un fratello, un tempo. E una sorella – esalò, senza neanche pensare. I ricordi le avvolsero le membra impertinenti, sfuggendo al suo controllo.
Smise di parlarne, continuando a preparare il loro futuro pasto in silenzio, infilzandolo in un ramo e riponendo il tutto sopra il fuoco, non prima di aver spostato la pentola con il brodo.
Blake scrisse qualcosa su un pezzo di stoffa, degnandola del suo pensiero.  
Passò il cencio a Selma, attendendo che ella leggesse. – “Il territorio che stiamo attraversando è sempre più freddo. Ci stiamo spostando sempre più a Nord. Conosci questa zona?”
La strega annuì, senza aggiungere altro per il momento. Guardò all’esterno, verso l’uscita della grotta, la quale, gradualmente si stava facendo più buia.
Quella notte, sogni infausti assalirono la mente della donna, ricordi risalenti alla sua travagliata infanzia e adolescenza.
Non poteva fare a meno di avere i loro volti davanti agli occhi, ora che si stavano avvicinando sempre più al luogo in cui tutto aveva avuto inizio.
Non immagini lontanamente cosa ti attende, Blake.
Ti pentirai amaramente di non essere rimasto a Bliaint per la brama di raggiungere le tue mete inumane e utopiche.
Qualsiasi cosa ti sia accaduta in quel villaggio e in quella casa con quell’uomo, ciò che ti aspetta sarà sconfinatamente peggiore.
Il mattino seguente, i due vennero svegliati da dei fievoli rumori provenienti dall’esterno della grotta.
Oramai il loro udito era diventato talmente acuto da far invidia a quello delle bestie selvagge che abitavano quei boschi. Il fuoco si era spento dopo l’intera nottata e oramai il freddo era penetrato all’interno delle pareti umide del luogo.
Blake si alzò lentamente, cercando di non emettere il minimo rumore; mentre Selma iniziò a cercare cautamente il pugnale che avevano portato con loro, accorgendosi che lo avesse preso Blake prima di lei.
Si accontentò della corda che aveva intrecciato il ragazzo la sera prima, si alzò restando dietro di lui, intercedendo lentamente e adagio.
Quando il ragazzo uscì dalla caverna, aggredì la presenza incappucciata che vi era all’esterno con uno scatto, puntandogli la punta del pugnale alla gola, restandogli a distanza, con il braccio teso e alzato, quasi fosse un prolungamento dell’arma.
La punta affondò di pochissimo nella gola dello sconosciuto, macchiandosi di qualche goccia di sangue, mentre quest’ultimo alzava le braccia in segno di innocenza, provvedendo ad abbassarsi il cappuccio per mostrare il volto.
Selma sgranò gli occhi scuri non appena vide il suo viso, roteandoli al cielo. – Che il Signore ti perdoni! Che accidenti ci fai qui?! – gli disse sorpassando Blake e avvicinandosi all’altro, il quale ricambiò sorridendole con confidenza.
- Lieto anche io di rivederti, Selma.
Blake, confuso, puntò lo sguardo interrogativo sulla strega, in attesa di spiegazioni.
- Si tratta di Ephram. Lo stregone a capo della mia compagnia, insieme a Beitris. Lei deve avertene parlato.
- Finalmente ho l’onore di conoscere il famoso Blake – disse lo stregone, riattirando l’attenzione del ragazzo su di sé, sorridendogli soddisfatto mentre lo osservava.
- In carne ed ossa – rispose Selma al suo posto.
- Siete diventato quasi una leggenda nella nostra compagnia, Blake, sapete? Voi e la vostra amica, Judith. L’implacabile folle ricercatore della polvere nera. Il visionario – gli disse, infarcendo la voce di una buona dose di calore e teatralità.
- Da quando ha lasciato Bliaint, bisogna ammettere che i suoi appellativi potrebbero essersi ampliati notevolmente – aggiunse Selma. – Il ragazzo ha la fama di prestigioso alchimista, oramai. Senza contare che gli è stata quasi staccata la testa dal collo. Ma è scampato anche a quello.
- Quali maledette vicende vi siete trovati a vivere in questo infausto viaggio…? – domandò Ephram sbigottito.
- Non avremmo il tempo per narrartele neanche se lo desiderassimo. Vuoi dirmi cosa ci fai tu qui? – gli chiese la donna, impaziente di sapere la risposta.
- Volevo seguirvi già da quando siete partiti, ma ho preferito aspettare.
Blake, finalmente, si decise ad abbassare il pugnale, azione che Ephram ringraziò con un gesto eloquente.
- Dunque, hai intenzione di proseguire il viaggio con noi …?? – domandò Selma allibita.
- Per quale motivo vi avrei raggiunti altrimenti? Voglio vivere questa scoperta con voi. E se davvero ne varrà la pena come Blake crede, e il potere di questa polvere nera è tanto intenso e devastante come Selma racconta … vorrà dire che questa sarà senza dubbio una delle decisioni migliori che avrò mai preso – confermò il giovane stregone sorridendo sicuro.
- Come ci hai trovati?
- Ho i miei metodi, dovresti saperlo.
- E gli altri?? Dove hai lasciato i tuoi devotissimi seguaci? Li hai abbandonati a loro stessi? – ribatté Selma.
- Ho preferito andarmene prima che la situazione degenerasse, non ho voluto rimanere invischiato in qualcosa che li porterà ad autodistruggersi neanche troppo lentamente, solo perché Beitris non ha voluto attenersi alla mia idea iniziale.
- Invischiato in cosa …?
- Meglio non sapere ora, tempo al tempo. Sappiate solamente che, una volta tornati a Bliaint, le cose non saranno più come le avete lasciate.
I due, non essendosi accorti che Blake si fosse allontanato per scrivere qualcosa su un cencio, vennero distratti dal ragazzo che lanciò la palla di stoffa tra le mani di Ephram, per poi ridirigersi verso la grotta.
Quest’ultimo l’aprì e lesse. – “Prova ad intralciarmi e ti ucciderò, per poi gettare il tuo corpo lungo la strada. I cavalli sono due, lo dividerai con la tua amica” – terminò il giovane stregone, alzando lo sguardo su Selma confuso.
- Giusto, dimenticavo: ha perso la voce e non sappiamo quando gli ritornerà. Prendi la tua roba e raggiungimi.
 
Myriam tornò nel salone principale della cattedrale dei servi del Creatore, nella quale il crocefisso sopra l’altare era stato capovolto.
Beitris era seduta su una delle sedie, guardava fissa dinnanzi a sé.
Myriam prese posto accanto a lei.
- Come sta? – chiese subito la corvina.
- Deve riposare. Sembra sia febbre. Un’invadente forma di febbre, dalla dubbia gravità. Padre Cliamon, Judith e Maringlen si stanno occupando di lei – rispose atona Myriam.
- Avrei dovuto ascoltarla, prestarle davvero attenzione e accontentarla, tutte le volte in cui voleva che mi rivolgessi a lei al maschile, che desiderava la ritenessi davvero un ragazzo, come lei bramava apparire ed essere – esalò Beitris, con la voce pregna di rimorso.
- Non è colpa tua ciò che le è accaduto. Semplicemente, è successo e basta.
Ognuno di noi vive, sapendo che potrebbe morire il giorno seguente o persino il giorno stesso.
Per nessuno è differente.
In questo siamo tutti uguali.
- Ieri stava bene. Sino a ieri era piena di vitalità e di forza trascinante, quando li ho finalmente riabbracciati.
Se il suo stato fosse colpa dei giorni trascorsi in prigionia, non riuscirei mai a perdonarmelo.
- Per questo non vai da lei? Perché ti senti in colpa? – le domandò Myriam.
Beitris non rispose.
- Presto saranno tutti morti. Coloro che hanno provocato tutto questo. Ogni giorno ne bruceremo uno, ricordi? Il primo è già pronto sul soppalco. Aspetta solo te.
Beitris sospirò, rimanendo con gli occhi fissi sull’altare. – Pensi mai che sarebbe potuto andare tutto diversamente?
