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Autore: nicailuig    01/01/2021    1 recensioni
Mentre prendevo in mano il telefono e digitavo "Let’s be friends" sapevo benissimo cosa avrei dovuto fare – cancellare tutto – ma invece ho impulsivamente premuto invio. Ero perfettamente consapevole dell’espressione da schiaffi che in quel momento avevo dipinta in faccia e se al mio posto ci fosse stata una mia amica le avrei dato della testa di cazzo. Peccato essere stata sola. La mia era una proposta del tutto maliziosa e nella mia testa aveva senso proprio perché ero sicura avresti rifiutato. E invece – Sounds lovely – hai detto.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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The ripe and ruin

 

She she she she only ever-ver-ver-ver-ver
Walks to-to count-count her steps,
Eighteen-teen strides and she stops to abide
By the law that she herself has set.
That eighteen steps is one complete set,
And before the next nine right and nine left.
She looks up up at the blueeeeeee,
And whispers to all of the above.

Don't let me drown, don't breathe alone,
No kicks no pangs no broken bones.
Never let me sink,
Always feel at home,
No sticks no shanks and no stones.
Never leave it too late,
Always enjoy the taste,
Of the great-great-great grey world of hearts.
As all dogs everywhere bark-bark-bark-bark
It's worth knowing,
Like all good fruit, the balance of life is in
The ripe, and ruined

 

Il giorno successivo alla nostra prima serata da amici mi hai mandato un messaggio dicendo che la prossima volta avresti pensato tu a portare qualcosa da bere. – Or do you smoke? – . No, non fumavo erba, soprattutto non lo avrei fatto davanti a te, visto che o non ne sentivo gli effetti, oppure finivo con lo stare male. – I don’t want to throw up in front of a stranger – e mentre premevo invio ho sperato che lo notassi che ti avevo chiamato ‘sconosciuto’ – la verità era che ancora non mi fidavo – e che ti facesse un po’ male. Tu mi hai preso in giro facendomi presente che esistono anche le mezze misure ed io, dopo averti ringraziato per l’illuminante rivelazione, ho ribattuto che da italiana quale sono, il senso della misura non lo conosco proprio, che non c’è nel mio DNA. Nel dirlo mi sono resa conto che stavo scherzando solo in parte, che se da un lato mi so regolare benissimo con l’alcol, dall’altro nella vita sono così, o tutto o niente. Tra le righe ti ho confidato molte cose di me, nel tempo che abbiamo passato insieme, chissà se te ne sei reso conto. Chissà se hai capito che sì, sono sfacciata e diretta nell’esprimere ciò che penso, ma che sono una codarda quando mi tocca svelare chi sono davvero.

Niente fumo, allora – mi hai garantito. Avresti portato delle birre, invece, e ti aspettavi che dal momento che non conosco le mezze misure, ci sarei andata pesante. Non volevo essere io a chiedere quando la prossima volta sarebbe stata, quindi ci ho girato intorno come sono solita fare e ti ho detto scherzosamente che sviluppare una dipendenza non era esattamente nei miei piani, che per me due bicchieri sarebbero stati più che sufficienti per essere brilla al punto giusto. Hai acconsentito con rammarico, dicendo che avresti dovuto reprimere le tendenze all’alcolismo che ti contraddistinguono – giusta eredità delle tue origini britanniche – ma io ti ho fatto notare che da studentessa di psicologia quale sono sto imparando proprio a non giudicare, che con me ti potevi sentire sempre libero di dire e fare ciò che volevi. Allora mi hai promesso che con qualche birra di troppo ti saresti aperto e mi avresti confidato i traumi che hai subito da bambino. Sapevo che eri sarcastico, ma per un attimo mi sono chiesta se per caso non ce lo avessi davvero qualche scheletro nell’armadio, che il senso dell’umorismo lo uso anche io per mascherare ciò che mi fa male.

Una seduta di psicoterapia con me si aggira sui 60 euro – ti ho avvisato, e tu hai detto che dal momento che chiedevo più della tua vera psicologa, mi avresti pagato con gli spicci. Ancora una volta mi ha stupito la naturalezza con cui ammettevi di essere stato in terapia. Io ad essere così trasparente non ci sono mai riuscita. Dunque ti ho sfidato, dicendoti che quel prezzo era del tutto giustificato, che non solo sono molto divertente ma sono anche bella da guardare, e tu sei stato al gioco, ribattendo che ormai che eravamo solo amici, il secondo di quei due bonus non lo si poteva prendere in considerazione, e che quindi avrei dovuto farti uno sconto, ma che me lo concedevi, ero simpatica. – Molto simpatica, ho ribadito –, al che hai riso, dicendo che non vedevi l’ora di sentirmi fare battute ai miei pazienti. Mi sono difesa puntualizzando che sarcasmo ed ironia sono molto terapeutici, ma che forse con te sarei dovuta stare più attenta, perché il tuo ego sarebbe rimasto ferito dalla mia lingua lunga.

