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Autore: Elicia Elis    02/01/2021    0 recensioni
//[...] Non ci eravamo mai dati appuntamento, eppure eccolo lì. Sotto lo stesso ciliegio, sotto la stessa pioggia.
Miura Tomomi è una giovane studentessa d'arte, affetta dalla rara Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie, per cui sperimenta una realtà che non esiste.
Nell'intento di aiutarla a guarire, sua madre insiste che passi l'estate al tempio della zia Kaori, a Koyasan; sarà proprio qui che Tomomi incontrerà Shin, un giovane dall'aria misteriosa di cui nessuno sembrerà aver mai sentito parlare. Questi incontri, però, avverranno sempre nello stesso luogo e nella stessa particolare circostanza: all'ombra di un ciliegio troppo grande, e sotto la pioggia sottile che precipita col sole.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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È la realtà ad essere strana, non io.
Curioso come, cambiando l'ordine degli addendi, il risultato cambi. E questo li lascia sempre a bocca aperta, apre nello spazio una sorta di buco nero pitturato di un silenzio sbigottito, forse persino imbarazzato. L'espressione è sempre quella, prova di quanto siano identici e noiosi gli esseri umani. Ti strapazzano il cervello con paroloni quali allucinazione, sindrome, macropsia... però la verità, scondita di tutta quella sua inutile presunzione medico-scientifica, non te la sanno dire. Le cose nude le apprezzano solo quando hanno un corpo. No, sei tu quella strana.
«È così, Tomomi. La realtà è strana», annuisce il terapista, puntellando i gomiti sulla scrivania e unendo i polpastrelli con misurata flemma. Mi soppesa da dietro quella prigione di dita, lasciando che il silenzio ispessisca la gravità delle sue parole. «Ma dunque, perché un elemento venga considerato reale, dev'essere discutibile e di pubblico dominio. È la proprietà intima e assoluta delle cose, su cui si basa tutto ciò che conta. Se è solo nei tuoi occhi, allora il problema non è fuori, ma dentro».
«Ho dei parenti che vivono a Koyasan», interviene mia madre, come per strappare con un gesto improvviso l'atmosfera tesa che andava irrigidendo l'aria, «pensavo di farla riposare lì per un po', all'aria fresca e a diretto contatto con la natura».
Il terapista sorride. Quell'espressione fredda e impassibile incollata sul volto non fa una piega, e mi sembra di osservare una statua in posa da secoli.
«Il tempo non guarisce, e nemmeno un po' di verde. Però credo che ridurre al minimo quanti più fattori di stress possibili sarebbe un buon punto di partenza. Ha già avvisato la scuola?».
«I professori ne sono al corrente».
«Ottimo, allora ci vediamo al prossimo appuntamento».
Il terapista allunga una mano sopra la scrivania, e mia madre la stringe sorridendo - un sorriso teso sulle labbra e trattenuto con forza, come per paura che scappi via. Sulla finestra compaiono le prime gocce di pioggia.