Myriam si voltò a guardarla. – Cosa intendi?
Il volto della corvina era distorto da un’espressione di tristezza, mista a rimorso. – Se fossimo nate serve del Creatore. Ora non avremmo tutto questo odio da covare. Ci hai mai pensato?
- E se fosse stato così, che vita avremmo ora? Credi sarebbe stata molto migliore? Credi che i servi del Creatore non soffrano nel vedere tanti ragazzi e ragazze, anche se del credo opposto, incenerire su quel soppalco? – ribatté Myriam.
- Non quanto noi.
- Siamo tutti prigionieri di qualcosa, Beitris.
Loro hanno altri mostri da combattere.
Non credere che avremmo avuto una vita molto migliore di quella che abbiamo se fossimo stati come loro.
Noi ce la siamo scelta, questa vita.
- Il popolo si rivolterà – appurò Beitris, con disarmante consapevolezza.
- C’è la probabilità che accada. Eppure abbiamo noi le redini del villaggio ora.
Beitris si alzò in piedi. – Vado ad accendere il rogo.
A ciò, Myriam le afferrò il polso per fermarla. – Non vuoi neanche sapere il nome del monaco che brucerai?
- Non mi serve sapere il suo nome – affermò categorica, percorrendo il salone, infilandosi il mantello pesante e uscendo dalla cattedrale, per raggiungere la piazza.
Il monaco piangeva e spirava, con il corpo molliccio e coperto dalla tunica logora legato al palo, tanto stretto da togliergli quasi il respiro.
Era buio.
La luna piena dipingeva il cielo di una tinta ipnoticamente bella.
Beitris prese la fiaccola che gli porse uno degli stregoni e salì sul soppalco, percorrendo i pochi gradini che la dividevano dal luogo dell’esecuzione.
Nessuno era presente ad assistere nella piazza.
Andava bene così.
Non serviva che nessuno vedesse, solamente che sapessero.
Ripensò ai suoi compagni, ai suoi compagni che aveva perduto in quel modo, che aveva guardato bruciare senza poter reagire, fare nulla per evitarlo.
Pensò ai volti di Maroine e Maringlen e le si gelò il sangue al solo pensiero che vi sarebbero potuti essere loro legati su quel palo, se solo non fosse intervenuta.
- Alzò la fiaccola, illuminando il corpo accasciato e stretto dalle corde del miserabile uomo che aveva davanti agli occhi.
- Vi prego, mia signora, vi prego … - esalò il monaco in lacrime.
Beitris sorrise disgustata.
Non gli disse nulla, né si degnò di donare a quel verme i suoi occhi o il suo sguardo, nemmeno per un momento.
Gettò la fiaccola ai suoi piedi, aspettando che le fiamme divorassero tutta la paglia sparsa intorno a lui, fino a raggiungere le sue gambe, il suo busto e il suo intero corpo.
Le urla dell’uomo sembravano quelle di un bambino capriccioso, che strillava perché gli era stato tolto qualcosa.
Erano versi acuti, snervanti, insopportabili per quanto ridicoli, agli occhi della ragazza.
Tuttavia rimase lì, ad ascoltarli, a bearsene, fino all’ultimo singolo stridulo soffocato.
Sin quando il volto dell’uomo non venne sfigurato e la sua carne colò come acqua dalle sue ossa nude.
Solo quando il fuoco si estinse, Beitris si rese conto che, ad assistere al rogo, vi fosse un’altra presenza oltre lei.
Alzò la fiaccola per illuminare in basso, verso il punto della piazza in cui vi era la figura in silenziosa osservazione.
Egli aveva un mantello e una fiaccola accesa tra le mani a sua volta, ma il volto scoperto.
Beitris ghignò divertita nel notare si trattasse proprio di lui.
- Cosa volete ancora, monaco straniero? Questo non è posto per voi e il nostro patto è sciolto.
Il volto di padre Craig, tuttavia, era deciso, imperturbabile, illeggibile, mentre la guardava fisso, con la fiaccola in mano. – Quella notte di settimane fa, noi due ci siamo scambiati di corpi – disse inaspettatamente.
- Dunque? State cercando di fare leva su qualcosa, padre? Su cosa esattamente? Lo scambio di corpi avvenuto quella notte è l’unica cosa che ci lega, oltre all’affezione che condividiamo per Blake. Vi avverto che nessuna delle due basterà per persuadermi, se siete venuto qui con tale insulso intento.
- So che ciò non basterà, ma so anche che avete un cuore buono – disse sorprendendola. – Ho avuto modo di osservarlo, da quelle poche volte che abbiamo avuto l’occasione di passare del tempo insieme, per fini funzionali a entrambi. Sono un ottimo osservatore, Beitris, e so di non sbagliarmi.
So che ciò che avete fatto è stato provocato da sentimenti repressi, da una tremenda frustrazione e dolorosa impotenza che avete vissuto, nell’esser costretta ad osservare i vostri cari bruciare su quel soppalco, senza poterli salvare. Voi non siete …
- Voi non sapete nulla di me!! Solo perché avete vissuto nel mio corpo per una notte e conoscete Blake, non vuol dire che sappiate qualcosa riguardo i miei sentimenti e il mio animo!
Se volete la pace, avete fatto male i conti, padre; poiché noi non ci muoveremo di qui e continueremo a bruciare ogni monaco che teniamo rinchiuso nelle segrete, finché non li avremo sterminati.
- E poi …? Dopo aver compiuto tale carneficina cosa farete…?? Beitris, per favore, sono qui per …
- So benissimo per quale motivo siete qui! – esclamò imperterrita e sprezzante. – E non ho intenzione di giungere ad accordi con voi. Se l’alternativa è la guerra … che guerra sia – disse alzando la fiaccola al cielo e cominciando ad intonare una canzone che fece raggelare padre Craig, una litania che aveva già sentito dalle labbra di Blake e di Ioan:
- Cala la luna, cala la luna
Cala la luna, il cielo la inghiotte
Cala la luna, cala la notte
Cala la notte, il sole si ammala, il fuoco non brucia, il palco scompare, nessuno urla più.
Cala la luna, ti sta cercando, chiudi gli occhi, trattieni il respiro e rimani laggiù.
 
Quel villaggio sembrava un villaggio come tanti altri, non tanto diverso da Carbrey agli occhi di Blake.
Le persone camminavano serenamente in mezzo alle stradine innevate, riuscendo a non scivolare nonostante la neve ghiacciata. Si chiese quale fosse il nome di quel villaggio e per quale motivo Selma si fosse ammutolita da quando erano giunti in quel luogo.
Molto probabilmente Ephram sapeva cose che lui ancora non conosceva sul passato di Selma, per questo sembrava così apparentemente rilassato mentre varcavano quelle strade.
- Hai detto che una delle famiglie di questo villaggio ci ospiterà. Ci stiamo dirigendo lì o stiamo facendo tappa altrove? – domandò lo stregone alla donna, continuando a camminare tranquillamente, mentre si guardava intorno incuriosito.
Probabilmente, neanche lui aveva avuto molte occasioni di uscire da Bliaint, prima di quel momento.
Le persone sorridevano con naturalezza quasi surreale, mostrando un’invidiabile leggerezza.
Perché erano tutti così tranquilli e sereni in quel luogo?
Non che a Bliaint non lo fossero, ma vi erano molte tensioni all’interno del suo villaggio di appartenenza, e ciò era palpabile.
- Dovreste imparare la lingua dei segni – gli disse improvvisamente Ephram, distogliendolo dai suoi pensieri.
I cavalli camminavano appena dietro di loro placidamente, senza disturbare troppo la stradina gremita di persone, col loro passaggio, trascinati dalle corde che avevano usato come redini.
In quei pochi giorni, Blake aveva imparato che i cavalli fossero animali indomabili, ma con un grande spirito di adattamento, se guidati e disciplinati a dovere, dunque molto affidabili.
Guardandosi intorno di nuovo, ad occhio e croce, valutò che quel villaggio dovesse avere più abitanti di quelli che vi erano a Bliaint.