 

***

 

Dopo qualche giorno di silenzio mi hai rassicurato che eri troppo perfetto perché il tuo ego venisse messo in discussione, e senza tanti giri di parole mi hai chiesto quando ci saremmo visti. Tu eri sempre così, quando volevi vedermi, andavi dritto al punto, e bypassavi le chiacchere che facevo io per messaggio, inutili – lo riconosco –, ma che a me piacevano tanto. Quella settimana io ero libera solo martedì sera, proprio nell’orario in cui tu avevi allenamento, e quando ti ho detto che giovedì sarei tornata a casa dai miei, ho aggiunto un secco – next week, then –, per lasciarti intendere che non se ne faceva niente, ma che più di tanto non me ne importava. La realtà era ben diversa: ero dispiaciuta, e forse lo ero più per il fatto che tu non avessi proposto un’alternativa che non per l’idea di non vederti per una settimana intera. Quindi abbiamo ripetuto il solito schema: tu che mi chiedevi per quanto tempo avessi intenzione di fermarmi, ed io che ti rispondevo che non lo avevo ancora deciso, anche se invece lo sapevo benissimo che sarei rimasta solo per il weekend. Chissà perché volessi tenertelo nascosto: forse per illudermi di avere la situazione sotto controllo e di non essere in completa balia dei tuoi when are you next around?, per ricordarmi che avevo una vita piena anche senza di te che eri solo un di più – un di più bello e intelligente, certo, ma nulla di essenziale.  A fine giornata, dopo che mi ero fatta ammorbidire da Sara – yolo, mi aveva detto scherzando, ma solo in parte – ti ho scritto di nuovo: Tomorrow, 17.30/18-20. That’s the best I can do. Tu hai risposto di sì senza esitazione, e vedere che per una volta non avevi opposto resistenza mi ha fatto pensare che ci tenevi davvero.

Erano le cinque passate quando ho parcheggiato la bici fuori dalla biblioteca dove Sara stava studiando. Stando a quanto ci eravamo detti il giorno precedente, avremmo dovuto vederci dopo meno di mezz’ora, ma siccome erano più di dodici ore che nessuno dei due si faceva vivo, mi sono presa la libertà di fare con calma. Stavo dicendole che sì, sarei andata a casa, ma che ci scommettevo che alla fine non se ne sarebbe fatto niente, quando mi è arrivato un tuo messaggio: Are we doing something today? Or shall we wait for when you’re back? Mentre digitavo today it’s fine, con Sara che mi faceva il verso – quanto te la tiri!, non puoi essere un po’ più espansiva? – mi chiedevo come mai oggi suonassi così incerto, quasi un’adolescente che ha a che fare con la sua prima cotta. Ti ho detto che stavo giusto rientrando a casa e che quindi saresti potuto arrivare quando ti faceva comodo, e tu hai chiesto se era il caso che venissi da me ancora una volta e se mi andasse o meno di bere. Nonostante i rimproveri non mi sono sciolta e ti ho detto semplicemente che avemmo deciso dove e come trascorrere la serata una volta che fossi arrivato da me. In risposta al tuo I’ll bring some beer just in case ho digitato un semplice ‘cool’.

Ti sei presentato da me alle 17.50 con un cappotto grigio lungo fino a terra e una borsa di stoffa che conteneva una bottiglia di birra davvero troppo grande per sole due persone. Ho aperto la porta e ti osservato camminare sul vialetto e ancora prima di salutarti ti ho chiesto perché mai fossi senza mascherina. Al tuo Should I put it on? ho risposto ridendo: mi prendevi troppo sul serio. Dato che eravamo soli in casa ti ho fatto accomodare in cucina e ti ho offerto una tazza di te. Pensavo che ti avrebbe fatto sentire a casa, invece – a cup of tea? – hai ripetuto scettico, ma poi l’hai accettata. Ti sei seduto al tavolo mentre io mettevo l’acqua sul fuoco e hai iniziato a sparpagliare le bustine per vedere quali gusti avessi a disposizione. Ti ho guardato prenderle in mano una dopo l’altra. Gli spessi anelli d’oro che avevi alle dita risaltavano sulla pelle chiara.

Saliti in camera hai aperto la birra e finito il primo bicchiere mi hai preso in giro notando che io stavo ancora bevendo la tisana. Mi sono difesa dicendoti che i miei amici mi accusano sempre di bere troppo velocemente, ma che è evidente che dei due la spugna sei tu. Qualche bicchiere più tardi ti ho chiesto se fossi ubriaco a sufficienza per parlarmi dei tuoi traumi infantili come mi avevi promesso. Mi hai chiesto se fossi curiosa solo perché studio psicologia o se volessi saperlo davvero. Ti ho risposto che ero affascinata dal fatto che fossi disposto a ad aprirti più che alla questione in sé, che non volevo ti sentissi obbligato, ma tu mi hai assicurato che ormai sei a tuo agio a parlarne. Sei andato dritto al punto, chiedendomi Do you know why…?, e in prima battuta sembrava l’inizio di uno di quegli indovinelli che dovrebbero far ridere; non hai aspettato che rispondessi e mi hai dato la soluzione. Io sono rimasta un attimo senza parole, ma tu hai scrollato le spalle, liquidando il tutto con il tuo solito sarcasmo. Non me l’aspettavo, e forse è un pensiero superficiale, ma non hai l’aspetto di qualcuno che ha sofferto. Non sapendo bene come ribattere ho detto che io delle mie sofferenze non ne parlavo mai, soprattutto non con persone che conosco da poco, che in un certo senso ti ammiravo. Mi hai detto come si comporta di solito la gente quando parli loro del tuo passato – alcuni fanno un po’ troppe domande, altri iniziano a chiedermi se sto bene come se fosse successo l’altro giorno e non un decennio fa – e il fatto di non rientrare in nessuna delle due categorie mi ha lasciato presumere che la mia reazione, invece, ti fosse andata bene.