Non ci vuole molto per raggiungere Koyasan. Dal finestrino osservo il paesaggio cambiare gradualmente. La città sfiorisce pian piano, il grigio affumicato e industriale si ritira dalla mia vista come spaventato dalle nubi scure che si addensano turbinando nel cielo. Finalmente, a metà strada, sbocciano le prime chiazze di verde. All'inizio si tratta soltanto di qualche piccolo arbusto che fiancheggia la carreggiata; poi, la strada si trasforma in un sentiero sterrato che s'inerpica verso l'alto, abbracciato da una prateria che s'infittisce qualche metro più in là, scurendosi all'ombra dei pini dove inizia il bosco.
Persino i rumori della città soccombono al canto tranquillo degli uccelli, o a quello più sinistro delle foglie.
Una voce grattuggiata emerge pompando dallo stereo e spezzando la musica di sottofondo: «L'agenzia meteorologica annuncia che la stagione delle piogge finirà con qualche giorno d'anticipo. Presto arriverà l'estate, perciò fate attenzione ai colpi di calore!». Parla con un tono troppo entusiasta, le sillabe ben marcate come sottolineate con forza a matita. Mi immagino lo speaker radiofonico, al di là dello stereo, sorridere per finta, solo davanti a un microfono.
«La zia non vede l'ora di rivederti, Tomomi», dice mia madre, sterzando bruscamente a una curva.
«Non mi ricordo nemmeno che faccia abbia».
«Un buon motivo per andarle a fare visita, non credi?».
«Mah».
Mia madre mi scocca un'occhiata torva, poi torna a scrutare la strada da dietro un paio di lenti sottili. Evita una buca. «La zia è stata molto gentile e disponibile, potresti almeno sforzarti».
«Non ce l'ho con lei».
«Lo so benissimo. Comunque, vedi di non farmi fare brutta figura».
Come se non ci pensassi già da sola, penso. Ma non lo dico.
Un'altra curva ed eccolo lì: l'ultimo tratto, un sentiero tutto dossi che termina davanti a un cancello in ferro battuto, spalancato. Al di là, in cima a una scalinata, s'intravede l'entrata al tempio. Avvolto nel silenzio incontaminato della natura, che gli sta addosso come una pelliccia, ha un che di mistico e sembra vagamente abbadonato, anche se emana un certo calore umano, che sa di vita.
Mia madre spegne il motore e tira il freno a mano quando arriviamo davanti alla scalinata. Scendiamo in silenzio.
«Yukino, sei qui!», grida una voce dall'alto. Il volto sorridente di una donna fa capolino dall'ultimo gradino. Si precipita verso di noi, calpestando silenziosamente il marmo a piedi nudi.
«Da quanto tempo, Kaori! Non sei cambiata per niente», dice mia madre. Poi, come per un improvviso colpo di fulmine, mi poggia una mano sulla spalla e mi guarda. Ha un che di rigido negli occhi.
«Tomomi, ti ricordi della zia Kaori?».
«Sei cresciuta tantissimo».
«Già, immagino che sia così».
La zia Kaori mi rivolge un sorriso affettuoso. Ha un volto grinzoso e assediato di rughe, che gli danzano attorno agli occhi, muovendosi come creature preistoriche, a ogni cambio d'espressione - molto frequente, a dirla tutta. Ha una criniera di capelli scuri legati sulla nuca con un nastro rosso e, al contrario della mamma, tutta incipriata e stretta nel suo tailleur, ha un aspetto poco appariscente. Il corpo, asciutto e slanciato, scivola dentro una tunica bianca consumata e un hakama1 rosso in foggia di gonna. 
Nel cielo si addensano nubi scure cariche di pioggia.
«Allora, ci penso io a scaricare la valigia», dice la mamma, il tono improvvisamente allegro, «tu va' con la zia».
«Ti mostro la tua stanza, Tomomi».




 
Angolino dell'autrice
Anche se non sono solita a dilungarmi in questi angolini autrice, diciamo che questa volta mi sento un po' in dovere, innanzitutto per augurare a tutti voi un buon anno, e che sia migliore del 2020 :,)
Dal momento che apparirò ora e mai più, dico qui tutto ciò che ho da dire.
Onestamente, ero un po' restia ad iniziare questa storia, dato che sto lavorando a qualcosa di un po' più elaborato, ma metti un po' la quarantena natalizia addizionata alla situazione generale, metti che è da un tempo che l'idea mi ronza in testa, mi sono detta: dai, perché no? E quindi niente, eccoci qui.
Non so bene nemmeno io in che cosa ci stiamo avventurando, motivo per cui sono rimasta un po' sul vago sulla categoria e i vari "tag" che ho affibbiato alla storia, però posso dire con certezza che è la prima volta che mi butto in qualcosa del genere, e che vada quindi in tutt'altra direzione rispetto al genere fantastico. Non escludo però la presenza di elementi che sfocino nel surrealistico, e per un motivo semplicissimo: non ne so NIENTE di sindromi e altre simili condizioni mediche/psicologiche, né sono mai veramente stata in Giappone, e non me la sento di affidarmi soltanto al mondo dell'Internet. Tantovale dire: ma sì che ci frega, facciamo finta, tanto è soltanto un racconto. Diciamo che è un piccolo salvagente per una piccola ragazza che voleva dare vita a una storia senza saperne quasi nulla degli elementi fondamentali ;c
Mi rendo conto che detto così non suoni benissimo, però mi affido alla vostra fiducia. Per chi vuole, ci vediamo nel prossimo capitolo!
  
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