Tuttavia, c’era qualcosa che non andava. Era come una sensazione dirompente che scalpitava sottopelle.
- Mi avete sentito? – riattirò la sua attenzione lo stregone, a quanto pare molto poco disposto a comprendere che non avesse alcuna voglia di intrattenere una conversazione con lui.
- So che conoscete alcune lingue straniere, parlate a Nord e ad Est – continuò Ephram. – Mi sorprende che voi non conosciate anche quella dei segni. Vi sarebbe molto di aiuto in questo caso. Posso insegnarvela senza problemi – propose.
Imparare la lingua dei segni avrebbe significato ammettere che quella non fosse solo una situazione temporanea, perciò no, non era quello che gli serviva. Presto non ne avrebbe più avuto bisogno.
- Insomma, non potete continuare a scrivere ogni volta che volete comunicare, è un’inutile perdita di tempo.
Ecco cosa mancava in quel villaggio: ragazzi. Giovani, fanciulli e fanciulle che superassero l’età infantile, persone all’incirca della sua età, pensò Blake ignorando le parole di Ephram.
Ve ne erano, ma, in confronto agli uomini e alle donne vecchi o di mezza età erano in netta minoranza.
- Inoltre, quella fasciatura intorno al collo attira parecchio l’attenzione.
Se non ci fosse, attirerebbe molto di più l’attenzione.
- Non tutti dovrebbero sapere l’entità di ciò che avete vissuto. Le nostre cicatrici rivelano troppo di noi e non dovrebbero essere mostrate con tanta facilità, per tale motivo è un danno quando queste sono in porzioni del nostro corpo scoperte e in evidenza.
Già, chissà cosa aveva spinto Ephram a pensarla in quel modo, cosa doveva aver vissuto all’interno della sua compagnia di eremiti per avere un visione tanto drastica e chiusa. Blake non lo conosceva, ma da quelle poche ore che avevano trascorso insieme, aveva già capito che tipo di persona fosse: non accettava compromessi, imponeva le sue ideologie, pretendeva che ogni cosa che gli uscisse dalla bocca fosse l’egregia e inoppugnabile verità.
A Blake non interessava minimamente sapere cosa l’avesse reso in tal modo, neanche se avesse avuto tempo da perdere gli sarebbe interessato.
Oh, ecco la sua opportunità proprio davanti agli occhi: un vecchio passeggiava distrattamente esattamente dinnanzi a lui, verso di lui, diretto nel verso opposto, con gli occhi fissi chissà dove.
Fu sin troppo facile andare a sbattergli contro.
- Oh, scusatemi, giovanotto! Stavo guardando altrove – si scusò il vecchio, per poi riprendere a camminare adagio.
A ciò, Blake palesò il suo bottino: la saccoccia di quell’uomo non era particolarmente piena ma non gli importava granché, finché avesse trovato qualcosa di utile.
La aprì e cominciò a visionarne gli oggetti che si trovavano all’interno mentre continuava a camminare.
Ephram lo guardò con la coda dell’occhio, accennando un sorriso. – Siete solito farlo, questo giochetto? Non vi facevo un ladro, tanto meno in grado di rubare con tale leggerezza all’aria aperta.
Un ladro? Chiamarlo ladro per ciò che aveva appena fatto sarebbe stato un grande insulto all’intera arte del rubare pensò il ragazzo, rivolgendogli uno sguardo eloquente, la prima risposta che si degnò di dargli da diversi minuti, per poi continuare a tirare fuori piccoli oggetti dalla saccoccia: un ciondolo, una sorta di talismano di legno e un libro di piccole dimensioni sgualcito, con un carboncino legato ad esso con un cordoncino.
Blake slegò il cordoncino e lo sfogliò, leggendo qualche riga sbiadita ai limiti del leggibile. Una sorta di piccolo manuale di pesca, forse.
Meglio così, gli servivano delle pagine su cui poter scrivere.
A ciò, il ragazzo sventolò il libricino davanti agli occhi dello stregone, in una chiarissima risposta al quesito di poco prima, tanto che Ephram si arrese. – D’accordo, ho capito il messaggio, niente lingua dei segni. Ma dovreste riflettere almeno sull’utilizzare qualcosa per coprire quella – gli disse indicandosi il collo.
Blake non aveva notato prima che Ephram indossasse una collana spessa e scura intorno al collo, una fascia di cuoio che assomigliava ad uno dei cimeli che indossavano anche gli altri membri della sua compagnia di stregoni, una qualche sorta di riconoscimento estetico. Ora che ci pensava, anche uno dei due gemellini che aveva incontrato nella piazza quel giorno ne indossava una.
Ephram comprese che la stesse osservando. – Non devo coprire nulla con questa, non sono stato quasi impiccato come voi. Tuttavia, voi potreste usarla per convenienza, in modo da nascondere la cicatrice.
Lui non aveva bisogno di nascondere le sue cicatrici agli occhi di nessuno.
Non aveva bisogno di nasconderle, così come non aveva bisogno di ostentarle.
Non gli serviva dimostrare nulla a nessuno.
- Siamo arrivati – li avvertì Selma, avanzando di qualche passo avanti a loro, salendo i pochi gradini che li separavano dall’entrata della casetta vicina a tutte le altre.
La donna bussò, restando in silenzio, trasmettendo agli altri due dietro di lei la palpabile agitazione che la animava.
Quando la porta si aprì, rivelò la figura di una giovane donna sorridente, con alcuni lineamenti simili a quelli di Selma, ma più dolci e giovanili. In braccio ad ella, vi era una bambina di circa tre o quattro anni, con grandi occhi grigi e dei ricci neri.
La donna sgranò gli occhi, sorridendo d’emozione, non appena riconobbe Selma.
- Cugina…? Sei tu?? Sei proprio tu?? Quanto tempo è passato! – esclamò abbracciandola a sé con vigore e sorridendo ancora.
- Anche per me è bello rivederti, Julia – ricambiò Selma con sincera affezione nella voce, ma anche una lieve nota di disagio.
Quando si staccarono dopo un tempo indefinito, la donna non mancò di guardare e sorridere anche ai due ragazzi rimasti un passo indietro.
- Oh, Selma, che giovani compagni attraenti porti con te! – esclamò, facendosi da parte per permettere loro di entrare. – Se avessi saputo saresti tornata, per di più con degli ospiti con te, avremmo cucinato molto di più per la cena! Ad ogni modo, il cibo è già in tavola, e gli altri sono già seduti, vedrai che bella sorpresa farai loro! Vi sono delle camere in più anche per i tuoi compagni, potrete rimanere quanto desiderate! Prego, cosa fate ancora fuori?? Entrate! Mio marito si occuperà di riporre i cavalli nella stalla con gli altri animali.
A ciò, Selma voltò il viso verso di loro. – Benvenuti a casa mia.
Ephram sorrise consapevole in risposta, mentre Blake rimase immobile e sorpreso.
Quando i due furono entrati e si furono presentati agli altri componenti della famiglia, non persero tempo a sedersi a tavola a mangiare. La casa era abitata da quelli che Blake aveva capito essere gli zii di Selma, probabilmente il fratello di sua madre e la moglie di lui, una coppia allegra, cordiale e servizievole; dalle due cugine di Selma, tra cui vi era Julia, la giovane donna che li aveva accolti alla porta, sposata con un uomo sorridente e silenzioso, e l’altra, una ragazza curiosa, dall’atteggiamento provocatorio e vivace, una fanciulla che doveva avere grossomodo l’età di Blake. Infine, vi era l’unica e giovanissima figlia di Julia e Jeremy, la piccola e dolce Maila. Dovevano essere una famiglia numerosa, poiché il ragazzo aveva compreso che Julia e la sua giovane sorella Sibyl, non erano figlie degli zii di Selma che si trovavano lì con loro, Cam e Anya, nonostante l’età avanzata della coppia e i loro atteggiamenti materni e paterni facessero pensare di sì.