Poi ci siamo ritrovati a parlare di Venezia e l’atmosfera si è fatta di nuovo rilassata. Ti ho chiesto se avessi già iniziato a cercare casa e tu hai risposto che no, non lo avevi fatto, ma che avevi una questione da sottopormi e volevi proprio sentire il mio parere a riguardo. Mi sono chiesta se la mia opinione ti importasse davvero o se lo avessi detto così, tanto per dire. Mi hai detto della possibilità di andare ad abitare in un appartamento davvero bello, a patto però di condividerlo una settimana al mese con i tuoi genitori. Ti ho chiesto cosa ci farebbero a Venezia così spesso e tu hai alzato le spalle – Amano la città – hai risposto, come se fosse normale per una coppia di cinquantenni inglesi trascorrere ottantacinque giorni all’anno in un altro paese solo perché gli piace. Ti ho detto che una settimana al mese mi sembrava tanto, che anche in cambio di un appartamento di lusso io non avrei accettato. Eri d’accordo con me.

Ho scoperto tanto di te, quella sera. Mi hai detto che hai paura degli aghi proprio come me, ma che più che per la vista del sangue ti capita di svenire perché ti dimentichi di mangiare; che le proteine che avevo visto sul tavolo di casa tua, quelle che ti servivano a far crescere i muscoli più velocemente, hai smesso di prenderle; che trovi la dieta italiana piuttosto noiosa e davvero fastidioso l’accanimento di chi vuole convincerti del contrario, solo perché non hai assaggiato il pasticcio della nonna di Tizio o la mozzarella del paesino dove abita Caio. Mi hai parlato dei tuoi libri preferiti, del fatto che reputi Dante sopravvalutato – e prima che potessi irritarmi mi assicurato che sì, l’hai letto – e del tuo scarso apprezzamento per la poesia. Io ti ho parlato dei miei studi passati, di quanto avere frequentato il liceo classico e poi lettere non mi abbia lasciato molto, a parte forse qualche citazione da sfoggiare per impressionarti, ma che tuttavia ci sono alcuni autori latini che vale la pena leggere, e di come anche io preferisca la prosa, ma che alcuni poeti del Novecento – Ungaretti, Montale, Saba – non sono poi così male.

Mi hai chiesto quale opera d’arte avrei comprato se avessi avuto a disposizione tutti i soldi del mondo e io ti ho risposto con un velo di supponenza che la scultura non mi interessa per nulla, e in fin dei conti nemmeno la pittura. Non è del tutto vero, ma mi divertiva vedere l’oltraggio nei tuoi occhi. – Mi piace Van Gogh, però – e tu hai riso, dicendo che ti sa buffo il modo con cui noi italiani ne pronunciamo il nome. Tu mi hai detto che ami in particolare i futuristi – Boccioni, Balla, Marinetti – e io ho ribattuto che per carità, avranno pure il merito di aver riconosciuto l’importanza del nuovo, della tecnologia, ma che la loro arte non mi comunicava niente. Quindi hai iniziato a illustrarmi la poetica che ci sta dietro e io ti ho subito fermato dicendo che lo so, l’ho studiato, e infatti non cambio idea. Ti ho parlato della mia passione per la fotografia e ho ammesso che forse solo per uno scatto di Henri-Cartier-Bresson avrei speso una fortuna. Mi hai mostrato la tua fotografia preferita – una statua in marmo girata di spalle, la testa rimasta fuori dall’inquadratura e una bambina accovacciata ai suoi piedi, a scrutarne la magnificenza – che non mi sembrava nulla di che ma che ti illuminava lo sguardo. – Io sono la bambina – hai detto. In quel momento mi sei apparso così innocente, puro, che ti avrei affidato tutti i miei segreti.

Alle sette e mezza, come una Cenerentola che scappa dal ballo, ti sei alzato, dicendo che dopo avresti avuto allenamento. Come mio solito ti ho accompagnato per le scale. Questa volta non hai dubitato delle mie intenzioni, ma io mi sono comunque fermata qualche gradino prima di arrivare all’ingresso e ti ho osservato aprire la porta. Eri a tuo agio come se casa mia la frequentassi da sempre, e il pensiero che tu ed io potessimo diventare amici di lunga data mi ha fatta sorridere. Avrei voluto ricordarti di mangiare, dato che poco prima mi avevi detto che te ne scordi spesso, ma mi sono morsa la lingua e ho pronunciato un generico see you. Questa volta lo sentivo che ci saremmo rivisti.

   
 
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