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Autore: aenjolras    31/12/2020    1 recensioni
[22 gennaio 2017]
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Una prosecuzione, in terzine dantesche, di Inf. XXXIII.
Nella Tolomea, le anime dei traditori degli amici sono immerse supine nel ghiaccio, con le loro lacrime eterne congelate dal vento generato dalle ali di Lucifero. Dante e Virgilio la attraversano e si imbattono in due dannati ben noti al poeta latino.
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(Sulla scia del pensiero medievale che vedeva in lui un profeta cristiano, qui si finge che Virgilio intendesse bruciare l’Eneide perché ne aveva intuito la “blasfemia”. Questo non fu sufficiente perché sfuggisse al Limbo, ma bastò perché Plozio Tucca e Vario Rufo, che non rispettarono la sua volontà, fossero puniti all’Inferno.)
Genere: Malinconico, Poesia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Dante Alighieri, Virgilio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Oltre movemmo il passo, e l’aspro vento
ripignerci parea a’ minor peccati
con la possanza sua, perch’io: «Contento»,
 
dissi al mio duca, «saria se forzati
noi fossimo da l’aere che imperversa
a volgere il cammin ove già stati
 
noi fummo: tra la turba d’alme persa
picciol conforto e tuttavia speranza
saria veder l’oscurità più tersa
 
e più gentile più che noi s’avanza,
ché la bufera onde noi siamo oppressi
d’ogne mio ardire omai mi lascia sanza».
 
Ed elli a me: «Conviene che tu cessi
lo tuo parlar, ché per salire al cielo
non bastati la fede che professi
 
se per viltà rinneghi onere e zelo.
Confida in Dio e rafforzati», ed inanti
mi portò seco tra lo ghiaccio e il gelo.
 
Nel buio muto e cieco, a mezzo a quanti
punisce Iddio con tanto di freddura
che in neve mutansi tutti i lor pianti
 
noi procedemmo sì che l’aria dura
quanto ch’avanzavamo, tanto a retro
ci costringeva sulla via più oscura.
 
E come nel sereno un nembo tetro
fuga la luce e annunzia la tempesta,
tale – ahi, nel ricordo ancora impietro –
 
fu nel silenzio quella voce mesta:
in suso levò un gemito, ed un nome
scosse la Tolomea: «Virgilio, arresta,
 
arresta, se pietà ti muove». Come
l’udì, lo mio maestro ivi ristette.
«O tu cantore e vate di tre Rome,
 
di quella che sarà, che è, che stette
per terra e mare, a Cartagine e Troia
prima che pose i Lari in vetta ai sette
 
gloriosi monti ov’ella sta, se noia
non coglieti di soffermarti meco
d’un verbo amico non tormi la gioia».
 
Così disse e ivi tacque, ed io: «Ti preco,»
dissi al poeta, «chi è quest’alma trista
cui diè la nostra via di parlar teco?».
 
«Non ti curar di lui, ché ancora dista,
benché non molto, l’estrema tua meta,
e non v’è chi al divin voler resista».
 
Ma: «Guai, vae te, vae te, anima inquieta!»
fé un altro spirto dalla fredda crosta
della palude gelida. «Tel vieta
 
la divina sapienza, oppur ti osta
che fu per gloria tua, per amistade
che quivi ora facciam perpetua sosta?».
 
Ai detti suoi mordaci, di pietade
s’illuminò, mi parve, il guardo saggio
del duca mio. «O Vario, qui ne l’Ade
 
voi siete non per me, ma per l’oltraggio
che, poiché a me, faceste come a Dio.
Fidai che lume vi facesse il raggio
 
che pria tolse dal buio il pensier mio,
ma invano, poiché nome acquista e fama
per vostra volontà e d’Augusto. Io
 
già degno avea lo stilo, né più brama
avea d’onranza e volli quanto chiesi.
Ma come quei che quando troppo ama
 
per troppo amor ha sé e l’amata offesi,
così per troppo affetto voi peccaste.
Non m’accusar, mi duole che vi pesi
 
sul capo questa pena, eppure osaste,
e giusto è il tribunal che vi condanna:
desiderarvi in compagnie più caste
 
meno nera non rende o men tiranna
la colpa che v’accompagnò alla morte,
o men cruda la bestia che v’azzanna.
 
Liberi foste, e della vostra sorte
liberi decideste: non ne ho dolo».
Disse così quel saggio, e fu sì forte
 
il parlar suo, che alquanto tempo solo
il vento e il pianto vano fuoro uditi,
lugubri note come d’assiuolo.
 
Poi: «Tu rimembri dunque i dì che uniti
noi fummo, giunti in vita e poi nei carmi:
in nome di quei dì, fa’ che m’aiti.
 
Se tu mi perdonasti, come parmi,
o nobile alma, tergi questo ghiaccio
e piacciati un istante di guardarmi,
 
se il mio peccato negami un tuo abbraccio».
Poi che parlò, il duca infino a terra
chinossi, e come quei che rompe il laccio
 
che la zampa d’un merlo stringe e serra,
sì dolcemente al tristo sgombra gli occhi
e con la mano la gemella afferra
 
e alquanto sta in tal guisa sui ginocchi.
Mentr’io tacea e stupiva d’un sì acceso
sentir, che sfida gli ultimi rintocchi,
 
quell’alme discorrevano, e fu reso
giusto ricordo all’amistà tra loro,
ma quanto dissero io non ho inteso.
 
Quand’ebbe avuto quel picciol ristoro
lo spirto amico, dai suoi occhi tersi
di gioia sgorgò un pianto, e come l’oro
 
che tocca il foco è liquido a vedersi,
così per lui le lagrime nel vento
gelarono, e nel ghiaccio fuoro immersi
 
ancora i cigli suoi. Allora a stento
mirando il segno d’un tenue sorriso
ch’era comparso insieme al pentimento
 
dell’antico compagno sul suo viso,
la mia guida s’alzò e volse le spalle
al loco ov’era stato tanto assiso.
 
Sanza più motto alcuno in su lo calle
rimise e lui e me verso il più fondo
d’ogne crepaccio e d’ogne cupa valle
 
ove per sempre sede avrà l’immondo.
Io volea confortare lo mio duca,
fare lo suo pensier sereno e mondo
 
giacché, spento, tacea. «Che non riluca»,
dissi, «per loro un astro men crudele
non mai da te dipese. La caduca
 
vita dell’uomo, che sia dolce o fiele,
soggiace al nostro arbitrio, non a quello
d’altrui, né dell’amico più fedele».
 
Con lieto sguardo: «Ad un gradito ostello»,
rispuose, «può condurre un’aspra strada,
e dal dolor può nascere del bello.
 
Non ti crucciar per me, ché non m’aggrada
che a causa mia la via ti sia più dura
o che il pensiero tuo ramingo vada.
 
Or siamo giunti all’estrema strettura
della voragine luciferina:
oltre veder potrai l’atra creatura».
 
Sì m’assicura, e tosto s’incammina.
  
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