Dunque, dovevano essere figlie di un ulteriore fratello o sorella non presenti. Cam e Anya sembravano non avere figli, dei genitori di Julia e Sybil non vi era traccia, così come di quelli di Selma, colei che era scappata di casa da ragazza.
Non sapeva altro, per il momento, ma vi era qualcosa di strano in quella situazione.
Di nuovo, il suo sesto senso ebbe la meglio.
Il peggio era che non riusciva a capire se Ephram sapesse qualcosa in più che anch’egli avrebbe dovuto sapere e che avrebbe a breve scoperto, o se stesse solo facendo buon viso a cattivo gioco.
Ad ogni modo, quelle persone erano tra le più ospitali che Blake avesse mai conosciuto. Non che ne avesse conosciute molte, dato che era stato precedentemente ospitato solo dalla sfortunata Selen, e anche lei traboccava di spirito ospitale.
Si chiese se anche loro, a Bliaint, sembrassero tanto ospitali, dall’esterno.
Probabilmente no, considerata la loro fama.
Eppure, quando padre Craig era giunto a casa sua, a Blake sembrò di esser stato sin troppo ospitale nei suoi confronti.
Il chiacchiericcio della tavolata lo riscosse dal pensiero del prete straniero.
- Oh, Selma, avresti potuto dirci che stavi tornando, cara! – esclamò per la decima volta la dolce Anya, con la sua vocina stridula e un vassoio di verdure tra le mani, pronto per essere posto nella tavola insieme a tutte le altre deliziose pietanze.
- Non ne ho avuto modo, zia Anya. Questa tappa non era in programma. Difatti, resteremo qui solo fino a dopo domani, il necessario per riprendere le forze e ripartire.
- A cosa è dovuto questo viaggio che avete intrapreso? – domandò Julia.
- Si è trattato di una scelta improvvisa. Io e Blake siamo voluti partire senza pensare …
- Giusto, Blake – Selma venne interrotta dallo zio Cam, il quale voltò i suoi occhi gioviali verso il succitato, seduto accanto alla nipote. – Cosa vi è successo alla voce?
- Probabilmente avrà a che fare con la fasciatura che ha al collo, Cam – suppose zia Anya.
- Prima di giungere qui ci siamo fermati in un villaggio che non … ci ha accolti bene come ci aspettavamo - liquidò Selma. Blake non aveva mai visto la donna accanto a lui tanto turbata come in quel momento.
Lei che solitamente sembrava così sicura di sé, con la risposta sempre pronta, le doti persuasive dietro l’angolo pronte a colpire con scaltre bugie e discorsi incantatori, consapevole delle proprie armi e pronta ad usarle. Ora, invece, tutta la sua scaltrezza e la sua vanità erano soppiantate da una maschera di finta lietezza, contaminata ad un evidente disagio, nonostante le premure con le quali l’aveva riaccolta la sua famiglia.
Blake se ne accorse ancor di più quando fece virare gli occhi alla sua sinistra, per guardarla.
Egli non era sicuro che la propria famiglia l’avrebbe riaccolto così calorosamente se avesse deciso di non fare più ritorno a Bliaint. Molto probabilmente no. Eppure … perché lei sembrava così scossa?
Quelle domande dentro la mente non lo fecero accorgere che, in seguito alle parole di Selma, fosse calato il silenzio, il quale venne spezzato dalla voce preoccupata di zia Anya. – Oh, povero ragazzo … che cosa vi hanno fatto?
- Qualsiasi erbe medicinali vi servano, sappiate che ne abbiamo a bizzeffe, potete usufruirne quanto volete - commentò Jeremy, imboccando la piccola Maila, la quale sembrava un po’ troppo grande per venire ancora imboccata come una poppante.
- E voi, Ephram, non siete partito con loro? – domandò Julia.
- Io ho deciso di unirmi a loro dopo, raggiungendoli in un secondo momento – rispose Ephram sorridendo cordiale.
- Dunque, diteci … Blake e Ephram – intervenne la briosa Sybil ponendo le braccia sottili sul tavolo, incrociandole tra loro, sporgendosi col volto sorridente e curioso. – Com’è questo famoso Bliaint di cui tanto si parla e da cui provenite, e per il quale la nostra Selma ci ha lasciati, decidendo di stabilircisi rinnegando la sua terra natale? – domandò melliflua e tagliente. – Deve essere spettacolare per esercitare un tale fascino su nostra cugina.
- Ci sono parecchie storie e leggende che girano su quel villaggio – commentò anche Julia, aiutando sua zia ad imbandire la tavola.
- Non che crediamo siano tutte vere, ovviamente. Raccontaci qualcosa, Selma, della tua vita a Bliaint! – la spronò zio Cam. – Si dice persino che gli esseri immondi che servono il Creatore si divertano e provino piacere nel bruciare al rogo donne, uomini e bambini senza distinzioni, appartenenti alla metà di bell’aspetto del villaggio.
A quelle parole, Ephram non poté fare a meno di sorridere e ghignare, mentre finiva di ingoiare il boccone che stava masticando.  – Direi che tali voci non si allontanino di molto dalla realtà – commentò lo stregone, non riuscendo a trattenersi.
- Si dice anche che tutti i servitori del Diavolo a Bliaint siano streghe e stregoni – intervenne nuovamente Sybil, portandosi il bicchiere alla bocca. – È così? Insegnate ai bambini a praticare le arti occulte sin da piccoli?
- Sappiate che qui, ad ogni modo, non trattiamo in maniera tanto barbara coloro che praticano la magia, come fanno in altri villaggi! – si premurò di rassicurarli Julia.
- Voi due lo siete? Siete stregoni come Selma? – continuò Sybil.
- Ephram lo è, mentre Blake … - si bloccò Selma, volgendo gli occhi verso il ragazzo accanto a lei, accennando un lieve sorriso incerto. - … non saprei davvero come definirlo, se non …
- Alchimista. Il nostro giovane Blake è un alchimista – terminò la frase per lei Ephram, con una saccenza immotivata che fece saltare i nervi al succitato.
Quella storia sarebbe dovuta finire, prima o poi.
Apparentemente soddisfatta delle risposte date alle sue domande, Sybil si acquietò, poggiando la schiena allo schienale della sedia, ma continuando ad osservare i due.
- Ed ora… ecco il piatto principale della cena – esultò zia Anya facendosi avanti con un vassoio colmo di un’invitante e ben condita tagliata di carne, la quale emanava un odore quasi ipnotizzante per quanto buono.
Blake si chiese che tipo di carne fosse, mentre questa veniva servita nei piatti.
- Il piatto principale di ogni cena da circa una luna … - si lamentò Sybil.
- Oh avanti, Sybil, non fare la bambina. La carne si conserva egregiamente grazie alle rigidissime temperature del nostro inverno. La neve fa rimanere il suo sapore sempre appetitoso e la consistenza morbida alla cottura - la riprese Julia.
Dunque doveva essere un grosso animale, pensò il ragazzo, mentre gli veniva posto dinnanzi agli occhi di zaffiro il piatto riempito di due grossi pezzi di carne, conditi con numerose spezie.
Tagliò la carne e ne assaggiò un pezzo, percependo la lingua venire avvolta da una prelibatezza senza precedenti.
Di certo non era come la lepre che aveva mangiato il giorno prima.
Quella carne era talmente buona che fu in grado di provocargli quasi assuefazione, spingendolo a mangiarne ancora e ancora.
Mentre Blake e Ephram gustavano il loro piatto con tanto deliziato vigore, zia Anya e zio Cam sorrisero.
- Vedo che apprezzate la nostra specialità. Ne siamo lieti – dissero, per poi posare lo sguardo su Selma.
Il loro sorriso si spense non appena notarono gli occhi sgranati e incerti, la presa sulla forchetta traballante della nipote, la quale non sembrava intenzionata ad assaggiare neanche un pezzo della tagliata nel suo piatto.
- Avanti, cara, assaggia. Sai che ogni volta ha un sapore differente – la incoraggiò zia Anya, facendola irrigidire ancora di più, una reazione che venne notata da Blake e da Ephram.
Sybil cominciò a mangiare annoiatamente, prendendo ad osservare Selma a sua volta.
- Quando metti su quella strana smorfia che non si addice affatto ad una donna della tua età mi ricordi moltissimo il mio caro Derick – commentò Anya.
A quelle parole, Selma gelò sul posto, alzando immediatamente gli occhi sgranati su sua zia. – Derick …?
- Derick, sì. Mio figlio. Abbiamo avuto un altro figlio diversi anni fa. Tu te ne eri già andata da un po’ - rispose, per poi continuare. – Ora che ci penso, Derick somigliava moltissimo a tuo fratello Islay. Era quasi identico a lui nelle movenze e negli atteggiamenti.
In seguito a quelle parole, Selma si alzò con violenza dalla tavola, quasi come se dovesse scaraventare il tavolo a terra da un momento all’altro. Senza dire nulla, si diresse a passo di marcia verso quella che doveva essere la sua vecchia stanza, richiudendosi la porta dietro le spalle senza aver toccato cibo.
L’unica cosa che Blake riuscì a comprendere da quelle poche informazioni casuali che aveva dato Anya parlandone al passato, il figlio di quest’ultima doveva essere morto.
- Vostro figlio, Derick, dunque … è morto? – chiese conferma Ephram.
- Sì, sfortunatamente. Aveva dieci anni.
- Quando è accaduto?
- Circa una luna fa.
- Oh, mi dispiace molto.
- Oh, non angustiatevi per questo, caro. Siamo tutti dispiaciuti per la sua scomparsa, ma stiamo cercando di andare avanti.
Andare avanti …?
Nella mente di Blake parecchie informazioni stavano cominciando ad incastrarsi tra loro inconsciamente.
Come sarebbero potuti andare avanti dopo la morte di un figlio avvenuta solo un mese prima…?
- Selma si è solo intristita ripensando a suo fratello – intervenne Cam, andando lentamente a completare il mosaico del ragazzo. – Anche Islay, il fratello di Selma, è morto, ma è accaduto molti anni fa, prima che lei se ne andasse. Ancora non riesce a superarlo, ahimè.
Blake cominciò a capire, sbiancando.
Tutte le persone assenti a quel tavolo dovevano essere morte prematuramente: i genitori di Julia e Sybil, i genitori di Selma, il fratello di Selma, il figlio di Anya e Cam.
Derick era morto un mese prima, Sybil aveva detto che stavano mangiando sempre carne da un mese intero.
Blake tossì, tossì portandosi la mano alla gola, avvertendo nella bocca ancora il sapore della carne squisita da poco ingerita, ora divenuto improvvisamente nauseante, nonostante avesse smesso di mangiare da un pezzo.
Catapultò gli occhi nuovamente sulla carne avanzata nel suo piatto, provando un’irrefrenabile esigenza di infilarsi due dita in gola e rigettare tutto ciò che aveva mangiato.
Quando rialzò gli occhi stralunati dinnanzi a sé, trovò il viso di Cam che lo stava osservando, comprendendo che avesse capito. – Sì, è quello che state pensando, ragazzo mio: è la carne di nostro figlio quella che vi siete appena gustati.
 
La giovanissima Selma agitò l’infuso d’amore che aveva appena preparato, sperando tra sé di aver reperito tutte le giuste componenti.
Prima di allora, tutti gli intrugli che aveva preparato non erano serviti allo scopo.
Tutto ciò che aveva letto lo aveva imparato dal libro di medicina di sua madre.
Tuttavia, la fanciulla sapeva bene che l’arte medica non era esattamente come quella magica.
Vi erano delle sostanziali differenze che era decisa a scoprire.
Quella era la terza commissione che aveva ricevuto in sei lune, da parte di un ragazzo di tre anni più grande di lei. Egli le aveva chiesto un filtro d’amore. Un filtro d’amore per far innamorare la fanciulla che amava di lui, per essere ricambiato.
La ragazza sembrava non mostrare il minimo interesse per lui, perciò il lavoro sarebbe stato il triplo più arduo, pensò Selma, agitando con maggior vigore la boccetta: se il filtro avesse funzionato, era fatta. Sarebbe stata sulla buona strada per diventare una negromante.
Sorrideva mentre pensava a tutto ciò, ai risultati che avrebbe ottenuto.
All’improvviso, due mani dal profumo che conosceva sin troppo bene, le coprirono gli occhi giocosamente.
- Indovina chi sono? – le chiese la voce furba e più adulta di sua sorella.
- Non potresti lasciarmi tregua almeno oggi, Fie?? – si lamentò la fanciullina, divincolandosi dalla presa della sorella più grande, la quale, non soddisfatta, le avvolse il petto ancora piatto con le sue braccia soffocanti, sporgendo il volto dalla sua spalla per osservare ciò che stesse facendo. – Che c’è in quella boccetta? Non dirmi che si tratta di uno dei tanti filtri di tentativi falliti che stai collezionando, Selly.
Selma odiava quando Fie la chiamava così. Lo odiava meno quando era il fratello a chiamarla in quel modo.
- Ehi, non fare quella faccia, ragazzina! Sono venuta qui per essere la prima a festeggiarti per i tuoi undici anni appena compiuti! – si lamentò Fie, rendendosi ancor più odiosa di proposito.
Adorava stuzzicarla.
- Non dovresti aiutare la mamma e la zia Anya con i preparativi per i festeggiamenti? – cercò di scacciarla Selma senza successo.
- No, preferisco restare qui con te. E poi oggi la mamma è strana. Allora?? Vuoi rispondere alla mia domanda??
- Sì, è un filtro d’amore questa volta.
- Cosa??? Un filtro … d’amore?! – esclamò la ragazza ridendo divertita, facendola innervosire ancor di più.
Non vi era mai una volta che Fie credesse minimamente in lei, anzi. Sembrava esultare per i suoi fallimenti.
- E per chi sarebbe questo fantasmagorico filtro d’amore? Una giovane ninfa ha per caso accecato e sedotto con la sua bellezza un povero giovane garzone??
- Più o meno.
- Quindi si tratta davvero di un ragazzo che vuole conquistare una ragazza? E non vuoi dirmi di chi si tratta, vero?
- Potresti lasciarmi finire, Fie? Per favore, almeno il giorno in cui compio undici anni dovrei avere il diritto di essere lasciata …
La piccola Selma non fece in tempo a terminare la frase, che Fie, con un leggiadro e fintamente distratto gesto della mano colpì la boccetta, facendola cadere a terra e rompere in mille pezzi.
- Ops … non sai quanto mi dispiace. Ad ogni modo, tanto non avrebbe comunque funzionato – disse sorridendo, cominciando a correre via.
- Faresti meglio a correre … a correre più veloce che puoi, Fie, perché se ti prendo … se ti prendo ti uccido e ti strappo tutti quei bei capelli uno per uno!!! – esclamò la piccola Selma cominciando a correre per le scale a perdifiato, inseguendo la sorella dispettosa.
Fie, per correre più velocemente, tenne la stoffa della sottana alzata con le mani, mentre sfrecciava come il vento, spalancando la porta di casa e avventurandosi all’esterno, schiantandosi con il freddo mattutino.
Non appena individuò il fratello impegnato ad allenarsi nell’arte della spada con un bastone, si fiondò su di lui, nascondendosi dietro il suo corpo. – Islay!! Islay, quel demonio di Selma mi sta inseguendo, proteggimi!! - esclamò divertita, usando il corpo del fratello, ancora confuso, come scudo.
Quando Selma li raggiunse, guardò la sorella in cagnesco, avvicinandosi lentamente, mentre questa le rivolgeva una smorfia, stringendo le spalle di Islay e alzandosi sulle punte per riuscire a sporgersi dalla spalla di lui per guardarla. D’altronde, nonostante Islay forse il fratello di mezzo e Fie fosse la prima, dunque la più grande dei tre, egli era comunque più alto di lei.
- Selly? Che è successo tra voi due? – chiese confuso il ragazzo, rivolgendo uno sguardo di rimprovero ad entrambe, oramai abituato alle dispute e ai battibecchi delle sorelle.
Egli, ad ogni modo, era il più responsabile dei tre. Non a caso, sarebbe presto diventato un guerriero, unendosi alle truppe dei cavalieri. Si stava allenando da anni per diventarlo, e nonostante avesse solo quattordici anni e fosse ancora poco più che un fanciullo, aveva già mostrato delle doti da combattente molto promettenti.
Tutto ciò si sarebbe realizzato sempre se loro tre fossero riusciti a sopravvivere a quello che li aspettava.
A quello che spettava a tutti i figli delle famiglie del loro villaggio.
Ogni genitore era riuscito a diventare tale solo perché aveva vinto la sua personale e sanguinaria battaglia da ragazzino, come avrebbero dovuto fare loro a breve.
Eppure, non sapevano ancora quando, non sapevano quando sarebbe arrivato il giorno.
Solitamente, questo arrivava quando il figlio più piccolo compiva dieci anni.
Eppure, Selma, che era l’ultima nata dal ventre di sua madre, aveva compiuto dieci anni un anno prima e non era successo nulla.
E quel giorno ne compiva undici. E ancora nulla era accaduto.
I tre sapevano di dover restare sempre all’erta, era il destino che toccava a tutte le nuove generazioni di Morag. Eppure, finché non accadeva nulla, sentivano di poter stare tranquilli.
I loro sogni erano ancora perfettamente intatti nelle loro menti: Islay sarebbe diventato un cavaliere, Selma sarebbe diventata una negromante, Fie sarebbe divenuta sarta … se solo avessero uccisero la loro madre, quando sarebbe arrivato il momento tanto temuto.
Era una lotta all’ultimo sangue: o loro o la donna che li aveva cresciuti. O i figli o i genitori, sarebbero stati le vittime. Non potevano continuare a vivere entrambi. Non a Morag.
Così era la tradizione e a questo tutti loro dovevano la prosperità e la buona sorte del loro villaggio. Se ciò non fosse avvenuto e la catena si fosse spezzata, anche se solo per una delle famiglie, una maledizione sarebbe piombata sul loro villaggio, non risparmiando nessuno.
Chiunque fossero stati i vincitori di quella tremenda lotta, che fossero stati i figli o i genitori, questi avrebbero dovuto mangiare la carne dei perdenti, per completare il rito.
Così era accaduto ai loro cugini Harin e Jean, i figli di zia Anya e zio Cam, i quali erano stati mangiati da tutti loro un anno prima, dopo essere stati uccisi dai loro genitori. Harin e Jean avevano perso la loro battaglia, non erano stati pronti. Selma ricordava la loro carne come buonissima, la più squisita che avesse mai mangiato, nulla a che vedere con la carne degli animali. Selma era affezionata ai suoi cugini grandi, e l’idea di non poterli più vedere e di non essere più circondata da loro la intristiva, eppure era comunque riuscita a mangiare le loro carni, così come vi erano riusciti tutti.
Presto, dopo di loro, sarebbe toccato anche alle sue cugine più piccole, Julia e Sybil, le figlie della zia Blair e dello zio Arran. Chissà, in quel caso, chi avrebbe vinto.
Chissà, nel loro caso, nel caso della sua famiglia, dei suoi fratelli e sua madre, chi avrebbe trionfato.
Sapeva che i figli non vincevano quasi mai a causa della giovanissima età, venivano uccisi dai genitori nella maggior parte dei casi. Era quello che era accaduto ad Harin e a Jean, d’altronde.
Eppure, Selma ci sperava, sperava realmente che lei e i suoi fratelli avrebbero vinto, riuscendo ad assassinare la mamma, prima che lei facesse lo stesso con loro.
Sua madre era sempre stata attenta e premurosa con loro, in ogni circostanza.
Sua madre li amava e loro amavano lei.
Eppure … eppure, da un momento in particolare, i figli smettevano di essere figli e i genitori di essere genitori.
Poiché non potevano vivere figli e genitori insieme, era sbagliato, dannoso.
Da un momento in particolare, doveva prevalere o la nuova generazione, o la vecchia.
- Lasciamela prendere, Islay! Lasciami mettere le mani su di lei e le staccherò braccia e gambe! – esclamò furiosa la piccola Selma, affondando le scarpette nel fango con astio, avvicinandosi al fratello e alla sorella.
- Proprio per questo motivo non posso permetterti di avvicinarti a lei – la ammonì Islay sfoderando uno degli sguardi più persuasivi e convincenti del suo repertorio, riuscendo parzialmente nel tentativo di farla calmare.
Selma abbassò la testa, per poi puntare il dito su Fie, che se la rideva dietro il fratello. – Lei mi ha rovinato la vita!
- Oh, non esagerare ora! – esclamò la ragazza rivelandosi e scostandosi lievemente dal fratello.
- Lui non può proteggerti sempre!
- Oh, se è per questo lui non potrà proteggere sempre neanche te!
- Ehi – richiamò l’attenzione delle due il ragazzo. – Si dà il caso che io sia ancora qui. Si può sapere perché dovete sempre accapigliarvi?? Se non ci sono io a dividervi finite sempre per bisticciare come due belve feroci - si lamentò egli.
- Beh, Islay, ma tu sei venuto al mondo proprio per questo – lo informò con finta innocenza Fie, alzandogli il mento con un dito. – Sei nato per evitare che ci uccidiamo. Sei nato per portare la pace!
- Beh, si dà il caso che, ben presto, lui non sarà più qui con noi e ciò che andrà a fare non sarà di certo portare la pace, ma tutt’altro – commentò Selma, non riuscendo a nascondere la tristezza e la frustrazione, abbassando lo sguardo ora incupito.
- Ehi – la richiamò Islay avvicinandosi maggiormente a lei e abbassandosi lievemente per arrivare con il viso alla sua altezza. – Cercherò di portarla comunque, la pace, anche se prima dovrò combattere per ottenerla. Per questo motivo voglio entrare a far parte dell’esercito.
- Se diventerai cavaliere, non ti vedremo quasi mai – si lamentò la piccola.
- Ci scriveremo un sacco di lettere e sarà come se fossi qui. E poi, non sei tu stessa ad aver detto che il tuo desiderio è quello di viaggiare e di visitare terre lontane? – le chiese lui, rivolgendole quel sorriso che era sempre in grado di scioglierla un po’. – Le nostre strade si sarebbero divise in ogni caso. La crescita è anche questo, non credi, sorellina? Ma ci saremo sempre l’uno per l’altra – le disse carezzandole dolcemente una guancia, per poi volgere gli occhi anche verso Fie, rimasta indietro e apparentemente disinteressata alla loro conversazione. – E anche se nostra sorella finge che non le importi, vedrai che anche lei ci sarà sempre per noi, per me e per te. Perché è la più grande e sotto sotto, so che ha una gran voglia di prendersi cura di noi. Vero, Fie?? – le domandò provocatorio, vedendola rivolgergli un ghigno sornione.
Fie e Islay si somigliavano d’aspetto più di quanto Selma somigliasse loro. E ciò le dava un po’ fastidio.
Loro due avevano preso dal loro defunto padre, morto per malattia poco dopo la nascita di Selma, mentre quest’ultima era colei che somigliava di più alla loro madre, tanto da sembrarne la sosia in miniatura.
- Rimane il fatto che voglio ucciderla! – esclamò Selma sentendo rimontarle la rabbia dentro, avventandosi con uno scatto su sua sorella lontana qualche passo da lei, venendo riacciuffata da Islay giusto in tempo, il quale la trattenne per il busto, mentre la fanciullina si dimenava tra le sue braccia, sporgendosi verso Fie.
Prima che i tre potessero rendersene conto, troppo impegnati a ridere, la mamma li raggiunse in silenzio, con il suo solito passo silente e tranquillo come quello di un gatto.
Sarah, questo era il nome della donna che li aveva messi al mondo e cresciuti con ogni cura, si avvicinò a loro a testa bassa e una mano dietro la schiena.
I suoi capelli neri le coprivano in parte il viso, le lunghe ciocche le circondavano le guance, la frangia formava un’ombra sui suoi occhi svuotati, lucidi, quasi irriconoscibili.
- Mamma? – Fie fu la prima ad accorgersi di lei, tra un riso e l’altro, facendo voltare anche i suoi fratelli verso la donna, la quale, oramai, era distante solo qualche passo da loro.
Il freddo esterno li avvolse di nuovo, in una folata silenziosa, mentre, pian piano, i tre si zittirono, accorgendosi dell’atmosfera tesa e pesante formatasi all’arrivo della madre.
Islay fu il primo a realizzare.
Selma aveva gli occhi fissi sul viso del fratello, quando vide i suoi lineamenti dolci cambiare totalmente, assumendo una forma differente, mortalmente seria, ma per nulla sorpresa o delusa, pregna di determinata consapevolezza.
In quel momento pensò, per l’ennesima volta, che fosse proprio adatto a diventare cavaliere, e ad infondere coraggio e speranza nelle persone.
Islay, con la sua presa salda ancora su di lei, la posò a terra, spostandola dietro di lui, prendendo posto davanti a lei e a Fie, proprio come un vero scudo inamovibile.
Indietreggiò, tenendole sempre dietro di sè.
Dal canto suo, Fie, avendo preso coscienza a sua volta che il momento fosse giunto, si strinse alla sua sorellina, restando dietro al fratello, facendo scontrare il corpicino acerbo di Selma al proprio più procace, in un primordiale istinto protettivo che raramente le aveva mostrato.
Selma alzò il volto verso Fie, vedendola indicibilmente seria mentre la stringeva a sé e teneva gli occhi scuri fissi su sua madre. Anche Selma fece virare gli occhi sulla madre, a sua volta.
Dove era finita la donna con lo sguardo dolce, amorevole e di rimprovero? Dove era finita la mamma che la cullava e le rimboccava le coperte ogni notte di pioggia, restando con lei fin quando non riusciva ad addormentarsi?
Sarah era una statua di marmo, mentre si muoveva a passi lenti, calibrati e artificiosi verso di loro.
Le sue labbra sottili tremavano, mentre l’aria e le parole uscivano da esse. – Sapevate che il momento sarebbe arrivato, angeli miei … - sussurrò balbettando, rivelando finalmente ciò che nascondeva dietro la schiena: un grosso coltello da cucina. – Avete visto cosa è successo ad Harin e a Jean … avete visto cosa è successo ai vostri amici … sapete com’è la tradizione … o me o voi … ve ne ho già parlato.
- Lo sappiamo – rispose con sicurezza Islay, indietreggiando ancora, facendo indietreggiare anche le sorelle.
- Mi dispiace … mi dispiace tanto. Ma non posso esimermi. Mi perdonerete …?
Senza ascoltarla, Islay voltò di poco il viso verso le sue sorelle, sibilando loro con determinazione di ferro. - Qualsiasi cosa accada …
- Mi perdonerete … per quello che sto per fare?
- Qualsiasi cosa accada … restate sempre dietro di me.
- Mi perdonerete, angeli miei…?
- Va tutto bene, Selly. Resta stretta a me. Resta vicino a me, Selly, e andrà tutto bene – le disse Fie, stringendola ancora.
- Restate dietro di me … - ripeté Islay con calma.
Erano diventati un muro. Loro tre erano diventati un muro inespugnabile contro di lei, uniti, saldi, senza nessuna intenzione di arrendersi.
- Mi perdonerete …?
Quelle parole risuonarono nella mente di Selma improvvisamente, facendola risvegliare di scatto dal suo breve e tormentato sonno, disturbato dalla tempesta di tremendi ricordi piombati su di lei come sciabole, da quando aveva rimesso piede nella sua terra natale, dopo tutti quegli anni di lontananza.
Rivarcare quel terreno, quella casa, sede di così tanti preziosi momenti che conservava nella sua memoria … contaminati da ciò che le aveva cambiato la vita per sempre.
Quanto aveva vissuto dopo di loro? Quanto tempo aveva vissuto senza il sorriso rassicurante di Islay, senza il ghigno strafottente di Fie? Senza la voce melodiosa di sua madre?
Si asciugò le lacrime che le avevano bagnato gli occhi inevitabilmente dopo quel sonno.
Julia era passata poco prima che si addormentasse, poco dopo la cena, con la speranza di parlare con lei, ma non era riuscita a permetterle di entrare e ad aprirsi.
Aveva sempre avuto un buon rapporto con Julia e con Sybil, ed era stata felice di scoprire che almeno loro fossero riuscite a trionfare sui loro genitori e ad avere salva la vita.
Le erano mancate molto anche loro e le era dispiaciuto lasciarle, al tempo.
Ora che aveva dormito, per quanto il suo sonno non fosse stato leggero, né tantomeno rigenerante, era riuscita a calmarsi, in seguito alla scenata che aveva fatto dinnanzi alla carne arrostita di un nuovo cugino che non sapeva di avere, e al solo sentir ripronunciare il nome del suo amato fratello.
Tuttavia, aveva bisogno di vedere meno persone possibili finché sarebbero rimasti lì.
Sapeva che zia Anya e zio Cam l’avrebbero convinta a trattenersi qualche giorno in più, poiché non la vedevano da troppo tempo, e, inoltre, erano esaltati dalla presenza dei suoi ospiti, incuriositi e affascinati dai due abitanti di Bliaint.
E poi … non vi era più nulla da temere, oramai. Ciò che dovevano fare lo avevano già fatto, anni addietro. Ora vi era solo un’atmosfera di pace e serenità tra loro.
Islay, Sarah, Harin, Jean, Derick, Blair e Arran non c’erano più. Il destino aveva voluto così, decretandoli perdenti.
Loro, invece, c’erano ancora, e avrebbero dovuto e voluto recuperare il tempo perso.
Selma si rammaricò per aver dovuto inconsapevolmente costringere Blake e Ephram a vivere una situazione come quella.
Quella tappa non era realmente prevista nel loro programma inziale del viaggio che li avrebbe condotti all’uomo che custodiva il segreto della polvere nera, se solo non fossero dovuti scappare via da Carbrey in fretta e furia.
Eppure ora loro erano lì, e se Ephram conosceva un minimo di ciò che ella aveva dovuto subire nella sua giovane età; per Blake, d’altro canto, era tutto completamente nuovo e aberrante.
Qualcuno bussò improvvisamente alla sua porta, facendola trasalire.
Parlando del Diavolo.
Selma capì si trattasse di lui nel momento in cui chiese chi fosse e non ricevette risposta, così gli diede il permesso di aprire.
Blake fece capolino dalla porta, rivolgendole uno sguardo che sembrava quasi velato da una sorta di strana preoccupazione, assolutamente non da lui, considerando il loro rapporto teso, diventato ancor più gelido da quando erano fuggiti da Carbrey.
Ciò fece riscaldare un po’ il cuore della donna, la quale lo vide porgerle un biglietto.
Ella si alzò dal letto, lo prese e lo lesse. – “Ti va di parlare?”
Selma alzò il volto sul ragazzo e si sforzò di accennargli un sorriso. – Non ora, Blake. Ora sono stanca, vorrei riposare – gli disse, risedendosi sul suo giaciglio, vedendo il ragazzo accontentarla, uscendo e richiudendosi la porta alle spalle.
Tante domande vorticavano nella testa del ragazzo in quel momento.
Non aveva mai sentito parlare di quel villaggio e non sapeva nulla riguardo le loro usanze, eccetto il fatto che usassero mangiare le carni dei propri figli come se si trattasse di animali qualsiasi.
Riprese a camminare per il corridoio, diretto verso la camera che avevano preparato per lui, scontrandosi nel tragitto, con un esserino alto fino al suo ginocchio.
Blake si arrestò e abbassò lo sguardo verso terra, notando la piccola Maila che sventolava la testa di qua e di là, massaggiandosi il nasino che aveva sbattuto contro la gamba del ragazzo.
La bambina alzò lo sguardo a sua volta verso di lui, fissando i suoi tondi occhi grigi sui suoi celesti.
Blake le accennò un sorriso che la piccola ricambiò spontaneamente.
A quanto sembrava al ragazzo, Maila non sapeva parlare. Era strano per una bambina di quattro anni non saper ancora parlare.
- È nata speciale – riscosse la sua attenzione la voce esuberante della giovane cugina di Selma, avvicinandosi a lui. Sybil sorrideva come sempre, con quella smorfia sensuale e sicura di sé sul viso, mentre abbassava lo sguardo sulla sua nipotina. – Va’ a letto, Maila. Si è fatto tardi.
A ciò, la piccola obbedì, prendendo a correre verso la camera dei suoi genitori.
- Gli indovini dicono che gli dèi hanno voluto punirla, per un peccato commesso in passato dai suoi antenati. Eppure, i nostri antenati hanno sempre seguito fermamente le regole – spiegò la ragazza con un pizzico di evidente amarezza nella voce. – Il suo danno non è nel corpo, ma nella mente. Non si sviluppa e non cresce come una bambina normale. Non mangia da sola, non fa i suoi bisogni di sola, non parla, si esprime solo a gesti, piange spesso come una neonata e deve essere accudita praticamente in tutto. In più, non riesce a fare due cose contemporaneamente. Non riesce a guardarti e, al contempo, ad ascoltarti se le parli. È nata così. È nata mancante. Eppure, posso garantirti che è dolcissima – terminò Sybil riportando lo sguardo interessato su di lui e avvicinandosi lentamente, puntando i suoi occhi languidi e provocatori dritti nei suoi, mentre, con voce eloquente, gli sussurrò: - Se mi lasci entrare in camera con te, ti racconterò tutto ciò che vuoi sapere.
 
 Il ragazzino si stese sul letto vicino a sua sorella, la quale aveva il volto stanco e spossato rivolto verso il soffitto.
Maringlen fece toccare il suo naso con la guancia di Maroine, avvolgendole il braccio intorno al busto per avvolgerla delicatamente, facendole sentire il proprio respiro sulla pelle.
- Sono qui, Ira. Sono qui con te … - le sussurrò.
La ragazzina accennò un sorriso malinconico in risposta, continuando a fissare il soffitto. – Non essere triste per me, Ira. Starai bene senza di me.
- Non ti azzardare a dirlo – la ammonì lui. – Guarirai presto.
- Sento le forze uscire dal mio corpo …
- Guarirai. Troverò una cura. Padre Cliamon e Judith troveranno una cura. Starai bene, te lo prometto.
- Non puoi fare promesse del genere, fratello mio – sibilò ella sorridendo ancora, posando debolmente una mano sulla sua guancia. – Solo il Signore può fare queste promesse. Dovresti pregare, pregare come fanno gli altri.
Vi fu una breve pausa, nuovamente spezzata dalla ragazzina. – Infondo … è stato bello. La mia vita con te è stata bella. Mi sono sempre divertita … con te. Solo grazie a te … sono qui solo grazie a te.
- Maroine, zitto, non parlare. Non voglio sentirti dire altro.
La ragazzina voltò il volto verso di lui, facendo scontrare i loro nasi, fissandolo negli occhi. - Piccola cicatrice sulla fronte, scheggia verde dentro l’iride e voglia bianca sul collo – esalò, facendo immediatamente sorridere l’altro, che ricambiò come di rito.
- Poche lentiggini sul naso, due nei sulla guancia, bocca di pesce e … - si bloccò, osservando il suo viso più attentamente. - … una cicatrice sul mento.
- Vedi? Ora abbiamo qualcosa in più che ci differenzia – disse la ragazzina. – Devi promettermi una cosa, Maringlen.
- Non ti prometto nulla.
- Ti odio quando fai così.
- Anche io.
- Maringlen … - lo richiamò, vedendolo distogliere lo sguardo da lei, per puntarlo lui sul soffitto, questa volta.
- Una stupida febbre non ti porterà via da me.
- Se dovessi restare solo … farai tutto quello che avresti fatto come se io fossi ancora con te. Vivrai una lunga vita, bella e avvincente. E parlerai agli altri di me come tuo fratello, non come tua sorella. Voglio che ascolti padre Cliamon e che te ne vai via di qui, il più presto possibile, per andare in quei bei posti di cui ci parla. E poi … per ultima cosa, voglio che un giorno smetterai di pensare a me. Perché io sarò in te, ogni volta che ti guarderai allo specchio. Non servirà più il mio ricordo.
Maringlen si voltò verso di lei, facendo scontrare ancora i loro nasi. – Dormi, fratello mio. Riposa, e quando ti sveglierai, sarai un passo più vicino alla guarigione.
Non importa cosa dovrò fare, lo farò.
Farò qualsiasi cosa.
 
Judith, seduta sul giaciglio della sua camera, sorvegliata esternamente da due streghe per non permetterle di uscire, osservava il candelabro che aveva creato con le sue mani, arredato con pietre e perle delle più varie combinazioni. Allungò la mano, passando le lunghe e sottili dita sopra le fiammelle, sentendo il calore irradiarsi sui polpastrelli.
Improvvisamente, la porta della sua stanza si aprì, rivelando la figura della strega dalla pelle color carbone, la quale si avvicinò lentamente a lei.
- Non siete solita bussare? – le domandò atona, vedendola sedersi accanto a lei.
Myriam, senza dire nulla, tirò fuori una boccetta di vetro dalla tasca del suo abito, porgendogliela.
Questa conteneva un liquido trasparente come l’acqua limpida.
Judith la prese con sguardo interrogativo.
- Sapete sin troppo bene cosa comporterebbe la nascita di questo bambino per il villaggio.
Il primo bambino nato da un’unione mista.
Non vi sarebbe una sola persona a Bliaint a non volerlo morto.
Inoltre … voi non lo volete. Avete cambiato idea a riguardo?
Judith deglutì, senza rispondere.
- Bene, vedo che avete già compreso – riprese Myriam. – Bevetela. Sarà indolore e insapore. La vita che cresce nel vostro ventre se ne andrà senza lasciare traccia, come se non fosse mai esistita.
- Chi mi garantisce che state dicendo la verità?
- Non avrei alcun motivo per avvelenarvi. La vostra presenza mediatrice ci serve e siete un ostaggio prezioso, al momento. Non ho alcun motivo per mentirvi.
- Non avete detto di aver sempre desiderato avere un ventre fertile? Come avete fatto ad ottenere un rimedio per porre fine ad una vita che deve ancora nascere?
- Ho fatto di tutto per rendere il mio ventre più fertile. Ma, per ottenere ciò, ho dovuto imparare anche come estirpare una vita da esso - le disse con semplicità, rialzandosi in piedi e dirigendosi verso la porta, fermandosi poco prima di andarsene e lasciarla sola, con la boccetta che avrebbe decretato il suo futuro. - Più attenderete per fare ciò che volete fare, più sarà difficile farlo. Se aspetterete troppo, sarà troppo tardi e sarete in pericolo entrambi. Se volete vivere, Judith, e volete che lui muoia, questo è il metodo migliore e più veloce per farlo. Vi sto dando un’opportunità che nessun altro vi darà mai. Non sprecatela – terminò uscendosene dalla stanza.
Judith si rigirò la boccetta tra le mani, aprendola, portandosela lentamente alle labbra.
Combatto continuamente tra la brama di sfiorarti e il desiderio di distruggerti.
Tu, che non ci sei ancora.
Per quale motivo mi angustio tanto…?
Se non sono fatta per essere madre, non lo scoprirò mai.
Una madre è sempre una madre.
Ma una madre è anche sempre una figlia.
Una madre è sempre una donna.
Nessuno mi ha imparato ad esser figlia, nessuno mi ha imparato ad esser donna, ma nessuno mi ha imparato neanche ad esser madre.
C’è un momento in cui … si può scegliere di non essere nessuna delle tre, anima mia?
 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Evali